AUTONOMIA, UN PASTICCIO CHE RISCHIA DI
PORTARE AD UN REGIONALISMO IMPAZZITO

di GIOVANNI MACCARRONEIniziamo a dire che il Titolo V, parte Seconda, della nostra Costituzione è stato già oggetto di un ampio processo di riforma, avvenuto mediante l’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 (contenente appunto «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» in GU n. 248 del 24 ottobre 2001).

La citata legge è stata approvata con una maggioranza inferiore a quella richiesta (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere) e per questo è stata sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, il quale si è concluso con esito favorevole all’approvazione della legge (il 64% dei votanti si è espresso per il sì) che è poi entrata in vigore il mese successivo. 

Il referendum – a cui partecipò solo il 34 per cento dei votanti – rappresentava il punto di arrivo di un lungo percorso, iniziato nel 1997, durante il primo governo Prodi, con una commissione bicamerale sul tema.

Due anni dopo, nel 1999 – il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema – il lavoro della commissione era confluito in una proposta di legge.

L’approvazione del testo, infine, arrivò a marzo 2001 quando a Palazzo Chigi c’era Giuliano Amato. Grazie alla legge costituzionale n. 3/2001 è stato introdotto il terzo comma dell’art. 116 Cost., il quale prevede la possibilità che, con legge dello Stato, approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa con la Regione interessata, possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» nelle materie di competenza concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., nonché in alcune materie di competenza esclusiva dello Stato (vale a dire organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).

A seguito dell’introduzione della citata disposizione, a partire dal 2001, le Regioni a statuto ordinario possono ottenere, previa intesa con lo Stato, ulteriori competenze nelle materie circoscritte ai 23 ambiti di legislazione concorrente (art. 117, comma 3) oppure nelle tre materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2), ossia la giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Per il trasferimento delle ulteriori funzioni necessita un’apposita legge dello Stato (approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti) e, soprattutto, il rispetto dei principi di cui all’art. 119 Cost.

Pertanto, in tale contesto rileva anche il tema di una corretta quantificazione delle risorse da attribuire alle Regioni richiedenti per le competenze aggiuntive in termini di spesa storica o di fabbisogni standard nel territorio regionale. 

Anzi, la determinazione delle risorse finanziarie, umane e strumentali da devolvere alle regioni per implementare le funzioni acquisite è tanto importante quanto la stessa attribuzione delle competenze, in quanto fase imprescindibile per giungere ad un effettivo funzionamento del regionalismo differenziato

Attualmente, per il finanziamento regionale le norme vigenti prevedono sistemi di compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali e un fondo perequativo generale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119).

All’indomani della riforma del Titolo V, e all’introduzione della previsione costituzionale relativa al cd. regionalismo differenziato, poche sono state le regioni che hanno avanzato proposte per richiedere «ulteriore forme e condizioni particolari di autonomia». Nessuno dei tentativi intrapresi, però, è giunto a compimento.

Si può dire, quindi, che la previsione legislativa sull’autonomia differenziata non ha ancora avuto alcun seguito. Sebbene, di recente, sia stata pubblicata nella gazzetta Ufficiale la legge 26 giugno 2024, n. 86 recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

L’art. 4 della legge da ultimo citato prevede espressamente che «il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse  umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o  ambiti  di  materie riferibili ai Lep di cui all’articolo  3,  può essere  effettuato, secondo le modalità e le procedure  di  quantificazione  individuate dalle singole intese, soltanto dopo la  determinazione  dei  medesimi Lep e dei relativi costi e  fabbisogni  standard,  nei  limiti  delle risorse rese disponibili  nella  legge  di  bilancio… Il trasferimento delle funzioni relative a materie o ambiti di materie diversi da quelli di cui al comma 1, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, può essere effettuato, secondo le modalità, le procedure e i tempi indicati nelle singole intese, nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente, dalla data di entrata in vigore della presente legge».

Pertanto, prima di poter mettere in atto l’intera riforma andrebbe stabilita la spesa dei Livelli essenziali di prestazione e i relativi costi e fabbisogni standard che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale. Cosa che, nei ventitrè anni trascorsi dall’approvazione della riforma costituzionale che ha introdotto l’autonomia, non è mai avvenuta.

E la centralità dell’opera di determinazione dei Lep in determinati settori è importante anche ai fini della piena attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La qual cosa è stata recentemente evidenziata dalla stessa Corte costituzionale, la quale, nella sentenza n. 220 del 2021, ha sottolineato come tale adempimento, da parte del legislatore, appaia “particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)”.

Ad ogni buon conto, occorre considerare che – come già evidenziato – le necessarie risorse finanziarie andranno determinate in termini di compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale, tali da consentire la gestione delle competenze trasferite o assegnate, in coerenza con quanto disposto dall’art. 119, quarto comma, della Costituzione.

Di conseguenza, l’attribuzione di nuove funzioni, determinerà sicuramente un aumento della pressione fiscale a danno, soprattutto, dei cittadini e delle imprese del Sud. 

Nelle regioni centro-settentrionali, l’incremento delle competenze nel loro territorio, attraverso l’incremento della quota di compartecipazione ai grandi tributi erariali, provocherà, invece, un incremento della spesa pubblica che andrà a tutto vantaggio dei cittadini di tali regioni dato che le entrate tributarie di tali regioni sono enormemente più elevate.

Per cui, nelle regioni del Sud, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, potranno essere attribuite, non solo attraverso la compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali, ma anche e soprattutto con il ricorso al fondo perequativo di cui all’art. 119 Cost. e comunque con un finanziamento pubblico ingente.

Il che, come è evidente, comporterebbe una inevitabile sottrazione di risorse importanti al bilancio dello Stato e un conseguente consolidamento dei conti pubblici a carico probabilmente alla restante parte del Paese, oltre che più in generale di contribuire a compromettere la garanzia dei diritti sociali, già messa a dura prova da un decennio di crisi.

A quanto sopra bisogna anche aggiungere che l’aggravio del divario Nord-Sud, e la definitiva perdita del residuo senso di appartenenza a una comunità politica unitaria da parte dei cittadini sembrano essere già dietro l’angolo. 

Sicchè, come giustamente è stato notato, il rischio è che con l’autonomia differenziata, da un regionalismo senza modello, si passi a un regionalismo impazzito, dove le Regioni speciali, che lamentano l’arretramento subito a seguito della riforma del Titolo V, si affiancherebbero a Regioni ordinarie di “tipo a” e Regioni ordinarie differenziate di “tipo b”, a loro volta differenziate tra loro, mentre l’assenza di una istituzione rappresentativa di raccordo al centro di questo dedalo di competenze differenziate, che già tante volte è stata lamentata dal 2001 in poi, diverrebbe a questo punto un elemento di ulteriore criticità dell’assetto istituzionale. Insomma, un vero e proprio pasticcio all’italiana. In questo siamo diventati dei veri e propri campioni.

Di ciò se n’è accorto anche un esponente del Pd, Gianni Cuperlo, il quale ha riconosciuto che «nel 2001 si riformò il Titolo V pensando di togliere voti alla Lega. Fu un errore e gli italiani lo hanno pagato caro».

Mah. Speriamo bene. (gm)

AUTONOMIA, UN PASTICCIO CHE RISCHIA DI
PORTARE AD UN REGIONALISMO IMPAZZITO

di GIOVANNI MACCARRONEIniziamo a dire che il Titolo V, parte Seconda, della nostra Costituzione è stato già oggetto di un ampio processo di riforma, avvenuto mediante l’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 (contenente appunto «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» in GU n. 248 del 24 ottobre 2001).

La citata legge è stata approvata con una maggioranza inferiore a quella richiesta (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere) e per questo è stata sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, il quale si è concluso con esito favorevole all’approvazione della legge (il 64% dei votanti si è espresso per il sì) che è poi entrata in vigore il mese successivo. 

Il referendum – a cui partecipò solo il 34 per cento dei votanti – rappresentava il punto di arrivo di un lungo percorso, iniziato nel 1997, durante il primo governo Prodi, con una commissione bicamerale sul tema.

Due anni dopo, nel 1999 – il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema – il lavoro della commissione era confluito in una proposta di legge.

L’approvazione del testo, infine, arrivò a marzo 2001 quando a Palazzo Chigi c’era Giuliano AmatoGrazie alla legge costituzionale n. 3/2001 è stato introdotto il terzo comma dell’art. 116 Cost., il quale prevede la possibilità che, con legge dello Stato, approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa con la Regione interessata, possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» nelle materie di competenza concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., nonché in alcune materie di competenza esclusiva dello Stato (vale a dire organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).

A seguito dell’introduzione della citata disposizione, a partire dal 2001, le Regioni a statuto ordinario possono ottenere, previa intesa con lo Stato, ulteriori competenze nelle materie circoscritte ai 23 ambiti di legislazione concorrente (art. 117, comma 3) oppure nelle tre materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2), ossia la giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Per il trasferimento delle ulteriori funzioni necessita un’apposita legge dello Stato (approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti) e, soprattutto, il rispetto dei principi di cui all’art. 119 Cost.

Pertanto, in tale contesto rileva anche il tema di una corretta quantificazione delle risorse da attribuire alle Regioni richiedenti per le competenze aggiuntive in termini di spesa storica o di fabbisogni standard nel territorio regionale. 

Anzi, la determinazione delle risorse finanziarie, umane e strumentali da devolvere alle regioni per implementare le funzioni acquisite è tanto importante quanto la stessa attribuzione delle competenze, in quanto fase imprescindibile per giungere ad un effettivo funzionamento del regionalismo differenziato

Attualmente, per il finanziamento regionale le norme vigenti prevedono sistemi di compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali e un fondo perequativo generale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119).

All’indomani della riforma del Titolo V, e all’introduzione della previsione costituzionale relativa al cd. regionalismo differenziato, poche sono state le regioni che hanno avanzato proposte per richiedere «ulteriore forme e condizioni particolari di autonomia». Nessuno dei tentativi intrapresi, però, è giunto a compimento.

Si può dire, quindi, che la previsione legislativa sull’autonomia differenziata non ha ancora avuto alcun seguito. Sebbene, di recente, sia stata pubblicata nella gazzetta Ufficiale la legge 26 giugno 2024, n. 86 recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

L’art. 4 della legge da ultimo citato prevede espressamente che «il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse  umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o  ambiti  di  materie riferibili ai Lep di cui all’articolo  3,  può essere  effettuato, secondo le modalità e le procedure  di  quantificazione  individuate dalle singole intese, soltanto dopo la  determinazione  dei  medesimi Lep e dei relativi costi e  fabbisogni  standard,  nei  limiti  delle risorse rese disponibili  nella  legge  di  bilancio… Il trasferimento delle funzioni relative a materie o ambiti di materie diversi da quelli di cui al comma 1, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, può essere effettuato, secondo le modalità, le procedure e i tempi indicati nelle singole intese, nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente, dalla data di entrata in vigore della presente legge».

Pertanto, prima di poter mettere in atto l’intera riforma andrebbe stabilita la spesa dei Livelli essenziali di prestazione e i relativi costi e fabbisogni standard che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale. Cosa che, nei ventitrè anni trascorsi dall’approvazione della riforma costituzionale che ha introdotto l’autonomia, non è mai avvenuta.

E la centralità dell’opera di determinazione dei Lep in determinati settori è importante anche ai fini della piena attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La qual cosa è stata recentemente evidenziata dalla stessa Corte costituzionale, la quale, nella sentenza n. 220 del 2021, ha sottolineato come tale adempimento, da parte del legislatore, appaia “particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)”.

Ad ogni buon conto, occorre considerare che – come già evidenziato – le necessarie risorse finanziarie andranno determinate in termini di compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale, tali da consentire la gestione delle competenze trasferite o assegnate, in coerenza con quanto disposto dall’art. 119, quarto comma, della Costituzione.

Di conseguenza, l’attribuzione di nuove funzioni, determinerà sicuramente un aumento della pressione fiscale a danno, soprattutto, dei cittadini e delle imprese del Sud. 

Nelle regioni centro-settentrionali, l’incremento delle competenze nel loro territorio, attraverso l’incremento della quota di compartecipazione ai grandi tributi erariali, provocherà, invece, un incremento della spesa pubblica che andrà a tutto vantaggio dei cittadini di tali regioni dato che le entrate tributarie di tali regioni sono enormemente più elevate.

Per cui, nelle regioni del Sud, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, potranno essere attribuite, non solo attraverso la compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali, ma anche e soprattutto con il ricorso al fondo perequativo di cui all’art. 119 Cost. e comunque con un finanziamento pubblico ingente.

Il che, come è evidente, comporterebbe una inevitabile sottrazione di risorse importanti al bilancio dello Stato e un conseguente consolidamento dei conti pubblici a carico probabilmente alla restante parte del Paese, oltre che più in generale di contribuire a compromettere la garanzia dei diritti sociali, già messa a dura prova da un decennio di crisi.

A quanto sopra bisogna anche aggiungere che l’aggravio del divario Nord-Sud, e la definitiva perdita del residuo senso di appartenenza a una comunità politica unitaria da parte dei cittadini sembrano essere già dietro l’angolo

Sicchè, come giustamente è stato notato, il rischio è che con l’autonomia differenziata, da un regionalismo senza modello, si passi a un regionalismo impazzito, dove le Regioni speciali, che lamentano l’arretramento subito a seguito della riforma del Titolo V, si affiancherebbero a Regioni ordinarie di “tipo a” e Regioni ordinarie differenziate di “tipo b”, a loro volta differenziate tra loro, mentre l’assenza di una istituzione rappresentativa di raccordo al centro di questo dedalo di competenze differenziate, che già tante volte è stata lamentata dal 2001 in poi, diverrebbe a questo punto un elemento di ulteriore criticità dell’assetto istituzionale.

Insomma, un vero e proprio pasticcio all’italiana. In questo siamo diventati dei veri e propri campioni.

Di ciò se n’è accorto anche un esponente del Pd, Gianni Cuperlo, il quale ha riconosciuto che «nel 2001 si riformò il Titolo V pensando di togliere voti alla Lega. Fu un errore e gli italiani lo hanno pagato caro».

Mah. Speriamo bene. (gm)

L’AUTONOMIA SI DEVE ANCHE SAPER FARE
UN TEMA CHE VA AFFRONTATO SERIAMENTE

di ETTORE JORIO – Oggi si sta discutendo tanto e male sul tema del regionalismo differenziato.

La lotta politica prevale sulla ragione, sulle regole precostituite, sulla coerenza. Le contraddizioni che emergono sono innumerevoli, specie in un centrosinistra che lo ha introdotto in Costituzione e ne ha goduto politicamente con gli esiti del referendum confermativo celebrato il 7 ottobre 2001.

Non solo. Quel centrosinistra che: attraverso la Regione simbolo, l’Emilia-Romagna di Bonaccini e poi anche della Schlein, ebbe a: 1) condividere con pronunce formali del Consiglio regionale (risoluzioni n. 5321, 5600, 6124 e 6129 perfezionate tra l’ottobre 2017 e il febbraio 2018) l’stanza di accedere alla facoltà di incrementare la propria competenza legislativa di cui all’art. 116, comma 3; 2) firmare il 28 febbraio 2018 con il Governo di allora (Gentiloni) l’Accordo preliminare propedeutico al riconoscimento della sua incrementata competenza legislativa in tutte le materie concedibili, fatta eccezione per l’istruzione; votò nelle assemblee legislative di Veneto e Lombardia favorevolmente per l’accesso alla facoltà di legiferare in esclusiva in tutte le materie concorrenti e nelle cinque statali individuate dal vigente art. 116, comma 3; elaborò, nel novembre 2019, durante il governo Conte II, il primo Ddl attuativo del regionalismo differenziato, a firma dell’allora ministro per gli affari regionali e le autonomie Francesco Boccia, di contenuto quasi identico al Ddl Calderoli.

Pertanto, al di là della corretta interpretazione di cosa possa o meno comportare l’accesso all’autonomia legislativa differenziata, così come prevista nel Ddl Calderoli condizionata com’è all’applicazione del federalismo fiscale e alla migliore disciplina della perequazione ordinaria e infrastrutturale, il dibattito che lo circonda avrebbe bisogno di affrontare più seriamente l’argomento. Magari, partendo da una seria riflessione intorno al tema dell’esercizio legislativo differenziato delle Regioni.

Invero, al riguardo non si comprende – prescindendo da come e da quale Regione poi verrà frequentata ed esercitata – la preoccupazione riguardante l’autonomia legislativa differenziata in quanto tale, senza considerare che nel nostro ordinamento costituzionale essa è presente da settantacinque anni. Un fatto, questo, che rende palesemente irragionevoli tante delle tesi che si sentono in giro. Ciò in quanto essa differenziazione è stata direttamente prevista e direttamente attribuita nel testo primitivo della Costituzione entrato in vigore l’1 gennaio 1948. Più esattamente, nel comma primo dell’originaria lettera dello stesso art. 116 della Carta, era stata prevista una chiarissima diversità istituzionale tra Regioni, sul piano legislativo, perfettamente conforme a quella sancita, a titolo invece di opzione, nel discusso contenuto del suo attuale terzo comma.

Quest’ultimo, quindi, da ritenersi redatto in perfetta sintonia e continuità con quanto (meglio) riscritto nei commi primo e secondo del testo revisionato il 2001, sostanzialmente confermativi della Carta scritta dall’Assemblea costituente eletta nel 1946. Quella Costituzione perfezionata, tra gli altri, sotto la presidenza di Terracini, dai vari De Gasperi, Togliatti, Nenni, Pertini, Moro nonché da grandi costituzionalisti come il Mortati.

Ebbene, sin da tale originaria versione della Costituzione, a cinque Regioni su allora diciannove (Friuli-Venezia-Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta) e alle due province autonome di Trento e Bolzano venne consentito quanto oggi nella facoltà delle Regioni a statuto ordinario: di assumere una condizione di particolare autonomia (legislativa), per l’appunto differenziata.

Fatta questa considerazione, delle due una. O i Padri costituenti, ai quali si fa di sovente riferimento ma spesso in modo improprio, erano da considerarsi eversivi e destabilizzanti della Unità della Repubblica e, dunque, pericolosi per aver consentito una resa dei servizi pubblici e delle prestazioni essenziali diseguale e discriminata in favore della Nazione oppure ciò che si dice oggi da parte di taluni ha necessità di essere abbondantemente rivisto.

A questi ultimi un invito. Di riflettere sulla differenziazione applicata, perché vigente da due terzi di un secolo, nel sistema autonomistico regionale attraverso il riconoscimento alle anzidette Regioni delle prerogative derivanti dall’essere a statuto speciale. In quanto tali godenti di “forme e condizioni di autonomia” diverse da quelle delle altre Regioni, sulla base delle quali alle medesime è consentito di legiferare in luogo dello Stato in numerose materie. Di conseguenza, rivedere i propri convincimenti oppure, alternativamente, sostenerli ma con la pretesa di modificare l’art. 116 ai commi primo e secondo e, con essi, cancellare dall’ordinamento le cinque Regioni a statuto speciale.

Da parte mia, ritengo che la mia condivisione tecnica (condizionata ad una chiara disciplina della perequazione) del Ddl Calderoli rintracci le ragioni nel rispetto di quanto previsto dai Costituenti, nella coerenza della mia appartenenza politica di sinistra, nella revisione costituzionale del 2001, nell’Accordo firmato da Bonaccini nel 2018 e nel testo del Ddl Boccia del 2019, salvo ad implementare quest’ultimo con la garanzia preventiva dei Lep e dei costi e fabbisogni standard, così come sancito dalla legge di bilancio 2023 cui fa esplicito riferimento il Ddl Calderoli.

Ciò nella convinzione che il ricorrervi, ovviamente per la Calabria per poche determinate materie tali da generare un ambito legislativo ottimale, costituirebbe l’occasione di: guadagnare risorse rispetto alla spesa storica che l’ha danneggiata; costruire un ceto dirigente che sappia finalmente essere tale; curare di conseguenza i fabbisogni espressi dalla collettività attraverso l’esercizio di poteri e l’assunzione di responsabilità in maggiore aderenza territoriale alle esigenze espresse dalla comunità.

Il sapere come fare è però lo strumento occorrente per riuscire! (ej)