di GREGORIO CORIGLIANO – Era una notte che pioveva e che tirava un forte vento, immaginatevi che grande tormento per… un maestro che sta a vegliare. Un maestro? Ma non era un alpino? Eh, sì, ma per parlare del porto di Gioia Tauro gli alpini non c’entrano. C’entra solo la veglia, nel mio caso, del maestro. Un maestro, mio padre, che aveva acquistato dalla sorella Peppina che da settanta anni viveva in America un “cota”di uliveto, in contrada Colline. Meno di mezzo ettaro: si sono fatti un favore reciproco, lei non veniva più a coltivare perché ormai anziana, lui, invece, realizzava il desiderio di aver venti piante di ulivo per fare l’olio per i bisogni di casa.
Venne il figlio della zia, Rino, con la scusa di sposarsi e vendette il terreno allo zio. Da quel giorno un andirivieni dalle colline per la coltivazione, ma anche per raccogliere i fichi che, in quella terra, abbondavano, sia bianchi che neri, fioroni e catalani. Una delizia. Come fu, come non fu, mio pare realizzò che accanto agli ulivi c’era la possibilità di impiantare le clementine. Detto fatto, per modo di dire. Si immagini quanti sacrifici, quanto lavoro, quanti operai. Insomma, in qualche anno l’uliveto delle colline si trasformò in clementineto, grazie alla possibilità di far arrivare l’acqua per l’irrigazione che, da quelle parti, non era scarsa. Pozzi, canalette, collettori e sudate: una faticaccia. A gusto, come si dice, non c’è prezzo.
Quattro, cinque anni di dedica totale – solo la scuola veniva prima in assoluto- ed ecco che dalle olive si è passati ai mandarini clementini, come un po’ in tutta la zona che, poi, era la famosa Lamia, vicina alla cota settima di Pascalinu Naso. Scuola e colline, con la raccolta delle olive, comunque rimaste. Che pensi nel frattempo? Che nel giro di qualche annetto ci sarebbe stato il frutto dei sacrifici. Non pensi che, in quattro e quattr’otto, il governo decide, per rispondere ai bisogni del Sud, così si sperava, di fare il centro siderurgico. Ed in tutta la Lamia, cadde la spada degli espropri, anche di quelle Colline che mio padre – non solo lui, ovvio- aveva amorevolmente trasformato. In men che non si dica, si arriva alla notte prima delle ruspe. Terribile nottata per mio padre che, da giorni non dormiva, terribile nottata anche per noi familiari che condividevamo le paturnie di mio padre.
Arriviamo alle prime luci dell’alba, due ruspe erano sul cancello, come se aspettassero il permesso per entrare. Era solo una forma di rispetto per quel signore che apriva per l’ultima volta il cancello del giardino … dei sogni perduti. In men che non si dica, quelle ruspe senza cuore delle piante verdi e rigogliose fecero un boccone. Mio padre piangeva ed io accanto a lui. Tutti i sacrifici, poi relativamente compensati, volati, anzi divorati dalla bocca delle ruspe.
Da giardino sorridente a cimitero fu breve il passo. Andammo via, tristi e sconsolati. Il centro siderurgico non si fece, l’ing. Petrella finì il suo andirivieni tra Reggio, il dottor Montagnese e Gioia Tauro, la centrale a carbone –doppia fortuna- men che meno. Rimase il porto che era comunque al servizio degli impianti che non sono stati realizzati. Un porto che, nel divenire di anni ed anni, è divenuto per la caparbietà di cittadini, amministratori, lavoratori, maestranze e società concessionarie, un punto di riferimento concreto in tutto il Mediterraneo ed in Europa. Che dà lavoro a più di quattro mila persone oltre all’indotto. Dopo le alterne fortune e le incredibili vicende susseguite alla posa della prima pietra, c’ero anche io come corrispondente della Gazzetta, è diventato un realtà palpitante.
Ed ora? Cosa si vorrebbe? Farlo chiudere per direttive Ue che, anche se giuste, possono essere adeguate alle necessità ed evitare così il deserto ed il cimitero della Piana. Il presidente dell’autorità di sistema portuale, ammiraglio Andrea Agostinelli, la soluzione la ha individuata e suggerita a Regione e Governo, al di là di quanto può sostenere qualche “voce clamans in deserto” che ha già riscosso concretamente senza alcun merito specifico, se non quello della devozione al capitano di… fregata. Tutti, nessuno escluso, dobbiamo agire coi fatti per la difesa del porto che chiamo di Gioia Tauro-San Ferdinando. Il ricordo di quel “paese felice”, di quelle terre – per ricordare il romanzo di Carmine Abate- non può avere un altro colpo in testa. Questo sì che sarebbe mortale, scrivono anche a chiare lettere i sostenitori della struttura che è vanto, oggi, dell’intera regione e dell’intero Paese. Forza Agostinelli, siamo con Lei. (gc)