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Ospedale di Cosenza

Cosenza come Bergamo: in Calabria la battaglia più cruenta della pandemia

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – La Calabria scoppia. E la sua deflagrazione, sarà l’ennesimo nuovo spettacolo dopo il Big Bang.

Non si tratta di una farsa carnevalesca, a cui il grande locrese Salvatore Filocamo ci aveva abituati con la sua arte, ma di una tragicomica realtà.

Quaggiù la vita avanza lenta e a cielo spento. Tanta sofferenza e altrettanta ingiustizia. Parecchie stelle spente. Alcune dalla politica disfattista, altre dalla ‘ndrangheta, altre ancora dalla burocrazia repressiva.

Così, mentre altrove imperversa speranzosa la stagione di primavera, la terra bruzia, che fu anche dei greci, vive uno dei peggiori cataclismi della sua storia. Ché mentre alluvioni e terremoti furono, nei secoli, tutti di pretta origine naturale, l’elemento antropico che oggi le trasfigura il volto e le straccia le carni, oltre che le vesti, consegnandola alla più acuta e mai vista emergenza sanitaria, colloca i calabresi e tutte le loro robe e tutti i sacrifici di una vita, nell’irredento girone dell’inferno.

Qui si muore. Di malasanità più che di Covid.

La regione, così come Mosè spartì le acque, si ritrova a dividere il suo popoletto, in due precise specie di uomini, seppur facenti entrambi capo alla stessa stirpe e alla stessa razza. I buoni e i cattivi; i colpevoli e gli innocenti; gli usurpatori e le vittime. I beati e i sacrificati. I vassalli, i valvassori e i valvassini. Una gerarchia di onnipotenza infondata, che però trasforma la storia di uno dei più grandi popoli mai esistiti, in un ridicolo pugno di mosche, avvalendosi di pusillanimi strategie politiche, peraltro di perpetua attuazione, volte a sottomettere, con piglio maligno e infame, la meccanica libera della vita altrui.

Il Covid, scoperchia in Calabria maggiormente che altrove, l’arcano vaso di Pandora di una regione fragile, ma al contempo difficile da domare.

La pandemia solleva le magagne aberranti di una classe dirigente e politica che sulla fiducia e la speranza del suo popolo, si è ingrassata il proso, seguendo la regola del “fuori du culu mio adduvi pigghja pigghja”. Incuranti della questione secondo la quale la morte uniformizza ogni specie vivente.

Il Covid 19 infatti, fa bruciare il culo di tutti, con una coscienza che prepara lutti collettivi, in risposta agli arricchimenti personali.

La gente è stanca, i figli che non sanno trattenere la fame. Il popolo non ha più lavoro, piange e si dispera. E la Calabria paga la strafottuta indifferenza delle cattedre e dei comandi, nei confronti  di Pitagora, di Telesio, delle colonne greche, dei vasellami antichi, ma soprattutto nei riguardi dell’identità di un terra a cui viene disumanamente tolto il gusto di morire in pace là dove si è nati.

Cosenza come Bergamo.

Gli ospedali esplodono, le ambulanze non bastano più. E le pile della auto mediche fuori dalle strutture sanitarie sanciscono un efferato clima di guerra.

La Calabria è emergenza nell’emergenza.

Un’emergenza sanitaria che implode nell’emergenza “straordinaria” Covid.

Una questione di vita e di morte, in cui i buoni propositi non attenuano la disperazione. Né sufficientemente appianano i disagi emblematici della regione.

Serve un esercito di servitori e non un nuvolo di meri comandanti, affinché  ognuno si cinga il proprio capo e i propri fianchi di sincera responsabilità e leale prestazione del servizio. Per amor proprio, soprattutto. E per amor degli altri.

Gli altri, quei calabresi resi ‘Cristi?, dai nemici calabresi stessi, che non vi è giorno che non risultino sulle tavole di qualcuno come un buon piatto di Morzello da gustare.

Per questo, è necessario che già domani, il generale Figliuolo torni e porti con sé l’esercito.

L’ESERCITO, perdio santo‼

Perché a differenza di ciò che dice la Murgia, a noi servono quelle divise per salvarci. Perché se la pandemia è una guerra, così come i tecnici del sistema Stato italiano la definiscono, in Calabria, in queste ore, si combatte la battaglia più cruenta. E le mani di chi opera sono nude, e il Re pure.

Ma nessun calabrese è disposto a credere che Cristo si sia fermato a Eboli.

San Francesco è di Paola, Don Mottola di Tropea, Natuzza Evolo di Paravati.

E poi, dopo l’aula bunker di Lamezia Terme, in Calabria, c’è un popolo sincero fatto da uomini e donne che chiede la tutela della propria salute e il rispetto della propria dignità. Occasioni di vita e non assistenza.

In fondo, ogni vita salvata è una medaglia in più sopra il petto. Ogni morte, un fallimento dentro al cuore.

Dunque, in Calabria, o si afferma lo Stato, oggi, o si fa la rivoluzione a partire da ieri. E prima di morire. (gsc)