AL SUD SEMPRE PIÙ IMPRESE SONO “BIO”
SI DEVE COGLIERE OCCASIONE DI SVILUPPO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Il 23,6% delle imprese al Sud è bio, ossia utilizza risorse biologiche, inclusi gli scarti, nelle proprie produzioni, contro il 19,7% delle imprese del resto del Paese. È quanto emerso dall’indagine realizzata dal Centro Studi Tagliacarne e Svimez su un campione di 2 mila imprese industriali, con un numero di addetti compreso tra 5 e 499 unità.

Un dato, quello rilevato, che non dovrebbe stupire: in Calabria, infatti, come rilevato dall’ultimo rapporto Crea 2022, è prima in Italia per la superficie agricola utilizzata per coltivazioni biologiche, ossia il 36,3%, oltre che per il numero di produttori esclusivamente bio, che sono 8.122 (+2,2% rispetto al 2020), 1.188 produttori/trasformatori (+5,2%), 382 trasformatori esclusivi (+6,4%). Gli 8.110 produttori esclusivi calabresi sono pari al 13,03% del totale nazionale (62.333). Come già sottolineato dal Crea, infatti, «l’agricoltura  un fiore all’occhiello della Calabria da valorizzare al massimo, anche perché ha tanti risvolti positivi sul fronte della sostenibilità ambientale, della tutela della biodiversità, della sicurezza alimentare, della nutrizione salutistica, dell’offerta turistica, della qualità della vita di residenti e turisti».

Per il direttore del Centro Studi Tagliacarne, Gausto Esposito, «in una fase in cui si ripropone in maniera rinnovata il tema della crescita della base produttivo-manifatturiera del Mezzogiorno, la filiera della bioeconomia si pone come un prezioso asset a livello locale», questo perché «esprime una forte capacità di creare collegamenti tra segmenti diversi a valle e a monte della catena produttiva, come quello dell’agricoltura, che costituisce tradizionalmente un’eccellenza del territorio, e del recupero delle relative produzioni».

«Il profilo dinamico di queste imprese – ha detto il direttore Esposito – in investimenti nella duplice transizione e la maggiore sensibilità ai temi della sostenibilità, anche in termini sociali e di attenzione all’occupazione, deve porre questo segmento di imprese al centro di policy di rilancio della crescita per il Sud, anche attraverso politiche di incentivazione mirate».

Tornando all’indagine, è stato rilevato come il 59,8%  ha investito o investirà in tecnologie 4.0 tra il 2017 e il 2024, (contro il 56,3% del Centro Nord). Mentre il 50,0% ha adottato un modello di “open innovation” ovvero aperto alle collaborazioni con Università, clienti e fornitori per una crescita strutturata del territorio e per il rafforzamento delle filiere produttive (contro il 46,1%).

Dati che, per il direttore della Svimez, Luca Bianchi, «conferma quanto rilevato dalla Svimez in questi anni circa le potenzialità di sviluppo offerte dai nuovi settori dell’economia circolare e della bioeconomia in particolare per il Mezzogiorno, a condizione che le importanti esperienze oggi presenti siano accompagnate da politiche industriali e di filiera funzionali a renderle più solide e a favorirne la crescita anche dimensionale».

«Anche per questo la scelta bio può essere una potente chiave di sviluppo per il Sud», si legge nell’indagine, in cui viene sottolineato come «essere “bio” rende le imprese più smart, non solo al Mezzogiorno».

La scelta “bio”, nel complesso, si rileva nel Mezzogiorno come nel resto d’Italia un potente stimolo per investire in green e in innovazione su cui ha puntato il 63,2% delle imprese nazionali della bio-economia (contro il 35,5% delle non bio). Nel Meridione, infatti, il 63,4% delle imprese bio ha investito tra il 2017 e il 2024 in processi e prodotti a maggior risparmio energetico, idrico e/o a minore impatto ambientale (contro il 37,0% delle non bio), in linea con quanto si è verificato nel Centro-Nord dove (63,2% contro il 35,2% nelle non bio). Anche per questo il 57,3% di queste imprese meridionali ha investito o investirà in R&S nello stesso periodo (contro 45,3% delle non bio). Essere “bio” si traduce, inoltre, pure in una maggiore attenzione ai lavoratori non solo dal punto di vista sociale, ma anche professionale. Il 61,0% delle imprese bio del Mezzogiorno ha avviato percorsi formativi per i propri dipendenti nel biennio 2017-2019 e ha intenzione di continuare le attività di formazione anche nel biennio 2022-2024 (vs il 57,0% delle non bio meridionali). Una quota che si presenta anche più elevata nel Centro-Nord (62,5% contro il 54,7%).

Ma, oltre a investire sul bio è importante destinare delle risorse anche al digitale che, come rivelato dal Centro Tagliacarne e dalla Svimez, spinge la produttività di oltre una impresa “bio” meridionale su quattro.

Nel Meridione, in particolare, queste realtà imprenditoriali che hanno già puntato tra il 2017 e il 2021 sul digitale dichiarano di avere ottenuto una maggiore produttività nel 28,0% dei casi, una migliore qualità dei prodotti e minori scarti (24,4%), una maggiore velocità nel passaggio dal prototipo alla produzione (23,2%), nuove funzionalità del prodotto derivanti dall’Internet of things (22,0%).

Molta attenzione, poi, alla transizione ecologica: le aziende “bio” del Mezzogiorno, infatti, intraprendono questa strada per aumentare la competitività e rispondere alle regole nazionali e internazionali. iù della metà di queste imprese dichiara, infatti, di aver investito tra il 2017 e il 2021 sia per rispondere alle regole e alle normative imposte a livello nazionale ed europeo (nel 56,1% dei casi), sia per aumentare la propria competitività (nel 52,4% dei casi). Mentre il 30,5% di queste imprese della bioeconomia del Sud d ha sostenuto investimenti ambientali per reagire all’aumento dei prezzi delle materie prime ed energetiche e il 29,3% lo ha fatto perché convinto che l’inquinamento e il cambiamento climatico rappresentino un rischio per l’azienda e la società. (ams)

CALABRIA, SANITÀ PUBBLICA UN DISASTRO
QUELLA PRIVATA GENERA l’1,3% DEL VALORE

Sembra quasi un paradosso, ma non lo è: in Calabria, la sanità privata è capace di generare, nel 2018, valore aggiunto per l’1,3% del totale nazionale (547 milioni di euro), con un valore aggiunto per addetto di poco inferiore ai 37.000 euro (inferiore del 26% rispetto alla media nazionale). È quanto è emerso dal rapporto sul Sistema della Imprenditoria sanitaria in Italia realizzato dal Centro Studi delle Camere di Commercio G. Tagliacarne e presentato dalla Camera di Commercio di Cosenza alla Camera dei Deputati.

Dallo studio emerge poi che sono 3.681 le imprese attive della filiera in Calabria (il 3,0% del totale nazionale). Si tratta del risultato di una crescita importante avvenuta nell’ultimo decennio (+45,4% tra il 2011 e il 2019) dinamica che, nonostante la pandemia, si è mantenuta anche nel 2020). A pesare è la dimensione delle strutture private, che con una media di 4.3 addetti portano la nostra regione al penultimo posto della graduatoria.

Va aggiunto, poi, che rispetto alla media nazionale, la filiera sanitaria calabrese vede un peso di imprese più consistente per la componente del commercio, che rappresenta il 56,1% del totale a fronte del 50,7% rilevato in Italia e in termini occupazionali significativa è anche la parte relativa ai servizi (69,1% contro il 61,0% della media nazionale).

Buona parte del valore aggiunto totale (38,1%) generato dalla sanità privata in Calabria risulta prodotto da unità dislocate nella provincia di Cosenza, seguita da Catanzaro e Reggio di Calabria (entrambe con il 21,8%), Crotone (13,5%) e Vibo Valenzia (4,8%).

Per quanto riguarda i livelli occupazionali gli addetti totali ed il numero di unità locali attive hanno fatto registrare nel 2020 una variazione positiva rispetto all’anno precedente, con tassi di crescita del 2,5% e 4,0% rispettivamente, e saggi di incremento medi prossimi al 5,0% nell’intero periodo di osservazione 2011-2020.

Anche in questo caso è Cosenza la provincia caratterizzata dai valori più significativi: +6,1% nel caso delle imprese e +6,9% nel caso degli addetti in termini di variazione media annua nel periodo. In questo caso seconda provincia per dinamica di imprese è Catanzaro (+5,2%), mentre per crescita occupazionale al secondo posto si colloca la provincia di Vibo Valentia (+6,1%).

Come sottolineato da Klaus Algieri, presidente di Confcommercio Calabria, si tratta di «dati molto interessanti, e ci aiutano a capire tanti aspetti della sanità in Calabria».

«Prima di tutto – ha spiegato – confermano come nella nostra Regione la sanità privata colma le lacune della sanità pubblica che invece è in balia della classe politica. Ma mostra, anche, come la sanità privata sia un propulsore economico, in grado di generare ricadute positive sul territorio sia in termini di ricchezza generata che di occupazione. Tuttavia occorre fare una riflessione e capire che l’accesso alle strutture private non è alla portata di tutti. Pertanto, è necessario che la classe politica ponga, in modo serio e definitivo, l’attenzione sulla questione sanità, intervenendo per ripristinare i presidi ospedalieri sui territori e garantire l’accesso alle cure a tutti riducendo quel fenomeno di migrazione sanitaria, che non fa altro che indebolire il nostro territorio».

«La sanità costituisce l’8,7% del Pil – ha sottolineato il presidente Algieri – ma potrebbe apportare più dell’11%, sia in termini di Pil che di occupazione. Un sistema sanitario, quello italiano, che in termini di confronto con gli altri paesi Ocse, registra una situazione relativamente soddisfacente in termini di qualità dell’assistenza, pubblica e privata, con un elevato livello professionale dei servizi prestati. Tuttavia, l’Italia risulta, nell’ultimo decennio, in posizioni fortemente inferiori in termini di spesa sanitaria pubblica pro-capite rispetto alla media Ocse e della maggior parte dei principali paesi europei, un divario che sembra accelerare negli ultimi 4-5 anni di analisi».

«Un settore strategico, quindi – ha detto ancora Algieri – rispetto al quale la Camera di Commercio di Cosenza, ritiene di fondamentale importanza contribuire alla promozione della trasparenza e della legalità, con una riflessione organica che tenga conto, accanto agli aspetti normativi e di regolazione, anche dell’intera Filiera della Salute che, in termini economici e produttivi, rappresenta un sistema integrato nelle sue componenti pubbliche e private».

Gaetano Fausto Esposito, direttore del Centro Studi Tagliacarne, ha sottolineato come «la filiera sanitaria è un valore importante per il Paese: la componente pubblica e privata ha prodotto lo scorso anno 140 miliardi di euro».

«Il settore della sanità privata – ha spiegato – occupa 950 mila persone con quasi 124 mila imprese ed è cresciuto a tassi molto forti a partire dal 2011, sia in termini di imprese che di occupati. Anche nel 2020 in netta controtendenza ha registrato un incremento del 2,3% delle imprese contro un aumento dello 0,2% di quelle totali e uno sviluppo del 3,7% dell’occupazione contro un calo del 2,1% degli occupati totali».

«Nel complesso – ha concluso – la sanità di mercato genera un valore aggiunto che è una volta e mezzo di quello dell’agricoltura. Mentre l’intero settore sanitario pubblico e privato produce più della metà dell’industria manifatturiera». (rrm)