Realtà sociali preoccupate per «un’altra stagione di sfruttamento» a Rosarno. A sottoscrivere un documento di preoccupazione sono Cric – Centro Regionale d’Intervento per la Cooperazione, Medici per i Diritti Umani (Medu), Recosol – Rete delle comunità solidali, Nuvola Rossa Aps, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università della Calabria e Arci Samarcanda Reggio Calabria.
«Le proteste degli agricoltori delle ultime settimane hanno agitato anche il territorio della Piana di Gioia Tauro e della città metropolitana di Reggio Calabria, dove le comunità, le aziende e i lavoratori della terra hanno sofferto, nel corso degli anni, gli effetti di politiche ingiuste e di interventi inefficaci e inefficienti, che sprecano risorse, alimentano divisioni e tensioni, ma senza rispondere ai bisogni in modo sostenibile. Per questo oggi le riforme per la transizione ecologica appaiono a molti insostenibili – scrivono nella nota – Al contempo, nei giorni scorsi, a Rosarno è stato inaugurato il Villaggio della Solidarietà (16 unità abitative per 96 persone), dove sono stati trasferiti 24 braccianti stranieri dal campo container, ridotto a baraccopoli, di contrada Testa dell’Acqua. Tuttavia, restano ancora inutilizzati i 36 alloggi in contrada Serricella, come anche il borgo Solidale di Taurianova, mentre si discute della costruzione di una nuova struttura, con un investimento di 12 milioni di euro. A oltre dieci anni dalla rivolta di Rosarno, l’ingente spesa sostenuta dalle istituzioni per rispondere ai bisogni abitativi dei lavoratori stagionali costretti a vivere in insediamenti informali non ha prodotto soluzioni sostenibili ed ha anzi alimentato situazioni di degrado, ghettizzazione e divisione a livello sociale. Tra il 2011 e il 2019 i campi container (due) e le tendopoli (tre) installati hanno avuto sempre la stessa parabola: prima si mette in piedi e istituzionalizza un campo, poi, esauriti i fondi necessari per la gestione e la manutenzione, si procede allo sgombero e alla spesa per una nuova struttura destinata, a sua volta, a tramutarsi in un nuovo insediamento informale col passare del tempo. L’ultima tendopoli ministeriale, allestita a San Ferdinando nel 2019, si è convertita come in passato in una baraccopoli dove oggi circa 400 lavoratori stranieri vivono senza elettricità e acqua corrente, in condizioni di marginalità spaziale e sociale».
Continua la nota: «Chi vive negli insediamenti informali incontra ostacoli nell’esercizio di diritti fondamentali come l’iscrizione anagrafica, indispensabile per l’accesso al Servizio Sanitario Nazionale e il rinnovo dei documenti di soggiorno, oltre a ledere il benessere psicofisico e gli equilibri di convivenza con la comunità locale. Il modello alloggiativo di tipo emergenziale promosso in questi anni, oltre a risultare dispendioso e inefficace, mina anche le opportunità di rigenerazione urbana e sociale e la sostenibilità del sistema agroalimentare locale. Le aziende agricole locali, alla ricerca di strategie di risposta alla crisi e alle nuove richieste di consumatori critici, evidenziano la necessità di manodopera regolare, stabile, formata e tutelata nei propri diritti, ma le attuali politiche non rispondono a queste esigenze. Tuttavia, nella Piana di Gioia Tauro, non mancano esperienze di accoglienza e inserimento abitativo a bassa soglia e di tipo diffuso nei centri urbani, in grado di garantire ai lavoratori condizioni dignitose a costi contenuti. Nella località di Drosi, una frazione del Comune di Rizziconi, nel corso di oltre dieci anni, grazie all’azione di intermediazione e garanzia della Caritas locale, è stato possibile dare vita ad un’esperienza di abitare diffuso che ha permesso l’inserimento abitativo in autonomia di più di 200 lavoratori, con evidente beneficio per un territorio ormai spopolato. L’ostello Dambe so (casa della dignità), aperto a San Ferdinando dal progetto Mediterranean Hope della Federazione Chiese Evangeliche In Italia, accoglie oggi 40 lavoratori, sostenendosi attraverso donazioni di chiese protestanti e il contributo economico dei lavoratori che vi risiedono in modo stagionale o stabile e la devoluzione, daparte della cooperativa Mani e Terra, di una quota sociale derivante dalle vendite di arance a gruppi di consumo critico in Italia e in Germania».
«Questa forma innovativa di responsabilità sociale d’impresa – conclude il comunicato congiunto – sorretta da filiere alternative, può essere amplificata attraverso il coinvolgimento di più aziende del comparto, ma anche della grande distribuzione organizzata, responsabile in ultima istanza degli squilibri all’interno della filiera. Un meccanismo di contrattazione sociale di filiera che solleciti il pagamento di un centesimo su ogni chilo di agrumi, in aggiunta al prezzo sorgente corrisposto in modo giusto e trasparente ai produttori, può rappresentare un’importante leva con cui finanziare il miglioramento delle condizioni di tutti i lavoratori della Piana, sostenendo anche l’inclusione abitativa, i trasporti, la formazione, a beneficio dell’intera popolazione locale. L’impegno in questa direzione, anche da parte delle istituzioni, rappresenterebbe un segnale di svolta importante per produttori, lavoratori e per il territorio tutto, andando oltre approcci particolaristici o separatisti, inutilmente dispendiosi e del tutto inefficaci sul lungo termine. La transizione ecologica in agricoltura deve essere giusta, deve cioè garantire il reddito e le condizioni di lavoro degli attori della filiera, condizioni di benessere per la comunità locale, un cibo di qualità per tutti. Pertanto, insieme al rafforzamento delle azioni di educazione antirazzista, formazione e informazione, dei servizi legali e sanitari, anche supportati dalla mediazione culturale, chiediamo con forza un impegno collettivo per una trasformazione dei rapporti produttivi e commerciali orientata alla giustizia sociale». (rrc)