di SANTO STRATI – Come potrà mai rimettersi in carreggiata la sanità Calabria se permane il gigantesco debito che undici anni di commissariamento hanno contribuito a far crescere ulteriormente? La richiesta di azzeramento avanzata, nei giorni scorsi, dal presidente ff della Regione Nino Spirlì al ministro della Salute Speranza si poggia sulla constatazione che se non si riparte da zero sarà impossibile poter prevedere nuovi investimenti, acquisti o sostituzione di macchinari ormai obsoleti, nuove assunzioni, nuovi servizi, al fine di dare dignità al diritto alla salute dei calabresi.
Lo abbiamo scritto molte volte, da quando venne il primo scellerato decreto Calabria nel 2019 che portava la firma della ministra Giulia Grillo, e lo abbiamo ribadito anche alla vigilia dell’approvazione del nuovo – non meno infausto per la Calabria – decreto Sanità varato da Roberto Speranza. Il problema è molto semplice, nessun supercommissario (e il prefetto Guido Longo avrebbe tutti i numeri per fare cose egregie) potrà mai risolvere il problema sanità se deve far fronte a una valanga di debiti arretrati: come può disporre nuove iniziative, provvedere alle esigenze più elementari, se il debito non arretra e ingoia gran parte delle risorse disponibili.
La motivazione – o giustificazione, se volete – dell’azzeramento del debito è sotto gli occhi di tutti: il debito è stato provocato – anche – dal commissariamento della sanità calabrese, quindi c’è stata un’inadempienza dello Stato (che ha nominato via via i vari commissari che si sono succeduti prima di Longo) e lo Stato deve porre rimedio ai danni da esso stesso in qualche modo provocati o, almeno non evitati. Quindi ci dev’essere una volontà politica di riconoscere l’inadempienza di Stato nei confronti del diritto alla salute dei calabresi e va immaginato un “risarcimento” che può configurarsi nell’abbattimento del debito pregresso. È evidente che in tale ipotesi (in Calabria la madre dei pessimisti è sempre incinta…) la nuova sanità calabrese non avrebbe più alcuna giustificazione per non funzionare adeguatamente. Perché, è bene ricordarlo, in Calabria ci sono tante realtà di eccellenza in campo medico-scientifico e i calabresi potrebbero tranquillamente smettere di praticare il turismo sanitario anche per interventi di modesta importanza. E, invece, come ci ha riferito più di un medico, spesso vanno fuori a farsi operare anche per un’unghia incarnita, non perché mancano gli specialisti, ma per l’inadeguatezza delle strutture. Sapete quanto costa il “turismo sanitario” alla Regione Calabria che paga gli interventi alle Asl del Centro e Nord Italia? 3oo milioni l’anno, ai quali sarebbe opportuno aggiungere una cifra analoga che spendono direttamente i calabresi per viaggi, soggiorno e assistenza familiare, etc. In dieci anni sono 3 miliardi andati in fumo: cosa sarebbe stata la sanità calabrese con questi soldi andati, invece, a rimpinguare le casse delle già opulente regioni del Nord (dove, per colmo d’ironia, l‘accento calabrese supera abbondantemente quello locale).
Il deputato ex grillino Francesco Sapia ha chiesto al ministro Speranza un confronto parlamentare sulla ripartizione delle risorse del Fondo sanitario nazionale. Secondo Sapia «il Servizio sanitario della Calabria ogni anno riceve dallo Stato trasferimenti inferiori di almeno 150 milioni rispetto al proprio fabbisogno di cure. Se cambiassimo gli attuali criteri di ripartizione rapportandoli al dato dei malati cronici, in breve tempo la Calabria uscirebbe dal commissariamento e dal Piano di rientro». «Ciò permetterebbe alla Regione Calabria – ha detto il deputato di Alternativa c’è – di gestire in proprio la sanità, di cambiare abitudini, di investire in nuove assunzioni, prevenzione, tecnologia, specialistica e assistenza territoriale. Così il Servizio sanitario calabrese cambierebbe volto e garantirebbe pienamente la tutela della salute; il che oggi è impossibile perché, in quanto a risorse, la coperta è troppo corta».
Spirlì ha detto di aver chiesto al Governo «l’azzeramento dei debiti dell’Asp di Reggio Calabria e di una parte di quelli dell’intero comparto sanitario regionale. È, questa, l’unica condizione per poter avviare una nuova politica sanitaria in Calabria. Senza questo atto, non serviranno a nulla nemmeno altri cento commissari ad acta»., interessando direttamente il ministro Speranza, il commissario per l’emergenza Covid, generale Francesco Paolo Figliuolo, i ministri dell’Interno e degli Affari regionali, Luciana Lamorgese e Maria Stella Gelmini, i sottosegretari Dalila Nesci, Francesco Sasso, Claudio Durigon e Nicola Molteni.
Sulla stessa linea appare il sen. Ernesto Magorno (Italia Viva) che ha preso atto «con soddisfazione della richiesta avanzata dal presidente facente funzioni della Regione ai vertici del Governo dell’azzeramento del debito sanitario in Calabria. Da tempo mi batto su questo fronte, testimoniato in ultimo dal mio voto contrario al decreto Calabria, perché sono profondamente convinto del fatto che qualunque pianificazione nell’ambito della sanità calabrese non possa prescindere da un ripiano finanziario. Undici anni di commissariamento hanno, d’altro canto, dimostrato che il debito enorme accumulato nel tempo non possa essere ricostruito con esattezza e quindi rappresenta uno scoglio insormontabile, un macigno che affossa la necessaria e urgente opera di ricostruzione del sistema sanitario regionale, piegato non alle logiche finanziarie ma alla domanda di salute che arriva dalla comunità calabrese.
«Siamo in una fase cruciale – ha dichiarato Magorno –, acutizzata dall’emergenza sanitaria, ecco perché auspico e mi spenderò affinché – come avvenuto per l’attraversamento veloce dello Stretto – anche su questo tema prenda forma un gruppo interforze all’interno del Parlamento, come luogo istituzionale nel quale lavorare insieme a soluzioni rapide ed efficaci per la sanità calabrese. Soltanto uno sforzo congiunto e partecipato, un remare tutti verso la stessa direzione, potrà fornire alla Calabria gli strumenti necessari per garantire a tutti i cittadini livelli di assistenza adeguati e omogenei rispetto al resto del Paese».
Qualche giorno fa, il sen. Marco Siclari, capogruppo di Forza Italia in Commissione Sanità al Senato, aveva fatto presente al ministro Speranza le «notevoli e gravissime differenze fra i 20 servizi sanitari regionali che mostrano programmazioni, organizzazioni e gestioni profondamente diverse che vanno a discapito dei cittadini, delle famiglie e dell’economia del Paese: sprechiamo risorse senza garantire a tutti gli italiani il diritto alla salute». Secondo Siclari, «È necessario che lo Stato ripiani il debito sanitario delle regioni in piano di rientro a condizione che le stesse regioni investano nel miglioramento delle strutture sanitarie, ospedali e poliambulatori, sia in termini di strumenti efficaci, dotazioni tecnologiche e macchinari che di personale, e che programmino e organizzino la medicina territoriale e quella di prossimità. Dobbiamo quindi ricentralizzare il SSN, evitando e superando le distorsioni di 20 sistemi periferici che hanno mostrato il fallimento del regionalismo sanitario. Da ultimo e non per importanza occorre ancorare il Fondo Sanitario Nazionale alla percentuale minima dell’11% nel rapporto con il PIL al di sotto del quale la spesa sanitaria non può essere decurtata (la media europea è il 9.5%). Oggi è all’8,8 %, in Francia e Germania il rapporto è circa 2 punti in più. Solo in questo modo potremmo eliminare il l’imbuto formativo per avere più medici specialisti, completare le strutture ospedaliere incomplete, rendere funzionanti gli strumenti ed i macchinari per la diagnosi, le terapie e le cure, potenziare il pronto intervento del 118, per rendere la salute un diritto di ogni cittadino italiano da Nord a Sud».
Gli elementi di valutazione, che rimarcano il divario tra Nord e Sud fortissimo anche nella sanità regionale, ci sono tutti: il Governo dovrà prendere una decisione chiara e forte, per interrompere una situazione non più tollerabile, ancor più di fronte alla pandemia in corso. Ma ci vuole un impegno comune, trasversale e non difficile da realizzare. (s)