di FRANCO CIMINO –ai visto? È successo anche qui una di quelle tragedie che vediamo in televisione”. Le vediamo sempre lontane da noi, però. La televisione, che in questo scritto rappresenta tutti i mass media, anche locali, conserva ancora, rafforzandoli, due poteri apparentemente contrastanti tra loro: portarti dentro la notizia e tenerti lontano dal dolore che essa porta sulle sue spalle.
Tutto in contemporanea. Anche le due emozioni conseguenti. Pure esse tra loro “oppositive”. La prima è la commozione che trascina in un lago di lacrime aperte, nascoste o trattenute. “Poteva capitare anche a noi. O a me. Ai miei figli. A uno dei miei cari”. Inquietante. Doloroso per il dolore riflesso. La seconda: “per fortuna, non è capitato a me! A noi. Ai miei figli. A uno dei miei cari”. Rassicurante. Da pericolo scampato. Sta in questo gioco antropologico la rapidità con cui consumiamo la nostra emozione per il dolore degli altri. Dieci giorni fa la nostra Città è stata risparmiata dalle conseguenze drammatiche di un terremoto fortissimo. Altrove la stessa magnitudo, 4,7 della scala Richter, ha causato distruzioni materiali e morti a centinaia.
La tragedia della notte di venerdì ci colpisce in pieno. Come una pugnalata alle spalle. Come un fuoco che accende una notte d’autunno non ancora fredda in quell’appartamento al quinto piano di una palazzina popolare. Quel fuoco che accende la notte e brucia una casa si è portato via la vita di tre ragazzi, due ancora quasi adolescenti. È successo nel ben noto quartiere Pistoia, posto al centro del territorio comunale, a due passi pertanto da ciascun catanzarese. Ma periferia lontanissima da tutti i luoghi che “ centro”non sono. Periferia lontana e abbandonata, che farà sì che questa tragedia immane, la più grave insieme a quella delle Giare nella storia recente di Catanzaro, sia vissuta come quelle tante che ci porta “la televisione”.
Per essa avremo solo un tempo più lungo per commuoverci e uno assai più breve per dimenticare. Dimenticare specialmente chi è rimasto vivo pur ferito a morte nel corpo e nel cuore. I sopravvissuti al rogo, se gli ospedali di Bari e di Napoli riusciranno a salvarli.
Nel corpo, almeno, se l’anima implorante non fosse, invece, rimasta lì dentro, accanto a quei ragazzi, i figli che un genitore non abbandonerebbe mai. Si aprirà per loro, che hanno perso tutto in quella casa distrutta, quella gara di solidarietà che ha visto i catanzaresi generosissimi durante lo sbarco sulla nostra costa di quattrocento povericristi spuntati dal mare dei migranti per fame e per guerre diverse? Certamente sì. Più forte anche.
Come sono certo che il Comune saprà assicurare un’abitazione degna ai tre componenti della famiglia rimasti in vita. Ma poi, riusciremo a mantenere ferma nella nostra memoria per gli anni a venire il dramma di questa notte per poterne ricavare una lezione che ci porti a rendere più sicuro ogni luogo della nostra Città? Riusciremo a non allentare la nostra commozione per il tragico accaduto al fine di poter costruire in ciascuno di noi un sentimento di vera amicizia verso quei due genitori e quella bambina che hanno bisogno dell’ossigeno dell’amore e della comprensione per non dover maledire di essersi solvati non avendo potuto salvare i tre loro ragazzi? Spero tanto di sì. Vorrei dire che vi giurerei, conoscendo l’animo buono dei catanzaresi, ma mi fermo alla speranza dinanzi a questo tempo difficile che, accanto alle tante paure per tutto, ha scatenato affanni e preoccupazioni cogenti per garantire a sé stessi e ai propri figli l’essenziale al vivere. Pochi attimi ancora e, magari, in compagnia, riprenderemo a porci le domande antiche intorno alla forza misteriosa che decide della vita delle persone. “ Ma perché è successo? Perché a loro? Perché tre sono morti e gli altri tre no? E perché quei tre? Perché l’appartamento vicino non è stato incendiato e tutti hanno fatto in tempo a scendere le scale e allontanarsi dal pericolo? Perché in piena notte e non qualche ora prima quando erano tutti svegli e pronti alla reazione? “ Queste e altre domande campeggeranno sulle nostre inquietudini. Siccome non osiamo più coinvolgere Dio, sia che si creda sia che non si creda in Lui, scarichiamo paure e ansie sul destino. E ci acquetiamo. È destino. Punto. A noi non arriverà e se ne avesse intenzione non lo sappiamo noi come non lo sa neanche lui. Già il destino, questa forza misteriosa che si muove sulle nostre vite, senza che ci sia data la possibilità di poterlo conoscere, interpretarlo, così che lo si possa anticipare. Interpellare. Trattare con lui. Sapere se ha qualcosa a che vedere con Dio o con un Assoluto che gli è superiore. Sono domande inquietanti. Fanno tremare i polsi, e perciò ci fermiamo sempre. Oggi dovremmo anche per obbligo del dolore. E, però, se guardiamo a certe tragedie che si ripetono nel tempo, come questa di Pistoia, ai luoghi in cui si verificano, ai modi con cui esplodono, alle fasce sociali che ne vengono colpite, dove arretratezza strutturale, povertà estesa, insicurezza diffusa, sono dominanti, ci viene facile dire che il destino non c’entra nulla. A dover essere interrogata dovrebbe essere la nostra coscienza. Le domande dovremmo porle alla società e alle istituzioni tutte. Una per tutte:” se le case vecchie, indebolite dal tempo e dalla mancanza di puntuali recuperi infrastrutturali, e se chi li abita potesse essere assistito nel proteggerle non possedendo neppure i soldi per comprare il cibo per i figli, queste tragedie piene di morti innocenti potrebbero essere evitate?” La risposta diamocela insieme. E senza piangere lacrime troppo leggere.