di SANTO STRATI – Parla di “campo largo” di “prospettiva forte” Giuseppe Conte, a proposito della Calabria, nella sua conferenza stampa più attesa da quando si è affacciato in politica. Ma non è la scelta di Maria Antonietta Ventura argomento dell’incontro, il riferimento è incidentale e serve soltanto a confermare la convinzione che il Movimento 5 Stelle debba guardare soprattutto a sinistra, strizzando l’occhio a Letta, senza trascurare o dimenticarsi delle altre forse progressiste. Ma chi si aspettava una resa senza condizioni o, al contrario, un colpo di reni che stroncasse Grillo non ha capito la “maturità” politica raggiunta dal prof già capo del governo. La sua è una mossa da fuoriclasse della politica che rinuncia ai diverbi verbali e lascia scivolare le battutacce di Grillo, lanciando, invece, una sfida intelligente e molto insidiosa che coinvolge la base.
Cosa ha detto, in sostanza, Giuseppe Conte? Serve una leadership politica forte, ma il potere “politico” non può essere dimezzato, «una diarchia non sarebbe funzionale al progetto che ho messo insieme dopo quattro mesi di lavoro e di studio». Conte non accetta un ruolo a metà e si affida alle scelte degli iscritti, chiede il voto della base sullo statuto che ha elaborato e che esclude ingerenze politiche di Grillo, fatto salvo il suo ruolo di garante a cui non si può non riconoscere quel carisma e lo spirito visionario che gli ha permesso di far nascere e crescere il Movimento. Ma oggi non ci possono essere più ambiguità e le contraddizioni che hanno lacerato il Movimento hanno la possibilità di interrompersi in una prospettiva nuova e diversa. Se la base accoglie e fa suo il documento di Giuseppe Conte.
La sfida di Conte a Grillo è sul territorio, non nelle stanze del fu-potere: decida la base se questo progetto politico ha senso oppure no. La base non Grillo, questo appare evidente, soprattutto quando l’ex premier sottolinea che non gli «basterà una risicata maggioranza» ma chiede un segno chiaro da tutti gli iscritti. Gli elenchi sono stati consegnati da Casaleggio, quindi, è possibile chiamare a una consultazione “popolare” tutti gli iscritti e far decidere da che parte stare.
L’ardua se pur inevitabile via del regicidio, del parricidio di Grillo, Conte l’ha scansata con un’abile mossa, ovvero consegnando il coltello agli iscritti e lasciando facoltà ad ognuno se infliggere il corpo mortale all’uno o all’altro dei due contendenti. Perché, è evidente, che con queste premesse, in questo stato di cose, il movimento ha preso una deriva da cui non riesce ad allontanarsi: non ci sono alternative, o diventa partito (nel senso storico del termine) o rischia di finire come tutti i movimenti che l’hanno preceduto. Basta come riferimento Guglielmo Giannini e il suo Uomo qualunque (1944-1947) di cui i Cinque stelle sembravano una pallida imitazione per vedere come andrà a finire.
Conte ha intuito questa necessità di trasformare il movimento in partito, pur mantenendo la carta dei principi e dei valori che hanno ispirato il gruppo grillino diventato poi truppa, senza generali e ufficiali di collegamento. Serve una scuola di formazione – ha rimarcato Conte – per formare una classe dirigente politicamente colta, capace di governare, se si vuole tornare a guidare il Paese nelle trasformazioni epocali che si pongono davanti. L’improvvisazione, l’incompetenza, l’immaturità “politica” di molti esponenti ha provocato la prevedibile voragine che sta inghiottendo idee, principi e, soprattutto, persone che non sono riuscite a diventare personalità (nel senso migliore della parola). E tutto ciò ha provocato conflitti, contraddizioni, divisioni, ambiguità. La soluzione non è un restilyng: non si tratta di dare un’imbiancata alla casa – ha detto Conte – bisogna proprio mettere mano a una seria ristrutturazione, senza la quale non ci potrà essere futuro.
Conte, dunque, non ci sta a fare il leader dimezzato, pur sottolineando che un leader rimane tale se vince, in caso di insuccesso non c’è il termine naturale del mandato, si va via, come dicono le regole non scritte della democrazia. E la democrazia partecipata (ma mistificata dai tanti misteri di Rousseau) oggi ha la possibilità di fare una scelta che non lascia scampo. È stato abilissimo Conte a cavalcare le contestazioni di Grillo: non ha risposto, non ha rintuzzato punto per punto, anzi ieri ha ribadito la profonda stima che egli nutre per Grillo, ma la sua mossa – vincente, per certi versi, rischiosa per altri – di affidare alla base questa sorta di pasticciato (e crudele) referendum sulla leadership lo mette in una posizione privilegiata rispetto alla costante perdita di autorevolezza del Garante. E ha sottolineato Conte che si aspetta un voto rapido, «perché di tempo ne è già passato troppo» e non ce n’é abbastanza per ulteriori lungaggini.
La base è già di per sé divisa tra grillini ortodossi, innovatori (pro Conte) e indecisi: una triade troppo eterogenea perché Conte possa trovare la maggioranza “non risicata” che pretende per poter portare avanti il suo progetto politico. Soprattutto perché Grillo detiene ancora il potere di scegliere e premiare con la riconferma dell’elezione i fedelissimi, mentre Conte non può promettere nulla, se non un progetto politico che guarda alle forze progressiste e deve necessariamente diventare partito. Il carisma di Grillo, pur se appannato, è quello di cui si nutre il popolo grillino, persino quello disincantato e deluso che si sente sempre più disorientato e smarrito. L’autorevolezza di Conte, conquistata con due Governi, pur segnati da marchiani errori politici più per inesperienza e non competenza che per altro, è a un bivio: o cresce, con il conforto di una base che approva le sue proposte di rinnovamento, o è destinato a una inglorioso viale del tramonto.
In questo momento, Conte capisce bene che non può pensare di fare un partito suo, pur se accreditato di un discreto 10% di consensi, per l’evidente motivo che deve traghettare i grillini, gli ortodossi, i dissidenti, i pentiti, verso l’unica strada percorribile: quella di un Movimento 2.0 che in realtà contenga dentro di sé i prodromi di una rinascita politica che darà poi vita a un “partito” nel senso pieno del termine.
Quindi, più che un referendum Conte-Grillo, si tratterebbe di un plebiscito a favore del nuovo “sovrano” che sale sul trono senza aver commesso regicidio (che gran parte della base non gli perdonerebbe mai), ma portando avanti lo spirito nuovo che, in realtà, muoveva i primi passi alla nascita dei pentastellati, ma che è stato soffocato dalla mancanza di coraggio di osare “politicamente”. Quel coraggio a cui si affida oggi Conte, in uno scenario che rischia di diventare la Waterloo dei grillini. Per questo l’ex premier ha messo in evidenza la buona intesa raggiunta a Napoli sul nome condiviso con Letta e Speranza di Gaetano Manfredi e l’analoga intesa (?) che è maturata in Calabria. Ma proprio la Calabria può diventare il passo falso di Conte, sovrastimato da Letta e compagni, nello scenario ormai arido del grillismo calabrese ormai alla frutta.
Se alla base, in tempi brevi, sarà concesso (è Grillo a decidere, a norma dell’attuale statuto) di votare lo statuto di Conte e la proposta di rinnovamento (ripudiando Grillo e relegandolo alla figura di padre nobile senza potere) l’ex premier ha vinto la prima battaglia e può prepararsi alla guerra. Se, come temiamo, dovesse perdere dovrà contare deputati e senatori pronti a seguirlo e proporre un nuovo partito che nel sostegno a Draghi avrebbe modo di consolidare la propria forza politica.
La domanda inevitabile, a questo punto, è una sola: in caso di bocciatura del progetto di Conte, quanto conteranno le intese napoletane e calabresi alle prossime amministrative e quali disastri, a sinistra, ci dovremo preparare ad assistere? Qualcuno si prenda la briga di farlo presente al segretario dem Enrico Letta che tra una settimana ha detto che verrà in Calabria. (s)