LA CALABRIA E 55 ANNI DI REGIONALISMO
TANTE LE RIFORME ANCORA DA ATTUARE

di DOMENICO CRITELLI – Nel 2025 stiamo girando la boa del 55mo anniversario di Regionalismo Calabrese.

Un passaggio ordinario, ormai, di funzionalità della legislazione differenziata e concorrente. Sarebbe stato opportuno, dopo oltre 50 anni, fare un bilancio dei miglioramenti o dei deficit, dei punti di forza e dei punti di debolezza. Di tutto ciò che si poteva fare, e si potrebbe ancora fare, per rendere i calabresi cittadini normali.

Un dato storico il 1970 allorquando si inserì, nella Costituzione, il sesto pilastro del nostro impianto Repubblicano (Corte Costituzionale, Parlamento, CSM, Regioni, Province, Comuni). Ogni anno, puntualmente, si dibatte dei Moti di Reggio successivi a quell’evento. Due narrazioni che si intrecciano e correlate fra di esse, in quanto ad implicazioni politiche e Istituzionali.

La ricostruzione che ne fa Calabria.Live, puntuale e oggettiva, aiuta il “guidatore” (il legislatore odierno) esattamente come uno “specchietto retrovisore”. Non vi si può tenere costantemente lo sguardo, perché si rischia di andarsi a schiantare.
Ma neanche ignorarlo del tutto, per evitare di essere orientati solo da revisionismo fine a se stesso o dalla riproposizione, de quo, di fatti e accadimenti ormai lontani e metabolizzati.

Una occhiata rapida, giusto per calibrare i giudizi, aiuterebbe a rendere più mirati i cambiamenti dell’impalcatura istituzionale ed amministrativa della Calabria, ma, soprattutto, geopolitica. Non è ordinario provare ad aprire un confronto su come rilanciare temi nazionali ma dalle implicazioni territoriali.

L’autonomia differenziata ed il Ponte sullo Stretto, senza perdere di vista la prospettiva di una maggiore coesione, questa volta politica, anche delle Istituzioni Europee.
Non è nemmeno pretenzioso, da parte mia, legare fatti transnazionali con prospettive di macroarea. Intanto, perché tutto si tiene insieme.

Poi, perché ne abbiamo titolo, essendo la Calabria, fra le altre, a comporre la Comm.ne InterMediterranea e ad esprimerne il Presidente, nella persona di Roberto Occhiuto.
E, in ultima istanza, perché sono temi dei quali mi appassiono e scrivo da anni. Il Mediterraneo, non un Oceano, ma con una rilevanza che lo tiene sempre al centro degli equilibri mondiali e ne fa parlare con la stessa dovizia e visione prospettica del Pacifico o dell’Atlantico.

Indubbiamente spazi acquei sterminati che, oltre a collegare continenti, sono sempre stati ritenuti baluardi anche di difesa degli Stati bagnati, per come sostiene Tim Marshal nel suo libro “Le 10 mappe che spiegano il mondo”. Lo stesso Mediterraneo con i suoi “affluenti” (Sicilia, Sardegna, Tirreno, Jonio, Adriatico etc.) potremmo assumerlo come il “nostro” oceano, dacché Mare Nostrum.

Assolutamente rilevante, anche perché in esso si svolge oltre il 25% dell’intero traffico commerciale e turistico del mondo. Senza attardarci in statistiche o citazioni, per venire rapidamente alla “provocazione ma non tanto”, bisognerebbe avere l’ambizione di superare la storica suddivisione di Calabria Citra e Calabria Ultra, dalle quali discesero, qualche millennio dopo, e fino al 1993, le tre Province di emanazione Sabauda (Catanzaro Cosenza Reggio Calabria): la “Calabria dei due Mari”.

Unica Regione italiana ad essere completamente avvolta da due mari, pur non essendo un’isola ma collegata alla terra dall’Istmo di Catanzaro. Si tratterebbe di ridare dignità, o anche di risarcire, l’intera fascia Jonica (Sibari, Corigliano Rossano, Crotone etc.) che, nei millenni successivi alla dominazione Magno Greca, hanno visto perdere sempre più rilevanza fino a ridursi in una terra di passaggio e di sempre meno residenza, fagocitata dai centralismi Regionali ed extra Regionali.

Ecco perché Autonomia e Ponte sullo Stretto potrebbero offrire la stura a rilanciare la MacroRegione Mediterranea, con zoccolo di partenza, Sicilia Calabria e Basilicata, e Capoluogo la “Città dello Stretto” unite dalla più grande opera ingegneristica del mondo, almeno in quanto a lunghezza e temerarietaà geostatica. La seconda Regione d’Italia con i suoi poco più di 7 mln di abitanti.

Una opportunità irripetibile per rilanciarci, affidandoci a noi stessi e, soprattutto, alla nostra testardaggine: quella positiva, ovviamente.
Non trascurerei neppure il fatto che le tre Regioni hanno la stessa maggioranza politica e la guida affidata a 3 Liberalpopolari che affondano, nell’autonomismo Sturziano, la cultura di Governo che li orienta. Saremmo competitivi e da primato su diverse materie quali Energia, Turismo, produzioni agricole, beni archeologici, enogastronomia mediterranea e Contee vitivinicole. E poi, artigianato e industrie eco-sostenibili.
Una sfida quotidiana ad elevare la qualità della vita, tra gli altri, dei Calabresi e di quelli Jonici, alla pari.

Sopratutto tornare ad essere attrattivi anche per tutti i nostri figli che hanno deciso di mettere subito a reddito i sacrifici di anni di studio, emigrando. L’articolazione Amministrativa fra funzioni legislative (Comm.ne Europea, Stato e Macro Regione) e di coordinamento (Province) potrebbe applicare, sul principio di densità demografica e contiguità territoriale, l’estensione e/o la contrazione di Province preesistenti ma dalle dimensioni sproporzionate, anche rispetto alla rivisitazione dell’ultima legge di Riforma, Del Rio, che pone un tetto(300 mila abitanti) oltre il quale il territorio finisce per essere sterminato e ingovernabile.

Allo stesso modo, sperequativo, Province piccole come Crotone e Vibo, o, addirittura, di pochi Comuni, 6 (sei) come nel caso della Provincia Toscana di Prato.
Le riforme nazionali, che procedono a rilento, fra scontri di casta o ideologici, come la Giustizia, il Premeriato e la stessa Autonomia fiscale, non possono non trovare applicazione che dialogando con il territorio.

In Calabria, invece, tutto si stà riaccorpando secondo la vecchia articolazione istituzionale delle 3 grandi Province preesistenti al 1993: aree nord, centro e sud.
Da ciò, le Camere di commercio, le organizzazioni di categoria, i Sindacati confederali etc.

Un “usato sicuro”, per molti, ma senza riscontro del sentimento popolare e delle ricadute politiche, infrastrutturali ed economiche.

A questo sommiamo la contestuale assenza dei partiti, ultraventennale, che non ha generato classe dirigente con capacità critica o autonoma visione del futuro, ma ambascerie periferiche, in taluni casi, vere e proprie sotto-prefetture del consenso.
Questo è, in buona parte, responsabilità della mia generazione che anziché porsi al servizio e basta, si è posta al servizio se.

Ma poi per fare cosa!? Per ritornare tutti abbracciati e, magari, anche saltellando, alla vecchia Provincia di Catanzaro? E chi lo stabilirebbe, il Consiglio Regionale o la Comm.ne parlamentare ?
Avevo proposto, già nel 2020, una consulta Regionale Interistituzionale aperta al mondo delle professioni e dell’associazionismo, per avviare, ad origine della legislatura, un confronto che avesse l’ambizione di aprire una stagione Riformista e innovatrice dell’articolazione Istituzionale amministrativa e territoriale della Calabria.

Cercando anche di evitare che questi 32 anni trascorsi dalla riforma delle autonomie locali (1993), si risolvessero alla Fantozzi (il comico): abbiamo scherzato. Se così dovesse essere, la forzatura sarebbe solo responsabilità dei tanti epigoni che calcano la scena nazionale e Regionale, senza interrogare o rendere partecipe il territorio.

Al netto delle preferenze personali – sono sempre stato per l’autonomia da Catanzaro fin dal 1979 anno di ingresso nella DC e, da qualche anno, sostengo la costituzione della Provincia della Magna Grecia – credo che il territorio vada costruito seguendo direttrici di sviluppo che riducono la perifericità dei territori e affidandosi, tra le altre infrastrutture, anche a Città policentriche o territorio.

Da ciò la fusione dei 6 Comuni rivieraschi di Crotone, Isola Capo Rizzuto,Cutro, Scandale, Rocca di Neto e Strongoli in un unico grande Comune di oltre 100 mila abitanti e ad una incidenza, e rilevanza geopolica, della più grande Città dello jonio calabrese, da Sibari a Locri, e del 3 territorio più esteso d’Italia dopo Roma e Ravenna(612 kmq).
Catanzaro, invece, è stata una Città “Centralista”.

Tutto avveniva subordinatamente agli interessi del Capoluogo. Da ciò la domanda di autonomia istituzionale, anticipata da quella politica, della mia generazione che, mi auguro, i “nuovi” sapranno difendere. Rispetto a questi temi riscontro, purtroppo, un fatalismo e una mancanza di idee, anche diverse, – chissà che non mi si convinca del contrario – che non lascia ben sperare, anzi!!

Le prossime elezioni Amministrative (2026) dovranno servire proprio per far crescere e condividere dal basso queste tematiche. Diversamente si continuerà a dibattere di Bonifica in termini reazionari e populisti senza neanche sapere di cosa si parla e quante opportunità si sono perse in attesa di Godot. Anche in questo caso, non mi fido dei nuovi e nemmeno di quelli della mia generazione che hanno attraversato gli ultimi 30 anni osservando o generando cumuli di rifiuti tossici e radioattivi ma utilizzando, nei mandati elettorali a loro discrezione per la Città, le Royalties.

E lo hanno fatto anche i cosiddetti Comuni Rivieraschi del Crotonese. Ecco perché mi fido e sostengo, solitariamente, l’azione del generale Errigo, Commissario Sin, sul quale si prova anche ad orientare il venticello della calunnia. Quest’ultimo anche da parte di chi essendo stato al Governo della Regione (Oliverio) o al Governo del Paese ( Conte I e II) ha titolo a confrontarsi ma non a porre addebiti o a suggestionare i Crotonesi.

Domenico Critelli è stato assessore Provinciale ed è componente del Comitato Magna Graecia]

AUTONOMIA, UN PASTICCIO CHE RISCHIA DI
PORTARE AD UN REGIONALISMO IMPAZZITO

di GIOVANNI MACCARRONEIniziamo a dire che il Titolo V, parte Seconda, della nostra Costituzione è stato già oggetto di un ampio processo di riforma, avvenuto mediante l’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 (contenente appunto «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» in GU n. 248 del 24 ottobre 2001).

La citata legge è stata approvata con una maggioranza inferiore a quella richiesta (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere) e per questo è stata sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, il quale si è concluso con esito favorevole all’approvazione della legge (il 64% dei votanti si è espresso per il sì) che è poi entrata in vigore il mese successivo. 

Il referendum – a cui partecipò solo il 34 per cento dei votanti – rappresentava il punto di arrivo di un lungo percorso, iniziato nel 1997, durante il primo governo Prodi, con una commissione bicamerale sul tema.

Due anni dopo, nel 1999 – il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema – il lavoro della commissione era confluito in una proposta di legge.

L’approvazione del testo, infine, arrivò a marzo 2001 quando a Palazzo Chigi c’era Giuliano Amato. Grazie alla legge costituzionale n. 3/2001 è stato introdotto il terzo comma dell’art. 116 Cost., il quale prevede la possibilità che, con legge dello Stato, approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa con la Regione interessata, possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» nelle materie di competenza concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., nonché in alcune materie di competenza esclusiva dello Stato (vale a dire organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).

A seguito dell’introduzione della citata disposizione, a partire dal 2001, le Regioni a statuto ordinario possono ottenere, previa intesa con lo Stato, ulteriori competenze nelle materie circoscritte ai 23 ambiti di legislazione concorrente (art. 117, comma 3) oppure nelle tre materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2), ossia la giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Per il trasferimento delle ulteriori funzioni necessita un’apposita legge dello Stato (approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti) e, soprattutto, il rispetto dei principi di cui all’art. 119 Cost.

Pertanto, in tale contesto rileva anche il tema di una corretta quantificazione delle risorse da attribuire alle Regioni richiedenti per le competenze aggiuntive in termini di spesa storica o di fabbisogni standard nel territorio regionale. 

Anzi, la determinazione delle risorse finanziarie, umane e strumentali da devolvere alle regioni per implementare le funzioni acquisite è tanto importante quanto la stessa attribuzione delle competenze, in quanto fase imprescindibile per giungere ad un effettivo funzionamento del regionalismo differenziato

Attualmente, per il finanziamento regionale le norme vigenti prevedono sistemi di compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali e un fondo perequativo generale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119).

All’indomani della riforma del Titolo V, e all’introduzione della previsione costituzionale relativa al cd. regionalismo differenziato, poche sono state le regioni che hanno avanzato proposte per richiedere «ulteriore forme e condizioni particolari di autonomia». Nessuno dei tentativi intrapresi, però, è giunto a compimento.

Si può dire, quindi, che la previsione legislativa sull’autonomia differenziata non ha ancora avuto alcun seguito. Sebbene, di recente, sia stata pubblicata nella gazzetta Ufficiale la legge 26 giugno 2024, n. 86 recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

L’art. 4 della legge da ultimo citato prevede espressamente che «il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse  umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o  ambiti  di  materie riferibili ai Lep di cui all’articolo  3,  può essere  effettuato, secondo le modalità e le procedure  di  quantificazione  individuate dalle singole intese, soltanto dopo la  determinazione  dei  medesimi Lep e dei relativi costi e  fabbisogni  standard,  nei  limiti  delle risorse rese disponibili  nella  legge  di  bilancio… Il trasferimento delle funzioni relative a materie o ambiti di materie diversi da quelli di cui al comma 1, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, può essere effettuato, secondo le modalità, le procedure e i tempi indicati nelle singole intese, nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente, dalla data di entrata in vigore della presente legge».

Pertanto, prima di poter mettere in atto l’intera riforma andrebbe stabilita la spesa dei Livelli essenziali di prestazione e i relativi costi e fabbisogni standard che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale. Cosa che, nei ventitrè anni trascorsi dall’approvazione della riforma costituzionale che ha introdotto l’autonomia, non è mai avvenuta.

E la centralità dell’opera di determinazione dei Lep in determinati settori è importante anche ai fini della piena attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La qual cosa è stata recentemente evidenziata dalla stessa Corte costituzionale, la quale, nella sentenza n. 220 del 2021, ha sottolineato come tale adempimento, da parte del legislatore, appaia “particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)”.

Ad ogni buon conto, occorre considerare che – come già evidenziato – le necessarie risorse finanziarie andranno determinate in termini di compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale, tali da consentire la gestione delle competenze trasferite o assegnate, in coerenza con quanto disposto dall’art. 119, quarto comma, della Costituzione.

Di conseguenza, l’attribuzione di nuove funzioni, determinerà sicuramente un aumento della pressione fiscale a danno, soprattutto, dei cittadini e delle imprese del Sud. 

Nelle regioni centro-settentrionali, l’incremento delle competenze nel loro territorio, attraverso l’incremento della quota di compartecipazione ai grandi tributi erariali, provocherà, invece, un incremento della spesa pubblica che andrà a tutto vantaggio dei cittadini di tali regioni dato che le entrate tributarie di tali regioni sono enormemente più elevate.

Per cui, nelle regioni del Sud, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, potranno essere attribuite, non solo attraverso la compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali, ma anche e soprattutto con il ricorso al fondo perequativo di cui all’art. 119 Cost. e comunque con un finanziamento pubblico ingente.

Il che, come è evidente, comporterebbe una inevitabile sottrazione di risorse importanti al bilancio dello Stato e un conseguente consolidamento dei conti pubblici a carico probabilmente alla restante parte del Paese, oltre che più in generale di contribuire a compromettere la garanzia dei diritti sociali, già messa a dura prova da un decennio di crisi.

A quanto sopra bisogna anche aggiungere che l’aggravio del divario Nord-Sud, e la definitiva perdita del residuo senso di appartenenza a una comunità politica unitaria da parte dei cittadini sembrano essere già dietro l’angolo. 

Sicchè, come giustamente è stato notato, il rischio è che con l’autonomia differenziata, da un regionalismo senza modello, si passi a un regionalismo impazzito, dove le Regioni speciali, che lamentano l’arretramento subito a seguito della riforma del Titolo V, si affiancherebbero a Regioni ordinarie di “tipo a” e Regioni ordinarie differenziate di “tipo b”, a loro volta differenziate tra loro, mentre l’assenza di una istituzione rappresentativa di raccordo al centro di questo dedalo di competenze differenziate, che già tante volte è stata lamentata dal 2001 in poi, diverrebbe a questo punto un elemento di ulteriore criticità dell’assetto istituzionale. Insomma, un vero e proprio pasticcio all’italiana. In questo siamo diventati dei veri e propri campioni.

Di ciò se n’è accorto anche un esponente del Pd, Gianni Cuperlo, il quale ha riconosciuto che «nel 2001 si riformò il Titolo V pensando di togliere voti alla Lega. Fu un errore e gli italiani lo hanno pagato caro».

Mah. Speriamo bene. (gm)

AUTONOMIA, UN PASTICCIO CHE RISCHIA DI
PORTARE AD UN REGIONALISMO IMPAZZITO

di GIOVANNI MACCARRONEIniziamo a dire che il Titolo V, parte Seconda, della nostra Costituzione è stato già oggetto di un ampio processo di riforma, avvenuto mediante l’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 (contenente appunto «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» in GU n. 248 del 24 ottobre 2001).

La citata legge è stata approvata con una maggioranza inferiore a quella richiesta (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere) e per questo è stata sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, il quale si è concluso con esito favorevole all’approvazione della legge (il 64% dei votanti si è espresso per il sì) che è poi entrata in vigore il mese successivo. 

Il referendum – a cui partecipò solo il 34 per cento dei votanti – rappresentava il punto di arrivo di un lungo percorso, iniziato nel 1997, durante il primo governo Prodi, con una commissione bicamerale sul tema.

Due anni dopo, nel 1999 – il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema – il lavoro della commissione era confluito in una proposta di legge.

L’approvazione del testo, infine, arrivò a marzo 2001 quando a Palazzo Chigi c’era Giuliano AmatoGrazie alla legge costituzionale n. 3/2001 è stato introdotto il terzo comma dell’art. 116 Cost., il quale prevede la possibilità che, con legge dello Stato, approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa con la Regione interessata, possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» nelle materie di competenza concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., nonché in alcune materie di competenza esclusiva dello Stato (vale a dire organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).

A seguito dell’introduzione della citata disposizione, a partire dal 2001, le Regioni a statuto ordinario possono ottenere, previa intesa con lo Stato, ulteriori competenze nelle materie circoscritte ai 23 ambiti di legislazione concorrente (art. 117, comma 3) oppure nelle tre materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2), ossia la giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Per il trasferimento delle ulteriori funzioni necessita un’apposita legge dello Stato (approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti) e, soprattutto, il rispetto dei principi di cui all’art. 119 Cost.

Pertanto, in tale contesto rileva anche il tema di una corretta quantificazione delle risorse da attribuire alle Regioni richiedenti per le competenze aggiuntive in termini di spesa storica o di fabbisogni standard nel territorio regionale. 

Anzi, la determinazione delle risorse finanziarie, umane e strumentali da devolvere alle regioni per implementare le funzioni acquisite è tanto importante quanto la stessa attribuzione delle competenze, in quanto fase imprescindibile per giungere ad un effettivo funzionamento del regionalismo differenziato

Attualmente, per il finanziamento regionale le norme vigenti prevedono sistemi di compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali e un fondo perequativo generale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119).

All’indomani della riforma del Titolo V, e all’introduzione della previsione costituzionale relativa al cd. regionalismo differenziato, poche sono state le regioni che hanno avanzato proposte per richiedere «ulteriore forme e condizioni particolari di autonomia». Nessuno dei tentativi intrapresi, però, è giunto a compimento.

Si può dire, quindi, che la previsione legislativa sull’autonomia differenziata non ha ancora avuto alcun seguito. Sebbene, di recente, sia stata pubblicata nella gazzetta Ufficiale la legge 26 giugno 2024, n. 86 recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

L’art. 4 della legge da ultimo citato prevede espressamente che «il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse  umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o  ambiti  di  materie riferibili ai Lep di cui all’articolo  3,  può essere  effettuato, secondo le modalità e le procedure  di  quantificazione  individuate dalle singole intese, soltanto dopo la  determinazione  dei  medesimi Lep e dei relativi costi e  fabbisogni  standard,  nei  limiti  delle risorse rese disponibili  nella  legge  di  bilancio… Il trasferimento delle funzioni relative a materie o ambiti di materie diversi da quelli di cui al comma 1, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, può essere effettuato, secondo le modalità, le procedure e i tempi indicati nelle singole intese, nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente, dalla data di entrata in vigore della presente legge».

Pertanto, prima di poter mettere in atto l’intera riforma andrebbe stabilita la spesa dei Livelli essenziali di prestazione e i relativi costi e fabbisogni standard che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale. Cosa che, nei ventitrè anni trascorsi dall’approvazione della riforma costituzionale che ha introdotto l’autonomia, non è mai avvenuta.

E la centralità dell’opera di determinazione dei Lep in determinati settori è importante anche ai fini della piena attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La qual cosa è stata recentemente evidenziata dalla stessa Corte costituzionale, la quale, nella sentenza n. 220 del 2021, ha sottolineato come tale adempimento, da parte del legislatore, appaia “particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)”.

Ad ogni buon conto, occorre considerare che – come già evidenziato – le necessarie risorse finanziarie andranno determinate in termini di compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale, tali da consentire la gestione delle competenze trasferite o assegnate, in coerenza con quanto disposto dall’art. 119, quarto comma, della Costituzione.

Di conseguenza, l’attribuzione di nuove funzioni, determinerà sicuramente un aumento della pressione fiscale a danno, soprattutto, dei cittadini e delle imprese del Sud. 

Nelle regioni centro-settentrionali, l’incremento delle competenze nel loro territorio, attraverso l’incremento della quota di compartecipazione ai grandi tributi erariali, provocherà, invece, un incremento della spesa pubblica che andrà a tutto vantaggio dei cittadini di tali regioni dato che le entrate tributarie di tali regioni sono enormemente più elevate.

Per cui, nelle regioni del Sud, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, potranno essere attribuite, non solo attraverso la compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali, ma anche e soprattutto con il ricorso al fondo perequativo di cui all’art. 119 Cost. e comunque con un finanziamento pubblico ingente.

Il che, come è evidente, comporterebbe una inevitabile sottrazione di risorse importanti al bilancio dello Stato e un conseguente consolidamento dei conti pubblici a carico probabilmente alla restante parte del Paese, oltre che più in generale di contribuire a compromettere la garanzia dei diritti sociali, già messa a dura prova da un decennio di crisi.

A quanto sopra bisogna anche aggiungere che l’aggravio del divario Nord-Sud, e la definitiva perdita del residuo senso di appartenenza a una comunità politica unitaria da parte dei cittadini sembrano essere già dietro l’angolo

Sicchè, come giustamente è stato notato, il rischio è che con l’autonomia differenziata, da un regionalismo senza modello, si passi a un regionalismo impazzito, dove le Regioni speciali, che lamentano l’arretramento subito a seguito della riforma del Titolo V, si affiancherebbero a Regioni ordinarie di “tipo a” e Regioni ordinarie differenziate di “tipo b”, a loro volta differenziate tra loro, mentre l’assenza di una istituzione rappresentativa di raccordo al centro di questo dedalo di competenze differenziate, che già tante volte è stata lamentata dal 2001 in poi, diverrebbe a questo punto un elemento di ulteriore criticità dell’assetto istituzionale.

Insomma, un vero e proprio pasticcio all’italiana. In questo siamo diventati dei veri e propri campioni.

Di ciò se n’è accorto anche un esponente del Pd, Gianni Cuperlo, il quale ha riconosciuto che «nel 2001 si riformò il Titolo V pensando di togliere voti alla Lega. Fu un errore e gli italiani lo hanno pagato caro».

Mah. Speriamo bene. (gm)

L’AUTONOMIA SI DEVE ANCHE SAPER FARE
UN TEMA CHE VA AFFRONTATO SERIAMENTE

di ETTORE JORIO – Oggi si sta discutendo tanto e male sul tema del regionalismo differenziato.

La lotta politica prevale sulla ragione, sulle regole precostituite, sulla coerenza. Le contraddizioni che emergono sono innumerevoli, specie in un centrosinistra che lo ha introdotto in Costituzione e ne ha goduto politicamente con gli esiti del referendum confermativo celebrato il 7 ottobre 2001.

Non solo. Quel centrosinistra che: attraverso la Regione simbolo, l’Emilia-Romagna di Bonaccini e poi anche della Schlein, ebbe a: 1) condividere con pronunce formali del Consiglio regionale (risoluzioni n. 5321, 5600, 6124 e 6129 perfezionate tra l’ottobre 2017 e il febbraio 2018) l’stanza di accedere alla facoltà di incrementare la propria competenza legislativa di cui all’art. 116, comma 3; 2) firmare il 28 febbraio 2018 con il Governo di allora (Gentiloni) l’Accordo preliminare propedeutico al riconoscimento della sua incrementata competenza legislativa in tutte le materie concedibili, fatta eccezione per l’istruzione; votò nelle assemblee legislative di Veneto e Lombardia favorevolmente per l’accesso alla facoltà di legiferare in esclusiva in tutte le materie concorrenti e nelle cinque statali individuate dal vigente art. 116, comma 3; elaborò, nel novembre 2019, durante il governo Conte II, il primo Ddl attuativo del regionalismo differenziato, a firma dell’allora ministro per gli affari regionali e le autonomie Francesco Boccia, di contenuto quasi identico al Ddl Calderoli.

Pertanto, al di là della corretta interpretazione di cosa possa o meno comportare l’accesso all’autonomia legislativa differenziata, così come prevista nel Ddl Calderoli condizionata com’è all’applicazione del federalismo fiscale e alla migliore disciplina della perequazione ordinaria e infrastrutturale, il dibattito che lo circonda avrebbe bisogno di affrontare più seriamente l’argomento. Magari, partendo da una seria riflessione intorno al tema dell’esercizio legislativo differenziato delle Regioni.

Invero, al riguardo non si comprende – prescindendo da come e da quale Regione poi verrà frequentata ed esercitata – la preoccupazione riguardante l’autonomia legislativa differenziata in quanto tale, senza considerare che nel nostro ordinamento costituzionale essa è presente da settantacinque anni. Un fatto, questo, che rende palesemente irragionevoli tante delle tesi che si sentono in giro. Ciò in quanto essa differenziazione è stata direttamente prevista e direttamente attribuita nel testo primitivo della Costituzione entrato in vigore l’1 gennaio 1948. Più esattamente, nel comma primo dell’originaria lettera dello stesso art. 116 della Carta, era stata prevista una chiarissima diversità istituzionale tra Regioni, sul piano legislativo, perfettamente conforme a quella sancita, a titolo invece di opzione, nel discusso contenuto del suo attuale terzo comma.

Quest’ultimo, quindi, da ritenersi redatto in perfetta sintonia e continuità con quanto (meglio) riscritto nei commi primo e secondo del testo revisionato il 2001, sostanzialmente confermativi della Carta scritta dall’Assemblea costituente eletta nel 1946. Quella Costituzione perfezionata, tra gli altri, sotto la presidenza di Terracini, dai vari De Gasperi, Togliatti, Nenni, Pertini, Moro nonché da grandi costituzionalisti come il Mortati.

Ebbene, sin da tale originaria versione della Costituzione, a cinque Regioni su allora diciannove (Friuli-Venezia-Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta) e alle due province autonome di Trento e Bolzano venne consentito quanto oggi nella facoltà delle Regioni a statuto ordinario: di assumere una condizione di particolare autonomia (legislativa), per l’appunto differenziata.

Fatta questa considerazione, delle due una. O i Padri costituenti, ai quali si fa di sovente riferimento ma spesso in modo improprio, erano da considerarsi eversivi e destabilizzanti della Unità della Repubblica e, dunque, pericolosi per aver consentito una resa dei servizi pubblici e delle prestazioni essenziali diseguale e discriminata in favore della Nazione oppure ciò che si dice oggi da parte di taluni ha necessità di essere abbondantemente rivisto.

A questi ultimi un invito. Di riflettere sulla differenziazione applicata, perché vigente da due terzi di un secolo, nel sistema autonomistico regionale attraverso il riconoscimento alle anzidette Regioni delle prerogative derivanti dall’essere a statuto speciale. In quanto tali godenti di “forme e condizioni di autonomia” diverse da quelle delle altre Regioni, sulla base delle quali alle medesime è consentito di legiferare in luogo dello Stato in numerose materie. Di conseguenza, rivedere i propri convincimenti oppure, alternativamente, sostenerli ma con la pretesa di modificare l’art. 116 ai commi primo e secondo e, con essi, cancellare dall’ordinamento le cinque Regioni a statuto speciale.

Da parte mia, ritengo che la mia condivisione tecnica (condizionata ad una chiara disciplina della perequazione) del Ddl Calderoli rintracci le ragioni nel rispetto di quanto previsto dai Costituenti, nella coerenza della mia appartenenza politica di sinistra, nella revisione costituzionale del 2001, nell’Accordo firmato da Bonaccini nel 2018 e nel testo del Ddl Boccia del 2019, salvo ad implementare quest’ultimo con la garanzia preventiva dei Lep e dei costi e fabbisogni standard, così come sancito dalla legge di bilancio 2023 cui fa esplicito riferimento il Ddl Calderoli.

Ciò nella convinzione che il ricorrervi, ovviamente per la Calabria per poche determinate materie tali da generare un ambito legislativo ottimale, costituirebbe l’occasione di: guadagnare risorse rispetto alla spesa storica che l’ha danneggiata; costruire un ceto dirigente che sappia finalmente essere tale; curare di conseguenza i fabbisogni espressi dalla collettività attraverso l’esercizio di poteri e l’assunzione di responsabilità in maggiore aderenza territoriale alle esigenze espresse dalla comunità.

Il sapere come fare è però lo strumento occorrente per riuscire! (ej)