FONDO DI COESIONE, OBIETTIVO LONTANO
IN QUATTRO ANNI SPESI SOLO 2,8 MILIARDI

di ERCOLE INCALZA –

In realtà il Servizio Studi della Camera dei Deputati ha effettuato una capillare analisi sulle reali disponibilità residue del Fondo fi Sviluppo e Coesione ed ha scoperto che dei 78,1 miliardi di euro previsti per il periodo dal 2021 al 2027 sono disponibili ancora 3,8 miliardi di euro (lo scrivo per esteso perché sembra incredibile: tre miliardi e ottocento milioni di euro). E questo dato è motivato in modo dettagliato attraverso questi passaggi che ritengo opportuno riportare di seguito: con specifiche disposizioni di Legge è stata finora disposta l’assegnazione di risorse per un totale di circa 28,8 miliardi di euro (tutto documentato in modo dettagliato attraverso l’elenco dei singoli provvedimenti); con Delibere del Cipess, invece, sono stati assegnati 45,5 miliardi (in particolare per le Amministrazione Regionali 30,6 miliardi di euro (vedi Tabella A), per i vari Ministeri 13,8 miliardi di euro ed ulteriori 1,1 miliardi di euro per ulteriori accordi) (tutto dettagliato con le singole Delibere del Cipess).

Ma in questa analisi emerge un ulteriore allarme: dei 78,1 miliardi di euro previsti sempre dal Fondo, allo stato è stato speso solo il 4% e gli impegni di spesa non hanno superato il 12,4%. In realtà ci preoccupiamo del Pnrr dove è ormai conclamato il raggiungimento di una spesa non superiore al 46% entro il 30 giugno del 2026 e non ci allarmiamo in modo adeguato sul fatto che dei 78,1 miliardi di euro del Fondo di Sviluppo e Coesione ne abbiamo appena spesi, ripeto, 2,8 miliardi e, entro il 2027 dovremmo spenderne circa 76 miliardi di euro.

È vero che nel caso del Fondo di Sviluppo e Coesione è possibile utilizzare un ulteriore periodo di circa due anni, ma anche in presenza di questo ulteriore periodo siamo sempre di fronte ad un obiettivo impossibile da raggiungere.

Mi chiedo d’altra parte come potremo spendere 76 miliardi di euro nei prossimi quattro anni se nei passati quattro anni (il Fondo è partito nel 2021) ne abbiamo spesi solo 2,8 miliardi di euro (anche in questo caso trattandosi di un dato indifendibile scrivo per intero l’importo: 2 miliardi e ottocento milioni di euro).

Di fronte a questo quadro informativo davvero preoccupante se ne aggiunge, a mio avviso, un altro: mi riferisco alla decisione presa sulla rivisitazione del programma delle opere del Pnrr, cioè alla scelta ormai acclarata che le opere del Pnrr non realizzabili entro il 30 giugno del 2026 potranno trovare adeguata copertura proprio attraverso il ricorso alle risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione. Anche in questo caso nasce spontaneo un ulteriore interrogativo: come possa essere possibile che un volano di opere pari a circa 130 miliardi di euro possa trovare copertura in un Fondo ormai ampiamente definito programmaticamente e con specifiche assegnazioni di spesa avvenute per Legge o attraverso Delibere del Cipess?

Nella commedia di Eduardo Scarpetta “Miseria e Nobiltà” il protagonista Felice Sciosciammocca interpretato da Totò impegna un suo vecchio ed ormai inutilizzabile cappotto chiedendo prodotti alimentari e non di altissimo valore; la commedia di Scarpetta aveva la finalità di distrarre e forse far capire dove era arrivata la soglia della fame, la soglia della povertà; oggi questo assurdo elenco di coperture non spese e di impegni futuri impossibili fanno pensare solo al fatto che siamo incapaci di programmare a lungo e medio periodo, siamo incapaci di spendere e ci inventiamo possibili coperture ormai già impegnate.

Indipendentemente da questi confronti come si fa a togliere alla Regione Calabria i 3.059,7 miliardi di euro già assegnati, come si fa a togliere alla Regione Sicilia i 7.374,6 miliardi di euro già assegnati, ecc.; cioè come si fa a dare vita ad una simile rivisitazione sapendo che una simile scelta sarà immediatamente impugnata sia dalle singole Regioni che dalla stessa Unione Europea.

Concludo questo mio articolo ricordando che su questo tema gli schieramenti oggi alla opposizione come il Movimento 5 Stelle o il Partito Democratico non hanno detto nulla e questo silenzio testimonia la loro completa assenza su tematiche chiave della Legislatura. (ei)

INFRAZIONI UE: LA CALABRIA CONDANNATA
A PAGARE PER L’ACQUA CHE NON ARRIVA

di BRUNO GUALTIERIChe in Calabria ci sia un’emergenza idrica non è una novità. Che questa emergenza si aggravi ogni anno, neppure. Ma ciò che colpisce — e indigna — è ancora la lentezza con cui si traducono in opere concrete gli investimenti già stanziati, pur in presenza di una situazione arcinota e ben documentata.

Lo avevo già segnalato in articoli precedenti, come “Quando la politica corre e la burocrazia frena“, dove denunciavo l’incapacità della macchina amministrativa di tenere il passo con la volontà politica. O ancora in “Verso un futuro sostenibile o un altro decennio di attese?“, dove richiamavo l’urgenza di uscire da logiche emergenziali e attuare una vera riforma gestionale del sistema idrico regionale. Le stesse criticità sono state approfondite in “Calabria e depurazione: una battaglia da vincere, oggi“, dove la frammentazione delle competenze e la paralisi decisionale venivano collegate direttamente al perpetuarsi delle infrazioni comunitarie.

Questa denuncia oggi trova ulteriore riscontro nel documento n. 6 – aprile 2025 del Servizio Studi della Camera dei deputati, che fornisce un’analisi dettagliata del cosiddetto water service divide, ovvero del profondo squilibrio tra Nord e Sud nella gestione delle risorse idriche. In molte aree del Mezzogiorno si registrano perdite idriche superiori al 50%, reti colabrodo risalenti in gran parte a oltre trent’anni fa, e una capacità di investimento largamente insufficiente, aggravata dalla prevalenza di gestioni “in economia” scarsamente efficaci. Il Sud investe in media meno della metà del Nord per abitante, con punte minime di appena 11 euro pro capite. A questo si sommano frequenti irregolarità nell’erogazione, ampia sfiducia nell’acqua del rubinetto e una struttura frammentata del servizio che ostacola ogni tentativo di riforma. Un quadro che riflette non solo un problema infrastrutturale, ma un vero e proprio ritardo sistemico nella garanzia di un diritto essenziale.

In Calabria, a queste criticità si aggiunge una disfunzione specifica: la governance del Servizio Idrico Integrato è stata riorganizzata nel 2022 con l’istituzione di ARRICAL come Autorità unica, mentre Sorical S.p.A. è gestore unico. Tuttavia, come già osservato nella mia recente analisi sui quotidiani, il Dipartimento regionale Ambiente e Territorio continua ad agire come se detenesse ancora competenze gestionali. Questo atteggiamento genera un cortocircuito amministrativo che impedisce la stipula delle convenzioni necessarie tra ARRICAL e gli enti locali, in alternativa a Sorical — ancora in fase di riorganizzazione interna come società in house. E senza queste convenzioni, Sorical non può esercitare nemmeno il ruolo di supervisione tecnica previsto dalla normativa, né attuare concretamente alcuni degli interventi programmati.

Il Piano d’Ambito approvato da ARRICAL il 16 settembre 2024 contiene un articolato programma di interventi per la modernizzazione del sistema idrico integrato, coerente con le direttive europee e il principio del full cost recovery previsto dal Codice dell’Ambiente. Ma finché gli enti locali non vengono messi nelle condizioni operative di attuare tali interventi, e finché il Dipartimento continua a occupare spazi che non gli competono più, gli investimenti restano bloccati.

Non si comprende — o forse si comprende fin troppo bene — perché il Dipartimento continui a ostacolare il passaggio delle competenze necessarie per attuare interventi già finanziati. Forse perché troppo legato a quelli previsti dalla delibera Cipess n. 79/2021, che si sovrappongono ad altri più datati, generando un doppio stallo: opere non realizzate, fondi inutilizzati e nuove sanzioni europee che gravano sui cittadini.

Oppure perché alcuni dei progetti inclusi in graduatoria grazie a quella deliberazione non trovano spazio nel Piano d’Ambito, che assegna le priorità seguendo criteri oggettivi come il carico generato. E se si andasse più a fondo, non si escluderebbe che alcuni interventi “fuorilegge” siano già stati progettati da soggetti in stretto rapporto con lo stesso Dipartimento. O forse, più semplicemente, si attende il momento giusto per rimescolare le carte e riportare in gioco, per vie traverse, ciò che era stato escluso dalle regole europee.

In questo scenario, resta sconcertante un altro aspetto troppo spesso taciuto: l’omesso avvio delle azioni necessarie a risolvere le infrazioni europee. Il dossier della Camera evidenzia come le non conformità degli agglomerati per la depurazione delle acque reflue si registrino in prevalenza nelle aree meridionali. A livello nazionale, nel 2022, ben 6,6 milioni di residenti non erano allacciati alla rete fognaria comunale. È possibile che nessuno si accorga che per uscire da una procedura d’infrazione — come quella in corso sulla depurazione — sono necessari almeno due anni di conformità dimostrabile?

E che, nei casi più semplici, dove l’infrazione riguarda solo reti e collettori fognari, basterebbero sei mesi per ottenere l’archiviazione, purché si attivino subito i cantieri e si dimostri l’effettiva esecuzione degli interventi? Eppure, non si muove nulla. Né una comunicazione formale all’Unione Europea, né una azione attuativa concreta.

Nel frattempo, i cittadini calabresi pagano il prezzo più alto: servizi inadeguati, carenza d’acqua, frequenti interruzioni, sfiducia nell’acqua di rubinetto, mari inquinati, divieti di balneazione, danni al turismo e alla salute pubblica. Non è solo una questione ambientale, ma di sviluppo, di credibilità istituzionale, di civiltà.

Ma non perdiamo la speranza! Perché si sa: al peggio non c’è mai fine — e noi calabresi, con il cornetto rosso sempre in tasca e lo spirito saldo, continuiamo a incrociare le dita. Prima o poi, al Dipartimento Ambiente e Territorio si accorgeranno che manca ancora un tassello: la nomina del Dirigente del Ciclo Integrato delle Acque. E magari, con un pizzico di fortuna (o di coerenza), sceglieranno qualcuno che conosce davvero la materia. O forse no. Forse toccherà a chi ha già mostrato il meglio di sé distribuendo collaudi a pioggia agli amici degli amici, o a chi si è prodigato per sabotare, con zelo invidiabile, la redazione del Piano d’Ambito. Oppure, perché no, a chi ha orchestrato con puntiglio gli interventi della famigerata delibera Cipess n. 79/2021, la cui eredità, ancora oggi, genera più ostacoli che soluzioni.

Insomma, una nomina strategica, come si dice. Da essa dipende se continueremo a salutare i nostri figli alla stazione, valigia alla mano, destinazione Nord — come abbiamo fatto per decenni — o se finalmente potremo sperare in un futuro qui, nella nostra terra. Ma se anche stavolta dovesse prevalere l’usato sicuro dell’inconcludenza o, peggio ancora, del clientelismo, ci resterà solo un ultimo treno. Quello che parte senza ritorno.

Perché, diciamocelo con un sorriso amaro: in Calabria il futuro esiste. È solo che si ostina a restare virtuale. O mitologico. Come la chimera.

Il quadro, dunque, è chiaro. Tocca ora ai decisori politici e amministrativi cambiare passo, con atti concreti e immediati: avviare i cantieri, sbloccare le convenzioni, semplificare le procedure e garantire trasparenza. Solo così si potrà restituire fiducia ai cittadini e voltare pagina. Il Servizio Studi della Camera lo riassume in termini netti: “l’effettiva attuazione della riforma del SII è ostacolata da una governance ancora segmentata e dalla mancata chiarezza nei ruoli istituzionali, con particolare criticità nelle Regioni del Sud” (pag. 58 del dossier, citando il PNIISSI e il Pnrr come tentativi di indirizzare risorse al Sud). L’Arera (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) stessa, pur rilevando un miglioramento medio nazionale degli indicatori di qualità tecnica del servizio idrico tra il 2016 e il 2023, sottolinea che a ciò “non corrisponde una riduzione significativa delle ampie differenziazioni territoriali nei livelli di qualità dei servizi (water service divide)”.

Serve un cambio di passo immediato. Serve responsabilità istituzionale, chiarezza nei ruoli, coraggio decisionale. Serve che ciascun attore faccia la propria parte, con trasparenza e rigore. Solo così la Calabria potrà recuperare il tempo perduto e guardare avanti. Dobbiamo liberare la gestione dell’acqua dalla palude burocratica e dagli interessi particolari.

Perché l’acqua è un bene vitale. Ma in Calabria, finché la politica correrà e la burocrazia continuerà a frenare o, peggio, a remare contro, resterà solo una promessa che non disseta nessuno. (bg)

[Bruno Gualtieri già Commissario Straordinario dell’Autorità Rifiuti e Risorse Idriche della Calabria (ARRICAL)]

LA CALABRIA E LA SFIDA DA NON PERDERE
NELLA GESTIONE DELLE RISORSE EUROPEE

di GUIDO LEONE – Oggi anche la Calabria  festeggia la Giornata dell’Europa e, quest’anno, segna il 75° della Dichiarazione Schuman da cui nacque la Comunità europea.

Con l’allargamento abbiamo dimostrato che intendevamo veramente rendere l’Europa globale e libera:oggi più di 448 milioni di uomini e donne in 27 democrazie vivono in una Unione che condivide istituzioni e  moneta mentre altri Paesi bussano alla porta.

Certo, la crisi economica e sociale di questi ultimi anni, nel mezzo di una tempesta iniziata all’interno del nostro continente, ha messo alla prova la determinazione comune.

Secondo l’ultimo  sondaggio Eurobarometro cresce il sentimento positivo degli italiani verso l’Ue, passando dal 63% al 67%. Ma la percentuale degli euroscettici è la più alta d’Europa: il 31% dei cittadini ritiene che l’Italia non abbia beneficiato dall’ingresso nella Ue.

Tra gli effetti positivi dell’Unione gli intervistati citano il contributo di Bruxelles al mantenimento della pace e al rafforzamento della sicurezza, primo beneficio per il 35% degli europei. Inoltre, vi è un’ampia convergenza di opinioni sull’idea che gli Stati membri debbano agire in modo più unito per affrontare le sfide globali, dato al 89% per l’Ue e al 88% in Italia. Ed anche sul fatto che l’Ue abbia bisogno di più risorse per affrontare le sfide future, parere condiviso dal 76% degli europei, e dall’82% degli italiani.

La preoccupazione prevalente nella testa degli italiani, il 43%, non è più l’immigrazione, ma il costo della vita. Poi il sostegno all’economia e la creazione di posti di lavoro, 37%. E appena dopo, insieme alla questione difesa, viene la richiesta al Parlamento europeo di occuparsi di lotta alla povertà il 26%.

Ora, non vi è chi non veda e riconosca indispensabile, nella nuova fase politica in cui è entrata la costruzione dell’Europa, la funzione della scuola, perché essa dipenderà dalla possibilità che si realizzi un grande spazio europeo dell’istruzione e della formazione, senza il quale sarà difficile costruirla.

La nuova Europa di questo decennio dovrà irrobustirsi nelle scuole contro i tentativi dei disfattisti ed un antieuropeismo nascente. Gli ambasciatori di questa Europa sono e saranno i giovani. Non sono slogan, ma la pura e semplice realtà.

Basti pensare alla Generazione Erasmus. Se c’è un ambito in cui l’Italia primeggia in Europa, anzi dove occupa proprio la prima posizione, quello è l’interesse degli studenti per l’istruzione internazionale e i viaggi di studio all’estero.

L’Italia è al primo posto fra i Paesi del programma Erasmus+ per numero di persone in partenza per attività di studio e formazione.

Dal 1987 ad oggi, oltre 720.000 studenti italiani hanno partecipato a programmi Erasmus per periodi di studio o tirocinio.

In crescita anche la partecipazione del settore scolastico, che ha chiuso il 2024 con oltre 16.000 studenti e 10.000 insegnanti in mobilità per formazione e scambi e 1.400 istituti scolastici accreditati. Il Paese ha dimostrato anche una forte capacità di attrazione, e si colloca al secondo posto in Europa per accoglienza, con circa 200mila studenti ospitati dal 2024.

Ora fino a poco tempo fa è stato  di moda parlare male dell’Unione Europea (ora certamente di meno dopo i finanziamenti previsti col Recovery Fund per oltre 200 miliardi), criticare con forza la sua mancata coesione, la sua moneta forte e debole nello stesso tempo.

Certo, tutto questo è legittimo ma forse dovremmo anche ricordare l’enorme investimento fatto dall’Ue per la Calabria, compresa la scuola in particolare nel mondo della scuola, dove, nel corso di questi anni, le attività proposte nelle classi, assolutamente gratuite, sono state moltissime e variegate, dal rafforzamento dei servizi e delle strutture per l’istruzione e la formazione al miglioramento dei processi di apprendimento, qualificazione e crescita professionale e per la riqualificazione degli edifici scolastici.

Secondo il Documento di Indirizzo strategico Regionale (Disr) per il ciclo di programmazione in base a cinque obiettivi strategici  della politica di coesione 2021-2027, in Calabria gli investimenti europei per il periodo 2021-2027 ammontano a oltre 3,17 miliardi di euro, con un contributo specifico di 700 milioni di euro dal Fse. La gestione di queste risorse, che vanno ulteriormente rafforzate, costituisce una opportunità straordinaria per far crescere la Calabria, e resta una sfida complessa che la regione sicuramente vincerà.

La posta in gioco, dunque, è alta. Riguarda il futuro dell’Europa Unita, la prosperità e il tenore di vita comune a fronte di tentazioni isolazionistiche nazionali, di involuzioni storiche tali da far ritornare a contrapposizioni disastrose. La costruzione politica dell’Europa non é stata fin qui e non sarà certamente per il futuro il risultato dell’egemonia politica o militare di qualche potenza dominante. La costruzione dell’Ue può e deve essere il risultato di una capacità di condivisione di regole e principi e di una cultura politica democratica partecipata.

Gli interessi dei singoli Stati possono essere meglio difesi da un’Europa più forte, non più debole e divisa. Oltre alla moneta comune e alla Bce servirebbero un’unica politica estera e della difesa (sul modello degli Usa), e un governo unitario – purché efficiente e realmente comunitario – delle strategie economiche e finanziarie. E anche delle politiche educative, con il superamento delle preclusioni contenute negli attuali Trattati e il varo (almeno) di un core curriculum europeo.

Oggi le tre superpotenze planetarie con le quali l’Europa dovrebbe confrontarsi e competere, gli Usa, la Russia e la Cina, hanno sistemi scolastici nazionali, pur ciascuno con caratteristiche peculiari, e – oltre che una lingua nazionale – piani di studio che garantiscono una formazione di base fino ai 18 anni con elementi comuni, che concorrono alla costruzione dell’identità nazionale. I 51 Stati che formano gli Usa hanno una scuola di base comune di dodici anni (il cosiddetto K12), egualmente la Russia e la Cina, malgrado le forti differenze regionali. Si tratta di tre Paesi-continente. L’Europa è invece un continente non-Paese. Anche perché non ha un sistema scolastico che aiuti a darle un’identità forte.

L’alternativa alla disgregazione dell’Europa è insomma più Europa, da costruire a partire dalla scuola, che deve formare cittadini europei. 

Questo rimanda al concetto di cittadinanza europea, alla costruzione di noi stessi, di noi tutti, come cittadini dell’Europa attraverso nuove reciproche relazioni.

Ricordando, altresì, che occorre una nuova pedagogia della cittadinanza perché l’Europa di oggi e del domani non potrà essere realizzata senza o contro i giovani e che non si costruisce l’Europa senza e tantomeno contro il Mediterraneo, dove la nostra Calabria svolge la funzione di regione cerniera a cavallo di due grandi culture.

Sarebbe come formare una persona senza tener conto o contrastando la sua infanzia e la sua adolescenza. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico Usr Calabria]

 

SVIMEZ: NO A RIARMO CON FONDI COESIONE
BISOGNA RIDURRE I DIVARI TERRITORIALI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «Serve una chiamata alle “armi” per ridurre i divari territoriali e sociali». È l’appello lanciato dalla Svimez, dicendo “no” all’utilizzo delle risorse di coesione per finanziare il Piano Rearm Eu.

Il piano, infatti, propone un utilizzo delle risorse della coesione inconciliabile con i suoi obiettivi di inclusione economica, sociale e territoriale. «La coesione – scrive la Svimez – rappresenta un pilastro costitutivo dell’Unione europea che non può essere indebolito di fronte ad ogni emergenza. Tuttavia, il basso tasso di spesa del ciclo 2021-2027 e il debole consenso politico intorno a questa politica potrebbe determinare, come avvenuto in passato, e nonostante le dichiarazioni di principio, una forte pressione della Commissione e delle stesse istituzioni nazionali per un loro utilizzo per investimenti nella difesa».

«Non basta, dunque – viene evidenziato – opporsi a tale proposta ma occorre prendere atto dell’urgenza di una profonda riforma che faccia i conti con i suoi «fallimenti» ma che sia in grado di valorizzarne il potenziale in termini di costruzione di un’Europa più inclusiva e competitiva».

La proposta è stata inviata lo scorso 4 marzo dalla presidente della Commissione Europea ai leader degli Stati membri, accompagnata da un Libro Bianco sul futuro delle Difesa Europea/Preparati al 2030 pubblicato il 20 marzo.  Tra le modalità di finanziamento del Piano è anche prevista la possibilità di riallocare i fondi e le risorse disponibili nel bilancio pluriennale 2021-2027, attualmente destinati ad altri scopi.

«La difesa comune rappresenta un tema cruciale e prioritario per l’Europa. Ma le risorse ad essa destinate – scrive la Svimez – sono ben lontane e difficilmente conciliabili con gli obiettivi di riduzione dei divari territoriali e sociali, a cui sono destinate le risorse per la coesione. Nonostante le istituzioni europee continuino a sottolineare il carattere strategico della coesione, essa viene costantemente utilizzata come fonte di finanziamento di ogni nuova iniziativa emergenziale».

Per l’Associazione, «a pagare il prezzo di una eccessiva flessibilità potrebbe essere uno dei principi cardine della politica di coesione: l’addizionalità delle sue risorse rispetto a quelle ordinarie».

«Tale principio stabilisce che i fondi europei non devono sostituire la spesa pubblica dei Paesi membri destinata ai medesimi obiettivi – ha ricordato la Svimez – ma aggiungersi a essa per potenziare ulteriormente gli investimenti. L’addizionalità delle risorse europee è già stata sacrificata in passato, quando in carenza di risorse aggiuntive, si è ricorso ai fondi della coesione per fronteggiare le situazioni di emergenza. Le modifiche legate alle varie emergenze che hanno minato non poco la “qualità” della spesa finale della Programmazione 2014-2020, molto più orientata verso le agevolazioni alle imprese piuttosto che alla riduzione dei divari infrastrutturali. Alla fine del ciclo, rispetto alla programmazione iniziale, si registra una notevole riduzione della percentuale di risorse (e di investimenti) destinate alla doppia transizione verde e digitale (- 33 %) e alle infrastrutture sociali (-24%).

«È proprio con questa consapevolezza che, nel dibattito europeo – si legge – è stato dato rilievo alla necessità di “non nuocere” alla coesione, attraverso un approccio coerente tra tutte le politiche dell’UE per rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale. Si tratta di un punto ribadito anche nelle Conclusioni del Consiglio europeo del 30 novembre 2023, che raccomandano come il principio del “non nuocere” alla coesione debba essere tenuto in considerazione in tutte le politiche e iniziative dell’Unione. La proposta di Rearm EU mette, però, chiaramente in luce come tale principio rischi di essere nuovamente minato non appena appaiono nuove nubi emergenziali per l’Europa».

Al momento, la proposta si limita a enucleare gli incentivi all’utilizzo delle risorse della coesione: Eliminazione degli attuali divieti che impediscono l’utilizzo delle risorse per la coesione a supporto delle grandi imprese operanti nel settore della difesa. Si tratta di una deroga di estremo rilievo, dal momento che la possibilità di concedere agevolazioni alle grandi imprese attraverso i fondi per la coesione è sempre stata impedita dai regolamenti europei.

Inclusione all’interno delle tecnologie strategiche per l’Europa (Step) di tutta la gamma di tecnologie rilevanti per la difesa.

L’iniziativa Step è stata individuata come uno dei principali architravi per incentivare il reindirizzo delle risorse per la coesione verso interventi per la difesa comune inglobando all’interno delle Step tutta la gamma di tecnologie rilevanti per la difesa. Questi interventi potrebbero riguardare non solo le agevolazioni agli investimenti operabili con il Fesr ma anche le spese di apprendimento permanente, di istruzione e formazione finanziabili attraverso il Fondo sociale europeo plus (Fse+). Al riguardo, il Libro Bianco rimarca in diversi passaggi la necessità di promuovere skills and expertise nel settore della difesa.

Maggiori benefici finanziari, in termini di più elevati tassi di prefinanziamento e cofinanziamento, per le risorse riprogrammate a favore della difesa.

«A tal proposito – scrive ancora la Svimez – è plausibile che la Commissione proponga l’applicazione di meccanismi analoghi a quelli già previsti dall’iniziativa STEP: un prefinanziamento aggiuntivo del 30% e l’applicazione del tasso di cofinanziamento con risorse europee del 100% sugli investimenti dirottati a favore della difesa. La proposta costituirebbe un appetibile incentivo finanziario, dal momento che il maggior prefinanziamento comporta una riduzione del fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche, mentre il cofinanziamento al 100% consente di liberare le risorse nazionali attualmente impegnate sui fondi europei. In quest’ultimo caso, occorrerebbe tener cura del loro riutilizzo verso interventi coerenti con le priorità dei Programmi da cui provengono».

Per l’Associazione «le proposte di Rearm Europe non affrontano la questione dell’allocazione territoriale delle risorse della coesione riprogrammabili per la difesa, limitandosi unicamente a prevedere un’affermazione generale su come una più forte e resiliente industria europea della difesa possa promuovere lo sviluppo regionale. Le risorse dei fondi per la coesione sono difatti territorialmente distribuite secondo precisi criteri allocativi fondati sugli svantaggi regionali».

«Si tratta – viene spiegato – del principio fondante della coesione: tutte le precedenti iniziative di riprogrammazione emergenziale hanno sempre mantenuto l’originaria distribuzione territoriale delle risorse. Il mantenimento dell’originale chiave di riparto per risorse riprogrammate per la difesa andrebbe, invece, chiarita il prima possibile, dal momento che nel settore della difesa i criteri di allocazione di mezzi e investimenti tendono a seguire logiche ben diverse rispetto alla situazione socioeconomica dei territori. Una preoccupazione aggravata dalla considerazione che, come a differenza dell’iniziativa di Repower Eu, nella proposta di Rrearm Europe non è prevista una percentuale massima delle risorse della coesione riprogrammabili a favore della difesa.

La riprogrammazione delle risorse per la coesione a favore della difesa avviene esclusivamente su base volontaria, ma dovrà essere effettuata in concomitanza con la revisione di medio periodo dei Programmi 2021-2027.

«Si ricorda – si legge nel documento della Svimez – che la revisione di medio termine prevede che il 50% del contributo europeo per gli anni 2026 e 2027 (circa 50 miliardi) relativo ai Programmi di ciascuno Stato membro possa essere definitivamente assegnato solo dopo l’adozione, in seguito al riesame intermedio, di una apposita decisione da parte della Commissione europea. Ciò pone la Commissione in una oggettiva posizione di forza ai fini delle modifiche ai Programmi necessarie per ottenerne l’approvazione definitiva e l’assegnazione delle ultime tranche di risorse. Non è pertanto da escludere che, in situazioni di oggettiva assenza di efficacia e/o di difficoltà attuativa dei Programmi, la Commissione possa essere in grado di esercitare azioni persuasive per un loro utilizzo che comprenda gli investimenti per la difesa. Soprattutto per l’Italia considerato che al 31 dicembre 2024 la percentuale di spesa della programmazione 2021-2027 è di appena il 4%, e l’importo impegnato pari al 25%».

Le incognite sulla revisione di medio periodo e di una riprogrammazione potenzialmente incoerente con gli obiettivi di inclusione e addizionalità sollevano nuovi dubbi sulla tenuta del principio del “non nuocere” alla coesione.

Secondo la Svimez, «questa tendenza può essere invertita solo attraverso una profonda revisione dell’impostazione generale e delle modalità di organizzazione e funzionamento della politica di coesione. Una revisione che consenta di superare gli oramai evidenti limiti dell’attuale impostazione, e che rimetta tale politica al centro del modello di sviluppo sociale ed economico del continente europeo, riorientandola verso obiettivi di riduzione dei divari regionali, la cui strategicità possa essere immediatamente compresa, condivisa e verificata da cittadini e territori».

«Un focus deciso su obiettivi di riduzione dei “divari di cittadinanza” omogenei in tutti i territori appare un passaggio cruciale – viene sottolineato – affinché le politiche di coesione possano trovare fattivamente sostegno e supporto “dal basso. Obiettivi chiari e verificabili in tema di diritto all’istruzione, all’assistenza, alla mobilità e alla salute renderebbero sicuramente meno attaccabili e più stabili le risorse ad essi destinate. In questo quadro, un approccio orientato ai risultati richiederebbe una maggiore responsabilità europea nella definizione degli obiettivi che deve accompagnarsi ad un coinvolgimento diretto delle amministrazioni locali, a partire dai Comuni, nella realizzazione dei target, non disperdendo lo sforzo progettuale e attuativo determinato dall’esperienza del Pnrr».

La definizione di obiettivi chiari, misurabili e verificabili, assieme al focus sui servizi “di prossimità” legati alla cittadinanza risulterebbe idonea a destare un’attenzione e un interesse maggiore da parte delle comunità locali nei confronti dei fondi europei e, conseguentemente, un monitoraggio civico sul raggiungimento dei risultati. Tutto ciò porrebbe le basi per un sostanziale miglioramento della percezione e della valutazione delle politiche di coesione da parte dei cittadini, avvicinandoli a comprenderne l’utilità e il valore.

«Questo passaggio, apparentemente non strategico – spiega la Svimez – rappresenta in realtà uno snodo essenziale per creare una constituency, oggi assente per le politiche di coesione, che le sostenga e difenda in sede europea. Una constituency che si attiverebbe solo laddove il trasferimento delle risorse della coesione verso altre finalità dovesse mettere a rischio l’attuazione di misure atte a raggiungere obiettivi essenziali per le comunità locali».

«La riduzione dei divari di cittadinanza – viene sottolineato – dovrebbe essere inoltre accompagnata dal ruolo centrale da assegnare alle politiche di coesione per favorire la localizzazione degli investimenti (pubblici e privati) nelle regioni meno sviluppate, al fine di consolidare e potenziare tutti settori strategici della nuova politica industriale europea delineata dal Piano Draghi, non solo al settore della difesa. Se l’attuale dibattito tecnico e politico sulla politica industriale europea risulta carente per quanto concerne la dimensione territoriale, la centralità della politica industriale all’interno della politica di coesione è l’unica strategia per restituire un’adeguata rilevanza alle specificità e potenzialità regionali».

«Si tratterebbe di passare dall’attuale approccio, che vede la destinazione di agevolazioni alle imprese come la più semplice modalità per risolvere problemi e lentezze di attuazione dei Programmi, e che da sempre induce a riprogrammazioni a favore di generici sussidi orizzontali “a pioggia” – conclude la Svimez – ad una impostazione strategica coerente con gli indirizzi di politica industriale europea per l’individuazione di settori industriali di traino, e le modalità con cui sostenerli». (am)

L’OPINIONE / Massimo Cogliandro: Il Sud ha meno diritti per legge

di MASSIMO COGLIANDRO Sono meridionale e ammetto di aspirare ad essere considerato un meridionalista. Ma il mio cuore è sempre rivolto alla giustizia, rispettosamente timoroso di quella Divina ed all’equità.

Sono convinto sostenitore di un’Italia unita e migliore in un’Europa non più cripto-continente ma confederazione di Stati, forte, equa, solidale e florida! Ma in questo percorso quanti ostacoli, piccolezze umane e politiche insensate si frappongono, rendendolo quasi impraticabile.

È, quindi, l’ora dell’autocritica, dell’esame, dell’accondiscendenza. Non certamente del mantenere punti di forza od orgogli nazionalistici o peggio ancora regionali! Sono convinto dell’assoluta necessità di ciò perchè il percorso europeista è, a mio avviso, la sola strada percorribile per cancellare il gap infrastrutturale ed economico meridionale.

Ho maturato questo pensiero alla luce della sentenza della Corte Costituzionale sull’Autonomia Differenziata regionale che certifica l’impossibilità di assegnare alcune materie alle regioni, perché già di competenza europea! Quindi solo la via europeista ha chance di salvare il meridione! Infatti ad ulteriore prova e con l’amaro in bocca quale appartenente al Partito del Sud, vedo i miei compaesani più propensi a votare la Lega Nord. Preferiscono andare contro i propri interessi, invece di scegliere di sostenere noi o qualsiasi altra forza politica meridionalista che con convinzione avrebbe esclusivo mandato di tutelare i nostri interessi economici ed il futuro dei figli di questa terra.

Più volte ho riflettuto sul perché questo accada e mi sono spiegato che oltre alla nostra incapacità politica di promettere cose irrealizzabili, tipo le accise abolite ecc. ecc., noi meridionali abbiamo un’educazione forgiata nei secoli dalla legge Pica e dall’impostazione sabauda amministrativa dello stato.

È, quindi, impossibile per qualsiasi forza politica recuperare economicamente il meridione perché necessiterebbe una generale revisione dei codici: civili ed amministrativo e di leggi loro omogenee.

Questa mia sconvolgente affermazione deriva dalla lettura, accidentalmente, occorsami della sentenza della Cassazione, sez. I, 27 ottobre 1988 – 7 aprile 1989, n 4906, CP 90, I, 839” che recita: «Per la sussistenza dell’attenuante della provocazione, necessita un fatto da qualificare come ingiusto, e ciò perché contra ius (ndr. Responsabilità da fatto ingiusto) o privo di motivo ragionevole o non conforme a regole morali e sociali dal punto di vista sostanziale od anche per la forma angarica (ndr.: angheria), villana o vessatoria nella quale viene manifestato un fatto di per sé giusto; cosicché non può essere ritenuta ingiusta la modalità, la misura con cui il Parlamento od il governo nazionali, nella loro politica discrezionalità, procedono alla ripartizione dei mezzi, delle dotazioni e dei servizi fra le varie regioni d’Italia, ripartizione iugulata (ndr. imporre condizioni inique approfittando di uno stato di inferiorità) dalla limitazione delle disponibilità rispetto alle generali richieste».

La sentenza nasce parlando di attenuanti di reato, quindi di un argomento lontano dal meridionalismo. Però, fa riferimento ad un argomento scontato: il dispari trattamento tra territori considerandolo prassi ordinaria e corretta, di impostazione discrezionale!

Non sono un giurista, e men che meno un costituzionalista, quindi lungi da me avere titolo a critiche. Però mi sento profondamente offeso dal dettato di questa sentenza che credo emessa mancante di qualche dovuta specifica.

Credo, infatti, che il giudice bene avrebbe fatto a moderare il concetto, aggiungendo il dovuto rispetto delle libertà che ogni cittadino riesce ad ottenere grazie alle erogazioni statali.

In altre parole la tendenza ed essere trattati economicamente con pari opportunità per avere pari libertà. Questa sentenza, di stagionata epoca, mi fa dedurre che nessun cittadino italiano, per legge, abbia diritto ad un minimo comune multiplo di servizi scaturenti dalle erogazioni statali. Affermo ciò perché questa, come le altre sentenze emesse dalla Cassazione, promanano dall’interpretazione di leggi e di altre sentenze.

È, quindi, giurisprudenza consolidata il dover trattare economicamente peggio i meridionali; rassegniamoci!

Mi resta una domanda, ma la Costituzione non sanciva il contrario? Che amarezza! (mc)

[Massimo Cogliandro è responsabile per la Città Metropolitana di Reggio Calabria del Partito del Sud]

MEDITERRANEO, L’ITALIA PUÒ COMPETERE
MA DOVRÀ INVESTIRE SUI PORTI DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Una volta si chiamava Mare nostrum. Ed era un mare di civiltà sul quale si sono affacciati grandi Paesi e tutte le religioni monoteiste. I nostri progenitori lo percorrevano in lungo e in largo tanto che più che un mare era un lago che univa popoli .

In tale mare l’Italia è centrale fisicamente ma purtroppo si sta facendo sfuggire i traffici internazionali. Prima con la scoperta dell’America i porti atlantici sono diventati quelli fondamentali per i traffici con il nuovo mondo, poi con l’apertura del canale di Suez non si è riusciti a far diventare i porti mediterranei centrali perché quelli atlantici, malgrado la loro lontananza fisica sono riusciti a prevalere per la loro efficienza e la capacità di collegarsi via terra al centro dell’Europa  con collegamenti ferroviari, autostradali e aerei. 

Quindi la centralità dell’Italia è rimasta solo fisica, considerato che il Sud che doveva essere il luogo di attracco per le navi provenienti da Suez in realtà è rimasta un’area isolata. Il porto di Augusta, frontaliero a Suez, peraltro non utilizzabile anche per le scorie esistenti nei suoi fondali é rimasto non collegato con una linea ferroviaria veloce.  Ma che anche se fosse esistita avrebbe trovato nell’attraversamento dello Stretto di Messina un blocco difficilmente superabile, visto che il collegamento veniva fatto con i Ferry Boat. 

Ma anche Gioia Tauro, che non aveva il problema della strozzatura dello stretto di Messina, non è stata collegata adeguatamente con la linea ferroviaria al Centro Europa, per cui le maxi navi porta containers avevano più convenienza a percorrere tutto il Mediterraneo, attraversare il canale di Suez, costeggiare la Spagna, il Portogallo, la Francia, attraversare il canale della Manica ed arrivare poi ai porti dell’Europa del Mare del Nord, dai quali le merci, dopo essere state lavorate creando migliaia di posti di lavoro nei retroporti relativi, potevano essere trasportati nel centro Europa. 

In realtà l’Italia ha sempre puntato ai due grandi porti dell’ascella del paese, Genova e Trieste, che non sono mai riusciti a competere adeguatamente con Rotterdam, Amburgo e Anversa. Con investimenti importanti fatti in essi, forse meno giustificati di quelli non effettuati nei grandi porti meridionali che caratterizzano tutto lo stivale, da Napoli a Salerno, a Gioia Tauro a Messina, Taranto, Bari e poi di tutti quelli della Sicilia che da Palermo, Trapani, Marsala, Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Gela arrivano fino a Siracusa, Augusta e Catania. 

Con la chiusura degli approvvigionamenti energetici dalla Federazione Russa, l’esigenza di guardare verso sud è diventata prioritaria e con essa la favola del Mezzogiorno Batteria del Paese. Cioè si è cominciato a capire che essendo a pochi chilometri di distanza dalla costa africana la Sicilia poteva diventare un territorio fondamentale di attracco per i vari oleodotti, elettrodotti, metanodotti che, partendo dal Nord Africa, ricca di energia fossile, sarebbe potuta diventare un punto di passaggio importante per portare l’energia alle aree produttive del Nord e magari anche al centro Europa. 

Tale approccio insieme alla favola di una seconda industrializzazione, dopo quella mancata degli impianti petrolchimici, è diventato fondamentale per illudere i meridionali che tali impianti avrebbero portato anche posti di lavoro. 

L’altro elemento che è diventato fondamentale è stato quello relativo agli impianti eolici e solari, che necessari portano però uno stravolgimento dello skyline delle realtà interessate e un consumo di suolo agricolo, per quanto attiene agli impianti solari, estremamente elevato. 

Tanto che recentemente si è pensato di permettere la costruzione di tali impianti soltanto offshore, cosa che è estremamente più costosa di quanto non si realizzano sul territorio. 

Il recente progetto che dovrebbe realizzarsi con il piano Mattei in realtà poco può fare se diventa una realizzazione che riguarda solo l’Italia. Con tutta la buona volontà che il nostro Paese può metterci è chiaro che se parliamo di accordi di cooperazione che aiutino l’Africa ad uscire dalla condizione di sottosviluppo in cui si trova, per evitare i flussi drammatici di emigrazione, che ci riguardano, ci preoccupano e rischiano di far saltare gli equilibri socioeconomici di tanti paesi dell’Unione Europea, dobbiamo guardare a dimensioni finanziarie di aiuti che certamente il nostro Paese da solo non può consentisi. 

Il rischio che lo scambio con l’Africa continui ad essere quello predatorio, che prevede l’acquisto di energia in cambio di risorse, che spesso si perdono a favore della nomenclatura di paesi ancora che non hanno ancora raggiunto o consolidato processi democratici evoluti e che non contribuiscono ad innescare quel processo di sviluppo necessario per creare un percorso autonomo di autosufficienza, è alto.

In tale contesto l’interesse della Cina per quest’area, conseguenza degli interesse per tutto il continente africano, rischia di consentire l’esproprio di un’area che naturalmente dovrebbe far parte di una zona teorica di influenza riguardante l’Italia. 

Mentre anche la Russia manifesta l’esigenza di affacciarsi sul Mediterraneo, per cui si capiscono  i grandi interessi di conquistare il Donetsk ucraino in modo che tramite Odessa, Mariupol, che si affacciano sul Mar Nero, arrivare al grande lago salato che si chiama Mediterraneo. 

In tale contesto geopolitico l’Europa sembra totalmente assente e sta guardare i conflitti che stanno avvenendo sulle coste del grande lago salato, come se non la riguardassero, mentre invece nascono da interessi ben precisi contrapposti di influenza in tali aeree. 

Se le politiche che il Paese vuole portare avanti riguardano lo spopolamento del Mezzogiorno, fornendo anche aiuti a chi si voglia trasferire, non investendo adeguatamente in tale realtà attraendo investimenti dall’esterno dell’area, infrastrutturando adeguatamente tale territorio, lavorando fin da adesso per mettere a regime i porti del Mediterraneo e della Sicilia orientale in maniera tale che all’apertura del ponte sullo stretto del 2032 siano già pronti, perché competere con Rotterdam non è un gioco da bambini, se tutto questo non si fa quando ci sveglieremo dal lungo sonno troveremo i giochi già tutti fatti e non potremmo che essere spettatori in casa nostra. 

Per guardare al Mediterraneo non basta solo affermarlo a parole o sostenere soluzioni parziali come quella di diventare il centro di formazione per i paesi arabi, o altre correte visioni ma parziali, ma è necessario un approccio sistemico, che guardi a tutte le variabili economiche e geopolitiche. Prima ce ne rendiamo conto e più facile sarà avere un ruolo. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

L’INGIUSTIFICATA NECESSITÀ DEL MINISTRO
FITTO DI RIESAMINARE IL PNRR PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «La Commissione Europea ha versato all’Italia la quinta rata del Pnrr, pari a 11 miliardi di euro. Il pagamento segue la valutazione positiva, adottata formalmente lo scorso 2 luglio, connessa al conseguimento di 53 traguardi e obiettivi della quinta rata del Pnrr italiano».

Questa la notizia delle Agenzie che riguarda un fatto estremamente importante, che viene confermato da numeri inoppugnabili: vi è un versamento nelle Casse dello Stato italiano di una cifra considerevole. Parliamo di 11 miliardi che certamente aiutano il bilancio. 

Giancarlo Giorgetti sarà molto soddisfatto e grato nei confronti di Raffaele Fitto, che porta a casa già oltre 100 miliardi. Con l’incasso della quinta rata, infatti l’Italia ha ricevuto ad oggi il 58,4% delle risorse complessive del Pnrr, pari a 113,5 miliardi di euro su un totale di 194,4 miliardi. 

Già il 2 luglio Bruxelles aveva approvato una valutazione preliminare positiva delle 53 tappe e obiettivi richiesti, per sbloccare la rata da 11 miliardi, tra cui l’attuazione di 14 riforme e 22 investimenti, in settori quali il diritto della concorrenza, gli appalti pubblici, la gestione dei rifiuti e dell’acqua, la giustizia, il quadro di revisione della spesa e l’istruzione.

L’Italia ha già richiesto a Bruxelles il pagamento della sesta rata da 8,5 miliardi di euro, ed è al lavoro per la verifica e rendicontazione dei 69 traguardi e obiettivi previsti per la settima rata del Pnrr, equivalenti a 18,2 miliardi di euro.  

I rumors della minoranza che parlano di gioco delle tre carte perché il Pnrr sarebbe solo al «37% del totale del cronoprogramma» non fanno breccia. Né può essere preso sul serio un Angelo Bonelli, leader di Europa Verde, che pensa che il Governo non sia impegnato «a risolvere i problemi reali del Paese». 

Troppa generica l’accusa e l’attivismo della Premier va proprio nel senso opposto, qualcuno addirittura chiederebbe che avesse meno iniziative. E allora tutto bene? Intanto non vi è dubbio che è meglio incassare le risorse che sono state destinate all’Italia provenienti dal debito comune che invece non essere in condizione di esigerle. 

Ma qualche considerazione più ampia deve essere fatta. Le notizie circa il fatto che a livello territoriale le risorse non stanno arrivando nel Mezzogiorno, nella quantità destinatagli dal Paese, che è inferiore a quella che sarebbe toccata se l’algoritmo europeo fosse stato applicato senza alcuna correzione, sono molto frequenti e da fonti diverse. 

 Lo stesso Raffaele Fitto ha parlato della necessità di rivedere il piano per quanto attiene il Sud, con una rimodulazione che rivela alcune difficoltà, peraltro attese, considerato lo stato degli uffici tecnici delle istituzioni locali dopo anni di “dimagrimento”.  

«Dovremo garantire che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud e su questo bisognerà interrogarsi. Ci sarà l’esigenza di valutare qualche altra ulteriore revisione? Forse sì». Cosi il Ministro,  in una recente audizione presso le Commissioni Riunite Bilancio e Affari Europei di Camera e Senato, nella quale non ha escluso un’ulteriore modifica al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. 

Forse siamo andati nel senso delle proposte indecenti di Giuseppe Sala e Luca Zaia, che si offrivano di spendere loro le risorse, visto che avevano progetti esecutivi e capacità di spesa? 

E che dimenticavano entrambi che il primo obiettivo del Pnrr era di diminuire i divari non di aumentarli, e che solo perché esiste il Sud sono arrivate risorse consistenti, senza dimenticare che in parte sono a debito e quindi dovranno essere restituiti da tutti gli italiani, ovviamente in modo progressivo rispetto al reddito prodotto, concetto che alcuni “nordici” non riescono ad accettare e forse capire. E che prevede che a parità di reddito si paghi lo stesso importo di tasse e che, indipendentemente da ciò che si versa, si abbia diritto agli stessi servizi essenziali, quelli che sono stati definiti come Lep (Livelli Essenziali di Prestazioni) e che invece dovrebbero essere Lup (Livelli Uniformi di Prestazioni ). 

Ma se “bisognerà” interrogarsi sulla garanzia che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud allora vuol dire che nel raggiungimento degli obiettivi non è prevista alcuna clausola territoriale.  Se così fosse l’Unione confermerebbe una disattenzione alla quale ormai siamo abituati, e confermerebbe un assenza di governance sull’utilizzo corretto dei fondi strutturali provenienti dall’Europa. 

È accaduto che per anni i fondi strutturali siano stati sostitutivi dei fondi ordinari, che dovevano arrivare nel Mezzogiorno, tanto che il pro-capite che avrebbe dovuto essere superiore nel Sud, per l’utilizzo dei fondi aggiuntivi dell’Europa, sia risultato poi invece, malgrado questi, inferiore, senza che ciò fosse in qualche modo rilevato e sanzionato da parte della Commissione, sempre molto attenta invece  a controllare l’andamento di altri indicatori. 

E non per per una piccola cifra ma per oltre 60 miliardi annui, come è stato ampiamente documentato dal Il Quotidiano del Sud, sulla base dei dati del Dipartimento per le Politiche di Coesione voluto da Carlo Azeglio Ciampi

Bene se il raggiungimento degli obiettivi, che hanno fatto pagare la quinta rata, seguisse la stessa logica, sottovalutando il tema della territorialità, motivo per cui i vari Sala e Zaia non si lamentano più, sarebbe molto grave. 

Perché come al solito avremmo eluso il vero obiettivo che l’Unione si era data, quando per stabilire gli importi da destinare a ciascuno aveva utilizzato tre parametri: il tasso di disoccupazione, il reddito pro capite e la popolazione. 

È chiaro che la Commissione può essere disattenta rispetto ai divari territoriali, considerato che il solo vero Paese duale in Europa,  nel quale coesistono due realtà opposte,  é l’Italia, e che gli altri, che hanno problemi simili, hanno avuto sempre una considerazione estrema, come la Spagna e la Germania, delle loro realtà periferiche. 

Ciò non toglie però che l’Unione pagando le varie rate senza controllare la destinazione territoriale, come sembrerebbe stia facendo,  in realtà diventerebbe  complice del possibile fallimento  dello strumento, che invece di diminuire i divari li aumenterebbe. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud  – L’Altravoce dell’Italia]

IL PIANO RETI TEN-T PRIVILEGIA IL SUD
ORA SI DEVE COMPLETARE L’ALTA VELOCITÀ

di ERCOLE INCALZA –  In questi ultimi anni ci siamo innamorati del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, abbiamo cercato di salvare il salvabile delle risorse non spese del Fondo di Sviluppo e Coesione 2014 – 2020, non riuscendoci, ci siamo interessati al nuovo Fondo di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027 e grazie all’azione del Ministro Raffaele Fitto stiamo cercando di evitare la perdita secca di circa 80 miliardi di euro della passata esperienza, ma ora, proprio in occasione di questo nuovo Parlamento dovremmo ricordare a coloro che nel prossimo mese si insedieranno nel nuovo consesso comunitario che esiste un’altra grande occasione strategica per il rilancio organico del nostro Mezzogiorno.

Mi riferisco, in particolare alla nuova edizione delle Reti Trans European Network (Ten – T); sì di quel Pian strategico che produce direttamente la Unione Europa e che ogni cinque anni lo aggiorna. Un Piano che è supportato dagli Uffici della Unione Europea e dalla Banca Europea degli Investimenti. Un Piano che dispone anche di un volano di risorse pari a circa 35 miliardi di euro. L’importanza di un simile strumento, il cui aggiornamento è stato approvato venti giorni fa, è quanto meno duplice: Ratifica ancora una volta le scelte relative al Corridoio Helsinki – La Valletta e, quindi, contiene integralmente l’asse ferroviario ad Alta Velocità Napoli – Bari, Salerno – Reggio Calabria – Messina – Palermo – Catania. Riconferma la essenzialità del Ponte sullo Stretto. Prolunga il Corridoio Baltico – Adriatico fino alla Regione Puglia (prima si fermava a Ravenna).

In base ad una decisone assunta dal Consiglio Europeo in occasione della approvazione del Patto di Stabilità comunitario, gli interventi relativi a scelte programmatiche comunitarie (e quindi quelli ubicati sulle Reti Ten – T non gravano sul debito pubblico delle singole Nazioni).

Appare evidente che in presenza di simili sostanziali decisioni, i nostri rappresentanti nel nuovo Parlamento dovranno perseguire la concreta attuazione di una volontà che già la Unione Europea ha condiviso e ratificato. In realtà dovranno dare concreta attuazione al completamento della offerta ferroviaria ad alta velocità nell’intero Mezzogiorno.

Diventa improcrastinabile portare a termine, davvero, la offerta ferroviaria ad alta velocità nell’intero Mezzogiorno e quando intendo “intero” Mezzogiorno mi riferisco oltre alle linee già definite come la: Salerno – Reggio Calabria, Napoli – Bari Palermo – Catania – Messina, mi riferisco anche alle linee: Cagliari – Sassari – Porto Torres, Trapani – Palermo, Siracusa – Catania, Bari – Brindisi – Lecce, Bari – Taranto – Battipaglia.

Questa scelta, in un certo senso, denuncia una discutibile impostazione iniziale del progetto della rete ferroviaria ad alta velocità; in fondo la mia è un’autocritica e devo anche precisare che Lorenzo Necci sin dal primo momento ribadì che la famosa T (Torino – Venezia e Milano – Napoli) “era solo l’inizio di “una rivoluzione del nostro rapporto con il treno, una rivoluzione che terminerà quando l’intero Paese avrà un sistema ferroviario ad alta velocità; ho detto sistema perché coinvolge il rotabile, la sicurezza ed i nodi stazioni” (sono parole di Necci) in una audizione al Senato nel 1992. Cioè Necci era convinto che il sistema ad alta velocità sarebbe stato una offerta non più legata alla “convenienza dell’investimento” ed alla “rilevanza della domanda” ma sarebbe stata una condizione obbligata per rispondere alle esigenze di un Paese che non poteva essere diviso in due distinte aree: una di serie A ed una di serie B. Ebbene questo impegno dovrebbe essere intanto prodotto subito dalle Ferrovie dello Stato ed inserito nel prossimo Contratto di Programma.

Questa proposta contiene un respiro programmatico lungo e consente, al tempo stesso, un ritorno alla intuizione programmatica di medio e lungo periodo che da almeno dieci anni avevamo dimenticato e, soprattutto, assicura al Mezzogiorno un grado di libertà che non possiede e cioè: una rete ferroviaria ad alta velocità vera. (ei)

SOLO L’EUROPA SI È ACCORTA CHE CI SONO
DUE ITALIE: SERVE ATTENZIONE PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAChe i Paesi sono due se n’è accorta solo l’Europa. Lo dimostra quando utilizza un algoritmo per distribuire le risorse del Pnrr riferendosi a dei parametri che avvantaggiano le realtà a sviluppo ritardato. 

Assegnare le risorse molto consistenti del Recovery Plan in relazione al tasso di disoccupazione, al reddito pro capite e alla popolazione, è stato un modo per privilegiare le realtà più marginali e periferiche, che dimostrano con l’entità di tali aggregati la loro debolezza. 

 L’Italia come risponde a questa sensibilità dell’Europa alle problematiche dei divari? Limitando l’intervento europeo ed evitando di utilizzare lo stesso algoritmo ma, governo di Super Mario Draghi in carica, finge di regalare un 7% in più rispetto al 33% della popolazione del Meridione, e distribuendo i fondi  attribuisci  il 40%  e il 60% , rispettivamente, al Sud e al Centro Nord, contrabbandando la vulgata di aver dato un 7% in più, quando invece se ne sottraeva il 10% rispetto al 50% che sarebbe toccato, se si fossero riproposti sic e sempliciter i calcoli fatti dalla Commissione. 

Se n’è accorta quando ha consentito che le otto Zes diventassero una unica per tutto il territorio. Senza entrare nel merito che poneva una contraddizione nei fatti nel cambiare delle regole di vantaggio, che dovevano essere adottate da aree limitate per consentire l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area e il superamento delle problematiche che scoraggiano gli eventuali investitori a localizzarsi nel Sud.

Quando ha  autorizzato un cuneo fiscale per il costo del lavoro di vantaggio per tutta l’area, che se il Paese fosse unico avrebbe configurato la fattispecie degli aiuti di Stato. Tutto ciò nei limiti consentiti dalle normative dei rapporti tra Stati e Commissione  e tenendo conto della prevalenza nelle decisioni del Consiglio dei Capi di Governo, l’Europa sembra porsi in modo molto preciso la problematica relativa ad un’area così ampia che, se fosse da sola, rappresenterebbe il quinto Paese, in termini di dimensioni demografiche, d’Europa. 

Perché sa bene che differenze troppo ampie tra singole aree provocano problemi sociali e conseguentemente anche istituzionali gravi, che si ripercuotono poi sulla governance complessiva. Oggi che la Commissione Europea approva modifiche al regime italiano a sostegno delle imprese del Sud Italia conferma la sua attenzione particolare.

 L’aiuto consisterà in una riduzione del 30% dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro privati attivi nelle regioni meridionali dell’Italia. L’Italia ha notificato le seguenti modifiche al regime esistente: un aumento di bilancio di 2,9 miliardi di euro, che porta la somma  complessiva da 11,4 miliardi a 14,3 miliardi di euro; e una proroga del periodo in cui si applica la riduzione dei contributi previdenziali al 31 dicembre 2024. 

In realtà l’Europa sembra essere molto più attenta alle problematiche dei divari di quanto non lo siano gli stessi Paesi membri. Alcuni dei quali in realtà si comportano con atteggiamenti e obiettivi che rispecchiano la volontà di diminuire le differenze esistenti, come ha fatto la Germania con la ex Ddr; con i comportamenti adottati dalla Spagna che ha una grande attenzione alle realtà periferiche, tanto da rilanciare le città meridionali del paese iberico, come Siviglia, Valencia o Malaga; come sta facendo con grande successo la Polonia, e come invece sembra non fare l’Italia, anche se il provvedimento di cui parliamo, che viene approvato, ha origine in una richiesta italiana. 

Strombazzare i successi conseguiti nel mercato del lavoro quando ancora il Sud ha una occupazione complessiva, che comprende anche il lavoro sommerso, che si pone su un dato di 6 milioni e 400 mila  occupati su 20 milioni di abitanti, che pone quest’area in una posizione nella quale lavora poco più di una persona su quattro, quando realtà come Emilia Romagna e Veneto riescono a far lavorare una persona su due, ci dà la dimensione di quanto ancora debba essere fatto, malgrado i tassi di incremento che sono stati recentemente conseguiti e che hanno un valore poco più alto di quelli del Centro Nord.              

Per esemplificare due Regioni che hanno una popolazione simile  come il Veneto (4.834) e la Sicilia (4.789), nel 2023, hanno un’occupazione media rispettivamente di 2.225.751 occupati e 1.410.776, compresi i sommersi. 

Cioè in Veneto, con  popolazione analoga hanno possibilità di lavorare 800.000 persone in più. E poi si briga senza successo per portare l’Intel a Vigasio a pochi chilometri da Verona. 

Mentre la Puglia con 3.883,839 abitanti ha occupati per 1.292.646 e l’Emilia Romagna con 4.455.188 abitanti ha occupati  per 2.023. Anche qui il rapporto di uno a quattro e uno a due. In questo caso i dati assoluti danno meglio la dimensione delle problematiche e di come  differenze di incremento dell’1%, nella crescita degli occupati a favore del Mezzogiorno sia assolutamente insignificante. 

L’interesse e la comprensione della problematica dell’Europa ci suggeriscono l’esigenza che si possa avere, nel caso del utilizzazione non corretta dei fondi comunitari, un intervento che ci faccia passare dal disimpegno automatico alla sostituzione dei poteri, che deve avvenire sia all’interno del Paese, così come è accaduto per la sanità calabra, con un flop però incredibile, ma che avvenga anche tra le realtà nazionali e quella europea. 

Si evidenzia l’esigenza cioè che l’Europa non sia soltanto ragionieristicamente controllore della correttezza amministrativa delle operazioni svolte, come sembra  stia  accadendo con il Pnrr, ma che entri nel merito. 

Perché per esempio pensare di mettere a bando gli asili nido e consentire ai Comuni più virtuosi di aumentare la propria dotazione anche se questa era al di sopra delle medie nazionali forse non è l’approccio più corretto. 

L’inserimento nella legislazione nazionale dell’Autonomia Differenziata deve far scattare un campanello d’allarme. Perché la possibilità che le Regioni chiedano un contatto diretto con l’Unione Europea, diventando dei piccoli Staterelli, più garantiti da un’Europa delle nazioni invece che da un’Italia coloniale potrebbe essere piuttosto alto. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

EUROPA, UN VOTO IMPORTANTE E DECISIVO
MA RISCHIA DI VINCERE L’ASTENSIONISMO

di SANTO STRATI – Anche se i partiti, in via preliminare, hanno volutamente dato una valutazione modesta sull’importanza del voto europeo a cui sono chiamati ben oltre 370 milioni di elettori, in realtà questa consultazione ha particolare rilevanza. Soprattutto per il nostro Paese.

In primo luogo, al contrario di quanto sostiene Giuseppe Conte (M5S), è un test importante per il Governo e – se vogliamo – una misura precisa di distacco tra la Meloni e la Schlein. Difatti, stasera, quando cominceranno gli exit-poll e domani quando avremo le cifre del voto, sarà evidente che il “referendum” destra-sinistra avrà vincitori e vinti.

Il vero problema è, in realtà, un altro. Qualcuno ha sentito parlare di Europa durante questa campagna elettorale? Sì, vagamente, ma soprattutto in chiave partitica con lo spettro dei sovranisti a seminare timori sul trionfo del più becero nazionalismo, quando, in realtà i cittadini avrebbero voluto ascoltare dai leader – quasi tutti impegnati in prima persona a raccattare voti (tanto nessuno, a partire da Giorgia per finire alla Schlein, passando per Tajani, Calenda, Renzi e via discorrendo) ha la benché minima intenzione di andare a Bruxelles.

Non si pensi a una presa in giro dell’elettorato, che è molto più intelligente di quello che credono i politici, e ha immediatamente capito la mossa “acchiappa-voti” dei principali player del quadro politico italiano: la gente non va a votare per tante ragioni, prima di tutto perché delusa dalla politica e stufa di promesse date e poi mai mantenute, in lotta perenne (la stragrande parte) con i soldi che non bastano più e una povertà strisciante che sta insidiando il ceto medio. Hanno un bel dire che l’inflazione si è abbassata, sotto livelli apprezzabili: andassero i nostri amministratori, governanti, ministri a fare direttamente la spesa al supermercato. Da gennaio a oggi il cittadino medio ha visto aumentare i costi del 30-40-50 % (a essere generosi, per in verità qualche volta i prezzi sono raddoppiati). E il Governo in carica – come del resto tutti i precedenti – si trova a fare i conti della serva rosicchiando ove possibile sulla pelle, però, dei cittadini-sudditi (ed elettori), ma dimenticandosi di stanare i veri evasori e tagliare le spese inutili dei tantissimi enti a  loro volta fin troppo inutili.

Non si può giocare con mancette elettorali: una social card da 500 euro, da spendere a settembre, non basta nemmeno a fare una spesa decente di un mese, salvo a tagliare anche i generi di prima necessità. Il pane costa quanto le brioches, la carne è inavvicinabile per molte categorie di pensionati, il pesce nemmeno a parlarne, per non dire poi del latte, dei pannolini dei bambini, persino degli assorbenti intimi (sui quali è ritornata l’iva “pesante”, con buona pace dei buoni propositi di una politica a favore di donne e famiglie).

Se i nostri politici leggessero il Manifesto di Ventotene che un gruppo di intellettuali antifascisti, capitanati dallo straordinario Altiero Spinelli, scrisse nel 1941 con una visione di futuro formidabile, capirebbero che è quella l’Europa che gli italiani (ma non solo loro, bensì tutti i cittadini europei) sognerebbero di avere. Non un monumento stabile alla burocrazia che penalizza produttori e consumatori con ridicole imposizioni su dimensioni, formati, prescrizioni, etc, bensì una federazione di Stati in grado di esprimere, in unità, i valori fondanti del vivere civile, ovvero pace e libertà.

Due concetti in grande affanno da due anni a questa parte: il conflitto russo-ucraino non mostra soluzioni immediate e lo stesso si può dire per la “guerra” Israele-Hamas che ha colpito e continua a colpire palestinesi (e israeleliani)inermi che hanno soltanto capito quanto vale già la parola stessa “libertà”, senza la quale nessuna pace è possibile.

E l’Europa di fronte a questi due drammi che hanno già a dismisura riempito i cimiteri di vittime civili cosa ha fatto, cosa fa, cosa farà? Sarebbe stato utile per gli elettori ascoltare dai “contendenti” idee, programmi, progetti. Invece la campagna elettorale si è svolta nella più triste sceneggiata del voto: “se non vuoi la destra al potere vota a sinistra; se non vuoi far tornare la sinistra al potere vota a destra”. Elementare, direbbe monsieur de la Palisse, scompisciandosi dalla risate. Ma non c’è stato alcun confronto serio sui temi del vivere quotidiano, sulla necessità di affrontare in maniera seria la crisi della sanità (che non è nei guai solo  in Calabria), la crisi del lavoro che non c’è (per i nostri giovani laureati che se ne vanno all’estero o al Nord, per non tornare più), la crisi degli immigrati.

La scelta – discutibilissima – di inviare in Albania a nostre spese gli sventurati che s’avventurano nel Mediterraneo, privi di un qualsiasi permesso di soggiorno è certamente contraria ai principi di accoglienza e fraternità nei confronti dei profughi che la nostra Carta costituzionale, ha previsto. E pensare che con la stessa cifra prevista per la “deportazione” si potrebbero avviare programmi di formazione e avviamento al lavoro dei migranti, il cui numero autorizzato è sicuramente inferiore ai reali bisogni del Paese.

I migranti vanno considerati una risorsa, non un problema, e invece vengono trattati – quelli intercettati prima di poggiare piede in Italia – come carne da macello. Peggio delle infelici storie di schiavitù dei secoli scorsi che aiutano solo a giustificare il senso di pena per quei derelitti del Mediterraneo, ma nulla di più.

E l’Europa cosa ha fatto? Cosa fa, cosa pensa di fare a proposito dei migranti? Al di là delle volgari idee razziste di qualche imbecille che ha persino la faccia tosta di difendere, non c’è alcun piano programmatico, alcuna visione di aiuto.

La Calabria – lo abbiamo scritto tante volte – è stata un modello di inclusione e accoglienza con l’esperienza  (mai sopportata o supportata) di Mimmo Lucano.

Restiamo, come calabresi, un modello di fraterna accoglienza e di aiuto sincero nei confronti dei disperati che tentano la sorte affrontando un Mediterraneo che è sempre più un vergognoso e non più sopportabile cimitero di migranti, ma il Governo centrale malvede questo genuino slancio di generosità e di voglia di inclusione.

L’Europa, quella che uscirà dalle urne, domani mattina, richiede una visione che non pensi soltanto al giorno dopo, ma programmi a lungo termine interventi e iniziative che facciano sentire i cittadini d’Europa, orgogliosi della loro appartenenza.

Ecco perché il voto di ieri e di oggi è importante: andiamo tutti a votare, facciamo sentire questo bisogno di rinnovamento contestando antistoriche posizioni o illusorie e disastrose promesse. La Calabria è Europa, ma l’Europa siamo noi.