SE PURE LE TASSE FOSSERO DIFFERENZIATE
PER IL SUD CI SAREBBE MAGGIORE EQUITÀ

di PINO APRILE – E se la tassazione fosse inversamente proporzionale alla quantità e qualità di servizi che si riceve dallo Stato? In questo modo, chi viene privato di diritti ad altri riconosciuti, avrebbe, come minimo, più risorse per procurarsi privatamente quanto lo Stato promette a tutti ma dà ad alcuni. Un tale correttivo indurrebbe a gestire le risorse pubbliche con più equità e frenerebbe la desertificazione del Sud e delle altre aree marginali, per la fuga di chi è messo in condizione di cercar altrove quello che gli viene negato soltanto a causa della zona di residenza.

E l’assurdo è che chi non ha la strada, l’ospedale, la scuola, il treno, l’aeroporto debba con le sue tasse e nella stessa misura degli altri, contribuire alla crescita dei benefici pubblici in favore di chi ne è già dotato.

Così, di fatto, si spostano risorse verso chi più ha, da parte di chi meno ha, costretto a finanziare un divario che può solo continuare a crescere e a pesare due volte su chi deve pagare per dare ad alcuni, a spese di tutti, i servizi che lui potrà avere solo a spese proprie. E se non può permetterselo, deve farne a meno: più di due milioni di italiani, per dirne una, hanno smesso di curarsi e l’attesa media di vita, al Sud, è crollata. Detto così, sembra il mondo freddo delle statistiche, in altre parole: è lo stesso diritto alla vita che ne risulta intaccato, indebolito, ridotto.

Un tale iniquo sistema riproduce, all’interno di uno stesso Paese, il rapporto coloniale fra chi sfrutta e chi è derubato di quello che è suo o gli spetta. E magari, ce la raccontano pure al contrario: sapete la storiella del Mezzogiorno popolato di ladri e fannulloni che drena ricchezza prodotta al Nord? Peccato la storiella non spieghi come mai il ladro sia sempre più povero e il derubato sempre più ricco (soprattutto di infrastrutture, allocazione di aziende pubbliche il cui fatturato appare come frutto della laboriosità nordica, eccetera).

Tacendo che mentre i meridionali versano nelle casse statali un quarto delle entrate annue, la spesa pubblica al Sud è inferiore, anche di sei punti percentuali. Una differenza che viene spesa altrove. Quindi: chi finanzia chi? E questo vale non soltanto per il Mezzogiorno, ma pure per le aree interne (si pensi alla Dorsale appenninica) e marginali.In totale è circa il 70 per cento del territorio nazionale, con oltre metà della popolazione.

Così, mentre nelle zone del Paese “di ricezione” si è ormai a investimenti pubblici a perdere, pur di far circolare soldi (e mazzette, visti gli scandali), persino per infrastrutture inutili o dannose, quali certe autostrade che per aver un po’ di traffico premiano gli automobilisti, nelle zone “di estrazione” delle risorse, interi paesi sono svuotati, abbandonati, per assenza di servizi o perché l’unica strada di accesso è franata o impraticabile da anni e non ci sono soldi per riattarla.

Il divario fra le zone del troppo che stroppia e del troppo poco è tale che la tassazione di tutti allo stesso modo si configura come un furto a beneficio di pochi e un rapporto coloniale.

Consideriamo tre italiani che abbiano lo stesso reddito, quindi paghino le stesse tasse, ma vivano uno a Matera, uno a Macerata, uno a Milano. Quello di Matera non ha le autostrade e le ferrovie dello Stato e gli altri sì (pagate da tutti); quelli di Matera e Macerata non hanno l’aeroporto (anzi: gli aeroporti) che l’altro ha, né la stessa disponibilità di ospedali, scuole e università. E non serve continuare l’elenco.

Questo si traduce in un aumento del reddito del milanese, che può usufruire di servizi ottimi a costi moderati o quasi nulli, in un taglio del reddito per il maceratese e una vera e propria mazzata per il materano, considerate le spese che deve sostenere per curarsi, spostarsi, studiare, lavorare.

E ancora peggio stanno gli italiani che vivono nelle zone più isolate e meno raggiungibili e, per questo, desertificate, con una colossale perdita di ricchezza per l’intero Paese (basterebbe anche solo considerare il crollo di valore di case ed edifici bellissimi, storici, architettonicamente pregiati, ma lasciati andare in malora, perché nessuno li vuole più, essendo troppo disagevole e costoso vivere dove non ci sono servizi).

Sulla carta, pur se hanno gli stessi diritti e lo stesso reddito, di fatto, alcuni italiani pagano perché altri abbiano quanto a loro è negato. La parità di reddito, quindi, è solo apparente, ed è ingiusto che paghino le stesse tasse. Che andrebbero calibrate, invece, sull’effettivo godimento dei diritti per i quali quelle tasse vengono richieste. Equità vorrebbe che si definisse un metro per ridurle in proporzione alla ridotta possibilità di accedere a diritti riconosciuti e non goduti. In tal modo, l’apparente parità di reddito diventerebbe un po’ più vicina al vero.

Non hai il treno? Le tue tasse calano di tot. Non hai un ospedale raggiungibile nel tempo ritenuto non superabile dai Lea, livelli essenziali dell’assistenza? Giù di un altro tot. Non hai lo scuolabus o proprio la scuola a distanza accettabile? Ancora meno un tot. C’è possibilità che, togli questo, togli quello, si giunga a pagare tasse zero.

Per le aree peggio messe, estremamente marginali, si potrebbe scendere a “tassazione negativa”: vuol dire che invece di pagare allo Stato per servizi che non si hanno, si riceve dallo Stato una equa integrazione di reddito, per procurarseli diversamente e porsi alla pari con gli altri italiani. Proposte di questo genere già vengono sostenute (per esempio dall’ex dirigente dell’Agenzia delle entrate che si è pre-pensionato per divenire una sorta di difensore civico dei contribuenti, Luciano Dissegna); e, in alcuni casi, ci sono forme di de-tassazione di fatto in paesini in via di estinzione, in cui si offrono incentivi in denaro, alloggi e altri incentivi a giovani coppie disposte a trasferirvisi.

La riprogrammazione delle tasse sulla quantità e qualità dei servizi (diritti) di cui si può davvero godere, da una parte porrebbe alla pari i contribuenti, dall’altra renderebbe conveniente tornare a vivere in borghi belli e scomodi. E se poi arrivassero lo scuolabus, l’ospedale, il treno e le tue tasse salissero in proporzione, di fatto non ci sarebbe una variazione effettiva di reddito.

Ma la tassazione differenziata secondo i diritti effettivamente goduti, se pur assolvesse al dovere di equità da parte dello Stato verso i cittadini, ovunque risiedano, non comporterebbe costi ulteriori per le casse pubbliche? Non è detto: intanto, perché il patrimonio nazionale verrebbe incrementato dalla crescita di valore edilizio di abitati non più in abbandono, ma ben tenuti, appetibili; poi, il moltiplicarsi di economie locali attiverebbe una rete mercantile periferica oggi in estinzione; infine, il territorio reso fragile e improduttivo dalla desertificazione tornerebbe curato e a rendere. E sono solo alcuni dei vantaggi più immediati ed evidenti del recupero di interesse per un modo di abitare tipico del mondo mediterraneo e del nostro Paese in particolare.

Un tale provvedimento sarebbe l’esatto contrario dell’Autonomia differenziata con cui si mira a incrementare la spesa pubblica dove già è massima, a danno delle aree in cui è quasi assente. Mentre l’Autonomia differenziata spacca l’Italia, la tassazione differenziata secondo i diritti ne rimetterebbe insieme i pezzi e la rinsalderebbe. In più mostrerebbe la relazione diretta fra le tasse e la loro ragione di esistere: volendosi illudere, questo potrebbe ridurne anche l’evasione. (pa)

L’OPINIONE / Filippo Mancuso: Autonomia opportunità purché si diano a Sud rassicurazioni richieste

di FILIPPO MANCUSO – Avverto il dovere di ringraziare tutti voi, sia per la qualità degli interventi che per il senso di responsabilità con cui quest’Aula si sta misurando con una questione di grande importanza, ossia l’autonomia differenziata.

Quest’Aula si è sempre approcciata alla riforma, anche nella discussione tenuta a marzo 2023, con una chiara visione unitaria e il dovere imprescindibile di tutela degli interessi della Calabria e del Sud.

La mia opinione è che dell’autonomia differenziata è condivisibile l’obiettivo di rafforzare le prerogative delle autonomie, ampliandone i poteri e le competenze, per ridare nuovo protagonismo alle Regioni che debbono assumersi il compito di governare efficientemente la spesa pubblica.

Così come sono condivisibili il superamento dell’iniquo metodo della ‘spesa storica’ che penalizza il Mezzogiorno, l’individuazione dei ‘Lep’e il loro contestuale finanziamento, nonché gli altri accorgimenti per garantire ai cittadini, ovunque risiedano, pari diritti civili e sociali e analoghi servizi.

In questo senso, la riforma può essere un’opportunità per il Paese e per il Sud, che registra da decenni gravi divari di cittadinanza col resto del Paese.

Un’opportunità, purché si diano al Mezzogiorno le rassicurazioni richieste, inclusa l’attenzione da riservare alle materie non rientranti nei Lep che, se fossero devolute alle Regioni prim’ancora che la riforma sia attuata nella sua complessità, penalizzerebbero le Regioni meridionali.

Avverto anch’io, come tutti voi, la responsabilità che tocca assumersi rispetto a una scelta che deve consolidare l’unità nazionale.

Da Presidente del Consiglio ho sempre auspicato, e mi pare che così sia stato, che il dibattito puntasse al confronto nel merito delle questioni.

Ognuno di noi ha legami politici che lo indurrebbero a ribadire in quest’Aula le posizioni dei rispettivi leader nazionali, ma al contempo ognuno di noi è anche parte di una regione che ha accumulato problemi e ritardi di sviluppo che ci impongono di anteporre a tutto il resto gli interessi delle nostre comunità. (fm)

[Filippo Mancuso è presidente del Consiglio regionale]

 

 

Antoniozzi (Fdi): Il dibattito su autonomia “dopato” da campagna elettorale

Per il deputato di Fdi, Alfredo Antoniozzi, «sull’autonomia differenziata e sul dibattito in corso paghiamo il prezzo della campagna elettorale che privilegia lo scontro piuttosto che il dialogo».

«Dobbiamo comprendere e ascoltare le legittime preoccupazioni del mondo della Chiesa, che rispettiamo – ha evidenziato – e con la quale si deve tenere aperto un dialogo produttivo e fecondo, sapendo che essa interpreta il bisogno di giustizia sociale. Diverso è il discorso della sinistra che dimentica di avere inserito in Costituzione l’autonomia il 2001 e oggi la rinnega completamente. I Lep saranno garantiti, ma molti Presidenti delle Regioni meridionali hanno sottolineato gli errori commessi nei decenni».
«Al collega Irto ricordo che, dalla Prima Repubblica alle amministrazioni di centrodestra e centrosinistra – ha proseguito – la Calabria ha avuto una media del 34% della spesa dei fondi comunitari, mentre la Polonia, come ricorda Denis Nesci, spende il 100% delle risorse.
Mi pare che Giorgia Meloni sia la migliore garanzia per le perplessità e le paure esistenti che è nostro compito ascoltare e raccogliere».
«Il tema più importante è quello di cambiare la narrazione del Meridione – ha continuato il parlamentare – e noi di Fratelli d’Italia siamo fortemente impegnati anche su questo per dare alla Nazione una nuova visione di insieme. Non è il vittimismo che può garantirci un passo in avanti, ma una discussione franca e sincera, probabilmente impossibile in un contesto di campagna elettorale». (rp)

Giovedì si riunisce il Consiglio regionale: All’odg il dibattito sull’autonomia

Giovedì 18 aprile, alle 10, si riunisce il Consiglio regionale della Calabria.  Sette i punti all’ordine del giorno e, tra questi, il dibattito sull’autonomia differenziata.

La discussione sul dl Calderoli era stata proposta dal presidente del Consiglio regionale, Filippo Mancuso, nella scorsa seduta dell’Assemblea.

Gli altri punti all’odg sono: Proposta di provvedimento amministrativo n. 156/12^, di iniziativa della Giunta regionale, recante: “Approvazione Programma Regionale ponte per le attività di sviluppo nel settore della Forestazione e per la gestione delle foreste regionali anno 2024” – (Relatore: Consigliere Gentile); Proposta di Provvedimento Amministrativo n.158/12^ di iniziativa della Giunta regionale recante: “Bilancio di previsione 2024-2026 dell’Azienda Territoriale Edilizia Residenziale Pubblica Calabria (Aterp Calabria)” – (Relatore: Consigliere Montuoro); Proposta di Provvedimento Amministrativo n. 159/12^ di iniziativa della Giunta regionale recante: ” Bilancio di previsione 2024 – 2026 dell’Azienda Regionale per lo sviluppo dell’Agricoltura Calabrese (Arsac) ” – (Relatore: Consigliere Montuoro); Proposta di Provvedimento Amministrativo n. 160/12^ di iniziativa della Giunta regionale recante: ” Rendiconto esercizio 2021 dell’Azienda Calabria Lavoro” – (Relatore: Consigliere Montuoro).

E, ancora: Proposta di provvedimento amministrativo n. 161/12^, di iniziativa della Giunta regionale, recante: “Modifica schema-tipo di convenzione tra la Regione Calabria e i Gruppi appartamento per l’erogazione di servizi socio-assistenziali” – (Relatore: Consigliere Straface);Proposta di Legge n. 273/12^ di iniziativa della Giunta regionale recante: “Disposizioni per il sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni” – (Relatore: Consigliere Straface).  (rrc)

LA SANITÀ CALABRESE TRA CRITICITÀ E LA
MANCANZA DI UNA “VISIONE” STRATEGICA

di ANTONIO DI VIRGILIO – La crisi del nostro sistema sanitario, iniziata col suo definanziamento decennale, attestatosi secondo le stime della Fondazione Gimbe a 37 miliardi di euro, è ormai chiara a tutti. L’accesso alle cure e la prevenzione sono negate soprattutto nelle regioni più deboli, tanto che la salute è ormai un diritto differenziato per residenza. La Regione Calabria  dopo 13 anni è ancora sottoposta al Piano di Rientro dai Disavanzi Sanitari Regionali ed al Commissariamento per l’attuazione del suddetto piano, che ha prodotto solo disastri.

Abbiamo assistito a tagli indiscriminati dei posti letto, alla chiusura di 18 ospedali, al blocco del turnover del personale sanitario, all’impoverimento dell’offerta di salute. Risultato? Allungamento delle liste d’attesa, aumento della emigrazione sanitaria, e ciò che più fa male, una riduzione inaccettabile dell’aspettativa di vita. L’attuazione inoltre della autonomia differenziata rischia di acuire ulteriormente tale emergenza al Sud.

La struttura commissariale in Calabria non ha perso la capacità di produrre, come per gli anni passati, decreti (Dca) zeppi di dati, analisi, tabelle complicatissime, criptiche per i non esperti, senza concretezza programmatica né una visione strategica della sanità regionale valida per almeno i prossimi 5 anni.  Sono di questi giorni la polemica e gli attacchi trasversali sulla questione del riordino della rete ospedaliera, il Dca n° 78 pubblicato dal Commissario ad Acta il 26 marzo 2024, avrebbe integrato con 2 tabelle (prese dal Dca 198/2023!) il Dca n°69 del 14 marzo 2024, intervenuto a modifica del Dca n°64/2016 e del Dca n°198/2023. Questo decreto rischia concretamente di diventare il libro dei sogni, tra proposte contraddittorie, posti letto immaginari, Unità Operative fittizie, dotazioni organiche sulla carta, mancanza di coperture finanziarie, con una rete assistenziale territoriale inesistente, che dipingono una realtà sanitaria drammatica.

Mancano 951 posti letto ancora da attivare rispetto al Dca del 2016, e oltre 2000 operatori sanitari e come se non bastasse abbiamo appreso di chiusure e riaperture parziali di reparti qua e là, accorpamenti incomprensibili, ridimensionamenti di unità operative e demansionamenti di dirigenti medici, con la scomparsa di decine di unità semplici, in una regione da cui i giovani medici scappano dal pubblico, rimpiazzati da medici stranieri. Saltano all’occhio il depotenziamento della Nefrologia e della Pneumologia di Corigliano, il ridimensionamento del ruolo strategico del polo ospedaliero di Lamezia Terme e dell’ospedale di Acri, il sottodimensionamento della Cardiochirurgia della Dulbecco di Catanzaro, priva della rianimazione cardiochirurgica dedicata, la chiusura della Terapia Intensiva Neonatale a Cosenza, l’allocazione di reparti di Orto-geriatria in Dea di II livello senza prevedere reparti di Riabilitazione e recupero fisico, il reparto di Recupero e riabilitazione a Cosenza con 11 posti letto senza Primario, mentre si confermano altrove reparti con 2 posti letto ed un primario.

Confermata anche la chiusura progressiva di 35 reparti. Nessun accenno, infine, alla nuova Facoltà di Medicina di Cosenza, dove procede il reclutamento dei professori e che dovrebbe garantire ai laureandi l’accesso ai reparti di degenza; ne saranno istituiti altri nell’ospedale, fotocopia di quelli esistenti? Saranno clinicizzati quelli esistenti, ovverossia diventeranno a direzione universitaria, mortificando, come avvenuto a Catanzaro le legittime aspirazioni di dirigenti medici di chiara esperienza? Vogliamo che anche questi emigrino alla ricerca di migliori condizioni di lavoro e prospettive di carriera? È arrivata l’ora di investire sul personale sanitario.

La programmazione della rete ospedaliera è avvenuta in ossequio al parametro ministeriale del numero di posti letto per 1000 abitanti ed ai vincoli di bilancio imposti dal costoso Advisor Kpmg per il rientro dal deficit sanitario.  Nessuna valutazione è stata fatta riguardo ai bacini   di   utenza, ed alle loro specificità, non si è tenuto conto delle risultanze epidemiologiche delle popolazioni, della prevalenza e distribuzione delle patologie acute e croniche e delle configurazioni geomorfologiche dei territori. È da considerarsi positivo il lavoro fatto sull’analisi dei flussi migratori sanitari, ma preoccupa la totale assenza di una strategia di contrasto. Le questioni aperte sono ancora molte, cosi come gli attacchi continui alla nostra sanità.

La revisione di luglio scorso del Pnrr, Missione 6, riduce le Case della Salute da 1350 a 936 e gli Ospedali di Comunità da 435 a 304, limitando la realizzazione a quelle strutture già esistenti, cosa che si abbatte in modo drammatico sulla Calabria dove la gran parte di esse sarebbe da costruire ex novo. In questo caso nessuna voce si è levata contro questo scippo. Ed ancora il taglio di 1,5 miliardi del fondo per la messa in sicurezza delle strutture ospedaliere che mette a rischio numerose opere in una Regione che grazie alla inettitudine di una classe dirigente, attende da oltre 20 anni la realizzazione dei nuovi ospedali di Catanzaro e Cosenza, tra ipotesi progettuali, protocolli di legalità e pose delle prime pietre.

Noi riteniamo che la riorganizzazione del Sistema Sanitario Regionale vada affrontata con competenza, con una visione organica e soprattutto con coraggio. Col coraggio che occorre per opporsi agli scippi perpetrati da oltre 20 anni a danno di questa Regione, per pretendere, in seno alla Conferenza Stato-Regione la revisione dei criteri di redistribuzione del finanziamento statale dei sistemi sanitari regionali, cosi come da noi proposto da tempo, affinché i divari accumulati possano essere recuperati.

Ma che cosa si richiede alla rappresentanza politica se non il coraggio di difendere con le unghie e con i denti le richieste di salute provenienti dai propri territori? Sulla difesa di questi diritti “Italia del Meridione” non intende accettare compromessi la nostra attenzione sarà massima affinché la salute non sia un diritto differenziato. (adv)

[Antonio di Virgilio è del Dipartimento Federale Sanità]

L’OPINIONE / Franz Caruso: A che gioco stanno giocando i parlamentari calabresi con l’autonomia?

di FRANZ CARUSO –  È un mio impegno messo in campo sin dalla prima ora, far sentire la voce del territorio contro l’autonomia differenziata, una riforma purtroppo ancora poco conosciuta e dall’opinione pubblica, ma che, se dovesse diventare legge, arrecherà enormi danni all’Italia. C’è bisogno, pertanto, di una mobilitazione generale e complessiva della politica, delle istituzioni tutte, ma soprattutto delle popolazioni che devono chiedere conto alla loro rappresentanza a Palazzo Madama, dove abbiamo dei veri traditori della nostra terra. Altrimenti non avrebbero preferito l’accordo di potere in atto nel centrodestra di maggioranza ai bisogni delle loro comunità.

Ed, infatti, tutti hanno votato a favore dell’autonomia differenziata ad eccezione del senatore Nicola Irto. Ma gli altri a che gioco stanno giocando? Loro sanno cosa significa avere bisogno di cure e rivolgersi all’ospedale di Acri, depauperato nei servizi, o cosa significa andare al pronto soccorso di Cosenza? Lo sanno in quale stato comatoso versa la sanità calabrese? E cosa succederà quando le Regioni più ricche   potranno operare autonomamente  su questo come su altri settori come i trasporti, l’ambiente, la scuola etc. avendo in dote le risorse del proprio gettito fiscale, che significa lasciare le briciole al fondo di solidarietà a sostegno dei bisogni dei territori più poveri e disagiati?

A voler tacere, ovviamente, della problematica relativa alla determinazione dei Livelli essenziali di prestazione, per i quali sembra impossibile prevederne un adeguato finanziamento che si dovrebbe aggirare, per quanto si vocifera, intorno a 100 miliardi euro. Praticamente è una finanziaria se non di più e non credo che lo Stato  italiano avrà la capacità e la possibilità di sostenerlo.

Per cui come sindaci stiamo facendo quanto è nelle nostre possibilità per bloccare il provvedimento legislativo voluto dalla Lega. Ma le leggi si approvano in Parlamento e dai parlamentari che, su questo tema, per come detto non hanno alcuna sensibilità. Questo perché non devono dar conto ai  propri elettori ma ai propri leader politici che li candidano e li mandano a sedere sugli scranni di Montecitorio e di palazzo Madama evidentemente  ad eseguire  gli ordini di scuderia. Mi auguro, però, per il bene del Paese, di essere smentito in questa mia convinzione. (fc)

[Franz Caruso è sindaco di Cosenza]

A Lamezia riunito il Pd Calabria: Focus su rete ospedaliera, autonomia ed elezioni europee

Si è parlato della rete ospedaliera, dell’autonomia differenziata e delle elezioni europee nel corso della riunione, a Lamezia Terme, del gruppo del Pd in Consiglio regionale.

La riunione, introdotta e moderata da Mimmo Bevacqua, si è aperta con un approfondimento sulla situazione in cui versa la rete ospedaliera regionale, anche alla luce della deludente informativa resa in Consiglio dal governatore Occhiuto. I consiglieri dem hanno deciso di intraprendere, durante le prossime settimane, una serie di iniziative legate al tema, partendo dal confronto diretto con i sindacati e gli ordini dei medici.

I consiglieri hanno, poi, approfondito e discusso i temi che saranno oggetto della Conferenza programmatica del partito prevista per metà mesa e espresso soddisfazione per l’annunciata visita del Presidente Sergio Mattarella, vista come un segnale della presenza dello Stato che è indispensabile per il Sud in questa fase.

Il gruppo dem ha anche ribadito l’auspicio che il presidente del Consiglio regionale, Filippo Mancuso, mantenga l’impegno assunto in occasione dell’ultima riunione dell’Assemblea e inserisca all’ordine del giorno dei lavori della prossima seduta la discussione sull’autonomia differenziata.

«Un momento indispensabile – si legge in una nota – perché ognuno si assuma le proprie responsabilità davanti a una riforma che rischia di dividere l’Italia e che gli stessi Vescovi calabresi hanno definito “secessione dei ricchi”».

Il gruppo, infine, si è confrontato anche in vista delle prossime elezioni europee, preparandosi a fornire il proprio contributo a sostegno delle candidature che saranno individuate di concerto con il partito regionale e nazionale. (rcz)

Il documento dei Vescovi calabresi contro l’Autonomia differenziata

La Conferenza Episcopale Calabra ha espresso in un documento la preoccupazione che l’autonomia differenziata, ove passasse, provocherebbe la dis-unità nazionale. Questi gli spunti di riflessione dei vescovi calabresi. È un documento (firmato domenica 24 marzo) di grande rilevanza nel dibattito in corso sull’autonomia differenziata e di cui la classe politica italiana non potrà non tenere nella docuta considerazione.

Noi Vescovi Calabresi, dopo aver approfondito, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa e dei precedenti pronunciamenti della Conferenza Episcopale Italiana, il disegno di legge sull’autonomia differenziata, ci sentiamo in dovere di offrire alcuni spunti di riflessione sull’importanza della solidarietà e della sussidiarietà nazionali. I temi riguardanti lo sviluppo e le disuguaglianze territoriali hanno sollecitato l’attenzione della Chiesa in Italia anche in passato, già a partire dall’immediato secondo Dopoguerra. Ne costituisce una evidente e autorevole testimonianza il contenuto di tre documenti dei Vescovi italiani sul Mezzogiorno, pubblicati rispettivamente nel 1948 (I problemi del Mezzogiorno, Lettera collettiva dell’Episcopato meridionale), nel 1989 (Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno) e nel 2010 (Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno).

Realizzati in momenti diversi, essi conservano elementi comuni e, in alcuni casi, analisi e proposte ancora attuali.

In tutti e tre i testi, ad esempio, traspare la convinzione che il Vangelo spinga continuamente a misurarsi con la vita concreta delle persone, con le tensioni e le contraddizioni della storia, per cui le situazioni di ingiustizia debbano essere rilevate e denunciate. Si afferma perciò la necessità di un impegno personale e comunitario orientato a riconoscere e a contenere o rimuovere le disuguaglianze che segnano il Paese.

Un altro elemento ricorrente è la denuncia del mancato sviluppo del Sud e dei mali che colpiscono le Regioni meridionali, come la disoccupazione e la criminalità organizzata.

Particolarmente rilevanti, e in parte ancora attuali, le analisi contenute nella lettera del 1989, che pone in evidenza i caratteri dello sviluppo del Paese, definendolo incompleto e distorto. Incompleto perché ha lasciato indietro le regioni meridionali. Distorto, perché – non solo non si è consentito al Mezzogiorno di svilupparsi come altre Regioni, creando disuguaglianze interne ed esterne – ma addirittura lo si è incanalato verso strade che ne hanno peggiorato la situazione. Successivamente, la lettera del 2010 parlerà di sviluppo bloccato, a proposito del fatto che i cambiamenti

avvenuti nel corso dei due decenni precedenti avevano reso ancora più stagnante la situazione del Mezzogiorno.

Nei tre testi si propone un’idea di sviluppo che non consideri solo gli indicatori economici, ma che metta al centro le persone, le risorse e le vocazioni dei territori. A questo riguardo, anticipando alcuni temi che ritroviamo oggi nel magistero di papa Francesco, il documento del 1989 evidenzia la necessità di ripensare il modello economico, in particolare il mercato, e il modello antropologico di fondo, allontanandosi dall’individualismo, dal soggettivismo e dalla ricerca del godimento immediato.

Nei tre testi si evidenzia anche il fatto che uno sviluppo autenticamente umano richieda, come essenziale presupposto, un lavoro orientato a favorire la maturazione delle coscienze e del loro peso interiore. Da qui l’importanza dell’impegno educativo, a tutti i livelli. Sono particolarmente densi i passaggi in cui si esplicitano le condizioni affinché la Chiesa possa essere soggetto in grado di contribuire a promuovere questo tipo di sviluppo. Si tratta di condizioni che esigono la scelta della strada stretta, ma liberante, del radicamento personale e comunitario nella profezia dell’ascolto del Vangelo, in una condizione di povertà e di non-potere.

1. Cambiare sì, ma nella giusta direzione

In continuità con il magistero dei nostri predecessori, la riflessione che proponiamo in questo documento intende argomentare in modo chiaro le ragioni per cui riteniamo insostenibile il progetto di autonomia differenziata. Tale posizione non equivale alla difesa dello status quo. Essa poggia, al contrario, sulla consapevolezza che sono necessari cambiamenti anche importanti nelle politiche pubbliche e, in particolare, nel sistema italiano di welfare. Cambiamenti che, però, dovrebbero andare in direzione opposta rispetto a questo disegno di regionalismo differenziato. Suscita infatti “preoccupazione” – come ha rilevato il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Matteo Zuppi, introducendo i lavori del Consiglio Episcopale Permanente il 18 marzo 2024 – «la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi». Per questo, non deve venir meno «un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale». E ha concluso: «Su questo versante la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile». Alle parole del Cardinale Presidente della CEI, fanno seguito quelle del Comunicato finale del Consiglio Episcopale Permanente: i Vescovi «hanno rinnovato l’appello per uno sviluppo unitario, che metta in circolo in modo virtuoso la solidarietà e la sussidiarietà, promuovendo la crescita e non alimentando le disuguaglianze. Da parte sua la Chiesa in Italia, fedele al Vangelo e nel solco del percorso compiuto finora, continuerà a contribuire all’unità, accompagnando le comunità e non lasciandosi spaventare dalle contingenze del tempo presente» (20 marzo 2024).

2. La «secessione dei ricchi»

Il disegno di legge oggetto di valutazione ha un presupposto che, già in partenza, rivela una criticità di fondo. Le Regioni che oggi chiedono l’autonomia rispetto a settori importanti delle politiche pubbliche, si aspettano che la maggior parte del gettito fiscale sia lasciato nelle stesse Regioni che lo producono. In questo modo, quelle più sviluppate economicamente si ritroverebbero a poter gestire più risorse di quelle che lo Stato attualmente impiega nei rispettivi territori, con riferimento alle stesse materie. Questo è il motivo per cui il progetto di autonomia differenziata è stato efficacemente definito dall’economista Gianfranco Viesti come la «secessione dei ricchi». Non è un caso che l’iniziativa sia stata presa dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna, a partire dal 2017.

Perché si parla di secessione dei ricchi? Dal punto di vista amministrativo le Regioni che chiederanno l’autonomia differenziata somiglieranno ad altrettante Regioni- Stato, con poteri estesissimi in materie fondamentali. Si innescherebbe una dinamica di dis-integrazione e non di integrazione delle politiche e degli interventi.

Dal punto di vista economico le Regioni richiedenti punterebbero a ottenere uno status paragonabile a quello delle autonomie speciali. Le Regioni che aspirano all’autonomia, come il Veneto e la Lombardia da più tempo e l’Emilia Romagna da qualche anno, vogliono poter gestire in proprio la maggior parte delle risorse ricavate dalle tasse. Dimenticando che queste hanno come criterio, in base alla Costituzione, la progressività del prelievo e l’universalità dell’accesso dei cittadini ai servizi pubblici. In altre parole le tasse sono in funzione di obiettivi di giustizia sostanziale e del superamento delle disuguaglianze tra le persone, non dei territori (Cfr. artt. 2 e 3 della Cost.).

3. Una questione di democrazia sostanziale

Accanto ad una questione di giustizia sostanziale, si pone un problema di democrazia sostanziale.

Per come si sta configurando, il processo decisionale previsto dal decreto mortifica il ruolo delle Camere.

Il rischio che si corre per la tenuta della democrazia nel nostro Paese è evidente se si considera che lo strumento con cui le competenze verrebbero concesse alle Regioni è quello della intesa fra lo Stato e ogni singola Regione; si tratterebbe in sostanza di una decisione governativa di devoluzione di poteri dal carattere sostanzialmente irreversibile, perché, una volta che l’intesa viene sottoscritta dalle parti, non può essere cambiata senza il consenso regionale, né il suo contenuto può diventare oggetto di eventuali referendum. Firmata l’intesa, la funzione di definire tutti i dettagli riguardanti il trasferimento di poteri, legislativi e amministrativi, materia per materia, sarebbe esercitata da “commissioni paritetiche” Stato-Regione, fuori dal controllo parlamentare.

4. Ulteriori motivi di perplessità

La realizzazione di questo progetto potrebbe avere esiti disastrosi sul piano della coesione sociale. Le disuguaglianze nel nostro Paese hanno una natura anche territoriale. Esse si determinano principalmente lungo l’asse Nord-Sud, dando luogo al fenomeno del divario civile, per cui il contenuto effettivo dei diritti sociali di cittadinanza cambia a seconda dei luoghi. Pensiamo alla sanità, ma anche all’istruzione, ai servizi sociali, alla questione ambientale, ai trasporti. Non si tratta solo di questioni economiche, ma dell’accesso ai diritti di cittadinanza. In uno Stato unitario essi vanno assicurati a tutti a prescindere dal luogo di residenza e dal grado di sviluppo produttivo locale. Senza questi diritti si indebolisce il senso di appartenenza a un’unica comunità nazionale. Il progetto di autonomia differenziata rende, perciò, ancora più opache le prospettive del Paese perché proprio negli ambiti da cui dipende la qualità e l’estensione dello sviluppo umano autentico le Regioni vogliono fare da sole, chiedendo più poteri e risorse.

Il disegno di legge si propone di rimediare all’inerzia istituzionale degli ultimi due decenni, per cui subordina l’attuazione della riforma alla determinazione dei Lep (livelli essenziali di prestazione) e dei relativi costi e fabbisogni standard (art. 4), che dovrebbero costituire una garanzia per le Regioni con i servizi alla persona meno strutturati.

Questo punto merita un approfondimento, perché la materia è complessa. Ci sono almeno quattro motivi per ritenere che la soluzione prospettata per eliminare le disuguaglianze territoriali non sia sufficiente. Nell’ambito della tutela della salute, ad esempio, la regionalizzazione del sistema sanitario e la definizione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria (Lea) non solo non hanno ridotto i divari di tutela della salute tra i territori, ma li hanno addirittura amplificati, come dimostrano i dati sulla migrazione sanitaria.

Il secondo motivo di perplessità riguarda il riferimento ai costi e ai fabbisogni standard: la premessa per uno sviluppo vero dei territori, soprattutto di quelli più periferici, non può limitarsi alla mera definizione di servizi minimi essenziali, né alla definizione rigida di un budget di spesa – che finirebbe con il penalizzare soprattutto le aree interne delle Regioni più deboli – ma esige invece l’adozione di modelli di intervento capaci di valorizzare le risorse e aderire ai bisogni delle persone che vivono nei luoghi, in tutti i luoghi, territori urbani e non, città e piccoli paesi.

Inoltre, ed è il terzo motivo di perplessità, il progetto in discussione afferma testualmente che «dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Resta dunque irrisolta la questione del reperimento delle risorse necessarie per garantire i Lep.

Aggiungiamo una quarta obiezione di fondo: se anche si recuperassero le risorse per attuare i Lep, tutto ciò non rappresenterebbe il volano di un vero cambiamento. Se si guardano le cose dai contesti più periferici, risulta evidente che la vera questione è quella di dotare i territori delle infrastrutture sociali necessarie per programmare, progettare, gestire, rendicontare e valutare gli interventi ordinari. La questione dei livelli essenziali di gestione è prioritaria rispetto a quella della determinazione dei livelli essenziali di prestazione.

Se analizziamo a fondo la situazione calabrese, per esempio, vediamo che la spesa per i servizi sociali in Calabria è tra le più basse del Paese e che si riesce a impiegare solo una parte delle risorse disponibili per la debolezza delle infrastrutture locali. È per questo motivo che bisognerebbe intervenire per rimuovere quegli ostacoli che impediscono un funzionamento istituzionale efficiente. La riforma, trascurando l’esistenza di questa criticità, rafforzerebbe le disfunzioni.

Conclusioni

La nostra riflessione ci conduce a evidenziare i gravissimi rischi connessi al progetto di autonomia differenziata. La “secessione dei ricchi” non è solo in contraddizione con lo spirito della nostra Costituzione, in particolare con il principio di uguaglianza sostanziale espresso nell’articolo 3, ma è anche in contrasto con il sentimento di appartenenza a un’unica comunità, e con le prospettive di uno sviluppo autenticamente umano del Paese. Il progetto, se realizzato, darà forma istituzionale agli egoismi territoriali della parte più ricca del Paese, amplificando e cristallizzando i divari territoriali già esistenti, con gravissimo danno per le persone più vulnerabili e indifese.

Il progetto di autonomia differenziata è sostenuto dalla logica secondo cui le Regioni che costituiscono la locomotiva del Paese debbano essere messe nelle condizioni di produrre sempre di più e meglio, e questo determinerebbe un effetto-traino per tutte le altre Regioni. Come Vescovi Calabresi affermiamo che questa prospettiva non può essere condivisa. La strada da percorrere è invece quella che passa dal riconoscimento delle differenze e dalla valorizzazione di ogni realtà particolare, soprattutto delle aree più periferiche e/o interne. I contesti che non ce la fanno vanno accompagnati, riconoscendo nella solidarietà tra territori un valore costituzionale da difendere e un impegno pastorale che il popolo di Dio che è in Italia va incoraggiato a perseguire perché progredisca nella sua ricerca di fedeltà al Vangelo. Nella prospettiva di uno sviluppo umano autentico, le difficoltà dei territori con infrastrutture più deboli, con rendimento istituzionale insufficiente, non vanno interpretate come un freno per chi è più veloce, ma come un problema comune, da cui venire fuori insieme.

Si tratta di un orientamento coerente con il principio di giustizia sostanziale (Cfr. artt. 2 e 3 della Cost.); per cui a tutti vanno assicurate pari opportunità di accesso ai diritti di cittadinanza, eliminando gli ostacoli, attraverso politiche effettivamente redistributive e con il principio di solidarietà istituzionale, che fonda la sussidiarietà verticale, la quale si esplicita non attraverso provvedimenti di tipo normativo- sanzionatorio, ma mediante l’accompagnamento intenzionale dei territori più deboli. Il principio di sussidiarietà, infatti, «ha un doppio dinamismo: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto», come ha ricordato Papa Francesco. Attuare tale principio

«dà speranza in un futuro più sano e giusto; e questo futuro lo costruiamo insieme, aspirando alle cose più grandi, ampliando i nostri orizzonti. O insieme o non funziona. O lavoriamo insieme per uscire dalla crisi, a tutti i livelli della società, o non ne usciremo mai» (Udienza generale, 23 settembre 2020).

Per questo non possiamo restare indifferenti. Bisogna trovare vie perché si maturi la consapevolezza che il Paese avrà un futuro solo se tutti insieme sapremo tessere e ritessere intenzionalmente legami di solidarietà, a tutti i livelli.

A questo riguardo, si propone che in tutte le comunità diocesane e in tutti i territori si organizzino occasioni di approfondimento e di pubblica discussione su questo tema e si promuovano adeguate forme di mobilitazione democratica, legando solidarietà e giustizia. ν

  

L’OPINIONE / Filippo Veltri: Gli allarmi inascoltati per la sanità

di FILIPPO VELTRI L’allarme era, è, di quelli che non lasciano dubbi: l’autonomia differenziata «non solo porterà al collasso la sanità del Mezzogiorno, ma darà anche il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale, causando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti». Parola di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, per illustrare i risultati del report L’autonomia differenziata in sanità che esamina le criticità del Disegno di legge Calderoli approvato al Senato e ora in discussione alla Camera.

 Non sembra che l’allarme abbia suscitato particolari scossoni nel mondo politico e istituzionale, tranne Rubens Curia con la sua Comunità Competente ed i Vescovi calabresi riuniti in conclave. In Consiglio Regionale un centrosinistra titubante dà invece ancora spazio ad un centrodestra diviso e lacerato, senza affondare i colpi.

Il report analizza il potenziale impatto sul Ssn delle maggiori autonomie richieste dalle regioni in materia di “tutela della salute”. Un de profundis largamente annunciato, che documenta dal 2010 enormi divari in ambito sanitario tra il Nord e il Sud del Paese e solleva preoccupazioni riguardo l’equità di accesso alle cure.

Se per le Regioni del Sud, già in fondo alle classifiche per cure essenziali e aspettativa di vita, si profila infatti il pericolo di collasso del reparto sanitario, al Nord si rischia il sovraccarico da mobilità sanitaria. Numerosi gli esempi che possono portarsi al riguardo: nessuna regione del Sud nella top 10 dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) nel decennio 2010-2019; una mobilità sanitaria dal Centrosud al Nord, con tutte le regioni del Sud ad eccezione del Molise, che hanno accumulato complessivamente un saldo negativo pari a 13,2 miliardi di euro nel periodo 2010-2021, mentre sul podio si trovano proprio le tre regioni che hanno già richiesto le maggiori autonomie; scarse performance delle regioni del Centro-Sud per il raggiungimento degli obiettivi della Missione Salute del Pnrr. 

«Complessivamente questi dati – spiega Cartabellotta – confermano che in sanità, nonostante la definizione dei Lea nel 2001, il loro monitoraggio annuale e l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali».

Siamo perciò oggi davanti ad una frattura strutturale Nord-Sud, che vedrà inesorabilmente aumentare le diseguaglianze già esistenti, con l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione. I dati Gimbe dovrebbero essere, in una nazione normale, la pietra tombale sul progetto della Lega ed un Governo responsabile metterebbe da parte subito questo progetto perché il Ddl Calderoli non fa altro che aumentare il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di servizi sanitari, distruggendo di fatto il nostro Servizio sanitario nazionale. 

Se un istituto terzo come Gimbe (e non un fiero oppositore della Meloni o i pericolosi estremisti (sigh!) Schlein, Conte, Fratoianni o Santoro) certifica che l’autonomia differenziata di Calderoli spacca l’Italia e uccide la sanità pubblica del nostro Paese, di fatto regalando il servizio sanitario nazionale ai privati e a chi si potrà permettere di pagare, qualcosa dovrebbe pure succedere. E invece niente!

Il Sud si vedrà privato delle risorse necessarie per garantire qualità nei servizi, equità di accesso vedendo rinnegato il diritto stesso alla salute in favore di interessi particolari che avranno come effetto paradossale quello di accentuare il pendolarismo sanitario dal Sud al Nord. La disuguaglianza è sempre negativa, ma se c’è un campo in cui è nefasta e vergognosa è proprio quello della salute: se sei in una condizione di povertà sei discriminato, se ti viene tolto o ridotto l’accesso al servizio sanitario sei messo in pericolo di vita.

In Calabria tutto questo ragionamento deve essere moltiplicato per 2,3,4… Per mille, fate voi. La voce più forte appare però ancora quella dei Vescovi. (fv)

Adriano Giannola (Svimez): Autonomia rischia di sostituire le Regioni allo Stato

«Il disegno di legge approvato dal governo il 15 marzo 2023, poi dal Senato il 23 gennaio 2024 e ora all’esame della Camera, rappresenta un pericoloso disegno dell’autonomia differenziata che finisce per sostituire le Regioni allo Stato». È quanto ha detto Adriano Giannola, presidente della Svimez, nel corso dell’audizione in Commissione Affari Istituzionali.

Per la Svimez, infatti, il ddl «non favorisce, affatto, la coesione del Paese; appare, in più parti, incostituzionale; è impraticabile sotto il profilo finanziario; non prevede Fondi di perequazione territoriale e, infine, cristallizza la spesa storica invece di superarla. Da qui, il «rischio maggiore è che, al termine di questo processo – ha spiegato Giannola – nasca un Grande Nord, seguito per contraltare da un Grande Sud, entrambi nell’ambito di una Piccola Italia non ancora confederale ma che certamente non avrebbe nulla a che vedere con un federalismo realmente cooperativo e solidale».

Il timore del presidente, infatti, è che «la fretta di chiudere la partita dell’autonomia rafforzata finisca per forzare regole e principi non derogabili, con un approdo finale basato su Intese tra Stato e singole Regioni che richiedono maggiori poteri, approvate dal Parlamento con una legge non emendabile».

«Inoltre, se le Funzioni che prevedono la determinazione dei Lep (soprattutto Sanità, Istruzione e Mobilità locale) non possono essere trasferite – ha spiegato Giannola – se prima non si definiscono i Livelli Essenziali delle Prestazioni e non si trovano le risorse per finanziarli, per tutte le altre, oggi a legislazione concorrente (dai porti all’energia, dal lavoro alla tutela del territorio, solo per citarne alcune) si possono stipulare subito le Intese».

In definitiva, la Svimez teme questa «Babele di Regioni sovrane, all’interno di uno Stato Arlecchino, (timore che non a caso paventano anche la maggior parte dei Sindaci di qualunque parte politica) cui risponderà la soluzione del Grande Nord, per la cui nascita basterà attivare l’articolo 117 comma 8, perfetto – e non casuale – complemento del 116 terzo comma». (rrm)