CARI POLITICI, BISOGNA RISPONDERE CON
CORAGGIO ALLE SFIDE DEL NOSTRO TEMPO

Mons. Francesco Savino, Vescovo di Cassano allo Jonio, nonché vicepresidente della Conferenza Episcopale, ha inviato un messaggio ai politici della sua Diocesi, il cui contenuto vale per l’intera Calabria.

di MONS. FRANCESCO SAVINO – Carissimi, in questo tempo di preparazione al Natale, desidero rivolgermi a voi con un messaggio che unisce gratitudine e sollecitudine.

Purtroppo, gli impegni che scandiscono le vostre giornate e il mio Ministero non hanno permesso che ci incontrassimo di persona, e di questo sono sinceramente dispiaciuto. Tuttavia, non potevo lasciar passare questa occasione senza farvi giungere i miei auguri più sentiti e un pensiero che nasca dalla riflessione sul tempo che stiamo vivendo.

Gratitudine, per l’impegno che quotidianamente dedicate al servizio delle nostre comunità; sollecitudine, perché mai come oggi il ruolo della politica è chiamato a rispondere con coraggio e visione alle sfide del nostro tempo. Il Natale, nella sua profondità, ci ricorda la luce della speranza e della carità, richiamandoci all’urgenza di metterci al servizio del bene comune, con dedizione e responsabilità.

La nostra Diocesi, custode di una storia intrecciata di cultura e fede, incarna tanto le bellezze quanto le sfide che caratterizzano questa terra. Viviamo in un contesto segnato da potenzialità straordinarie, ma anche da ferite che richiedono risposte concrete e immediate. La politica, se vissuta nella sua autentica vocazione di servizio, può diventare il mezzo privilegiato per costruire una società più giusta, solidale e rispettosa della dignità di ogni persona.

La sfida della speranza

Molti, soprattutto i giovani, guardano al futuro con disillusione, prigionieri di un contesto che sembra non offrire prospettive concrete. La speranza sembra essersi smarrita e con essa la fiducia in chi ha il compito di guidare le scelte politiche. È vostro dovere restituire speranza alle comunità, non solo attraverso promesse, ma con azioni capaci di trasformare i sogni in realtà.

Come ci ricorda Gustavo Gutiérrez, «la speranza cristiana non è passiva, ma un motore per l’azione concreta». Ogni vostro gesto, ogni vostra decisione può diventare un segno tangibile di questa speranza. La nostra terra, pur segnata da difficoltà ataviche, è anche una terra di potenzialità inespresse. È compito della politica liberare queste energie e orientarle verso un autentico sviluppo sociale ed economico.

Il bene comune come guida della politica

Papa Francesco, nelle sue esortazioni, ci ricorda che la politica è una delle forme più nobili di carità, un’arte che richiede visione, sacrificio e coraggio. Ogni vostra scelta dovrebbe essere orientata al bene comune, non inteso come la somma degli interessi individuali, ma come una visione più alta che abbraccia giustizia, pace e solidarietà.

Papa Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in Veritate, sottolinea che il bene comune implica il riconoscimento della dignità di ogni persona, in una comunità solidale e giusta. Questo principio deve guidare ogni iniziativa legislativa e amministrativa, affinché nessuno si senta escluso o invisibile.

La giustizia sociale e la lotta alla povertà

La povertà è una delle sfide più urgenti della nostra terra. La Calabria continua a registrare tassi di disoccupazione tra i più alti del Paese, con giovani costretti a lasciare il proprio territorio in cerca di opportunità altrove. Questo fenomeno non è solo una crisi economica, ma una ferita sociale che richiede risposte immediate.

Vi esorto a promuovere politiche che favoriscano l’inclusione sociale, il lavoro dignitoso e l’accesso ai diritti fondamentali. Gandhi ci ricorda che «la povertà è la peggior forma di violenza».

Non possiamo accettare che la dignità umana sia calpestata. La giustizia sociale richiede un cambio di mentalità, una trasformazione che metta al centro la persona, con i suoi bisogni e le sue aspirazioni.

Famiglia e diritti dei bambini

La famiglia è il cuore pulsante della società, il luogo dove nascono e si custodiscono i valori fondamentali. Ogni vostra decisione politica dovrebbe mirare a sostenere le famiglie, offrendo strumenti concreti per conciliare lavoro e vita familiare, protezione sociale e sostegno ai genitori in difficoltà.

Allo stesso modo, è fondamentale garantire che ogni bambino possa crescere in un ambiente sano e sicuro, lontano da situazioni di povertà o disagio. La tutela dei più piccoli è la misura di una società giusta e proiettata verso il futuro.

Ecologia integrale: prendersi cura della Casa Comune

Le questioni ambientali sono ormai al centro delle sfide globali e locali. Papa Francesco, nell’enciclica Laudato Sì, ci invita a considerare l’ecologia non solo come cura della natura, ma come attenzione integrale alla persona e alla società. Ogni vostra scelta politica, sia essa legata all’urbanizzazione, alla gestione dei rifiuti o alla mobilità, dovrebbe riflettere questa visione ecologica.

Il nostro territorio, ricco di risorse naturali, deve essere tutelato e valorizzato, soprattutto di fronte al grave problema dell’inquinamento che minaccia la sua bellezza e il benessere delle comunità, richiamandoci a un impegno concreto per la salvaguardia del creato.

Dunque, le sfide ambientali non possono più essere rimandate: è tempo di adottare politiche sostenibili che promuovano uno sviluppo equilibrato e rispettoso delle generazioni future.

 La cultura della legalità

La nostra terra è ferita dalla criminalità organizzata, una piaga che mina il tessuto sociale ed economico. La lotta alla ‘ndrangheta  e all’illegalità non è solo un compito delle forze dell’ordine, ma una responsabilità culturale e politica.

La legalità, come ci ricorda Don Tonino Bello, non è una semplice formalità, ma un principio che orienta ogni azione verso una società più giusta e libera. Ogni vostro gesto deve contribuire a costruire una cultura della legalità, che si nutre di educazione, coraggio e trasparenza.

Investire nel futuro

La politica deve guardare lontano, investendo in settori strategici come l’educazione, la formazione e l’innovazione. Il nostro territorio ha un potenziale straordinario nell’agricoltura, nel turismo e nelle energie rinnovabili. È necessario valorizzare queste risorse per creare opportunità di lavoro e trattenere i giovani nella nostra terra.

Un invito alla collaborazione

Come Chiesa, siamo al vostro fianco per costruire una comunità coesa, solidale e rispettosa. La politica, come dice Papa Benedetto XVI, è un’arte nobile che deve sempre essere orientata al bene comune. La collaborazione tra politica e Chiesa può diventare una risorsa preziosa per affrontare le sfide del nostro tempo, coniugando competenze diverse al servizio delle persone.

Conclusione

Vi auguro che il vostro impegno politico possa essere illuminato dalla luce del Natale, guidato dalla giustizia e animato dall’amore per il prossimo. Che ogni vostra scelta possa portare speranza, pace e sviluppo a tutte le comunità.

Con la benedizione di Cristo Bambino, vi invito a vivere la vostra missione con coraggio, fedeltà e visione, trasformando la politica in uno strumento autentico di servizio e carità. (fs)

[Mons. Francesco Savino è vescovo di Cassano allo Ionio]

 

ECONOMIA, POLITICA E CULTURA: DA QUI
PARTE LA RIVOLUZIONE DEL MEZZOGIORNO

di PINO APRILE – Alla fine, gira gira, sempre lì si torna: alla domanda che l’allora segretario di Stato degli Stati Uniti, Larry Summers, pose al neo nominato ministro all’Economia della Grecia, nel tritacarne dell’Unione europea, al servizio delle banche tedesche e francesi, tramite la Bce guidata da Mario Draghi: «Ci sono due specie di politici, quelli che “giocano dentro” e quelli che “giocano fuori”. Tu come giochi?». E l’esperienza ormai ci dice che da una costretta subalternità si esce solo giocando fuori; dentro si può soltanto quando si ha un potere paragonabile a quello degli altri al tavolo.

Il meridionalismo è coscienza di una condizione di minorità imposta (quindi coloniale), ricerca e divulgazione della rete di interessi e dei metodi che generano e incrementano le disuguaglianze, costruzione di una politica per contrastarle. Su questo ci si scontra e divide, con le migliori e peggiori intenzioni, anche perché appena un tema comincia a divenire popolare (e il neomeridionalismo lo è sempre più), accadono due cose: gli opportunisti se ne sporcano (e lo sporcano) per trarne il maggior possibile vantaggio personale e i poteri dominanti li usano, per riportare ogni novità da “fuori”, “dentro”, sotto il loro controllo, e usarla, per i loro fini, con le loro regole del gioco.

Sono convinto che non c’è più alta e produttiva politica dell’informare, che vuol dire porre altri nella condizione di elaborare liberamente opinioni e agire di conseguenza (sapere è necessario per fare; sapere e non fare è un peccato di omissione, pigrizia sociale, se non proprio vigliaccheria).

L’inattesa accoglienza di “Terroni” rivelò l’esistenza di un insospettato e insoddisfatto bisogno di conoscenza di storia non addomesticata e delle ragioni di quella Questione meridionale che invece di essere spiegata con dati di fatto (occupazione militare, stragi e, a unificazione compiuta, opere pubbliche, ferrovie, con i soldi di tutti, a Nord, e a Sud no; autostrade e strade, idem, Sanità pure, eccetera), è tuttora addossata, con uso di razzismo, a incapacità o insufficienza genetica dei terroni (si possono conquistare cattedre universitarie, ancora oggi, dalla storia all’economia, sostenendo, da meridionale, che il Sud “rimane” indietro per colpa sua e dei “briganti”).

Venne così scoperto un vero e proprio filone editoriale. Tant’è che su un tema che pareva sepolto da decenni di noia e insignificanza, il Sud, fiorirono in pochi anni centinaia di testi, pro e contro. Volendo sintetizzare in modo feroce, dal meridionalismo storico di giganti quali Nitti, Salvemini, Dorso, Gramsci, Ciccotti e tanti altri, si è ora a una fase più popolare, divulgativa, sia pur a distanza di un secolo e grazie ai social.

A tentare di arginare il fenomeno, per sostenere la versione dominante di stampo massonico della unificazione e della minorità meridionale, insorsero truppe cammellate intellettuali della colonia terrona, dalle cattedre (con qualche notevole sorpresa di segno contrario) ai giornali (specie del Sud, o di giornalisti meridionali “evoluti” in quelli del Nord).

Questo l’avevo messo in conto, ma l’aspettavo da pretoriani padani, quali Barbero e Cazzullo, tutto sommato più onesti. L’operazione era ed è condotta su diversi registri: dall’attacco diretto (sino a stalker di dichiarata obbedienza massonica, monotematici e ossessivi, che si ritrovano ad avere, da nulla, un ruolo) a quelli in apparenza “professionali” di chi, di fronte a un secolo e mezzo di bugie, mezze verità o verità distorte, cerca l’errore vero o presunto nei testi di chi le denuncia (e volete che in migliaia di pagine scritte non ce ne siano? «Quindi lei ha visto l’imputato sparare alla vittima, poi dargli il colpo di grazia e infine buttare la pistola nel fiume. Giusto?». «Sì». «E di che colore erano le sue scarpe?». «È l’ultima cosa a cui prestavo attenzione in quei momenti. Mi sembra nere». «Testa di moro, signor giudice, testa di moro! E vogliamo fidarci di questi testimoni oculari?». Un diverso modo di schierarsi e servire, più subdolo, fingendo di “giocare fuori”, ma “stando dentro” e giocando contro.

Io volevo continuare a cercare e divulgare, convinto che le ragioni del meridionalismo non possono essere di parte, e il treno per Matera che manca dovrebbe indurre tutti a volerlo, da destra o da sinistra, non importa, ognuno secondo il proprio sentire.

Dopo nove anni, in un momento che non sapevi se di farsa o dramma (Salvini zuppo di mojitos in Parlamento, che chiedeva pieni poteri) mi lasciai convincere a dare una traduzione partitica a un fenomeno editoriale, nella presunzione che i lettori potessero divenire elettori a sostegno di una politica di equità per il Sud.

La pandemia di covid mostrò che qualcosa non andava; forse solo accelerò quello che comunque sarebbe successo in tempi più lunghi: sfrenate ambizioni personali, ricadute nella solita trappola che divide il Sud fra destra e sinistra, a scapito degli interessi comuni, mentre sui suoi il Nord trova sempre modo di agire con unica voce. Pulsioni esasperate da una voglia troppo a lungo trattenuta di “tutto e subito”, che rendeva intolleranti e impazienti. Forse, per tener insieme tante e inconciliabili spinte (curiosamente, a blocchi regionali contrapposti), sarebbe servito qualcuno più accomodante, elastico, più “politico”. Ma io, e sarà un male?, non sono così, ho un carattere elementare: sì o no.

Il Movimento che comunque sorse ebbe una immediata crescita che impensierì partiti e poteri dominanti, più di quanto riuscissimo a percepire. E cominciò l’opera per captarlo (se avessimo accettato di giocare “dentro”) e/o demolirlo (se fossimo rimasti “fuori”). A favorire questo lavorio, le nostre convulsioni in cerca della migliore via per influire sulle scelte per il Mezzogiorno, da alleanze elettorali in sede locale con partiti esistenti o con una formazione nuova per le europee, a iniziative politiche da soli nei Comuni.

Ma la sensazione è che su questa via (che in alcuni casi potrebbe restare percorribile, saranno le maggioranze a deciderlo), si rischia di divenire sempre meno distinguibili, per la proliferazione, non si sa quanto spontanea, di soggetti in apparenza simili, ma nei fatti di senso diametralmente opposto (come le mozzarelle di bufala fatte in Germania). Un modo per confondere, disorientare, se pensate che persino i peggiori trombettieri di regime anti-meridionale compaiono in alcuni di questi gruppi, come “esperti” del contrario (di nuovo: fingere di “stare fuori”, “stando dentro”, per agire contro).

Così, è forse il caso di ricordar qual è la filiera: l’economia genera una politica al suo servizio, su cui fiorisce una cultura. Per dire: dal sistema produttivo della civiltà agricola hai organizzazioni umane che inducono a divenire stanziali; a sostegno di queste politiche sorge una cultura che ne giustifica i valori contro quelli del nomadismo, e dice moralmente giusto lo sterminio dei cacciatori-raccoglitori (Caino uccide Abele e Dio non interviene a fermare la sua mano, ma impedisce che l’assassino sia punito; oppure: gli agricoltori del Far West celebrati per l’eroico genocidio degli indiani).

Quindi? Quindi, bene insistere con una operazione culturale che denunci la condizione coloniale del Sud; bene cercare politiche per contrastare questa vergogna ultrasecolare; ma la prima azione dev’essere sull’economia. Lo stato coloniale del Sud non è imposto solo tramite i partiti “nazionali”, ma attraverso aggregazioni di enti (l’Associazione dei Comuni, la Conferenza Stato-Regioni) e per il controllo della filiera produttiva (Confindustria) e dei mezzi di comunicazione.

Ma come, se non abbiamo mezzi, risorse e siamo pochi? Obiezioni fondate ma inutili: si dovesse aspettare di avere quello che serve, non si farebbe mai nulla, perché si parte sempre da posizioni di svantaggio, proprio per correggerle o ribaltarle. Si fa come si può, con quello che si ha. Ma subito. È poco? Nulla è ancora meno e tutte le cose nascono piccole.

Così, dovremmo (e persino io dall’alto delle mie incapacità) dedicarci a iniziative per creare a Sud lavoro di tipo identitario, che generi reddito e legame con la propria terra, con la scoperta che la nostra storia è pane, la nostra civiltà contiene ricchezza. Una goccia nel deserto dei due milioni di meridionali costretti a emigrare in scarsi vent’anni e degli otto milioni in meno che si prevedono, nel futuro prossimo.

Ma riuscisse, ognuno, a impedire che lasci il suo paese uno solo dei giovani costretti ad andar via, non avremmo sprecato il nostro tempo. Solo chi sa che a casa trova il piatto a tavola può poi occuparsi di politica e magari leggere un libro, per nutrire anche la mente.

Per dire: qual è la quota di prodotti del Sud nei supermercati (avamposti della colonizzazione), nelle stazioni di servizio? Più riusciamo a farla crescere, meno giovani meridionali andranno via.

E quanti posti di lavoro danno (possono dare) i templi di Agrigento?

Economia-politica-cultura: questa la catena. E cominciamo dall’inizio, allora. (pa)

IL BASSO JONIO TRA OCCASIONI MANCATE
E I SILENZI ASSORDANTI DELLA POLITICA

di MATTEO LAURIA – Che ci sia stata una cabina di regia, una mano invisibile, ma potente, che nella storia abbia deliberatamente penalizzato l’area che dalla Sibaritide si estende fino al Crotonese, è una verità innegabile. I fatti e la storia parlano chiaro, a partire dalla ipotesi storica che l’autostrada Salerno-Reggio Calabria avrebbe dovuto attraversare la tratta jonica, evitando così uno sperpero di risorse tra viadotti e inutili deviazioni montane. Ma il centralismo, con la sua insaziabile fame di controllo, non si è mai fermato. Quel poco che è stato fatto in questa Regione, purtroppo, ha sempre seguito una logica distorta, volta a dirottare il traffico e lo sviluppo verso la direttrice tirrenica, sacrificando la costa jonica sull’altare dell’invisibilità.

Un’autostrada mai realizzata e una ferrovia dimenticata

Il caso dell’autostrada è emblematico. La scelta di far passare la SA-RC attraverso il versante tirrenico, anziché lungo la costa jonica, ha di fatto condannato quest’ultima a un isolamento infrastrutturale. A nulla è valso il grido di allarme di chi, allora, vedeva nella tratta jonica un’opportunità per connettere più agevolmente il Sud d’Italia con l’Adriatico e l’Est Europa. L’unica risposta che è arrivata è stata una ragnatela di progetti infiniti, in cui si è privilegiata sempre e comunque la direttrice tirrenica.

Lo stesso destino è toccato alla ferrovia. L’elettrificazione della linea ferrata si è fermata a Sibari, per poi deviare verso Cosenza e lasciare fuori tutta la parte che conduce a Corigliano-Rossano e Crotone. È solo negli ultimi anni che ci si è accorti che anche il basso Jonio esiste e che forse meriterebbe un’infrastruttura adeguata, ma si tratta di un riconoscimento tardivo, minimale e incompleto. Si continua a parlare di grandi investimenti ferroviari per il collegamento tirrenico, ma la costa jonica resta ancora la “tratta dimenticata”, quel pezzo di territorio che, pur avendo potenzialità enormi, viene ignorato.

Una viabilità su gomma che continua a essere un pericolo

Non va meglio per la viabilità su gomma. Si stanno finalmente realizzando alcuni interventi, come la tratta Roseto-Sibari e le finanziate CZ-KR e Sibari-Rossano, ma la parte più pericolosa e necessaria – quella che collega Corigliano-Rossano a Crotone – rimane relegata ai margini, considerata solo a livello progettuale. Si parla di una strada a due corsie, una mini-careggiata che definirla “europea” sarebbe un insulto all’intelligenza e alla dignità dei cittadini. Eppure, nessuno sembra indignarsi abbastanza per questa situazione paradossale.

Chi sono questi “progettisti” che non vedono come prioritaria la tratta Corigliano-Rossano-Crotone? Che logica c’è dietro il continuo rinvio di un’opera tanto necessaria quanto ignorata? Domande che, puntualmente, non trovano risposta. Il silenzio avvolge questa porzione di Calabria come una cappa soffocante, una cappa che sembra essere voluta, accettata, persino applaudita da chi dovrebbe alzare la voce e difendere il proprio territorio.

Il silenzio complice degli Amministratori e delle Comunità locali

Ma quello che sorprende di più non è tanto l’arretratezza culturale e infrastrutturale imposta da un centralismo cieco e ottuso. No, quello che lascia sbalorditi è il silenzio complice degli Amministratori locali e delle comunità del basso Jonio. Una rassegnazione diffusa, che spesso si trasforma in accondiscendenza, se non in vera e propria adulazione dei poteri centrali. È come se ci fosse una tacita accettazione dell’abbandono, una rassegnazione all’idea che questo territorio debba restare per sempre ai margini, invisibile, inascoltato.

E qui sta il paradosso più grande. Nonostante le penalizzazioni evidenti, nonostante l’abbandono sistematico, ci sono Amministratori locali che addirittura osannano il centralismo, che applaudono ogni minima concessione, che accettano passivamente l’idea di essere cittadini di seconda classe. Le poche voci critiche sono isolate, zittite da un coro di obbedienza acritica. Un’obbedienza che si manifesta anche in vicende cruciali come la costituzione di una nuova Provincia.

La questione della Provincia: un’occasione sprecata

La questione della Provincia jonica, una delle più grandi battaglie politiche degli ultimi decenni, è l’ennesima dimostrazione di come il basso Jonio venga sistematicamente sabotato. Ci sono centri strategici, situati tra Crotone e Corigliano-Rossano, che potrebbero costituire il cuore pulsante di una nuova Provincia, a saldo zero per lo Stato, in grado di rappresentare oltre 410mila abitanti. Una Provincia jonica che finalmente metterebbe al centro il basso Jonio, dando voce e visibilità a una parte della Calabria da troppo tempo emarginata.

Eppure, anche su questo fronte, assistiamo a un teatrino desolante. Anziché promuovere con forza questa nuova Provincia, ci sono soggetti locali che, inspiegabilmente, guardano altrove. Si parla di Castrovillari, di Cosenza, come se il basso Jonio non avesse il diritto di essere protagonista del proprio destino. Ancora una volta, prevale l’obbedienza ai diktat dei poteri centrali, l’incapacità di alzare la testa e rivendicare un ruolo centrale nello sviluppo della Regione.

La democrazia in Calabria: una parola svuotata di significato

In Calabria, la democrazia sembra essere una parola svuotata di significato. Basta una direttiva del Presidente di turno, e tutti si affrettano a eseguire. Non c’è dibattito, non c’è dissenso, non c’è una vera partecipazione democratica. E questo atteggiamento remissivo non fa altro che perpetuare l’arretratezza della regione, condannandola a un immobilismo che sembra ineluttabile.

Il problema non è solo infrastrutturale. È un problema culturale, sociale, politico. Finché le Comunità locali e i loro Rappresentanti continueranno a chinare il capo di fronte al centralismo, a elemosinare briciole anziché pretendere diritti, il basso Jonio e l’intera Calabria resteranno prigionieri di un sistema che li relega ai margini. È una questione di dignità, prima ancora che di sviluppo. Una dignità che sembra essere stata smarrita, sepolta sotto anni di silenzio e complicità.

Una chiamata all’azione: spezzare il silenzio e rivendicare il futuro

Difficile spezzare questo silenzio, troppi compromessi che di politico hanno ben poco. E sono anche inutili gli appelli rivolti alle  comunità del basso Jonio di ritrovare la voce  e rivendicare il loro diritto a essere protagoniste del proprio futuro. Non si tratta solo di chiedere nuove infrastrutture o di rivendicare una Provincia. Si tratta di riappropriarsi del proprio destino, di dire basta a decenni di abbandono e di marginalizzazione. La storia non si scrive da sola. È tempo di iniziare a scriverla noi. (ml)

[Matteo Lauria è del Comitato Magna Graecia]

I SUICIDI IN CARCERE SONO IL FALLIMENTO
DELLE ISTITUZIONI: CHE COSA SI DEVE FARE

di VINCENZO MARRAQuando l’avvocato Pasquale Foti, Presidente della Camera Penale di Reggio Calabria mi ha chiesto di poter dire anch’io qualcosa in merito ad un tema così tanto delicato come quello dei suicidi in carcere, per un attimo, lo ammetto, ho esitato. Non perché non avessi nulla da dire in proposito, anzi. Ma perché credo che si tratti di un argomento talmente tanto complesso da non poter essere condensato in poche battute.

Tuttavia, mi sono domandato quale possa essere il contributo di un amministratore pubblico che prescinda dai soliti stereotipi e si cali, concretamente, nella realtà carceraria per provare a fornire una chiave che non sia solo di lettura, ma anche d’intervento. 

E allora non posso che partire dai dati oggettivi che mi sono stati “sbattuti” in faccia nel momento in cui sono andato a studiarli: solo nel 2024, al 19 giugno, si contano 44 suicidi in carcere. Uno ogni tre giorni. Una persona ogni tre giorni, che si trova in stato di detenzione, decide di togliersi la vita. 

Ma se questo può apparire il dato più problematico, vi assicuro che ne ho trovato un altro che mi ha davvero sconvolto: nel 2023 il tasso di suicidi delle donne detenute è sensibilmente superiore, in termini percentuali, a quello degli uomini. 

Sono quindi andato alla ricerca delle possibili cause di un fenomeno che non accenna a placarsi. Ho letto di marginalità, di patologie psichiatriche pregresse, tossicodipendenza, persone senza fissa dimora. E un particolare: la maggior parte dei suicidi interessa detenuti di nazionalità straniera.

Così, la mia mente è andata subito all’ipotesi secondo cui chi decide di togliersi la vita è probabilmente stanco di una vita carceraria che, nella sua prospettazione, appare molto lunga. Infinita. Anche qui sono stato smentito dai fatti: molte delle persone che si sono suicidate erano in attesa di giudizio. Capite? Ancora in attesa di giudizio, dunque innocenti fino a prova contraria. Altri l’hanno fatta finita dopo brevissimi periodi di detenzione, poche settimane o qualche mese. Altri solo una manciata di giorni. 

Ma c’è un dato – e qui mi soffermo – che mi ha lasciato un senso di fallimento addosso: sono tanti, troppi i suicidi di chi il carcere è in procinto di lasciarlo o per un residuo breve di pena o per una prevista misura alternativa. Si tratta di persona che dovevano rientrare nella società e farlo dopo un periodo che avrebbe dovuto rappresentare per loro una opportunità. E invece, suicidandosi a poche miglia dal traguardo ci hanno fatto comprendere come non sentissero dentro di loro nemmeno il germe della speranza. 

Non mi addentro su questioni come il sovraffollamento, la costruzione di nuove strutture o il miglioramento di quelle esistenti. Lascio che siano i tecnici e i politici di rango nazionale a farlo. Mi domando, piuttosto, cosa la politica locale, un’amministrazione comunale o regionale possano fare per mitigare, per quanto possibile, un simile trend che non accenna a placarsi.

Ritorno alla speranza: ecco, credo che noi dobbiamo essere in grado di fornire a coloro che entrano in una cella il dono della speranza. Che non può e non deve declinarsi solo nell’idea di una uscita quanto più possibile anticipata, ma che deve concretizzarsi nel poter garantire a chi finisce in cella tutta l’assistenza morale e materiale possibile. 

Non dimentichiamo che gran parte di coloro che affollano le carceri sono persone in attesa di giudizio. Dunque presunti innocenti che, per gravi fatti, sono in uno stato di custodia cautelare in carcere. Qui bisogna già intervenire con percorsi che possano aiutare quelle persone a sostenere il peso dell’attesa del giudizio che, lo sappiamo, a volte può essere estenuante, nonostante gli sforzi profusi dalla magistratura. Ma nel loro caso un’amministrazione locale può, ad esempio, approntare una serie di percorsi e progetti che consentano di alleviare quel senso di disorientamento che vive colui o colei che varca per la prima volta la porta del carcere. Così come può essere per chi ci sta finendo non per la prima volta.

La carcerazione, non va dimenticato, rappresenta un fallimento in primis per chi la subisce. Nessuno sceglie di essere carcerato, ma ne accetta il rischio. A volte perché sente – sbagliando – di non avere altre opportunità. Ecco cosa può fare un’amministrazione locale: aiutare concretamente chi lo desidera a poter avere un’alternativa. Una opportunità. Così come coloro che scontano pene definitive. 

Non possiamo più lasciare che il tema della “rieducazione” del condannato possa essere delegata alla sola politica nazionale e agli istituti penitenziari. Io ritengo che occorra una politica diffusa di rieducazione, che coinvolga i territori e faccia sentire protagonista la cittadinanza. 

Di certo si può e si deve tendere al miglioramento delle condizioni carcerarie. Tuttavia questo richiede tempi lunghi che mal si conciliano con l’esigenza di celerità che richiede invece un’emergenza come quella dei suicidi. Allora, in attesa che le istituzioni nazionali affrontino di petto la questione, a livello locale non possiamo rimanere fermi, come già stiamo facendo a Reggio Calabria.

Occorre incrementare e migliorare tali percorsi. Se una politica diffusa e delocalizzata di accoglienza, di opportunità, di alternative, inizierà a diffondersi, migliorerà anche la capacità di ascolto e assistenza dei detenuti. A volte basta poco per salvare una vita e dare una seconda opportunità. Io sono a disposizione e pronto a fornire il mio contributo concreto, poiché sono convinto che, con azioni come quelle poc’anzi enunciate, il numero dei suicidi in carcere potrebbe iniziare a contrarsi già nel breve periodo. (vm)

[Vincenzo Marra è presidente del Consiglio comunale di Reggio]

L’OPINIONE/ Franco Cimino: Il problema di Catanzaro è la politica

di FRANCO CIMINO – La Città ha un problema. Ne ha tanti, lo so bene. Ma ne ha uno assai grande. Il più fastidioso. Il più dannoso. Quello più complicato. E complicante gli altri problemi. O i semplici fatti, che lo diventano. E non è quello del “traffico a Palemmu”, come dal divertentissimo film di Benigni di Jhonny Stecchino. Non è quello del traffico in Città. O del Corso, che non si chiude “po’ trafficu” per i parcheggi che mancano. Non è quello dello stadio e dell’ospedale, che restano immobili e senza forza nell’incerto destino. Non è quello delle periferie degradate, lontane e odiate dal mondo. Non è l’acqua che manca nella zona sud. O le strade rovinate della pericolosa viabilità. O la precarietà dei trasporti complessivamente intesi, urbani ed extraurbani, nel progetto inattuato di liberare e aprire Catanzaro, per restituirle lo storico ruolo di Capoluogo ospitale e accogliente.

Non è un problema l’Universita, che qui ha sede per essere non un piccolo centro di studi, ma un grande Ateneo, un moderno laboratorio di ricerca, aperti all’Europa. E al Mediterraneo, mare di pace e d’amore, il primo approdo attraverso le nostre coste di un’antica civiltà. Di una rinnovata fratellanza umana. Non è il porto, il nostro problema, come non lo è il mare, che aspetta certificati di salute altrui quando è già molto bello di suo. Il problema, non è il Centro Storico vuoto e i centri commerciali pieni. Non è le piazze del confronto senza persone e lo stadio di loro strapieno. Non è il silenzio paralizzante delle strade, il canto muto del dolore nascosto, e il chiasso acceso, con i canti urlati nei campi delle nuove battaglie “di riscatto”, quelli del pallone salvifico. Non è neppure la povertà nascosta di un crescente numero di cittadini e di famiglie. Come non è la mancanza di risorse economiche e di progetti ad esse collegate, ché dal Pnrr e dalle Regione, ne arrivano in abbondanza. E potrei ancora lungamente elencare.

Ne aggiungo, però, soltanto un altro ancora, il più significativo di tutti gli altri, elencati qui e non. Problema non è l’assenza di vivacità sociale, di sensibilità culturale. Essa, invece, è sempre più attiva in alcune frange della catanzaresità lungamente repressa, che sempre più si muovono con tante iniziative autonome in diversi campi della creatività, da quello artistico( pittura, scultura, fotografia, poesia, musica, teatro, cinema, letteratura anche nelle sue forme nuove di espressione)a quello più specificatamente culturale e spirituale, direi anche sociale (il recupero delle tradizioni, della storia di Catanzaro, anche la più antica come le rare scoperte archeologiche e gli approfonditi studi antropologici dimostrano, il volontariato).

Il problema, il vero problema, grande e fragile quanto il campanile del Duomo e che come il Duomo attende impotente di essere affrontato, è politico. É la politica, qui con la minuscola. Da questo nascono o si aggravano tutti gli altri problemi, altrimenti piccoli e risolvibili. Una politica aggressiva, a tratti violenta, divisa in quaranta e più fazioni, in feroce lotta tra loro, con un Consiglio Comunale, per giunta offertosi alle dirette televisive, a volte a rischio di agibilità non solo democratica, che discute poco delle grandi questioni e quasi mai nel plenum dell’assemblea. Tutto questo, e altro di collaterale, é il problema.

Che si aggrava progressivamente per il tempo lontano da cui insoluto proviene, e per la totale assenza di partiti, che tali si possano pur insufficientemente definire; che si aggrava per la questione morale, che essa diventa e per la crisi conseguente della democrazia, che alimenta. Aver raggiunto il primato della Città “più assenteista” nell’ultima consultazione elettorale, sembra non preoccupare affatto alcuno. Come non preoccupa il crescente allontanamento della gente dai luoghi non solo della politica, ormai cancellati, ma da quelli ordinari. Le piazze, i bar, le strade, per non dire delle aule scolastiche. Ovunque, non si discute della Città, della Regione, del Paese. Solo del Catanzaro, valvola di scarico di frustrazioni e veicolo di sogni addormentati e di alterate aspirazioni di riscatto sociale. Da noi sembra campeggiare quel motto di Massimo Catalano, i più vecchi lo ricorderanno, il simpatico protagonista del programma televisivo “Quelli della notte”, di Renzo Arbore. Dice ancora: «pochi siamo, meglio stiamo». Dittu a la catanzarisa: «si on vannu e votanu i cazzedrusi é megghiu pe’ mia, ca nesciu sicuru!».

Il problema di questa politica è la difficile governabilità. É un problema vecchio di almeno quindici anni. I fattori che maggiormente la infuocano sono ben noti ma oggi rafforzati. Hanno nomi con lo stesso suffisso: trasformismo, trasversalismo, camaleontismo, opportunismo, egoismo, individualismo. Ma c’e una una gatta cieca che li partorisce tutti. É l’ignoranza, l’assenza di cultura politica e di senso delle istituzioni. È il mancato amore per la Città. Taluni furbi, tra questi i maggiori responsabili, inventano che l’attuale ingovernabilità sia colpa della cosiddetta anomalia elettorale. E della criminalizzata “anatra zoppa”. Banalità e insensibilità allo stato puro. La “deprecata” anomalia elettorale determinata dal voto disgiunto, lo ripeto per l’ennesima volta, é una forza non una debolezza. Lo è per il Comune. Lo è per gli amministratori e gli eletti. Duplice forza nel duplice motivato consenso popolare. Gli elettori, pur se non nell’affluenza desiderata, hanno scelto, con due distinte maggioranze, il sindaco e il Consiglio. Per il valore istituzionale eguale e non contrapposto. Non un Sindaco minoritario, pertanto. E non una maggioranza consiliare privilegiata nel potere “deresponsabilizzato”.

Ma due forze che hanno un luogo e un compito per lavorare insieme, il Consiglio e l’unità. Il Consiglio per l’alto confronto programmatico, l’unità per le scelte strategiche più importanti. Discussione e decisione per la tessitura della Democrazia, che è anche governo. Il Sindaco può e deve risolvere il problema dei problemi. Ne ha la capacità e il potere. Il coraggio lo troverà nella situazione della Città e nello spirito di civismo politico originario, con il quale si è affermato nella competizione che l’ha eletto, ricevendo l’ampia fiducia della gente. Quella fiducia ancora è viva. Sta ora al sindaco farne la sua rinnovata forza politica. Per l’affetto antico che mi lega a lui, per il sostegno che gli dato nelle due battaglie elettorali, per l’Amore folle che nutro per la nostra Città, per la necessità urgente che ha la Calabria del suo capoluogo, per la mia concezione della Politica e delle istituzioni, gli rinnovo il consiglio che gli diedi ad inizio di legislatura e in altre delicate situazioni successive.

Questo: parli alla Città e al Consiglio, nella sede deputata. Proponga sulle note linee programmatiche un programma di sintesi, contenente proposte concrete nella visione ampia e regionale di Catanzaro città-regione. Un programma pratico ma ambizioso. Lo accompagni con la nomina della “sua” giunta e chieda il consenso più largo dei consiglieri.

Un consenso senza condizioni che non siano il Bene Comune. Non un patto perla la città, come usa dire, ma un comune atto morale, di onestà nei confronti di Catanzaro. Mancante il quale, nell’ampiezza richiesta che esclude numeri stiracchiati e maggiorane rabberciate, vada al voto. E si ripresenti con le sue liste. Meglio votare che agonizzare. Catanzaro non può morire! (fc)

L’OPINIONE / Vincenzo Castellano: Le quote giovani potrebbero trasformare il panorama politico

di VINCENZO CASTELLANOIn Italia, un fenomeno preoccupante sta prendendo piede: quello della fuga di cervelli, con giovani talentuosi che lasciano il paese alla ricerca di migliori opportunità all’estero. Questa non è solamente una fuga geografica, ma una fuga da un sistema politico e sociale percepito come ostile o inadeguato alle aspirazioni della generazione più giovane. Al centro di questo esodo non ci sono solo questioni economiche, ma anche strutture di potere obsolete e disconnesse dalle realtà contemporanee che hanno alienato i giovani, facendoli sentire trascurati e spesso completamente esclusi.

La predominanza di una popolazione anziana, sia nella società sia tra gli elettori, inclina le politiche e le priorità verso gli interessi di questa fascia d’età, spesso a scapito delle necessità dei più giovani. Questo squilibrio è riflettuto nelle istituzioni, dove l’alta partecipazione degli anziani alle urne consolida una politica che perpetua lo status quo, limitando l’introduzione di riforme volte a favorire un rinnovamento generazionale.

Per contrastare questa dinamica, l’Italia necessita di una rivoluzione generazionale nelle sue istituzioni, che non si limiti a inserire giovani in ruoli marginali, ma che riformi le strutture di potere per renderle inclusive e rappresentative. L’introduzione di quote giovani, analogamente alle quote di genere, potrebbe essere una strategia concreta per assicurare una rappresentanza significativa dei giovani in politica, influenzando positivamente le decisioni legislative e garantendo che le loro esigenze e prospettive siano considerate.

Queste quote non solo obbligherebbero i partiti a integrare i giovani nei loro ranghi, ma garantirebbero anche un ruolo attivo e decisionale, vitalizzando il dibattito politico con nuove idee. Inoltre, l’impiego di giovani nei seggi durante le elezioni potrebbe servire come strumento formativo, aumentando la loro comprensione del processo elettorale e rafforzando il senso di appartenenza e responsabilità civica.

Implementare tali misure potrebbe stimolare un cambiamento significativo nel panorama politico italiano, riducendo il distacco percettivo tra giovani e istituzioni e incentivando una maggiore affluenza alle urne da parte di questa fascia d’età. Un rinnovamento del genere non solo equilibrerebbe la rappresentanza generazionale, ma rivitalizzerebbe una democrazia adattandola alle trasformazioni demografiche e culturali del paese. Il rinnovamento dell’Italia, quindi, è un progetto collettivo che richiede il sostegno di tutti i cittadini, invitando ogni generazione a collaborare per un futuro in cui l’Italia possa essere veramente “fatta e pensata dai e per i giovani”. Questo è un appello alla riflessione e all’azione: partecipare, votare, candidarsi e impegnarsi nella vita civica sono passi essenziali per chiunque creda in un futuro migliore per il nostro paese. (vc)

[Vincenzo Castellano è segretario Federale di Italia del Meridione]

L’OPINIONE / Giacomo Saccomanno: Manifesti “La Base” satira? No, istigazione all’odio

di GIACOMO SACCOMANNO – La protesta ha dei limiti di decenza e rispetto dell’altrui persona. Tutti vogliamo la libertà, ma questa si scontra con la libertà degli altri. Una invasione di questa è da ritenersi una pesante violazione dei diritti costituzionali. I manifesti realizzati dai ragazzi de “La Base” violano questi principi e sono, sicuramente, di cattivo gusto. Ma, quel che è più grave istigano pesantemente alla violenza! Ma, non solo questo. Diffondono anche notizie false e non veritiere.

La Politica vera e la satira corretta non possono percorrere questa strada di possibili reazioni incontrollate. La sinistra sta utilizzando per esclusi scopi di presunto consenso elettorale un disegno di legge che ha voluto e votato nel 2001! Tanta ipocrisia che poi autorizza a manifestare in modo inconsulto e senza conoscere il vero dettame della proposta legislativa. A questi ragazzi ricordo che per la “questione Merdionale” si dibatte da una vita e mai nessuno è riuscito a risolvere il problema ed il Sud negli anni ha sempre aumentato il divario con il Nord. Ora che si cerca di affrontare la difficile ed irrisolta situazione, voluta dalla sinitra nel 2001, si formano barricate che non potranno che aumentare il disastro attuale.

La sinistra, che ha tanti deputati e senatori in Parlamento, deve utilizzarli per rettificare eventuali errori ed integrare al meglio la norma che ha voluto la stessa. Il resto è qualcosa di inconsulto. E, comunque, dimostra la mancanza di capacità politica e di dialogo corretto tra istituzioni. Inserire in un pseudo manifesto funesto le foto dei senatori e dei deputati, oltre che del presidnete della Giunta Regionale, è un qualcosa di ignobile. La Lega condanna tali atteggiamenti che sprigionano solo odio e si pone accanto a queste persone per bene che stanno lavorando per il bene del proprio territorio, che è stato distrutto proprio dall’incapacità della sinistra di amminitrarlo in oltre 10 anni, nel quali sono stati nei governi che si sono succeduti nel tempo.

A Simona Loizzo, a Domenico Furgiuele, a Tilde Minasi, a Roberto Occhiuto, a Mario Occhiuto, a Wanda Ferro, a Fausto Orsomarso ed a tutti coloro che hanno sostenuto l’Autonomia Differenziata la piena solidarietà della Lega e una forte condanna per tali condotte inverosimili e che non appartengono ad una democrazia ed a un dialogo sereno e di spessore. (gs)

[Giacomo Saccomanno è commissario regionale della Lega]

I GIOVANI NON COME PRIORITÀ SECONDARIA
BENSÌ RISORSA PREZIOSA PER LA CALABRIA

di GIULIA MELISSARI – Se in Francia un trentaquattrenne come Gabriel Attal può essere nominato Primo ministro, in Italia sembra che i giovani facciano ancora molta fatica a emergere. Senza addentrarmi in un discorso troppo ampio, vorrei focalizzarmi sul nostro “piccolo” orticello: la Calabria.

Ripercorriamo brevemente gli ultimi tre anni. Durante un incontro al Palazzo della Regione con i candidati a Presidente, tutti incredibilmente presenti, è stato presentato un manifesto giovanile con proposte precise. Quel manifesto, lavoro frutto di incontri proficui tra giovani appartenenti a organizzazioni del terzo settore, millennial e generazione Z, è stato sottoscritto dai candidati presenti, tra cui il successivamente eletto Presidente Roberto Occhiuto.

Successivamente, c’è stato un incontro con la Vicepresidente Giusi Princi, con tanto di articolo sul giornale, la quale ha promesso di seguire questo percorso, per costruire insieme un osservatorio giovanile e strutturare al meglio le proposte. Purtroppo, tutto è svanito dopo quel momento.

La politica regionale potrebbe sostenere che ci sono questioni più urgenti da affrontare. Tuttavia, sorge spontanea la domanda se sia davvero necessario concentrare tutte le forze su un unico problema alla volta e, nel frattempo, ci interroghiamo sul presente e il futuro di una regione sempre più abbandonata.

Non sono sufficienti gli articoli occasionali che esaltano storie di «manager d’azienda che lasciano tutto per aprire un’impresa in Calabria». Queste storie vengono presentate come un sacrificio incredibile o un atto di coraggio straordinario, quasi come se ciò fosse una missione umanitaria, ma la realtà è ben diversa.

Ed allora, forse, la priorità di un politico dovrebbe essere quella di ascoltare i giovani, andando oltre gli incontri occasionali nelle scuole o nei convegni per dare fiducia e concretizzare idee provenienti da un impegno senza pregiudizi politici, per il bene comune e per intravedere o, quanto meno, desiderare di accendere una luce in fondo a questo lungo tunnel.

Mi chiedo se, alla fine dell’anno, i nostri politici abbiano ascoltato il discorso del Presidente della RepubblicaSergio Mattarella, che ha dedicato ampio spazio ai giovani e alla partecipazione. Il Presidente ha parlato di speranze, di cogliere il nuovo, di rassegnazione e indifferenza, sottolineando che partecipare alla vita della comunità è un diritto alla libertà.

Questa parte del discorso ha rafforzato in me uno spirito di resistenza, o meglio, citando il Prof. Vito Teti, di Restanza, un movimento, non una retorica. La rivoluzione è dentro di noi, ed è giunto il momento non solo di chiedere di essere ascoltati, ma di pretenderlo.

L’insegnamento di Don Italo Calabrò ai giovani, il non delegare, è motivo di azione che deve partire dal basso, una rivoluzione democratica di libertà. Se da un lato i giovani devono agire e non delegare, la politica, invece, dovrebbe farlo, delegando ai giovani idee, creatività e voglia di fare. Le nuove generazioni sono viste solo come «coloro che stanno sempre connessi sui social», ma è il momento di rivedere queste considerazioni, perché, paradossalmente, sono spesso i politici a essere più presenti sui social.

Noi siamo ancora qui, ma questa volta non aspettiamo, abbiamo la voglia di continuare a generare un cambiamento. Come in una partita di pallacanestro, l’azione d’attacco dura 24 secondi e sta per scadere l’opportunità di fare canestro. Vogliamo costruire insieme un tiro da tre punti allo scadere o fare suonare la sirena come sempre, perdendo la partita?

In conclusione, mi rivolgo alla politica – tutta – regionale con un appello sincero. I giovani calabresi sono in attesa, che vengano ascoltate le loro proposte con responsabilità e considerazione. Infatti le idee che emergono da un impegno senza pregiudizi politici rappresentano una risorsa preziosa per il bene comune e il futuro della nostra regione.

Sicché invitiamo le Istituzioni a non sottovalutare la voce della gioventù e a tradurre in condotte responsabili le proposte che sono state rappresentate. Creare un dialogo continuo e costruttivo con i giovani, delegando responsabilità e dando fiducia alle loro idee e alla loro creatività, è un passo fondamentale per costruire una Calabria più inclusiva e prospera.

L’appello è a non considerare le questioni giovanili come una priorità secondaria, ma piuttosto come una componente essenziale per il progresso e lo sviluppo della regione. In un periodo in cui la partecipazione attiva dei giovani è cruciale per il cambiamento positivo.

Poiché i giovani calabresi, quelli che sono rimasti in questo territorio, sono convinti che la politica regionale deve abbracciare questa prospettiva, perciò l’invito è di creare un ambiente in cui le proposte dei giovani siano non solo ascoltate, ma anche implementate concretamente per il bene di tutti.

La Calabria ha il potenziale per diventare un luogo in cui le generazioni future contribuiscano attivamente al proprio destino, e questo potrà accadere solo attraverso un dialogo aperto e una collaborazione identitaria tra giovani e Istituzioni. (gm)

[Giulia Melissari è del Gruppo Giovani del Centro Agape di Reggio Calabria]

Italia Viva Calabria all’attacco di Occhiuto: «Troppi annunci»

Italia Viva Calabria all’attacco del governatore Occhiuto con le parole della presidente regionale del partito di Renzi, Nunzia Paese.

«Il Presidente Occhiuto è un ottimo comunicatore un inestricabile politico dalla parola facile, al tempo di populismi e sovranismi chi la spara più grossa è pole position. Una gara! Ottime opere: Nuova 106 Catanzaro-Cutro-Crotone, accelerazione Elettrificazione Ionica, Autostrada A2 Cosenza Altilia ecc. ecc., dal Mare pulito al porto di Gioia Tauro. Bene! Ora anche i collegamenti internazionali con l’Hub di Istanbul e Francoforte, si annuncia che porteranno tante frotte di turisti e viaggiatori internazionali. Bene, molto Bene, anzi Benissimo. Tuttavia, è importante anche guardarsi intorno e confrontare la realtà attuale con i progressi annunciati», commenta la Paese

«Italia Viva – continua la presidente regionale – più volte aveva avanzato proposte semplici e di facile attuazione, ma rimasti inascoltati direttamente all’assessore ai Trasporti. È importante che il Presidente Occhiuto stabilisca un cronoprogramma preciso e impegnativo per garantire la realizzazione delle iniziative in campo mobilità e trasporti. Primo obiettivo, di facile attuazione, collegare con pullman e treni l’aeroporto di Lamezia con le altre principali località città e Aree turistiche con orario consultabile da App Internet. Magari con prezzo fisso di corsa Taxi e con iterazione modalità pullman-treno, ci accontentiamo di poco ma solo per iniziare. Si potrebbero aggiungere alla proposta i collegamenti degli Aeroporto di Crotone e Reggio C. ma è meglio non affogare la potente organizzazione regionale. Al momento una persona che arriva a Lamezia non sa come raggiungere Cosenza o Catanzaro per non dire Reggio Crotone o Vibo Valentia, non potendo usufruire di mezzi pubblici regionali, se non con auto propria e autista munita. Ed anche i turisti che arrivano non avranno i servizi di mobilità necessari».

«Secondo obiettivo – continua la Paese – Pubblicare su app internet gli orari dei collegamenti regionali di tutti i pullman stabilendo le connessioni con i regionali di Trenitalia o Ferrovie Calabria, materializzare le fermate sul territorio sarebbe utile creare delle stazioni dei pullman (i cittadini per sapere dove si fermano i pullman utilizzano il passa parola). Altre proposte… al prossimo doc. per non ingolfare la Presidenza Regione Calabria, lasciamo fare tutti gli annunci che vuole, ma aspettiamo le date di attivazione delle proposte avanzate. È essenziale che il Presidente Occhiuto passi dalle parole ai fatti per mantenere la speranza dei calabresi e garantire un futuro migliore per la regione».

«Da non dimenticare – conclude – il ritrattino di un altro Presidente preso dall’annuncite tale Oliverio… di cui si sono perse le tracce oltre che tutti i propositi annunciati a suo tempo. Presidente Occhiuto attendiamo che si passi dalle parole ai fatti!!!». (rcz)

L’OPINIONE / Mario Nasone: Reggio ha bisogno di una nuova e bella politica

di MARIO NASONENel Suo messaggio della notte di Natale, l’arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, mons. Fortunato Morrone, invita ad «accogliere pienamente l’annuncio cristiano della venuta del Salvatore e conseguentemente a uscire fuori da una sorta di “sonnambulismo” che come non mai attraversa la città, ma anche la Chiesa».

Non sappiamo che spazio ha trovato tra feste, cenoni di Natale e Capodanno che normalmente occupano il maggior spazio nelle nostre famiglie in questi tempi questo messaggio, a fare a fare emergere la responsabilità dei cristiani che abitano questa nostra città. Specialmente a quelli “che abitano i palazzi della politica e dell’amministrazione. Su quest’ultimo invito, guardando il balletto sulla composizione della nuova Giunta da circa due mesi la città aspetta, pare che il messaggio sia caduto nel vuoto. Prevalgono le vecchie logiche comuni a tutti i partiti che vede l’interesse personale che prevale su quello della città.

Oggi più che mai Reggio ha bisogno di una nuova e bella politica, quella che abbiamo conosciuto, almeno in parte, nella primavera di Italo Falcomatà dove le forze migliori della città avevano accettato la sfida del cambiamento con alcuni uomini rappresentativi della società vivile che si erano prestati alla politica, penso a Nuccio Barillà di Legambiente, a Gianni Pensabene e Giuliano Quattrone di Insieme per la città, a Nino Mallamaci, a Lamberti Castronovo, ad Attilio Funaro di Confcommercio, all’imprenditore Falduto, ed altri ancora che avevano sposato il suo progetto che aveva trovato consensi anche fuori dal centro sinistra.

Parlava di una città da amare, lo si vedeva a mezzanotte andare in giro con il suo fedele e amico assessore Totò Camera a controllare se fossero partiti i camion per la raccolta della spazzatura, a contrastare per la prima volta il comitato di affari politico e mafioso che gestiva la città, ricordo quando da consigliere comunale mi disse: vedi Mario il comune amministra, la ‘ndrangheta governa. Non a caso divenuto sindaco ebbe il regalo della bomba fatta scoppiare nel davanti al portone del suo palazzo.

Con un altro Italo, don Calabrò, creò un sodalizio che iniziò tra i banchi della scuola del Panella, che decise di mettere le mani nelle ferite più profonde della città, quelle delle povertà cercando di condividerle e curarle. Era una stagione che aveva avvicinato il palazzo alla città, con i cittadini che partecipavano nelle circoscrizioni, nelle associazioni, nei tanti ambiti in cui ognuno cercava di dare un contributo alla rinascita della città dopo la più terribile guerra di mafia che l’aveva insanguinata.

Italo Falcomatà ha vissuto anche Lui le sue contraddizioni ma aveva il dono di ascoltare, senza presunzione e la capacità di mediare tra le varie anime che aveva coinvolto nel suo progetto politico mettendo sempre la città al centro. Italo Falcomatà e Italo Calabrò, tra le tante autorità morali che Reggio ha avuto rappresentano, soprattutto oggi  in una città in crisi di identità, i due maestri di vita a cui possano guardare i cittadini ed in particolare i giovani e chi fa politica. Iniziando dall’attuale sindaco Giuseppe Falcomatà che ne ha accettato l’eredità ma non la sua visione politica ed il suo coraggio, anche per l’inesperienza, che nel suo discorso di insediamento disse: «Oggi più che mai avvertiamo la necessità di porre in essere politiche inclusive, ovvero riportare al centro dell’attenzione della nostra azione politica coloro che fino ad oggi sono stati tenuti ai margini: i poveri, gli anziani, i bambini, le persone con disabilità, tutti, nessuno escluso, faccio mio l’insegnamento che don Italo ci ha lasciato. Un insegnamento da perseguire nel nostro agire quotidiano. È il momento del coraggio. Don Italo ha sempre invitato i giovani reggini (e non solo) a non delegare gli altri. Mi piace ricordarlo così, don Italo, quel sacerdote che ha scosso le coscienze di molti e continua a farlo ancora oggi con i suoi insegnamenti».

Per la nuova Giunta che nascerà sarà questo il primo banco di prova, rilanciare dopo anni di buio, le politiche del Welfare, garantire una rete di servizi di protezione sociale dei più fragili, dando loro posto anche nel bilancio comunale. Servirà soprattutto un nuovo protagonismo della Chiesa e della società civile non più suddita ma corresponsabile, come chiede il Vescovo, di questa nuova stagione. (mn)

[Mario Nasone è presidente del Centro Comunitario Agape]