di FRANCO CIMINO – La notizia attesa, temuta, dolorosa e angosciante, è arrivata stamattina alle nove e trenta. È arrivata improvvisa come un fulmine che rompe il cielo, un rombo di tuono assordante. Silvio Berlusconi è morto. Tanti sentimenti, e contrastanti, in questo momento si intrecciano in tutto il popolo italiano e nella pubblica opinione mondiale. Si muovono freneticamente tra quanti, specialmente gli italian, lo hanno amato e quanti lo hanno odiato. Molti di più i primi.
Tra quanti lo hanno ammirato e e quanti disprezzato. Assai di più i primi. Tra quanto lo hanno considerato padre amorevole protettivo della Nazione e quanti il nemico più feroce della stessa. In maggioranza i primi, in minoranza i secondi. Tra quanti l’hanno sostenuto, sempre vincendo, taluni pure guadagnando tanto, e quanti l’hanno combattuto, quasi sempre perdendo, non pochi anche più che le elezioni. Questo contrasto resta anche oggi. E non potrebbe essere diversamente, perché il Cavaliere è stato uomo delle divisioni, dei contrasti e delle contraddizioni intrinseche alla sua personalità, poliedrica, vivace, ostinatamente combattiva.
Berlusconi si è trovato sempre bene in questo contrasto, non potendo realizzare una delle sue prime ambizioni, piacere a tutti. Essere accolto da tutti. Amato incondizionatamente da tutti. Uomo di spettacolo, e dello spettacolo innato in lui, ha scritto una sceneggiatura facendosi regista della sua stessa commedia esistenziale. È salito sul palcoscenico della vita e ha recitato il suo ruolo, nel quale vantava una totale supremazia. Berlusconi ha recitato la parte che si è scelto da ragazzino. Se l’è confezionato come un abito su misura. E non si è mai fermato. La commedia da lui scritta potrebbe avere un solo titolo, “L’uomo che vince sempre”. Oppure, “Colui che non perde mai”. Ha iniziato a scuola e all’Università, per poi rappresentarla su quella prima nave da crocerai, dove non si esibiva come cantante, ma esibiva lui stesso, la sua persona. E quella sua bellezza maschile che gli piaceva molto e di cui menava vanto.
Conquistare era il suo motto segreto, le donne sempre. Amava anche la sua bellezza, che forse declamava, come i testi delle canzoni, anche le sue, e delle poesie, anche le sue, forse soltanto al fedele amico di sempre e che anche allora lo accompagnava, Confalonieri. Fedele di nome e di fatto. La sua ambizione era strettamente accompagnata dal suo carattere, sempre allegro, apparentemente spensierato, sempre ottimista e perché no? un po’ menefreghista. Potere e Fantasia, insieme, tanto da potersi fare beffa di un inno sessantottino per la rivoluzione mai arrivata da quelle piazze. E cioè l’a fantasia al potere. Lui, a suo modo e per il suo pensiero “politico”, vi è riuscito. Per questo è sempre stato forte in lui quel doppio amore per la Francia e per Napoli. Lungo questa strada, la sua contraddizione e quel suo contrasto naturale, hanno camminato come un treno veloce. Parigi dell’Impero napoleonico, la sua naturale tendenza alla conquista del potere e la sua aspirazione a essere sempre il migliore.
Il primo, con enorme distacco dal secondo. Napoli è la fantasia. La creatività, ma anche quella sottile voglia di uscire sempre, come se non piovesse, dai temporali. Parigi e Napoli, diversamente concepito per la bella vita. Parigi e Napoli, diversamente romantiche, egualmente poetiche. Parigi e Napoli, ragione e sentimento, storie di dominazioni e di dominati, dominatori e “acclamatori”. Parigi e Napoli, la Reggia e la piazza, il Sovrano e il Popolo. Il gourmet e la pizza. Parigi e Napoli, l’Amore sempre acceso e le donne da conquistare. Col potere sullo sfondo da far venire in soccorso quando quel fascino giovanile si fosse disperso tra le rughe di una vecchiezza in agguato. Al centro, anche geografico si direbbe, quella Milano alla cui forza dirompente Berlusconi ha ispirato tutte le sue azioni e quella scoperta di sé imprenditore che gli è esplosa tra le mani di “costruttore” di cose, di case, di ricchezza, lo strumento più sicuro per raggiungere e mantenere il potere. Milano capitale della modernità e della moda, porta dell’Europa ricca e produttiva, ma anche la via più veloce per raggiungere, in alto e in basso, al Nord e verso il Sud, la fama mondiale e il rispetto dei veri potenti. Dei ricchi veri. Dei politici forti. L’Europa e Roma.
Lungo quest’altro percorso, egli si é fatto imprenditore di un settore sconosciuto e per lungo tempo non riconosciuto se non come la scuola elementare e scadente di un banalissimo “piazzista”, come egli inizialmente fu definito dall’aristocrazia economica settentrionale. Quella governata dagli industriali storici, quei commenda tutto pancia e portafogli e quell’Avvocato, dal corpo bellissimo e dagli abiti firmati quando non indossasse i preziosi cachemire. Il Cavaliere di Arcore (l’unico titolo unitamente a quello di dottore con il quale voleva essere chiamato), inventò l’imprenditore della comunicazione, il potere economico delle televisioni, la forza culturale omologante delle telecomunicazioni e dei mass media, divenendo un modello da imitare, anche nella sua attività successiva, dai molti Trump nel mondo. E, saltando oggi i sospetti radicati e antichi sulla vera origine di quella, fu subito ricchezza crescente.
E potere mass mediatico dominante. Il resto fu la politica, l’anello mancante alla sua ambizione di fondo. Finalmente gli arriva, giungendole, pure con tranquillità, dai fatti e dalla fortuna che gli arrivano in soccorso insieme a quegli imperdonabili errori di una sinistra dotata di quella “geometrica macchina da guerra” di Achille Occhetto, corredata dalla battuta a sfottò del numero due dell’ex Pci, Massimo D’Alema, quando lo definiva “venditore di tappeti” che avrebbe messo presto le pezze al sedere. La politica gli é arrivata tra le sue mani “rapinanti” per dimostrare che qualsiasi altra cosa avesse fatto Silvio di Arcore sarebbe stata un successo. In qualsiasi altra attività, come ha confermato la sua discesa… in campo. Anche quello verde del pallone dove ha conquistato, con il suo Milan tutto quello che c’era da conquistare, tentando negli ultimi anni di ripetersi con il piccolo Monza recuperato dalla Serie C.
La politica era anche il palcoscenico più alto e più esaltante, quello in cui avrebbe potuto rappresentate pienamente tutto di sé. Teatralità e genialità, combattività e lotta per il potere, fatica e vittoria, vanità e idealità, intelligenza e furbizia, desiderio di fare il bene per gli altri e voglia sfrenata di realizzare il bene per sé. Generosità e interesse, anche personale o di classe. Essere avversato per vincere le avversità e i nemici. Ed essere amato per poter contare sulla celebrazione osannante della sua persona. Uscire da Milano e scendere, anche questo era quel proscenio, dall’antica nave, per diventare il più amato dagli italiani e l’italiano più conosciuto e rispettato nel mondo. Se fosse, però, soltanto questo la politica secondo la sua concezione, non gli verrebbe fatta cosa gradita.
E neppure cosa utile alla verità è alla storia recente del Paese. Berlusconi era parte integrante di un sistema e di una classe sociale che lo dominava. È stato detto e in gran parte è vero. Vi apparteneva anche se con spirito di indipendenza. Quello probabilmente favorito anche dalla distanza in cui veniva tenuto dai palazzi dei vecchi potenti e dei vecchi ricchi. Ovvero, per quella sua stretta amicizia con Bettino Craxi, della quale credo sia giunto il momento che ne venga rivelata tutta l’intensità, specialmente in quella parte riferita al lungo tempo della sventura del leader socialista e del suo rifugio tunisino. Berlusconi, contrariamente a quanto hanno stupidamente pensato i suoi nemici storici, era molto intelligente e sebbene non avesse studiato molto, aveva una sua idea della società e dello Stato. Non aveva fatto politica attiva mai. Ciononostante, aveva una chiara cultura politica, che se pur stretta alle cose fondamentali, ha cercato di impiegare nella sua azione di governo. Su questa cultura, inizialmente approssimativa, ha costruito un pensiero politico. Un pensiero magari inizialmente disordinato per quel suo volerlo intrecciare un po’ al liberalismo, un po’ al socialismo, un po’ al popolarismo, un po’ al culto della personalità, ma un pensiero lo aveva.
E siccome era molto ambizioso, intorno a quel pensiero aveva chiamato inizialmente figure molto limpide della cultura liberale Italiana con le quali aveva costruito una strategia per realizzarlo. Non era un venditore di tappeti. No. Ha venduto sogni, il suo soprattutto, quesì sì. Ma non era un semplice procacciatore dei suoi affari e di quello dei suoi amici, anche se di interessi particolari ne ha perseguiti e garantiti molti. Qualcuno gli attribuisce il ruolo di esecutore di disegni di “ ribaltamento” istituzionali orditi da altri e ben poco raccomandabili personaggi. Non credo sia vero, se non l’influenza politica craxiana, che era tutt’altro. Tuttavia, se anche lo si volesse considerare vero, ciò che conta è che il cavaliere di Arcore ha tentato di cambiare( anch’io ero fortemente contrario pur nel mio piccolo) l’architettura statuale.
E non riuscendovi con le riforme strutturali, ha cambiato radicalmente il volto della politica. Lo ha fatto personalizzando, attraverso figure falsamente leaderistiche, tutta la scena istituzionale e l’ambito stesso della costruzione del consenso. Sul suo personale altri, purtroppo mediocri personalità, hanno costruito partiti personali, che hanno copiato il suo anche nella scritta del proprio nome su logo e bandiere, manifesti e denominazione. È iniziata con Berlusconi la stagione, purtroppo non terminata, dei partiti finti, dei congressi finti, degli statuti inapplicati, della adorazione del capipartito. E del culto della personalità anche in quelle formazioni minuscole, le cui sigle servivano soltanto per realizzare finte alleanze in un bipartitismo insano e falso.
Nella stagione cosiddetta di Tangentopoli, in cui sono stati fatti finire i partiti tradizionali, quelli democratici e popolari soprattutto, è finita la vita dei partiti democratici, quelli a cui la Carta Costituzionale ha affidato il prezioso insostituibile compito di raccordo tra il popolo e le istituzioni, attraverso la buona rappresentanza degli interessi sociali plurimi e diversificati nelle culture politiche di riferimento. Da quel momento il cammino progressivo verso la decadenza e la trasformazione della nostra Democrazia nata dalla lotta al fascismo, ha compiuto un percorso lungo e pericoloso, giunto sul punto di un confine che non ammetterà ritorno. La fine del partito in quanto tale ha cancellato la partecipazione della gente alla vita politica, allontanando progressivamente gli elettori dalle urne.
Il monolitismo all’interno delle attuali formazioni partitiche, ha cancellato pure il ruolo dell’opposizione fino a renderla quasi inutile successivamente all’interno delle assemblee elettive e, previa la riduzione del ruolo “politico” del Sindacato, anche nelle piazze. La legge elettorale, una delle più antidemocratiche esistenti nel mondo, con le sue liste bloccate e le candidature decise nelle abitazioni dei capipartito, ha fatto il resto. L’abbattimento dei partiti democratici ha fatto il paio con l’impegno a scoraggiare la ricostituzione della DC e del Psi, ovvero con l’ostinata, fanatica, battaglia contro il pericolo comunista, anche quando il Pci, da tempo non comunista, era finito da tempo e i comunisti non si vedevano più. Neppure nei salotti culturali, per il troppo facile concedersi di moltissimi intellettuali d’origine marxiana alle “ lusinghe” premiali del leader imperante. Per questi e tanti altri fattori che andranno studiati con il massimo dell’onestà, Silvio Berlusconi, resta uno dei più grandi protagonisti della storia italiana.
In particolare, quella compresa tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio. Non sarà stato il più grande statista che l’Italia abbia mai avuto, come egli stesso ripetutamente si è definito, ma uomo di rara genialità e grandezza, questo sì. L’essere stato personalita del contrasto, politico delle luci e delle ombre, come forse di qualche ambiguità e di certo di qualche contraddizione, non ne sminuisce il suo ruolo storico, se mai glielo rafforza. La sua assenza pesa. Non la celebrino come una liberazione i suoi nemici. L’ultima Italia della politica, lunga venticinque anni pieni, si può subito dividere in quella di Berlusconi, quella prima e dopo di lui. E non sia materia solo degli studiosi, storici e polititoligi, ma di quanti credono ancora nella Democrazia e nella Politica quale energia che la ravviva. Si rifletta su questa personalità straordinaria, unica quasi. E ci si preoccupi nell’immediato di un berlusconismo senza Berlusconi e sulle conseguenze che da questo possono determinarsi nel tempo più ravvicinato. Si dirà, e molto, sul personaggio controverso e sulla sua vita privata. Si dirà dei suoi errori e si trascurerà il Berlusconi degli ultimi anni. Quelli della sua malattia.
E delle lunghe degenze in ospedale. È un Berlusconi che guarda all’Europa con occhi nuovi e più profondi, alla società ingiusta e alla necessità di riforme che muovano in direzione opposta, al dovere per la Politica di costruire speranza e cittadinanza diffusa. È questo un Berlusconi diverso, anche lontano dalle posizioni degli stessi alleati che ha contribuito notevolmente a portare ancora una volta al governo. Un leader che vorrebbe parlare una lingua nuova ai popoli che cercano democrazia e progresso. Taluni diranno che non era sincero o che gli era facile esser “ buono” nella fase del passaggio finale. Sarà, ma le sue parole restano. Come la sua coraggiosa e “spettacolare” permanenza sulla scena, fino all’ultimo istante.
L’ultimo respiro vitale. L’ultima parola, lui che la parola amava enormemente, anche per i suoi effetti in qualsivoglia battaglia. L’ultimo respiro vitale. Ha palato e lavorato, dicendo di sé e della sua volontà fino alla fine. É uscito di scena secondo il suo antico copione. Sul palcoscenico. A teatro. Il suo. I suoi. Come siano stati nell’intimità più profonda gli ultimi momenti, se abbia detto e carezzato i suoi figli, se abbia pianto e pregato, invocato Dio e la sua mamma, e, soprattuto se abbia avuto paura, sono le domande che non possiamo farci. Ché una cosa è certa, per tutti, credenti e non, tutti moriamo. E tutti moriamo alla stessa maniera.
E, soli, anche se fossimo circondati da amori e carezze numerosi. Quel momento, duri tanto o poco, è solo un istante di solitudine piena in cui c’è tutto di noi. Oggi possiamo osservare che il Cavaliere è morto come desiderava, con gli occhi aperti sul mondo e combattendo fino alla fine. Di altro non sappiamo. Del dopo non possiamo sapere. Ché il mistero resta. Adesso la parola alla storia! (fc)