Monsignor Serafino Parisi è intervenuto all’inaugurazione della mostra “Sub tutela Dei”, in memoria del giudice Rosario Livatino, ucciso nel 1990 e proclamato beato nel 2021, svoltasi ieri nell’atrio del Palazzo di Giustizia di Lamezia Terme. «L’amore, che è compimento della legge, aiuta la norma ad andare oltre se stessa e trovare il suo vero scopo per il bene dell’uomo», è stato uno dei passaggi chiave del vescovo Parisi.
Monsignor Parisi, partendo proprio dalla frase che Livatino disse ai suoi assassini «picciotti che cosa vi ho fatto?» e riprendendo il passo del Vangelo secondo Matteo di non opporsi a chi è malvagio e di porgere l’altra guancia, ha sottolineato che «mettendosi di fronte al volto dell’altro che percuote, senza reagire con il suo stile aggressivo, anzi porgendo l’altra guancia, si da una grande lezione. È come se dicesse: c’è un modo diverso di vivere rispetto al tuo, c’è uno stile alternativo, non violento, e tacitamente te ne sto dando testimonianza. È un modo per rendere giustizia e risolvere uno squilibrio. Col dono della vita, che è l’amore più grande indicato da Gesù, si ristabilisce la giustizia, la norma va al-di-là di se stessa e realizza in pieno il suo senso trovando il suo compimento. Così, con gli occhi negli occhi del proprio assassino, quella tacita testimonianza non è solo il più grosso e il più tragico dei giudizi, ma diventa anche parola che stimola alla conversione».
«La prospettiva all’interno della quale bisogna collocare la visione della vita e anche del lavoro di questo magistrato – ha detto il vescovo – non può che essere quella della martyrìa (testimonianza), idea che si trova all’interno della tradizione biblica che coincide a volte col martirio. Cioè è quella testimonianza, usque ad effusionem sanguinis, che ti porta oltre, fino a donare la vita». Idea di giustizia che non può riguardare solo il credente.
Per monsignor Parisi, infatti, che ha incentrato la sua riflessione sulla «ratio intrinseca che ha condotto il giudice Livatino nel suo percorso credente e da credente per interpretare il suo ruolo/servizio di magistrato» ci sarebbe, appunto, «una ratio di fondo, un nucleo incandescente costitutivo, fondativo, primordiale che richiama ad un certo ordine sia chi crede sia chi non crede”. Anche se “chi crede, addirittura, è più vincolato e si sente più legato a questa ratio fondamentale non tanto e non solo da una dichiarazione di imparzialità, ma anche da un fatto di professione di fede». E sarebbe, appunto, l’amore. (rcz)