di RAFFAELE MALITO – Con l’arrivo del nuovo anno mi ha sorpreso la rivelazione che, qualche tempo fa, quando ero ancora iscritto al Pd, sono stato seriamente malato. Una malattia grave, quella che aveva colpito il Pd, al tempo di Matteo Renzi.
Non me ne ero accorto, non avevo avvertito i sintomi: il 41% alle elezioni europee del 2014, l’approvazione, dopo un’intelligente mediazione politica, della legge sulle unioni civili e, ancora, meno tasse sul lavoro e sull’impresa con Industria 4.0, un provvedimento che ancora c’è, ed è stato rifinanziato, il primo governo con parità di genere, un milione di nuovi occupati, 17 Regioni su 20, governate. Non mi pare che tutto questo, per un partito, sia da diagnosticare come sintomo di grave malattia o di deriva disastrosa.
L’Eterno che ritorna, Massimo D’Alema, ha detto sì, mentre brindava al nuovo anno: la fase renziana del Pd- ha esclamato- è stata una malattia che, fortunatamente, è guarita da sola. Già il ricorso all’espressione della malattia come diagnosi di scelte, opinioni, progetti, e conseguenti ruoli leaderistici non condivisi, fa venire i brividi: sono evidenti categorie mentali e culturali ineliminabili dal Dna di comunista di D’Alema.
La diversità, o dissidenza, di opinioni e scelte politiche fuori dai dogmi indiscutibili di chi possiede la verità e il dominio della corretta via, erano, per i bolschevichi spiegabili solo come malattia. Chi sbagliava o proponeva progetti diversi, non importa se vincenti- esattamente come Renzi- era affetto da grave malattia, quella grave, da inquadrare nella categoria psichiatrica uilizzata per mistificare i motivi della lotta politica. La delicatezza, del resto, con la quale ha fatto fuori i suoi avversari è storia: lo sanno Occhetto, Veltroni, Cofferati nel sindacato, Prodi, al Governo. Rimossa la malattia, dunque, niente più impedisce che gli exDs, fondatori del periclitante Art. 1, possano tornare a casa per imprimere al Pd una svolta verso una sinistra dura e pura, la stessa che non riesce a vincere in nessun paese europeo, uno dei quali, simbolico per ottusità di visione, la Gran Bretagna di Corbyin, allontanato a viva forza dalla guida del partito laburista. Si è aggiunto a dar man forte, il “non vincente” Bersani che ricordiamo, vergognandocene, umiliato e deriso, in streaming, dai 5 stelle, mentre, nel 2013, chiede alleanza per il governo, dopo” la non vittoria”, si dice pronto a tenere viva l’idea di una grande forza plurale della sinistra. Esattamente ciò che non è riuscito a fare quando era segretario del Pd.
Adesso, si può immaginare che il plurale sia da intendersi come il “campetto” largo con protagonisti i 5stelle Conte-Casalino, Bonafede, Toninelli, Morra, Raggi, Taverna. Ma la svolta vera sarà data dall’Eterno che ritorna: perché, per D’Alema, il Pd è tale se è quel che pensa D’Alema. Una qualche preoccupazione la deve aver fatta scattare, se gli attuali dirigenti, ex-renziani e non, hanno risposto stizziti e, in alcuni casi, con durezza all’uscita del superamento del male renziano.
D’Alema è risultato fragoroso e preoccupante per chi, come Il segretario Enrico Letta, non nasconde il sostegno a Draghi, quando, ha lanciato una freccia avvelenata, oltre che a Renzi, al presidente del Consiglio. “Che si autoelegga capo dello Stato – ha detto D’Alema – e nomini un alto funzionario del Tesoro al suo posto, mi sembra inadeguato per un grande Paese. Non contento, ha bollato il governo guidato da Draghi come una sospensione della democrazia, subordinato alla grande finanza internazionale. Preoccupazioni che non mostra di avere quando esalta i grandi traguardi raggiunti da quel grande paese democratico che è la Cina. Illuminanti le sue considerazioni sullo “straordinario salto verso la modernità e il progresso compiuto dalla Cina che ha fatto uscire almeno 800 milioni di persone dalla povertà”.
Di qui l’esaltazione: “un risultato straordinario. Mai nessun paese, nella storia dell’umanità, è riuscito a realizzare una così immensa trasformazione della vita delle persone”. Nessuno cenno a come questi ipotizzati risultati siano stati raggiunti: lo spaventoso inquinamento ambientale, un mercato del lavoro con aziende che operano in regime di semi-schiavitù, con lavoratori senza diritti, senza sindacato, senza alcuna possibilità di protesta, con prodotti di livello spazzatura che invadono i nostri mercati e con l’arte del plagio che crea seri problemi di concorrenza sleale per le eccellenze occidentali. E per quanto riguarda i principi e i valori della libertà e della democrazia, senza riandare al passato del massacro degli studenti di piazza Tienammen, il regime del partito-Stato senza libere istituzioni democratiche?
Nulla. D’Alema pensa che uno stomaco pieno e una testa vuota siano la stessa cosa. Su questi grandi temi aveva parlato, di recente, Draghi a proposito degli obiettivi dell’alleanza atlantica:”affrontare- aveva detto-tutti coloro che non condividono i nostri stessi valori e il nostro attaccamento all’ordine internazionale basato sulle regole e che sono una minaccia per le nostre democrazie”. Draghi aveva anche preannunciato di metter mano al memorandum con cui l’Italia di Conte e dei 5Stelle avevano aperto fortissimamente a un’intesa con il regime di Xi Jinping. Altro che un Draghi – secondo D’Alema – subordinato alla finanza internazionale e di insufficiente affidabilità democratica.
Il prestigio e il rispetto, mai tanto riconosciuti e declamati, che l’Italia ha guadagnato, in questa fase della sua storia politica, a livello internazionale oltre che in Europa, per D’Alema non conta nulla. Draghi, nella sua conferenza stampa di fine d’anno, si era, semplicemente, e, con grande dignità e finezza di spirito, dichiarato a disposizione delle istituzioni.
In realtà, questo rientro a piedi uniti di D’Alema è il sintomo di una malattia tutta italiana per cui i protagonisti, di destra o di sinistra, sono sempre gli stessi, sia se hanno fatto grandi cose, sia se sono stati cacciati per scelte e atteggiamenti sbagliati: questo riguarda D’Alema, ma anche Berlusconi, Prodi, Renzi, anche se ancora giovane, e molti altri. Pochi, che hanno perso, hanno lasciato il campo: Veltroni, Rutelli, Alfano, Fini, per ricordarne alcuni. Altrove, in Europa e nel mondo, se perdi te ne vai.
E l’elenco sarebbe lungo. Non si può prevedere – si può solo ipotizzare il rischio – se il ritorno degli ex-Ds imprimerà al Pd una svolta netta a sinistra lasciando decadere, a solo tentativo, la scelta di un orizzonte riformista e gradualista, smarrendo, così, la costruzione di quel campo che, per essere largo deve essere davvero inclusivo, senza veti e pregiudizi, basato sui principi dell’equità sociale, della non discriminazione, della sostenibilità ambientale, della difesa della nostra democrazia costituzionale e, perché no?, di un internazionalismo solidale. (rm)