L’OPINIONE / Franco Cimino: «Che bello, sono alla festa di Mario Casalinuovo!»

di FRANCO CIMINO – Una festa. Sono qui da un po’ prima dell’ora del suo inizio programmato. Sta per iniziare e io già vibro d’emozione. La sala è strapiena. Gente in piedi fino a fuori. E non è una sala piccola. E quella delle culture. Al palazzo della provincia.

C’è gente venuta da ogni parte della Calabria. Non pochi dal resto dell’Italia. Tante sono le personalità. Molte quelle importanti. Ma tantissime altre quelle più semplici, persone normali per gente normale. Persone semplici di umile origine e altre ancora di umiltà confermata nel loro vissuto. Ci sono i militanti e i dirigenti del suo partito, gli amici nel suo partito e altri che nella comune appartenenza gli furono meno amici.

Ci sono personalità di altri partiti. Di tutti i partiti, da destra a sinistra. I quasi partiti di oggi e i partiti che furono. Ci sono tanti e ci sono tutti. C’è la sua Città. Presente non solo con il Sindaco e il presidente del Consiglio Comunale. Ci sono anch’io, democristiano fermo alla lunga e non conclusa, sebbene interrotta, stagione politica. Quella in cui mi è stata data l’opportunità di conoscerlo, stimarlo, ammirarlo, eleggerlo quale altro maestro dal quale tanto ho appreso. Lezione di vita, la sua. Vita adamantina, ricca di passioni e di idealità.

Vita coerentemente spesa per gli altri. Altri intesi, come l’altro da rispettare e sostenere e come insieme di esseri umani da onorare, servendoli nelle loro capacità e nei loro bisogni. In particolare gli ultimi, i poveri, gli indifesi, a cui offriva non solo il suo spirito di solidarietà concreta, altrimenti intesa come carità, ma gli strumenti della politica per affrancarsi loro stessi con le lotte contro l’ingiustizia e per la democrazia. Ecco la Giustizia, quale atto solenne della Democrazia.

Il mezzo più sicuro per praticarla, attuandola. Gli altri da servire sono le istituzioni, templi laici della e per la Libertà, l’idea sua più ferma, quasi un’ossessione incancellabile. Le istituzioni in cui si realizza ha partecipazione più feconda. E la sintesi più alta della Politica, quando essa è chiamata a costruire l’unità delle e nelle diversità. Quell’unità che solo la Politica può realizzare per quella sua capacità di costruire un’idea compiuta dalle altre divergenti che non perdono, pero, mai nulla del loro stato. Gli altri che sono il suo partito, il Psi, partito sempre servito. mai tradito.

E mai abbandonato, neppure quando gli infedeli interni e i nemici esterni, lo fecero “sparire”. Gli altri sono la parola, la sua, aulica, robusta, alta, nutrita di dottrina e sentimenti. E anche di poesia, quella che gli scorreva nel sangue da quella del padre, anche poeta. Gli altri che sono gli amici, da sorreggere in ogni momento, in quello spirito di amicizia che è il sale della relazione umana.

Gli altri che è la famiglia. I figli amatissimi e quella moglie adorata, che l’ha lasciato molto tempo prima che Lui ci lasciasse. Gli altri sono il dolore, che Lui ha sempre vissuto con un coraggio e una dignità enormi. Gli altri sono “ quel dolore” che gli è rimasto impresso negli occhi sempre velati di pianto soffocato e in quel sorriso suo bello, piegato nella tristezza infinita. Tutti siamo venuti per lui. Stasera. Per rendergli onore. Per ringraziarlo. Di tutto. Per ogni sua fatica al servizio della Calabria e del Paese.

Per l’Amore di cui ha riempito la sua vita e la sua fatica. Siamo venuti per Lui per sentire ancora la eco della sua parola e quel respiro mai affannoso della Libertà. Per ringraziarlo di averci insegnato che la Democrazia è sempre “antitotitaria”e che essa o è piena o non è. Per averci dimostrato, spronandoci e ammonendoci, che Libertà non è un lusso, ma un diritto che si carica del dovere di essere per tutti.

E che Democrazia non è un salotto comodo o una sala giochi, ma l’ambito nel quale Libertà vive e si organizza, promuovendo il progresso e realizzando l’eguaglianza. Eguaglianza non semplicemente come obiettivo politico, ma come conseguenza della Libertà.

Siamo tutti venuti per Lui, Mario Casalinuovo, il socialista. L’uomo della Libertà. Oggi nel giorno della sua festa. Per la quale io, democristiano, ho pensato di indossare la cravatta rossa. Il colore della sua bandiera. E del suo cuore. (fc)

L’OPINIONE / Franco Cimino: «Giovino, la palestra all’aperto e la cementificazione ignorata»

di FRANCO CIMINO – Chi l’avesse pensato, chi ideato, chi l’avesse progettato, chi finanziato, chi avviato, chi l’abbia poi eseguito, il progetto della palestra all’aperto in quel di Giovino, tutti hanno fatto molto bene. Il lavoro è bello. Utile. Prezioso. “Cu pocu ha, caru tena”. Diceva mio padre dal detto antico. E questo, mentre è “ caru” non è davvero “ pocu”.

Non è un dono, ché chi governa non regala ciò che è chiamato a fare. E i cittadini non ricevono regali, ma solo servizi che essi pagano e a cui hanno diritto. Pagano due volte, con le tasse e con il voto. C’è invece da osservare che tutto di quel che viene realizzato dai governi, ai diversi livelli, giunge sempre tardi. E spesso come ridotto atto riparatore di vecchie ingiustizie e presenti inganni.

Epperò, quando un’opera viene realizzata va accolta con “gioia” portando rispetto a chi e a quanti, magari in continuità amministrativa, l’hanno realizzata. Le speculazioni politiche e le polemiche speciose, fanno male. Alla gente. E alle istituzioni. C’è sempre modo e tempo per attaccare chi governa. L’opposizione, quando lo fosse davvero, fa sempre bene ad opporsi agli errori e alle inerzie dichi vince le elezioni

Gli argomenti, ovunque, non mancheranno. Quindi apprezzamento, il mio, per il Sindaco e quanti, tra assessori e dirigenti, ditta e operai, e quel ristretto numero di generosi volontari che a Marina hanno seguito, vigilando e suggerendo, i lavori. La palestra all’aperto ha anche diversi altri significati.

Educa tutti, giovani e non, uomini e donne, gruppi e famiglie. E, soprattutto, gli anziani cosiddetti. Li educa alla cura del proprio corpo e al rivotò della mente. E senza dispendio di tempo, di energie, di soldi. Recupera, inoltre, un concetto tanto dimenticato che neppure nelle aule scolastiche viene trattato. Ed è che ciò che è pubblico deve restare pubblico. Perché è di tutti. Di ciascuno e di tutti. Poi, ci sarebbe da intendersi sul concetto di “pubblico”. Ma questo tema ci porterebbe lontano.

Mi limito, pertanto, a una estrema ma essenziale sintesi. Pubblico é ciò che risulta fondamentale alla vita della persona. E delle persone insieme. La Bellezza, in ogni sua declinazione, lo è. Anche quale primo diritto dell’essere umano. Ma la Libertà, viene prima, mi si obietterebbe. No, perché non è un diritto essendo parte della vita. É connaturata all’uomo, che nasce con lei, Libertà. La Bellezza è tutto ciò che è stato creato, da Dio o da chi volete, intorno e per l’uomo. Quindi, traducendo dalla lingua dei padri e delle madri più lontani, la Natura con l’intero suo armamentario é Bellezza. Pertanto, appartiene a tutti e a ciascuno. Il diritto a goderne è il metodo per applicarlo. Trascrivendo dal mio cuore antico, nulla deve frapporsi fra gli occhi e il cielo, fra gli occhi e il mare, fra gli occhi e i prati, le foreste, i boschi. Le pinete.

Chi opera all’incontrario o solo diversamente, commette un crimine contro l’umanità intera. L’altro significato dell’opera realizzata in queste settimane, consiste nell’atto esplicito e consequenziale di restituire la pineta di Giovino ai cittadini, legittimi proprietari senza pretesa del possesso. C’è un però, che ritorna dalle mie antiche lunghe intense solitarie battaglie, il cui grido prima di avvertimento, poi di protesta infine di dolore, non è stato ascoltato. Da alcuno mai! Ed è che si accarezza Giovino, in quella parte più visibile, dopo che essa è stata per anni massacrata. Colate incalcolabili di cemento l’hanno distrutta, una gran parte sottraendola all’uso e l’altra alla bellezza coprendola alla vista. Il mio sogno di bambino, trasformatosi poi in progetto politico, era che in uno spazio di gran lunga inferiore a quello cementificato vi sorgessero tanti piccoli armoniosi impianti sportivi. Davvero un parco olimpico aperto.

Accanto all’attuale liceo, che pure non avrei allocato lì, tante altre scuole di ogni ordine e grado e quella desiderabile facoltà universitaria delle Scienze del mare. Più avanti, nella tanto ancora discussa “area Giovino”, ancora bloccata nelle contraddizioni politiche (vedremo che dirà il nuovo strumento urbanistico), tutto quel che, nel rispetto dei precedenti principi, della diversa e diversifica ospitalità turistico-alberghiera consentirebbe. Giovino, la vera Giovino, la pineta nella cui profondità avevi paura di immergerti, solo pochi anni fa, non esiste più. É stata di fatto cancellata. Da questa grave responsabilità, nessuno può ritrarsi. Da questa grave colpa nessuno può considerarsi innocente. Politica e cittadinanza insieme. Istituzioni sorde e intellettuali muti. Tutti insieme in questo campo recintato da incultura e irresponsabilità, su cui cresce l’erba amara della speculazione e degli interessi selvaggi. In questa Giovino é rimasto un piccolo spazio ancora.

Spero lo salvino quell’esercito di bambini e quei vecchietti che ci vanno quotidianamente a fare le partite di pallone, sognando, i primi, di diventare Iemmello e i secondi di ritornare a pensarsi Sivori o Rivera, Mazzola e Giggirriva. Il resto appartiene alla Poltica quando e se vorrà, con coraggio e intelligenza, operare, pur nella situazione data, per un piano di razionalizzazione dell’aerea, che almeno restituisca un po’ di armonia estetica e di movimento per l’accesso al lungomare, alla spiaggia e al mare. Che sono di tutti. (fc)

L’OPINIONE / Franco Cimino: Catanzaro e Cosenza, le belle città separate da 100 km e da una partita di pallone

di FRANCO CIMINO – Mancano esattamente, mentre scrivo, quattro giorni meno due ore. Lo sapete pure voi, vero? Sì che lo sapete! Novantasei ore! Ma che state pensando, alle due notizie, opposte tra loro, che stanno tenendo il mondo con il fiato sospeso, e cioè all’attacco finale che Benjamin Netanyahu ha programmato e promesso di muovere contro Rafah, l’unica città ancora rimasta, quasi per intero, in piedi sulla tragica Striscia di Gaza? Oppure, alla dichiarazione congiunta di pace, finalmente, dopo più di cinquant’anni, tra israeliani e palestinesi, che metterà fine davvero alla lunga guerra, e all’odio incrociato che la muove, nell’unico modo che la renderà possibile? E quale, il modo, se non la più vecchia negoziazione quasi riuscita a Rabin e Arafat nel lontano 1999, auspice lo statunitense Clinton?

È sempre quella, a ciascuno il proprio Stato nel territorio che lo comprenda e nella piena libertà e sicurezza dei due popoli che se ancora non si volessero amare sicuramente si riconosceranno vicendevolmente e parimenti si rispetteranno. No, non è questo. E chi vuoi che se ne importi con tutti i problemi ben più seri che abbiamo! L’attesa, invece, scorre lungo i cento chilometri di “autostrada”, che separano Cosenza e Catanzaro, due città tra le più importanti per il futuro della Calabria. La partita in questione, è quella di calcio.

Una semplice partita, di un semplice campionato, tra due squadre che stanno facendo assai bene per onorarlo con le proprie imprese sportive. Sono il Cosenza e il Catanzaro. I rossoblu e i giallorossi. Colori così marcatamente differenti, ma ben forti, che renderanno più bello il verde del campo di giuoco. Due squadre belle. Anche a vedersi. Anche a vederle giocare in un modulo (così si dice?) l’uno diverso dall’altro. Quaranta calciatori tutti di buon livello, con qualche campione che ben figurerebbe nella serie superiore. Squadre, le nostre, ben dirette da due allenatori molto bravi. Soprattutto, seri e volenterosi, leali e onesti.

Due società dell’antico prestigio, ben guidate da due dirigenti di alto valore, con due presidenti pure belli e simpatici, che tengono alla loro squadra, ai risultati e ai compiti di correttezza, educazione, signorilità, ad esse affidati. Sarà una partita bellissima. Spettacolare e con tanti goal. Delle due compagini, io, lo si sa, ne amo una, come amo, anzi molto di più, la Città cui appartiene e della quale ne condivide i colori. E l’aquila reale che su di essi, e sopra i tre colli, campeggia come simbolo. E sovrana ne regge la storia antica e del suo spirito la rinnova. Per scaramanzia, pur se ad essa non credo, non dico a vantaggio di quali colori saranno le reti in più. Desidero solo che sia una gara sportiva. Bella, pulita, corretta.

Una gara che esalti lo sport e l’onore delle due città, che se stimolate e orientate politicamente dai rappresentati delle rispettive istituzioni e di quella regionale, dovranno, abbandonando campanilismi e maledìche invidie e gelosie, affratellarsi, unitamente alle altre consorelle. E operare, strettamente vicini, per fare uscire la Calabria dalla crisi in cui, nonostante non sottovalutabili risultati, ancora si trova, per avviarsi all’ultimo appuntamento per lo sviluppo e la crescita della Democrazia. Nell’ultima primavera che le resta. Le tifoserie, che vantano una buona reputazione di educazione sportiva, si impegnino a lanciarsi, da una curva all’altra, nient’altro che cori d’ironia e battute sarcastiche, affinché chi “non salti” simpatico sempre sia. Io conosco da vicino i tifosi della mia città.

Li conosco per la generosità della loro ospitalità e per l’educazione che hanno manifestato in tutte le trasferte in cui, da ogni punto della penisola, hanno raggiunto gli stadi in cui giocato la nostra squadra. Sono sicuro che al San Vito si confermeranno, grati della cortese ospitalità dei cosentini. Chi da quelle parti, usando impropriamente importanti ruoli istituzionali, carica un certo sentimento come se la squadra avversaria dovesse “restituire” un maltolto che non corrisponderebbe affatto ai meriti di una vittoria, invece, netta conseguita sul campo dell’andata, rischia di alimentare un clima di tensione interna nociva alla nobile città bruzia. Da romantico quale sono e sognatore quale vengo da taluni considerato, mi piacerebbe, visto che la partita inizierà alle sedici e trenta, che i due sindaci, che avranno pranzato insieme, si diano appuntamento nello stesso spazio con le rispettive tifoserie e insieme si rechino allo stadio ciascuna con le proprie bandiere.

Ché domenica si giocherà solo una partita di pallone. Nella quale in palio ci sono solo uno o tre punti. Nulla di più è. Nulla di più dovrebbe essere. E, allora, anticipiamolo questo grido, con unica voce; «Viva il Cosenza. Viva il Catanzaro. Viva la Calabria anche sportiva. E gloria, gloria, allo sport» (fc)

IL RICORDO / FRANCO CIMINO: Il ritorno di Graecalis e il ricordo di Nino Mustari. La cultura dell’incontro nel cuore che batte forte

di FRANCO CIMINO – Graecalis, il Teatro “piccologrande”, è tornato a Catanzaro. Dopo un tempo nient’affatto breve è tornato nella sua Città. L’esilio, come ha detto il suo primo ispiratore e conduttore geniale, Luigi La Rosa, dandone notizia, è finito. E, come lui stesso ha tenuto a precisare, per merito esclusivo del presidente della Provincia.

Il che induce a riprendere la domanda sospesa: perché il Teatro di Calabria, che da trent’anni sotto la direzione artistica dell’attore-regista Aldo Conforto, ha creato grandi eventi teatrali, distinguendosi in tutto il Paese per la sua straordinaria capacità di portare il teatro antico greco, e quello più generalmente classico, alla portata di tutti (spero che nessuno si offenda, facendolo diventare parte attiva di una nuova cultura popolare, si sia sentito costretto ad allontanarsi dal capoluogo, suo palcoscenico naturale, facendo la fortuna di Vibo Valentia in cui ha operato stabilimento all’interno del suo antico castello? Pensiero lungo, un po’ didascalico forse, per una domanda inquieta.

Si soffre, infatti, nel constatare che il rapporto tra la Città e il suo Teatro più prossimo alla sua vocazione culturale, si sia interrotto. Dispiace davvero tanto, perché oltre a essere ingiustificale un tale fatto, davvero non sarebbe comprensibile per chiunque volesse ragionarci su. Resti comunque sospesa questa domanda e ci si rallegri del ritorno, già pronti, come siamo sicuramente in tanti, a prenotare abbonamento e biglietti per la imminente stagione teatrale. Graecalis non avrebbe potuto meglio “festeggiare” il suo ritorno di come abbia fatto questa sera al Musmi, il bel museo al centro del bellissimo Parco della Biodiversità, promovendo il convegno in “ricordo” di Nino Mustari, il robusto intellettuale e uomo assai generoso, scomparso appena un mese fa, lasciando una lunga scia di rimpianti e di dolore non solo a Catanzaro o a Taverna, le sue due Città. Oppure, nel mondo della scuola o dell’Unicef, i luoghi più assorbenti la sua intelligenza e il suo spirito intenso d’umanità, per non dire della famiglia e dei suoi tanti amici, cui egli manca come il pane.

Ecco, il pane, per dirne del suo sapore, come dal titolo di uno dei suoi più importanti libri. Rimpianto e dolore lo si avverte in Calabria, e nel mondo della cultura e del sociale, che ha perso con Mustari una delle sue più importanti figure di riferimento. Instancabile, il direttore, come veniva chiamato per il suo lungo trascorso nella direzione delle scuole, cui giunse giovane e dopo diversi ruoli esercitati nella Scuola. Sempre in movimento. Ogni giorno a pensare agli altri. Agli ultimi e ai più bisognosi in particolare. Tra questi i poveri, i senza tetto. E, oltre a questi, agli ultimi degli ultimi, gli immigrati e i migranti, gli scarti umani di questo mondo stracarico di ipocrisia ed egoismo, di violenza e indifferenza.

Fino all’ultimo dei suoi giorni, con le ultime forze rimastegli telefonava e scriveva a chiunque potesse fare gesti concreti di solidarietà. Uomo di fede fortissima, di essa ispirava la sua attività nei molteplici campi della sua diuturna azione. Di Fede era piena la sua scrittura, di narratore intenso di storie semplici. Storie in cui tutti i suoi personaggi diventavano protagonisti del loro riscatto dai tormenti e dalle privazioni della vita, come dei propri errori o cattiverie.

Errori e cattiverie quasi sempre non volute dalle persone, ma scaturite dal ventre di una società troppo ostile alla bellezza. E alla bellezza creativa dell’essere umano. La sua narrativa è positiva. Il filo che lega le vicende umane è d’oro. Sottile, ma visibile. La leggera lucentezza che scorre lungo le vie umane oscurate dalle difficoltà e dai drammi, come dalle pesanti fatiche di procurasi il “pane”, è luce che illumina. Le strade del cammino. Le menti del pensiero. Gli occhi di chi spera. Ottimista e questo scrittore. L’uomo vince sempre, perché se la Fede aiuta nella lotta e nella speranza, la Provvidenza salva. Tutti. I vinti e i potenti che credevano di vincere sulle loro vittime. Tutto l’umano è risollevato, sollevare in alto, proprio così, dal divino. Divino che è dentro di noi, per quel progetto che Dio ha affidato, attraverso Gesù, e la sua Chiesa (Mustari è il laico che ha vissuto la Chiesa, anche attraverso quell’amicizia profonda che l’ha legato al grande Vescovo Antonio Cantisani) agli uomini.

Il compito (Nino quasi ce lo “insegna” da maestro qual è) degli intellettuali è quello di ricordarcelo, attraverso anche l’utilizzo di quella meravigliosa narrativa che è il Vangelo. Una narrativa sentita anche da chi non crede. Importante è solo il loro ascolto della sofferenza degli esseri umani e dei dolori di questo mondo. Più importante e la loro volontà di aiutarli a “vincere” indicando anche la via della Giustizia. Ché in essa c’è il tratto breve e finale che conduce alla Verità.

E la Verità, Mustari, dice, sornione a sé stesso, è sempre una. Da qualsiasi postazione si voglia partire, la via che ad essa essa ci conduce è una, l’uomo, la persona, piena di immodificabile dignità, che è in lui. Il punto d’approdo è uno, la sua “felicità”. La scrittura di Mustari è semplice. Le storie sono semplici. Lui, intellettuale profondo, nella testa fiumi esondanti di libri e letture diverse, conoscitore e amante della parola, usa ne suoi racconti (li chiama così, non romanzi, le sue creature, quasi per pudore e per umiltà) una narrazione semplice. Lo fa per tre motivi, io credo. La vita di cui narra, per quando sia difficile, è semplice. Dovere di chi scrive è di testimoniarla con semplicità. I racconti devono essere leggibili, cioè comprensibili, da tutti. Specialmente da quanti, e sono purtroppo i più, non hanno “la preparazione” degli eruditi, figure che non sempre coincidono con quelle degli uomini cosiddetti colti. La scrittura deve essere anche agile, snella, perché si renda rapida nello svolgimento delle storie.

Meglio è quando un libro che racconta storie si possa “ divorare”, assaporare, in una sola giornata. Nelle brevi notte, maggiormente. Infine, il libro più semplice e positivamente elementare delle storie umane,da cui trarre la lezione di vita più alta, è il Vangelo Ecco, su queste linee, anche metodologicamente utilizzate, si muove lo scrittore Costantino Mustari. Lo scrittore fine, acuto, incisivo, che, con maestria per nulla studiata, si fa quel maestro delle esistenze, che i lettori “sentono” pur se lui stesso si rifiuta di esserlo. Mustari si considera un semplice raccontatore, che ha imparato dalle storie vere di cui ha scritto. Un vero artista, un vero maestro, impara insegnando.

È uno scolaro che trova maestri nelle persone più umile e semplici. Ché la sofferenza degli esseri umani è il libro più completo. E l’Amore la cattedra più bella. Nino allievo curioso, che impara dalla Natura, che scruta continuamente, percorrendola tutta, dai mari ai monti, e dai luoghi “ vissuti”(dalle cittadine dell’Italia del Nord ai borghi della sua presila), a quelli sognati. Sullo sfondo di ogni suo sguardo, vi sono le due città tanto amate, la natia Taverna, sempre presente in qualsiasi modo nei suoi libri, e l’adottiva Catanzaro, quotidianamente servita con l’onore di cittadino probo e di amministratore attento. Ci sarebbe ancora da dire tantissimo. Ma non posso, sono già andato come sulla corrente di un fiume che scende a mare. Mi fermo prima della distesa infinita. Sono queste alcune delle molte considerazioni che hanno riempito del ricordo di Nino, questa serata bella. Piena di cultura e di sentimenti. E anche di gratitudine verso quest’uomo straordinario, ricco di cultura e di sentimenti.

Merito è, oltre che degli organizzatori e di La Rosa, che l’ha introdotta accompagnandola con garbo lungo le due ore del suo piacevole svolgimento, delle belle persone che sono state chiamate a “raccontare” Nino, anche attraverso la riflessione intorno ad alcune sue opere. Il dott Giuseppe Raiola, presidente regionale di Unicef, che ne ha descritto il legame profondo con l’Associazione, la prof Teresa Rizzo, presidente Società Dante Alighieri, che ha svolto una relazione straordinaria per profondità culturale e intensità sentimentale, sulla vita e il pensiero di Mustari, la prof Raimondo Bruno, con la sua particolare letture dell’ultimo libro. Infine, la dott.ssa Annamaria Iembo, che mischiando parole e lacrime, ci ha detto di un Nino, amico delicato, anche simpatico e divertente.

Il tutto accompagnato, come da musica, dalle letture efficaci, autentiche nel vibrare delle loro voci, degli attori che hanno reso grande il Teatro di Calabria in Graecalis, Maria Rita Albanese, Arianna Riccelli, Salvatore Venuto, Paolo Formoso. Della squadra speciale sarebbe stata anche la ben nota Marta Paride, impossibilitata alla presenza. Sono tutti attori di grande qualità, che altrove ci invidiano e Vibo avrebbe voluto con forza trattenere.

Loro hanno reso il ricordo più forte di quanto la stessa parola, che il prof Luigi ha spiegato distinguendola dalle altre due che le somigliano, non dica. La memoria di Costantino Mustari è incancellabile, perché è memoria del cuore. Delle sue due splendide figlie e del loro amore verso quel padre amorevole, (amorevole e attento esattamente come il padre di cui Nino parla in ogni sua composizione, il padre bisognevole a questa società che ne sembra priva), non dico.

Seduto in seconda fila, le ho visto di spalle, danzare tra struggente commozione e l’infinita dolcezza porta al piccolo nipote di Nino, figlio della secondogenita, offrendogli carezze e dondolanti parole sussurrategli all’orecchio. La sala strapiena di persone, è stata strapiena anche di commozione e di attenzione. Non si è sentito neppure respirare. Un solo respiro, quello di Nino. L’abbiamo “sentito” tutti. (fc)

L’OPINIONE / Franco Cimino: Il Natale, i Natale diversi e quello degli altri

di FRANCO CIMINO – Stanno per arrivare. Puntualmente. Ogni anno. Da secoli. Sono tre. Come i Re Magi. Tre, come la dialettica hegeliana. Tre, come la Santa Trinità.

Tre, non a caso come gli elementi costitutivi della persona, per noi cristiani creata da Dio a Sua immagine e somiglianza. Una è la Nascita. Due sono i Natale. Nasce il Bambino, nel rito cattolico e nella “letteratura” Cristiana. Nasce anche secondo le tradizioni dei luoghi e le culture che le custodiscono. Specialmente quelle popolari. In ogni parte del mondo, la Nascita assume quei contorni della diversità che la impreziosiscono.

La fanno diventare propria. Tanto che la spiritualità legata alla emotività, la rendono sempre più prossima a noi. Accade in ogni confine e lo supera. La Nascita è propria di quel luogo. Poi, di quella comunità. Inoltre, di quella famiglia. Infine, della singola persona. La natività è parte di ciascuno di noi. Paradossalmente, se si è dentro quella cultura, anche di chi non ha un credo religioso. Nasce il Bambino, uomo o Dio, figlio di Maria donna e di Giuseppe uomo o della Madonna e di Dio Padre. Nasce ed è di chi lo sente. Di chi lo vive nella dimensione che vorrà dargli. È Gesù, “cancellatore” dei nostri peccati, il Salvatore del mondo.

È il rivoluzionario, che lotta contro il potere e l’ingiustizia, lo sfruttamento dell’uomo e l’ingiustizia contro l’uomo. È il figlio di Dio, che fattosi carne si fa crocifiggere per noi. È il ribelle che dona la vita per la libertà degli uomini. La Nascita è atto universale, perché ciascuno la può rendere propria. È Natale, quindi. E lo è in tutto il mondo. La Nascita è una. “Il Natale”, invece, sono due. C’è il Natale loro e il Natale di quelli là. Il Natele dei ricchi e quello dei poveri. Di quelli che fanno la spesa strariempiendo i carrelli e le auto. E di quelli che ai negozi neppure si avvicinano. C’è, poi, un terzo e un quarto Natale. Un quinto e un sesto.

Si aggiungono per frantumare il numero perfetto e l’intima religiosità che lo anima. È il Natale di quanti, con il cappello o il bicchiere di carta in mano sostano intere giornate davanti ai negozi e supermercati, ai bar e alle chiese. Chiedono la carità a quel Natale da loro lontanissimo. C’è il Natale di chi non ha nulla, neppure il coraggio o la disperazione, per chiedere. E si chiude in casa, inizialmente facendo un po’ di rumore per ingannare di falsa gioia i vicini di casa. Che, in molti, magari, staranno facendo la stessa cosa. Il Natale degli uomini e delle donne sole, ammalati gravemente di solitudine grave, indotta o procurata. Di emarginazione e di isolamento. Il Natale dell’odio e del rancore. E quello delle guerre. Il Natale di chi muore. Nel letto delle malattie o nei viaggi dell’unica speranza. E negli anfratti delle strade del mondo, i giovani ingannati dalle false promesse di felicità. E i deboli di ogni natura a cui è stata negata la bellezza della loro fragilità. Si dice, «vai pure a contarli tutti questi Natale, tanto ci sono sempre stati!» Ed è vero.

C’è una differenza, però. Essa è data dalle proporzioni, dalla qualità, e dall’ampiezza dei singoli Natale. E dal rapporto che intercorre, anche questo quantitativo, tra di loro. Si è di molto ristretta la fascia del primo Natale, quello dei ricchi. E di gran lunga allargata quella dei poveri. Sono pochissimi oggi i ricchi. Ma sono ricchi assai di più di quanto non lo fossero prima e di quanto non lo fossero mai stati altri in passato. I poveri sono cresciuti a dismisura, tanto da coprire socialmente quasi per intero il tessuto sociale. La società con loro è diventata più povera, perduti ormai quei cittadini, della fascia di mezzo, che tenevano insieme le diverse aree sociali offrendo nel contempo le possibilità di un cambiamento reale per quanti potessero salire in alto nella scala dei valori. In questi Natale diversi si è perduto il Natale laicamente più atteso, quello della felicità promessa. Il Natale era anche promessa di felicità. Qui. Su questa terra.

Nel Progresso e nella Civiltà. Che sono la perfetta unione di libertà personale e democrazia, ricchezza individuale e ricchezza sociale. Il tutto secondo un principio che da quel Natale di muove. Ed è che non vi possa essere libertà se non per tutti, ricchezza se non per ciascun essere umano. Come per la Terra. Essa non è se non lo è di tutti. Ché tutti gli uomini hanno il diritto inalienabile di vivere nella propria terra e nel proprio Paese che possa costituirsi come Stato libero e autonomo. Uomini liberi anche di navigare per ogni ogni mare e raggiungere il luogo dove vorranno vivere. E far vivere nella sicurezza i propri figli.

Ché il luogo di nascita e quello del raggiungimento non possono essere una sorta di condanna preventiva o lo stigma negativo di una immodificabile diversità. Nascere, come insegna la Natività, non deve essere una colpa, ma un dono che la Vita, o Dio o la Natura, fa con la vita alla vita stessa. Il Natale di oggi non più è solo quello dei consumi, che tanto utile procurano all’economia e al Natale dei ricchi. È il Natale del consumo. Consumo della vita: milioni di persone, vecchi donne e bambini in particolare, stanno a migliaia al giorno, morendo di fame. E altre migliaia muoiono sotto le guerre armate, distribuite in varie regioni del pianete. Sono più di venti quelle in atto da anni, anche se si parla continuamente soltanto delle ultime due, in terra Medio Oriente e in Ucraina.

Consumo della terra, per inquinamento e violenza fisica esercitata su di essa. Consumo inspiegabile dell’acqua, ovvero sottrazione di questa fondamentale risorsa a circa un miliardo di persone che ne hanno diritto. Consumo di democrazia in quei Paesi in cui è negata e in altri in cui surrettiziamente viene progressivamente ridotta o modificata. Consumo dei sentimenti in quello che ormai sta diventando un ricordo per smemorati, l’Amore. Consumo, nella Natura e nella Persona, della Bellezza. Da giorni è già Natale. Il Natale di sempre. Quello che non c’è più, neppure nel cuore dei bambini. I bambini di oggi. E quelli di ieri, i bambini che siamo stati noi. Tra cinquantatré ore è la Nascita. Gesù Bambino ritorna.

Per una sola volta almeno facciamo che resti bambino. Facciamo che non arrivi la settimana della più sofferta passione. Che Gesù non muoia. E con lui, la speranza. Facciamo che arrivi la Pace. Quella vera. Che ritorni l’Amore, che la Pace crea e mantiene. Tra cinquantatré ore sia la nascita anche nostra. A nuova vita. Nel vero Amore. Ché la povertà e la più grande ingiustizia. La guerra la cosa più indegna. L’odio, l’egoismo, l’invidia e il rancore, le belve più aggressive e più assetate di sangue. Contro questi mostri opponiamo il vero Natale. Quello del Bambino nato in una grotta. Nato per Amore. E dell’Uomo, nato per amare. (fc)

IL RICORDO / Franco Cimino: Guido Rhodio, ti voglio bene. Ciao e grazie

di FRANCO CIMINO – Quando scompare una persona, tra il dolore e il distacco si muovono tante emozioni e sensazioni, talune tra loro contrastanti. La dipartita di Guido Rhodio ne procura non poche. La prima è di stupore, di senso di sorpresa, che si racchiude in «ma come, Rhodio è morto?».

E l’altra, di dispiacere autentico. La frase più comune, che ho sentito e letto dalla voce e dagli occhi di tantissimi tra amici e semplici conoscenti, è anch’essa classica. Questa: «mannaggia, che peccato, mi dispiace moltissimo!». Tutte parole ed emozioni, vere e sincere, che io racchiudo in quella che è stata la mia immediata espressione, nella quale vi è lo stupore e il dispiacere, ma anche una sottile preoccupazione, quasi un timore interiore. È questa: «e adesso?». Sì, e adesso che facciamo?

Questa, la preoccupazione insidiosa. Tutto deriva da quell’uomo, che pur avanzando negli anni, progressivamente indebolendosi e gravemente ammalandosi, non ha mai smesso un solo istante di vivere appieno la vita. E di pensare, con lucidità abbagliante. Di sentire, con battito del suo debole cuore assordante. Di parlare, con quella voce acuta e tonante. Di scrivere, con quella sua penna intensa. E di vedere, con quegli occhi quasi spenti, in profondità irraggiungibili.

Tutto di questo straordinario universo di esperienze, di saperi, di studi e di studio nella ricerca continua, di sentimenti e di passioni, di intelligenza robusta e di parola alta quanto le idee che coltivava dopo averle cercate nell’Olimpo del magico pensare, egli generosamente donava. A tutti. A quanti andavano a trovarlo negli ultimi anni della sua obbligata “stanzialità”, e a quanti egli avrebbe potuto raggiungere con i mezzi della tecnologia alla quale con spirito fanciullo si applicava. Anche per dare sfogo al quel suo animo inquieto e al suo cuore cercatore. Chi riceveva qualsiasi cosa da lui, anche il rimprovero o la battuta ironica sempre pronta per sdrammatizzare le cose, che ne facesse tesoro o no, che la capisse bene o no, sapeva innanzitutto di ricevere una cesta enorme di sincerità e schiettezza. Da accompagnare, per tenerle sempre tesi, ai consigli, alle idee, alle proposte, alle sollecitazioni, che ti arrivavano in testa come la pioggia impetuosa d’agosto. E con rigore intellettuale prima ancora che morale.

Una lezione continua, la sua, simile a quella, per alcuni, dei maestri inascoltati, che prima o poi ti ritorna alla mente con la stessa forza che ha incontrato la tua respingendola. “ E adesso che si fa?” Ecco, sorpresa e dolore. Perché, tutti noi, come le sue adorate figlie e la sua amata moglie, non eravamo preparati a questa sua uscita di scena. E non possiamo fargliene una colpa, ché forse lui piano piano da tempo ci salutava. Siamo stati tutti noi a non volerlo capire, ché lui, uomo di profonda fede nella preghiera, ha resistito fin quando ha potuto. Fino al tempo che ha chiesto al Signore per mettere al sicuro i suoi infiniti amori. Tra i quali, non aggiuntivamente, ma oserei dire parimenti, vi erano le sue altre creature. L’Istituto, per esempio (questa era nella sua intenzione), per gli studi di Cassiodoro, alla cui vita e opere egli, insieme a mons Cantisani, il Vescovo infinito, il pastore illuminato, don Antonio Tarzia fondatore dell’omonima Associazione, Peppe Mercurio e mons Facciolo, aveva dedicato il tempo che trovava, moltiplicandolo magicamente, dagli altri numerosi impegni. E dagli altri suoi amori.

Lo studio della storia del luoghi, all’interno di quella più ampia locale e regionale. E, questa, a navigare nel mare grande della storia in generale, quella antica in particolare. La storia del mondo classico, nelle età che ci portano a quella Magna Graecia che era una sua passione sempre accesa. La storia, maestra di cultura e civiltà. La storia, una delle culle del sapere, in particolare quello filosofico e poi scientifica. Una sorta di camminamento illuminato per raggiungerli più facilmente. La storia, come conoscenza delle origini delle cosiddette altre storie. Non minori, non di secondaria importanza, ma filiali. La storia come strumento di comprensione del presente e vademecum culturale e politico per evitare di ripetere errori o di farne di gravi non potendo operare in alcun confronto con esperienze già vissute. La storia, come aiuto alla crescita della conoscenza del proprio Paese, fosse anche il piccolo di tutti, e all’amore per esso. Rhodio, che non volle farsi storico, studiava molto la storia e se ne rallegravava quando in lui cresceva e la conoscenza e la passione per la conoscenza. Intelligenza robusta e poliedrica, Guido si muoveva con leggiadria, anche quand’era stanco, fra i diversi saperi. Tutti, purché contenessero la cultura del bello. Era appassionato d’arte, sia quella materiale, “oggettistica” se posso azzardare una denominazione, lui mi perdonerà di averlo fatto, (prevalenti era l’interesse per le opere pittoriche e dell’artigianato artistico, o le sculture pur di piccole dimensioni), sia per quelle “bibliofile”.

A suo modo Guido era un bibliofilo. Divorava i libri con la lettura. Ed amava il libro in quanto oggetto raro, da non perdere. Acqua del sapere che sgorga dalla fonte. Cercava libri che altri abbandonavano. Per difenderli dalla rovina e dall’abbandono. E li conservava. Aveva una biblioteca di considerevole ampiezza, non solo fisica ma anche valoriale. Chi ne avrà cura per realizzare la sua volontà di consegnarla al pubblico e nei luoghi pubblici deputati, avrà da lavorare tanto, gioendo, però, assai di più. L’altra sua creatura, quella, insieme alla famiglia, più amata, è Squillace. Si potrebbero scrivere libri su questo amore “ pazzo” e, poi, ragionato, crescendo e formandosi, lui, in quel luogo abitato da giovanissimo e mai più abbandonato, la Politica. Squillace era per lui l’insieme dei variegati mondi che si muovevano in lui. Era la cultura, ben deposita, con la sua antica storia, nei luoghi più simbolici della Città. Era l’arte quella che si è potuta conservare attraverso le opere ivi presenti. Era religiosità e fede, ben radicate nella vita della Chiesa, sede episcopale, nei suoi antichi conventi, nel suo seminario, nelle sue pregiate chiede, tra le quali primeggia quasi imperiosa ancora, la Cattedrale.

Squillace era le istituzioni, che nel Comune trova il segno della pienezza della Democrazia. Era paesaggio, balcone che si affaccia sul mare e sguardo ai monti che lo proteggono amorevolmente. Era il punto d’incontro tra il mare e i monti, con una rapida carezza sulle brevi vallate che li separano e li uniscono. Squillace era, pertanto, la Calabria. Lo sguardo che lui, dal quel suo balcone, lanciava sulla Calabria era visione politica su come la nostra Terra dovesse, con la Democrazia del territorio, andare incontro al suo sviluppo e alla sua crescita culturale nella compattezza sociale. Squillace era la Politica, l’altra sua creatura in quella passione che lo accendeva come un fuoco. Politica, come servizio alla gente e spazio per la costruzione di grandi cose. Cose grandi in cui la ricchezza fosse un bene sociale e non la brutale forma della divisione tra i forti e deboli, con il prezzo che quest’ultimi, sempre più numerosi, dovessero sempre pagare all’egoismo di pochi. La Politica era anche la forma e lo strumento con cui poterla fare, militandovi.

Il suo, scelto da giovanissimo, con spirito cristiano e visione laica della stesso, fu la Democrazia Cristiana, il suo partito per sempre, tanto da pensare di poterlo ritrovare per le due idealità nella nuova formazione realizzatasi a sinistra. E qui mi fermo, perché rivederlo, mentre scrivo, nei luoghi che abbiamo insieme frequentato sotto l’egida di quella bandiera bianca scudocrociata, mi commuove fino alle lacrime. E poi, si è fatto tardi. Devo correre nella sua Città, divenuta anche nostra per il suo lascito di valori, dove tra poco lo saluteremo. Qui, per sempre. Per sempre qui.(fc)

L’OPINIONE / Franco Cimino: Il cinema Orso ritrovato e la generosità della città

di FRANCO CIMINO – In politica, e vieppiù nell’attività delle pubbliche amministrazioni non conta chi abbia ragione e chi non. Non serve soltanto misurare il tempo dei presunti ritardi nel raggiungimento degli obiettivi. Conta solo che un’idea si realizzi, un’opera venga prodotta. Specialmente, se da lungo tempo attesa. Conta, nelle istituzioni offerte al consenso elettorale, che le promesse, appunto elettorali, vengano mantenute, quale atto anche di manifesta moralità pubblica, ché è la prima forma di onestà di quanti, improvvisati o lungamente “impegnati”, chiedono il voto per essere eletti. Salutiamo, pertanto, io credo tutti i cittadini, con gioia la “conquista del Cinema Orso, “l’antico cinema” di Marina. Conquista, sì, di un bene, che, per la sua storia straordinaria, è di fatto, prima ancora di qualsiasi riconoscimento formale, un bene pubblico, sul significato del quale non sto qui ovviamente a soffermarmi. Ieri il Consiglio Comunale ha compiuto un bel dovere con quel necessario senso del dovere che dovrebbe caratterizzare ogni atto politico e amministrativo. Peccato che su quel tema vi sia stata una discussione troppo verbosa e a tratti strumentale. E peccato che su una questione finemente sensibile non si sia realizzata l’unità dell’intera Assemblea.

Una particolare e più fine unità che avrebbe dovuto, a mio avviso, manifestarsi anche con l’approvazione di un documento consiliare che invitasse il privato, che legalmente e onestamente di certo ha acquisito quel “rudere” (??), a cedere, dinnanzi a interpretazioni “giudiziarie” e a una forte scelta politica (il Consiglio Comunale rappresenta l’intera Città), naturalmente dietro immediata restituzione della somma per l’acquisto, quel che per noi è il Cinema a Marina. Non conosco l’imprenditore in questione, ma sono certo che se il Sindaco glielo chiedesse apertamente, rinuncerebbe a continuare un’impresa legale, con relativo dispendioso contenzioso. Un’impresa che, tra l’altro, a lui non restituirebbe il bene dell’acquisto, ma soltanto arrecherebbe un ulteriore danno alla Città e a Marina, per il blocco lunghissimo che nuovamente si “abbatterebbe” su quel “rudere”, sempre più brutto alla vista e sempre più pericoloso per la viabilità e per i passanti. Ci sono ancora imprenditori che vogliono bene a Catanzaro e sono certo che quelli di cui parlo sono tra questi. Che bello sarebbe se finalmente in Città si realizzasse questa sana e bella alleanza tra pubblico e privato!

Un’alleanza da far valere produttivamente nel prossimo futuro, quando arriveranno dall’Europa e dal Governo e dalla Regione, se si accorgesse del Capoluogo, risorse sostanziose per lo sviluppo della nostra realtà urbana. Sul Cinema Orso e sulle idee che possano riportarlo a essere uno strumento di crescita culturale ed economica della zona Sud, sul valore che assume il fatto che esso sia diventato un bene pubblico, torneremo a parlare presto. Oggi mi piace dire della mia gioia. Oggi mi piace sentirmi rappresentante della gioia collettiva, che nel silenzio “sociale” pur si sente. Oggi, mi sento in dovere di ringraziare pubblicamente il Sindaco per aver mantenuto uno dei suoi più importanti impegni elettorali, posti, come egli stesso ha affermato in Consiglio, al centro del suo programma. Con lui quanti l’hanno sostenuto più personalmente in questa fatica (l’ottimo Nunzio Belcaro e la brava Daniela Palaia in primis), quanti precedentemente l’hanno favorita, i consiglieri che ne hanno votato la “pratica” e tra essi anche il consigliere di più dura opposizione, Eugenio Riccio. Anche in questo caso, non mi importa dove egli sia collocato e, per quanto mi riguarda personalmente (mi si lasci passare il riferimento), quali atteggiamenti pregiudiziali abbia assunto dal lontano 2006. Mi interessa che si sia onestamente battuto per questa causa, assumendo la determinazione, per nulla facile, di distinguersi all’interno dell’aula consiliare. E adesso, rimbocchiamoci le maniche, prendiamo calce e cazzuola, carriola e martello, e ricostruiamo il Cinema, facendolo più bello. Prendiamo, soprattutto, la livella, che al muratore serve per rendere le pareti lisce. A noi, per comprendere che dinnanzi al bene della Città possiamo essere tutti uguali. (fc)

L’OPINIONE / Franco Cimino: Come ricordarci della memoria nei continui giorni in cui ne dimentichiamo il valore

di FRANCO CIMINO – Oggi la Giornata della Memoria. Ricorre ogni anno, puntuale il 27 gennaio, giorno in cui intorno a mezzogiorno del 27 gennaio 1945 quattro giovani soldati dell’Armata Rossa, giunsero per primi ai cancelli di Auschwitz. Soliti rituali, in questo giorno, solite dichiarazioni, solite carrellate di immagini televisive, che dovremmo avere tutti impresse nella memoria. Immagini dure, che procurano in chiunque sconcerto e dolore.

Un po’ d’altro nelle scuole, dove se ne parla ancora molto poco e l’attenzione si accende particolarmente quando in alcuni istituti si organizzano incontri con qualcuno dei pochissimi, ormai, scampati ai campi di concentramento. Li chiamiamo i sopravvissuti. Quelle poche migliaia di esseri scheletriti, che i nazisti non fecero in tempo a distruggere nei forni crematori per la fuga accelerata dei carcerieri-torturatori vigliacchi all’arrivo dei liberatori russi e americani. Quegli scheletri che ridivennero persone perché potessero raccontare.Tutto quell’orrore che si presenta annualmente alla nostra memoria non è un film di fantasia.

È realtà. Tutto è accaduto veramente. E non in un tempo lontano che, con distacco, ce lo faccia osservare come un fatto storico, rispetto al quale ogni giudizio trova lunghi spazi di distensione, se non addirittura di sospensione. Questa barbarie inconcepibile si è verificata meno di novant’anni fa, cioè ieri. Erano gli anni dei nostri padri. E per le nuove generazioni, quelli dei nonni e dei bisnonni. Sono ancora i loro occhi e la loro voce a testimoniarlo direttamente. Nulla di nuovo, quindi, se non l’attesa bramosa di vedere il comportamento sull’evento dei nuovi governanti italiani, provenienti quasi tutti da quella destra ideologica e storica che ha avuto molto a che fare con il fascismo razzista, dittatoriale, assassino. Ma anche qui, la retorica e il senso dell’opportunismo nella rigidezza del ruolo istituzionale, non può che offrire le risposte più comuni.

La solita condanna, e netta, con qualche passaggio verbale ambiguo di qualche vecchio ex missino che pensa di essere il più furbo di tutti, dicendo e non dicendo, condannando e non condannando, magari ritenendo quella famosa legge razziale del trentotto l’unico errore di Mussolini. “Ovvero, sì ci sono state quelle cose là, ma nulla al confronto con i gulag dell’impero comunista sovietico. “ E cose del genere. Nulla di nuovo. Ancora nessuno scandalo, nel senso etimologico della parola. E, allora, questa giornata si ripeterà con lo stesso rituale fino a diventare “un solo rigo sui libri di storia”, come ci ha ammonito Liliana Segre, se oggi, almeno oggi, non si trasformerà in domanda acuta.

Una domanda dalla quale ne potranno nascere altre. Questa «che cosa ci insegna quell’orrore? L’uomo cosa ha imparato da quella immane tragedia? Cos’è il razzismo fuori dal dizionario?». Le risposte sono ben note, anche se le dimentichiamo un attimo dopo averle ottenute. L’uomo non ha imparato nulla da quei campi di sterminio, in cui si è consumato uno dei tanti genocidi della storia. E il razzismo è una costante antropo-ideologica del suo cammino avanti e indietro alla storia dell’umanità. Tutto si ripete in forme apparentemente nuove. Ciò che le mette in movimento senza soluzione di continuità, è quella energia demoniaca, che non è sentimento, che dà nomi diversi allo stesso male, l’odio dell’uomo verso l’altro uomo. Il male, questo, che nasce dall’egoismo con il quale l’individuo non solo vuole prendere le cose e le ricchezze e gli spazi della natura, che è di tutti, come la terra unica che abitiamo, ma vuole impadronirsi dell’uomo stesso, nel suo essere persona, famiglia, comunità, popolo e nazione e territorio. Anima e coscienza civile.

Nel suo essere ansia di pace. Desiderio di Dio. Volontà di giustizia ed eguaglianza. La guerra è l’invenzione più efficace per imporre l’egoismo. L’odio, l’energia fondamentale per poterlo esercitare senza remora alcuna. Il razzismo è figlio della guerra e viceversa. Ambedue sono generati dall’egoismo. Ma cos’è davvero il razzismo se non la ricorrente e diffusa affermazione della superiorità non solo di una razza su un’altra? Certamente questo, ma dal dopoguerra ad oggi e assai di più. È la negazione del valore della diversità e, nel contempo, la pretesa superiorità del proprio popolo su un altro, della propria nazione su un’altra. Le guerre sono fatte apposta per imporre questo follia come principio, questa stupidità come diritto. La guerra come giustificazione a tutto e legittimazione dell’orrore. Come lo sterminio degli ebrei fu generato dalla guerra, le guerre in atto, non solo quella più “celebrata” in Ucraina, ma anche le diverse guerre sparse a macchia di leopardo su tutto il pianeta, in particolare quelle dimenticate in Siria e nello Yemen, sono partorite dall’odio.

Lo stesso che abbiamo visto all’opera nella storia. L’odio contro il diverso, contro il nemico inventato, contro il presunto occupatore di terre che vogliamo essere le nostre e che siano nostre. L’odio contro quell’uomo, quella cultura, quella religione, quello stesso Dio di altri, per il solo fatto che vi siano. Che esistano. Che vogliano vivere. E liberi. E in sicurezza. Nel proprio territorio, che fu dei loro padri. Questo è il nuovo razzismo, che incontriamo quotidianamente anche nei piccoli e non visti assalti quotidiani. Nei bagni delle scuole, contro i diversi e i fragili. Nelle strade delle nostre Città, specialmente in quegli angoli lasciati al buio dall’indifferenza della politica. Il nuovo razzismo è quella cultura dominante, imposta in modo soft da chi detiene il possesso dei nuovi strumenti del potere( quelli della comunicazione e della tecnologia più avanzata unite al potere finanziario) che trattiene per sé il novanta per cento delle ricchezze lasciando il restante dieci nell’arena della stragrande maggioranza dei poveri, che si odiano tra loro o semplicemente non si incontrano, invece di sollevarsi tutti insieme contro i nuovi padroni.

Questa nuova, non vista, guerra ha un nome soltanto: povertà. Il nuovo razzismo è la povertà. Se vogliamo, pertanto, celebrare seriamente e onestamente questa giornata, come tutte le altre del calendario internazionale, come quelle sull’Amicizia, sui baci, sugli abbracci, e le tante altre similari, dobbiamo abbattere tutte le forme di egoismo dentro di noi e combattere quelle bellicosi e belligeranti degli altri. Dobbiamo farci carico della Vita, dell’Uomo e della Natura. Dobbiamo ripudiare la guerra, in ogni sua forma. Specialmente, quella condotta da pochi umani contro l’umanità intera attraverso l’arma più micidiale, la fame. Ché nella lotta contro la povertà, ci sono tutte le più nobili ragioni: la lotta contro le povertà, le discriminazioni, l’ingiustizia, le diseguaglianze, l’intolleranza, il totalitarismo liberticida. Ché Libertà, senza aggettivazione, alcuna, fondamento della Pace, è il premio della vittoria auspicata. (fc)

Il commosso ricordo di Riccardo Misasi con l’ex presidente Nisticò in Senato

Commosso e sentito ricordo in Senato per Riccardo Misasi: una testimonianza voluta dell’ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Nisticò, che ha dedicato allo statista calabrese un importante tributo con un libro edito da Rubbettino. Nisticò ha chiamato nella Sala Nassiriya a testimoniare la loro ammirazione per una personalità straordinaria come quella di Misasi numerosi esponenti del mondo della politica e della cultura. All’evento hanno partecipato i familiari di Misasi, la sorella Gianna, i figli Titina e Maurizio e diversi nipoti del politico calabrese.

Nisticò, nella sua introduzione, ha spiegato le ragioni per cui è rimasto sempre affascinato da Misasi che ha definito da neuroscienziato come a “beautyful mind” al pari del premio Nobel John Nash e di altri Premi Nobel come Renato Dulbecco. «Questa sua intelligenza superiore – ha detto Nisticò – è da considerare un dono di Dio».

Accanto alla genialità come pensatore, filosofo, storico, politico ed economista, secondo Nisticò, Misasi è stato l’erede della dottrina etica di Pitagora di cui era letteralmente impregnato perché ha sempre tenuto in alta considerazione nella sua vita i principi di tale scuola e di quella civiltà italica di circa tremila anni a.C. e cioè la dignità della persona, l’amicizia, la solidarietà verso le persone più deboli e più fragili e il senso della libertà intesa come mancanza di dipendenza da valori effimeri e materiali come il dio denaro, la moda, il potere.

Nisticò ha voluto anche ricordare il contributo fondamentale – da protagonista – di Misasi per la nascita dell’Università della Calabria e, in seguito, negli anni 90 delle due Facoltà di Farmacia, una a Catanzaro e l’altra a Cosenza. Così oggi – ha detto Nisticò – non mi rendo conto di queste lotte sterili e inutili per la nascita della Facoltà di Medicina a Cosenza. La nostra visione pionieristica, quella di Misasi e la mia, oltre trent’anni fa, si è dimostrata ampia e strategica nel rispetto delle esigenze della gente comune e, in particolare, dei pazienti e dei loro familiari nonché dei giovani, la valorizzazione del vero patrimonio di talenti di cui la Calabria è ricca, i quali potranno dare un contributo alla qualità della vita dei calabresi ma anche di quelli che hanno bisogno in Italia e in tutto il mondo dal momento che c’è una carenza di personale medico».

Infine, Nisticò è rimasto sempre ammirato dalle doti profetiche alla Gioacchino da Fiore di Riccardo Misasi, il quale aveva lucidamente previsto che dopo la diaspora della DC, a seguito di un ventennio di dominio berlusconiano, questa si sarebbe riunificata mettendo al centro la politica con la P maiuscola: cioè di qualità, ricca di contenuti, aperta al confronto nel rispetto delle diverse idee.

Al tavolo della presidenza, oltre a Nisticò, il sen. Mario Occhiuto – che ha moderato con sobrietà ed eleganza il dibattito come sarebbe piaciuto allo stesso Misasi – il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, lo scrittore Franco Cimino, il quale ha tenuto un’apprezzatissima lectio sul pensiero politico di Riccardo Misasi, e il direttore di Calabria.Live, media partner dell’evento promosso da Pericles International Academy.

Tra il pubblico, il sen. Nicola Irto, l’on. Marco Folini, il prof. Luigi Frati (già Rettore della Sapienza e pupillo di Misasi in campo universitario), il Presidente della Fondazione La Sapienza Eugenio Gaudio (già Rettore della stessa), Luca Marcora, l’on. Mario Tassone, l’on. Ettore Rosato, l’on. Angelo Sanza, l’on. Peppino Gargani, l’on. Bruno Tabacci, l’avv. Anna Falcone, il direttore dell’Osservatore Romano Andrea Monda, il prof Steven Nisticò, Francesco Trebisonda e il nuovo dirigente della Sicurezza del Senato Luigi Carnevale.

La Rettrice della Sapienza, impossibilitata a partecipare, ha fatto pervenire un messaggio in cui ha voluto sottolineare il ruolo significativo di Riccardo Misasi: «Uomo colto e di cultura, economista e servitore dello Stato, è stato una persona sensibile e attenta ai più deboli, importante per l’Università italiana e per il nostro Paese.

Ministro del Commercio con l’estero dal 1969 al 1970 e per due volte Ministro della Pubblica Istruzione prima dal 1970 al 1972 e poi dal 1991 al 1992, nel corso dei suoi mandati ha favorito l’accesso all’Università delle Studentesse e degli Studenti dei ceti meno abbienti, anche consentendo ai diplomati degli Istituti tecnici l’iscrizione ai corsi universitari. Il suo impegno a servizio delle Istituzioni è continuato durante il periodo 1988-1989, in cui è stato Sottosegretario alla Presidenza del Governo De Mita, a beneficio dell’Università, della Ricerca Scientifica e dei giovani.

Riccardo Misasi – ha ricordato la Rettrice Polimeni – è stato tra i padri fondatori dell’Università della Calabria (UNICAL), contribuendo dapprima alla sua creazione negli anni ‘70, e poi dando un contributo all’istituzione delle due Facoltà di Farmacia a Catanzaro e Cosenza negli anni Novanta».

Numerosi i messaggi di saluto, tra cui quello del ministro della Salute Orazio Schillaci e dell’Università e della Ricerca Scientifica Anna Maria Bernini, nonché quello di Gianni Letta, e Paolo Cirino Pomicino, impossibilitati a partecipare all’incontro.

La sottosegretaria all’Interno on. Wanda Ferro, invece, ha seguito in streaming tutto il dibattito e ha voluto far sapere di essere rimasta ammirata dalla qualità degli interventi che hanno tracciato con spessore e grande onestà intellettuale la figura di un vero statista, straordinario faro della politica non solo calabrese ma nazionale.

Nell’incontro si è parlato di Misasi prendendo spunto dal libro curato da Nisticò e pubblicato da Rubbettino, dove figurano, oltre agli scritti di Nisticò, ben 16 contributi che tracciano un ritratto eccellente di uno straordinario protagonista della politica italiana. Molto apprezzato il capitolo a firma dell’on. Gino Pagliuso (che non ha potuto presenziare per motivi di salute), il quale, nel ricordare la sua amicizia con Misasi durata tutta la vita ha rivelato alcuni particolari inediti del caso Moro. Come raccontato dal figlio Maurizio, Misasi si era proposto per uno scambio di persona per riportare in libertà Aldo Moro, dimostrando una generosità veramente unica ed eccezionale.

Particolarmente apprezzato il ricordo fatto dal vicepresidente Gasparri il quale ha sottolineato l’esigenza di superare steccati ideologici quando il confronto appare la via migliore per un dialogo tra parti opposte. Ha considerato e ricordato, pertanto, Misasi come statista e non come esponente della sinistra di base, il cui operato rimane tangibile nel tempo.

Un discorso ripreso con una certa commozione dal presidente Roberto Occhiuto, il quale, nel ricordare i suoi primi passi in politica guardando come esempio Misasi, che allora era ai vertici della politica in Italia, e forte dei suoi insegnamenti, ha indicato nello statista calabrese un modello cui si devono ispirare le nuove generazioni.

Il prof. Cimino ha ripercorso il cammino politico di Misasi, soffermandosi sulla qualità dell’uomo che prevaleva su quella del politico, l’attenzione verso i più deboli, la cura dei rapporti personali della stessa valenza sia nelle sedi istituzionali sia nei piccoli centri dove i suoi comizi incantavano i presenti.

Anche il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli si è soffermato sulle qualità dell’uomo che hanno forgiato egregiamente un grande politico e intellettuale al quale il Paese deve molto.

Di grande suggestione i ricordi del prof. Luigi Frati, dell’on. Tassone, dell’on. Tabacci, dell’on. Gargani. Il dibattito è stato chiuso da una prolusione intensa e apprezzatissima del figlio Maurizio che ha parlato della dialettica della diversità e di quanto abbiano inciso alcune “assenze” durante gli immeritati attacchi subiti dal padre nell’ultimo periodo della sua intensa vita.

Una grande emozione, dunque, per ricordare un figlio illustre della Calabria, la cui memoria rimane solida e dovrà essere oggetto di ulteriori approfondimenti perché indichi una traccia significativa e ricca di spunti per le generazioni future. ν

La riflessione / Franco Cimino: a dicembre il caldo catanzarese aspettando l’inverno

di FRANCO CIMINO – Ma che bella giornata, questa seconda domenica del nuovo anno! Una giornata piena di sole. Con quel cielo terso, su cui le leggere nuovole bianche giocano a far i disegni su quel bel celeste. Come fanno i bambini piccoli sul foglio bianco, traendo dalla fantasia di mente e di cuore quella tenerezza incontaminata che li porta a rappresentare il loro mondo per come lo “sentono”. Anche con gli occhi. Essi rispondono alla solita domanda degli adulti in modo sempre eguale:” questa è la mamma( sempre la prima figura disegnata), questo è il il mio papà (quasi sempre in dimensioni più piccole della mamma), questa è la mia casa e questo il mio paese, la “macchina” di papà”. 

Non mancano mai gli animali, nei disegni dei bambini. Il cane e il gattino, che hanno già, e quelli che desiderano, come il fratellino più volte richiesto ai genitori, con quella domandina “impertinente”, che li fa arrossire addirittura, per diversi motivi, alcuni immaginabili nel non potersi dire. Il cielo di oggi è come quei disegnini. E le nuvole come quei bambini. Il Cielo come la Città. Il dipinto che ne viene fuori è il desiderio di vederla esattamente come i nostri figli desiderano la propria famiglia e l’ambiente che li accoglie. Una bella casetta. Bellissimi fratellini. Papà e mamma che si amano e si rispettano nella reciproca lealtà, in cui la fedeltà é un elemento fondamentale e pedagogico. 

Il paese, piccolo o città grande che sia, bello, ordinato, tranquillo. Anzi, pacifico, perché le nuvole, come il cuore dei bambini, hanno una chiarissima idea della Pace. Quella in cui prima dell’amarsi e del volersi bene, valore imprenscindibile affinché la Pace sia solida e ferma, viene il non litigare. Il non volere il male dell’altro. Il non offendersi reciprocamente, utilizzando insulti e pratiche cattive di relazione. Forse per questo, nelle due tipologie dei disegni, dei bambini e delle nuvole, c’è sempre la chiesetta, con il suo campanile talmente alto da entrare proprio nel “ tetto celeste”. 

La chiesetta per loro è la casa di Gesù. Bambini e nuvole sanno bene ciò che gli adulti hanno dimenticato da quando hanno smesso di essere nuvole e bambini. Ovvero, bambini tra le nuvole. Gesù, figlio primogenito di Dio, è buono e fa le cose buone e giuste. Vuole il bene di tutti. E tutti noi a lui siamo fratelli. Per volere del Padre e per scelta Sua. 

Le nuvole di oggi nel cielo limpido e celeste della nostra Città, il cielo che la copre e la ripara e come un bel tetto la rende più bella, disegnano Catanzaro come la desiderano. Ordinata, unita, composta, educata, colta, giusta, onesta, pulita. Con le case al posto giusto, e per tutti, le strade ampie e aperte in un territorio unito e non spezzato in più parti. E sicuro, come i fiumi che la attraversano, da alluvioni e sommovimenti. Le pinete e le spiagge incontaminate. Il mare pulito come l’acqua per le famiglie tutti i giorni. Parimenti il pane di grano puro, assicurato dal lavoro che per ciascuno sia gratificante e dignitoso, per la giusta paga che lo legittimi anche come valore sociale ed economico. 

Quel disegno nel cielo di oggi, vuole di più. Due sole cose su tutte. La ricchezza e la Pace. La ricchezza che sia benessere per tutti, nessuno escluso, tutti concorrendo a realizzare la ricchezza generale. Anche quella individuale, e di pochi purtroppo, che sarà moralmente giusta sé vorrà riconoscere, restituendola in parte, quella più equa, che essa è frutto soprattutto del lavoro e dell’intelligenza di altri e di tutta la Città che ha favorito la sua formazione e la sua crescita. Una ricchezza ristretta, che separi e non unisca nello spirito di solidarietà, che è anima della Politica, non farà parte della ricchezza complessiva della Città. 

La Pace. Quella alta e ambiziosa. Che raggiunga le vette più alte partendo dal basso. Pace sociale quindi, all’interno, tra i suoi cittadini secondo l’antico valore che li ha sempre visti uniti, solidali, quasi di buon vicinato, della ruga di un tempo lontano. La ruga, preceduta dal vicolo, che poi si allargava e si faceva rione. E, poi, ancora quartiere( quasi un piccolo paese autonomo). Infine Città, attraverso l’unificazione tra i suoi otto, poi divenuti dieci, quartieri, obiettivo però ancora non realizzato. E non per colpa dei quartieri, ma di coloro i quali, avendone la responsabilità e l’autorità, non hanno favorito, anche per i disastri urbanistici e i ripetuti scempi edilizi susseguitesi dagli anni sessanta in poi, che si realizzasse la Città nuova da quella antica. La Pace tra cittadini e la Politica, da tempo assente. E quella tra la Politica e i cittadini insieme, e le istituzioni, le grandi ammalate, a partire dal Comune, della nostra Democrazia. La Pace tra la Città e le altre città della Calabria, il nostro territorio e quello circostante, che rompa finalmente le tante separatezze territoriali, da cui nascono le povertà e, da queste, l’ignoranza e lo stupido campanilismo, che vieppiù li indeboliscono. 

Catanzaro, la Città della Pace, guida amorevole fraterna, che opera per unire in un progetto unitario e complessivo, tutta intera la nostra terra. Una Città che alla pretesa campanilistica e alla volontà divisiva di altri comuni non risponde con lo sterile vittimismo o con la frustrata arroganza, alternando il “ mi avete derubato” con “ vengo prima io” , ma con l’intelligenza del “ venite con me, stiamo insieme perché insieme si cresce, attraverso la valorizzazione del tanto e di peculiare che c’è in ciascuno di noi.” Per questo, le nuvole oggi hanno disegnato il desiderio presente sempre nei disegni dei bambini, quello di avere altri fratellini. I fratelli della nostra Città sono le altre Città. Tutti figli degli stessi unici genitori, la Terra e la Regione. Ai nostri figli, attraverso questa via, insegneremo, come dovrebbe fare la Scuola, che la Pace, quella di cui tutto il mondo ha bisogno, non è affare solo degli Stati e dei governi, ma impegno di tutti noi. La Pace inizia da qui, dalle nostre case. Dalle nostre città. Che bella giornata di sole, questa domenica, che la Chiesa celebra come quella dell’acqua battesimale! L’acqua che rinnova la vita, la purifica e la rafforza dello spirito Cristiano che è nella fonte battesimale. L’acqua, che bagna la nostra nudità, come ci ha detto Francesco stamattina. L’acqua che rigenera la Terra e la rende fertile. Che bella giornata, quella di oggi! La Primavera che ci ha accompagnati per tutto questo dicembre, ci regalato addirittura un Natale con il sole. Un Natale d’estate così io non me lo ricordo. È stato un bene per la nostra terra, anche se dispiace che altrove questo sole o non sia arrivato o rappresenti un danno ecologico, specialmente nell’Italia dei monti alti e dei ghiacciai. Per noi è stato un mese fortunato. E questo potrà giovare alla Politica cittadina. La “ fortuna” quasi sempre è una mano tesa nelle difficoltà. Sia, pertanto, questa lunga primavera, la finestra che s’apre alla vera Primavera catanzarese. Non so contare i guadagni dei commercianti dei quali sempre e non correttamente si parla ogniqualvolta si tenti di creare il salotto buono restituendo il Corso, in una sua parte, ai cittadini tutti, cui esso appartiene come gli altri luoghi, quelli della movida compresi. E tanto per non dimenticare nulla, cinema e teatri, ex cinema Orso compreso. So però contare le persone che sono scese nel Centro storico in occasione di particolari feste nelle appena passate festività natalizie. I numeri veri dicono, quelli che si vedono a occhio nudo o dai balconi vedendo le frotte di catanzaresi passare, dicono che sono stati tantissimi. È accaduto, in simili circostanze e condizioni climatiche, anche in passato. Di più o di meno, chi può dirlo? Ma non è su questi falsi confronti che si misura il cambio di rotta. È, invece, nell’umiltà di capire, e nell’intelligenza di agire conseguentemente, che se la Città chiama i suoi cittadini rispondono. Sempre. 

E se questa volta è sembrato affiorare una certa gioia, non è solo per il fattore, quasi clinico, del dopo Covid che li avrebbe liberati da paure e prigionie. Questa gioia tendente o tendente gioia, è fiducia verso la Città, la sua rinascita, la sua reale possibilità di farcela. E bene. È voglia di esserci, come comunità. E come catanzaresi legati strettamente a una identità che da piccola, ruga e quartiere, vorrà diventare finalmente identità unitaria e unificante. “ Sono di Catanzaro”, è il biglietto di presentazione, la didascalia che i nostri ragazzi dovranno gridare al mondo quando ad esso, e in qualsiasi sua parte, si presenteranno. 

La gente è venuta a incontrarsi. E più bello sarà quando ritornerà normalmente per parlarsi. Sulla via. Nei bar e ristoranti, all’uscita da cinema e teatri, biblioteche e musei. In queste settimane li ha aiutati le belle giornate di sole, che è rimasto limpido anche di sera, con il contributo pure del nostro vento buono. Anche quando, come in queste ultime, ha portato un po’ di freddo. Ma che importa! Basta coprirsi un poco, un cappello, un cappotto, i giubbotti moderni per i ragazzi e per gli eterni giovanotti, una sciarpa, e pronti a camminare tra le vie bellissime di questa nostra bellissima Città, la città dei monti e del mare. Adesso, sù, tutti a lavorare, ché stanno per arrivare le piogge. E questa volta badiamo bene a che non facciano male. Ché spendere soldi per le ricorrenti emergenze, è davvero uno spreco. La prima difesa della Città è quella del territorio. La nostra ricchezza. Insieme al mare, che lo bagna e ai due fiumi, che lo carezzano. (fc)