Il custode delle parole, di Gioacchino Criaco

di MIMMO NUNNARI – Scrittore di fiabe e romanziere (l’uno e l’altro insieme) Gioacchino Criaco è la “voce” di quel Mediterraneo (italiano) mescolato con l’Africa e l’Oriente erede della civiltà greca e di altre culture e tradizioni dei popoli delle terre di mezzo. Al centro, nel racconto raffinato di Criaco, c’è sempre l’Aspromonte: la montagna dei profumi, della bellezza, delle magie e dei destini, fatti di abbandoni e partenze. Nel nuovo libro da poco in libreria: Il custode delle parole (Feltrinelli) lo scrittore di Africo narra questo meraviglioso microcosmo mediterraneo mescolato di saperi e tradizioni che s’incrociano.

Lo spiega lui stesso, nell’incipit del nuovo libro, che cos’è l’Aspromonte e la sua gente: “Siamo Oriente e Africa negli enigmi dei volti delle donne a cui apparteniamo…”. Criaco conduce questa volta il lettore sui sentieri naturali, reali e spirituali della montagna-madre: crocevia di sintesi umane che conservano culture e valori e potrebbero nutrire la vita di tutti nella nostra babele moderna. La sobrietà espressiva del romanzo, la sostanza del racconto, la ricerca delle parole salvifiche, unite al senso di concretezza dei fatti narrati, all’interrogarsi per metafore, sui problemi estremi dell’esistenza, danno impulso allo stile di Gioacchino Criaco che abilmente mescola la dimensione reale a quella fantastica, per celebrare l’umanità dell’Aspromonte: “La nostra è una storia millenaria che ha forgiato le parole intingendole nel cuore, nella testa, nella pancia, nel miele e nel sale, nel sangue eroico e in quello codardo, nella punta delle spade e nel taglio delle zappe” scrive, e questo suo modo di narrare sembra un andare indietro per andare avanti, come gli antichi navigatori, che dopo avere perduto la rotta per traversie di mare, al momento di ritrovarla, spesso dal lato opposto, chiamavano la manovra “avanzare di ritorno”.
Avanza di ritorno Criaco, in un libro cammino nell’umanità e nella storia di un sud del mondo in cui si sentono gli echi, le malinconie, la robustezza del racconto di Alvaro e Strati (scrittori di dignità e dimensione europea con salde radici piantate nell’Aspromonte) dei quali è l’erede, o quantomeno lo scrittore che ha assorbito di più la loro lezione di narrazione. Nella resa letteraria del romanzo di Criaco, nelle tematiche in cui s’incrociano ragioni della letterarietà con questioni antropologiche e dimensioni umane negate, ci sono anche le risonanze lontane di grandi scrittori del panorama letterario mediterraneo e sudamericano, o meglio di narratori delle periferie del mondo, come il Luis Sepulveda del romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, o il Nikos Kazantzakis di Zorba il greco. Non tanto per la trama del libro, e neppure per lo stile narrativo, perché quello dello scrittore di Africo è molto differente; anzi, è azzardato e fuorviante ogni accostamento, ma risonanze per l’affinità con la “lettura” di luoghi emarginati, sempre sotto il tallone di qualcun altro; per la somiglianza “nutriente” dei personaggi: il vecchio Antonio José Bolívar di Sepulveda, che viveva ai margini della foresta amazzonica ecuadoriana e l’Alexis Zorba, l’anziano geniale macèdone protagonista del romanzo di Nikos Kazantzakis, con l’Andrìa, il nonno pastore “custode delle parole”. Quei vecchi, appartenenti a mondi diversi, hanno in comune l’essere uomini veri che nel cuore custodiscono i segreti della natura, lo spirito della vita, i valori a cui abbeverarsi, nello smarrimento del presente fatto di inconsolabili ombre assetate. È nello spirito ereditato dai padri e dalle madri greche il custodire la parola del nonno Andrìa, che difende la lingua dei suoi avi come se conservasse fede, mito, Parola divina. Anche in questo intento salvifico della parola c’è un vicinanza spirituale tra la storia raccontata da Criaco e il personaggio del Kazantzakis che (nell’Odissea da lui riscritta) cerca tra i paesini di Creta le parole destinate a perire: nomi di fiori e piante, il lessico dei contadini e dei pescatori, della gente semplice. Kazantzakis nell’Egeo e Criaco nell’Aspromonte, narratori di epoche diverse, di stili differenti, hanno lo stesso obiettivo interpretato dai loro personaggi: salvare la parola, per salvare il mondo. Non ha importanza che Kazantzakis (morto nel 1957) abbia pubblicato il suo libro nel 1938 e Criaco abbia pubblicato Il custode delle parole nel 2022. C’è lo spirito della Madre Grecia a unire i pellegrinaggi alla ricerca di sé e delle proprie radici.
I protagonisti del romanzo di Criaco sono Andrìa il giovane, voce narrante, nipote dell’Andria “custode delle parole”, la fidanzata Caterina e Yidir, profugo africano arrivato sulle coste calabresi coi barconi dalla Libia. La figura del nonno, pastore e “sacerdote” della parola, domina su tutto. Andrìa il nipote, trattenuto nella sua terra dall’amore per Caterina, cambia la sua idea tenace di lasciare la sua terra e di partire, il giorno in cui salva dall’abbraccio mortale dello Jonio Yidir, sopravvissuto ad un naufragio, nelle acque dello Jonio. Anche lui, l’africano, sta cercando un futuro possibile. Quando il nonno lo prende clandestinamente con sé, come aiutante pastore, si accende una luce nella mente di Andrìa. Pian piano si riavvicina all’ambiente delle radici, alla Mana Gi, riscopre storia e cultura del suo popolo, lo stretto legame tra valore della vita e bellezza selvaggia dell’Aspromonte. Accetterà, così, il destino che è chiamato a compiere: custodire, come il nonno, le parole.
Questo nuovo romanzo di Gioacchino Criaco, con la narrazione minuziosa di fatti e cose, è una storia di identità e radici così forti da sfidare il futuro che ancora non conosciamo È romanzo ricco di metafore Il custode delle parole, di sottile ricchezza narrativa, di ritratti, di incontri, di figure che non si dimenticano. Le decisioni di Andrìa (simbolicamente del popolo dell’Aspromonte) richiamano alla responsabilità di doverci prendere cura di ciò a cui sentiamo di appartenere, di saper custodire un mondo e una lingua (il greco di Calabria) che stanno per sparire, ingoiati dalla falsa modernità̀.
Andrìa sente che nelle “parole” del nonno c’è il suo futuro, che quel territorio, l’Aspromonte, la Grande Madre, è la montagna lucente, bianca, non ostile, come è dipinta. Cosa rappresenta Mana Gi lo scrittore lo ha spiegato nell’intervista ad un giornale francese, nell’occasione dell’uscita Oltralpe di “La Maligredi”, il romanzo precedente a Il custode delle parole, il libro che apre definitivamente allo scrittore di Africo le porte della narrativa italiana migliore, dopo i successi di Anime nere, il primo romanzo pubblicato con Rubbettino.
L’Aspromonte, la Mana Gi, ha detto Criaco, è “la Grande Mère, comme est encore appelée la montagne, qui est femme, est l’archétype de la Calabre, du Midi. C’est ce que tout le Sud a été dans le passé. Il représente la dernière résistance d’un monde qui lutte pour ne pas mourir”. Non lo traduciamo questo passo dell’intervista, se non l’espressione “resistenza di un popolo che lotta per non morire”, che fa capire la storia passata e presente della Calabria nata greca. Andrìa, che alla fine accetterà̀ il destino di salvare le parole custodite del nonno, spiega, nella lingua dei padri greci, che ha la musicalità della tradizione orale, che cos’è l’Aspromonte: To Asprovunì anìghi te tthìre ti ston Thìo ppurrì. Anìghi t’arthàmmia apànu ston cosmo asce fata. Echi enan àthropo ti por patì pu, ston pròsopo cratì lagomata azze paleo pezò. Asprovunì ene mia fracti azze aklìese. Thire anictè ce to pedì (L’Aspromonte spalanca le porte al dio del mattino. Apre gli occhi su un mondo fatato. C’è un uomo in cammino che sul volto trattiene ferite di antico soldato. L’Aspromonte è una gabbia di perle. Porte aperte e il volo si perde. È distese di boschi che spengono il fiato. È una madre che sconta in eterno lo stesso peccato. (mn)
GIOACCHINO CRIACO
IL CUSTODE DELLE PAROLE
Feltrinelli, ISBN 9788807035043