CALDEROLI, IL DECRETO DELEGATO SUI LEP
È IL GRIMALDELLO CHE SPEZZA L’ITALIA

di ERNESTO MANCINIIl Ministro Calderoli ha proposto al Consiglio dei Ministri un disegno di legge per determinare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep).

La proposta mira ad ottenere dal Parlamento la delega al Governo per definire questi livelli, adempimento preliminare per l’autonomia regionale differenziata. In pratica, è una delega che il Ministro richiede per se stesso, essendo lui il dominus del procedimento per giungere a tale deleteria autonomia differenziata.

Il Consiglio dei Ministri, stanti i patti di maggioranza per conseguire gli obbiettivi di ciascuna componente politica (premierato, separazione carriere magistrati, autonomia differenziata), ha approvato la proposta ed è molto probabile che il Parlamento, data la corrispondente maggioranza, delegherà il Governo a legiferare.

Sul disegno di legge possono farsi le seguenti osservazioni.

La legge delega ed il Decreto delegato

Seppure lo strumento del decreto delegato appaia formalmente legittimo – si tratta infatti di disciplinare una materia che presenta molti aspetti tecnici, giuridici e finanziari assai complessi – va detto che tale strumento legislativo nelle mani del Ministro Calderoli appare pericoloso e foriero di parecchie insidie per l’unità e l’indivisibilità della Repubblica nonché per l’uguaglianza dei cittadini (artt. 2, 3 e 5 della Costituzione).

Nel disegno di legge-delega, Calderoli prevede nove mesi per la determinazione dei Lep. Considerato che il Ministro utilizzerà il lavoro già svolto dalla Commissione per tali livelli (Clep – Commissione Cassese) c’è da credere che egli arriverà certamente a legiferare nel termine previsto.

Il Ministro non incontrerà al riguardo ostacoli significativi perché i pochi passaggi previsti dalla procedura sono congegnati in modo tale che gli organi preposti al controllo avranno scarsa capacità di incidere sul testo con efficaci emendamenti o con significative correzioni successive. Non lo potrà fare la Conferenza Unificata delle Regioni perché in essa predomina una maggioranza analoga a quella parlamentare; si è già visto come tale maggioranza è stata prona ai diktat di Calderoli al momento dei preliminari pareri sull’autonomia differenziata di fine anno 2023 – primi mesi 2024.

Non lo potranno fare, per gli stessi vincoli di maggioranza, le apposite Commissioni Parlamentari cui il decreto legislativo sarà sottoposto per la prevista valutazione; anche in questo caso si è già visto come la stragrande maggioranza delle qualificate audizioni in Commissione (costituzionalisti, amministrativisti, economisti, autorevoli istituzioni)  contrarie alla indicata prospettiva di autonomia differenziata siano state del tutto non considerate nel testo finale della legge Calderoli n. 86/2024.

Peraltro, in ogni caso, si tratta di valutazioni-pareri da esprimersi in tempi brevissimi (solo 30 giorni) e perciò inaccettabili data la complessità della materia e gli interessi pubblici in gioco. Per giunta si tratterà di pareri non vincolanti sicché il Ministro potrà proseguire disinvoltamente a prescindere dalle valutazioni eventualmente contrarie che, stanti i rapporti di forza politici, non saranno certo prevalenti.

Le materie, le funzioni ed i possibili trasferimenti dallo Stato alle Regioni

Ora va detto che nella bozza di legge-delega si prevedono quattordici “settori organici di materie” all’interno delle quali si intende individuare le “funzioni” ai fini della determinazione delle prestazioni.

Tale settori sono i seguenti: a)principi generali sull’istruzione; b) protezione dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; c) sicurezza e tutela del lavoro; d) istruzione; e) ricerca scientifica e tecnologica e supporto all’innovazione nei settori produttivi; f) protezione della salute; g) nutrizione; h) organizzazione sportiva; i) pianificazione territoriale; l) porti e aeroporti civili; m) grandi infrastrutture di trasporto e navigazione; n) regolamentazione della comunicazione; o) produzione, trasporto e distribuzione dell’energia a livello nazionale; p) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e organizzazione di attività culturali. Viene specificato che è esclusa la protezione della salute (lettera f) poiché i Lea (livelli essenziali di assistenza cioè il Lep della sanità) sono già vigenti.  

Si tratta di quattordici “settori organici di materie” (così li definisce la bozza del disegno legge delega) rispetto alle ventitré materie previste dall’art. 117 della Costituzione. Tuttavia, questa riduzione non è effettiva perché si tratta solo di una mera riclassificazione con altro criterio.

Al riguardo va ricordato che la Corte Costituzionale ha escluso il trasferimento di “materie” dallo Stato alla esclusiva competenza delle Regioni perché ciò è in palese contrasto con la Costituzione (art.117, 3° comma). Ha però ammesso che specifiche funzioni relative a tali materie possano essere trasferite alle regioni che ne facciano richiesta sempre che venga rispettato il principio di sussidiarietà cioè l’obbligo di collocare la funzione nel livello più adeguato (Europa, Stato, Regione, Comuni) secondo le caratteristiche della funzione medesima e le esigenze del “bene comune”.

Ora, siccome i quattordici settori organici si articolano ciascuno in molteplici funzioni e siccome queste possono essere oggetto di trasferimento, ne discende che l’autonomia differenziata può avere una dimensione eclatante fino al punto da privare lo Stato delle funzioni più importanti in favore delle Regioni che ne facciano richiesta.

Un esempio chiarirà meglio quanto andiamo dicendo: Con riguardo al solo settore “istruzione”, si contano nel disegno di legge ben quindici articolazioni (articoli da 4 a 19 tra cui le funzioni relative ai piani di studio, alla formazione delle classi, all’edilizia scolastica, alla formazione personale docente, al diritto allo studio, e molto altro). In ognuna di queste articolazioni sono indicate, a loro volta, decine e decine di funzioni facendo riferimento generico ai titoli delle numerose leggi che vengono richiamate (vedi comma due di ciascun articolo dedicato all’istruzione).

Ne consegue che il numero complessivo delle funzioni dei quattordici settori organici delle materie è amplissimo (oltre 500)sicché è amplissima la possibilità di trasferirle alle Regioni che intendono acquisirle quale forma particolare di autonomia ex art. 116. 3° comma del nuovo titolo V della Costituzione.

La realizzazione del “disegno spacca Italia”

Si potrebbe così realizzare il disegno “criminoso” di Calderoli & co, di spaccare l’Italia assegnando alle regioni del nord che ne fanno richiesta gran parte delle funzioni o comunque le più importanti per garantire loro maggiore potere politico, legislativo ed amministrativo rispetto alle altre Regioni ed allo stesso Stato.

Tutto ciò creerà disordine e caos nell’ordinamento pubblico perché i cittadini, le imprese e le altre organizzazioni sociali, dovranno rivolgersi per l’esercizio dei medesimi diritti civili e sociali o allo Stato o alla Regione a seconda del territorio dove risiedono o verso il quale, per mobilità od altro, intendono esercitare tali diritti. Con l’aggravante di diverse procedure, diversi presupposti  e diverse graduazioni dei diritti stanti le diverse capacità, anche finanziarie, delle regioni favorite con l’autonomia differenziata. Insomma, un ulteriore e distruttivo distacco delle regioni ricche del nord rispetto a quelle del sud. Lo Stato, peraltro, dovrà comunque mantenere gli apparati e le relative spese per gestire la funzioni in riferimento alle Regioni che non si differenziano ed in più perderà capacità imperativa o negoziale con qualsiasi interlocutore, pubblico o privato, interessato alla funzione (concessioni, contratti pubblici, economie di scala, ecc.).

Il decreto delegato come grimaldello per spezzare l’Italia

C’è da temere che nessuno spazio avrà l’applicazione obbiettiva del principio di sussidiarietà secondo cui bisogna valutare con la massima imparzialità a quale livello ottimale si può collocare ogni singola funzione (come si diceva: Europa, Stato, Regione, Comuni). Il Governo, stante la matrice secessionista del Ministro ed il pactum sceleris di cui si è detto, è del tutto sbilanciato verso le regioni (beninteso quelle del nord) e la maggioranza parlamentare, pur di evitare una crisi che porterebbe allo scioglimento anticipato delle Camere, sarà acquiescente al volere del ministro e del partito leghista.

Va pure detto che in astratto la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è cosa buona perché consente di misurare quanto le autorità pubbliche siano obbligate a garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e quanto sia, regione per regione, il distacco o il superamento tra gli attuali livelli e quelli essenziali. Tuttavia, in concreto, nelle mani di un Ministro clamorosamente secessionista, tale determinazione diventa invece il grimaldello per il successivo passaggio alle intese con le regioni del Nord a danno di quelle del Sud notoriamente lontane da tali livelli.

Con l’aggravante che i finanziamenti che  il promesso legislatore prevede per eliminare il gap tra Nord e Sud sono solo teorici ed anzi assolutamente improbabili stante la insufficiente capacità finanziaria dello Stato già  gravemente indebitato; incapacità e debito che si aggraveranno ulteriormente se lo Stato dovrà lasciare gran parte delle entrate fiscali  alle Regioni che pretendono la  differenziazione (il Veneto dopo il referendum farsa del 2017 chiese addirittura l’80% delle entrate fiscali originate nel proprio territorio !!!).

Una battaglia durissima

Si prospetta pertanto una battaglia durissima nella quale si dovranno ancora fare valere nelle Piazze,  nel Parlamento e se del caso ancora davanti al Giudice delle Leggi  i principi costituzionali di unità, indivisibilità della Repubblica ed uguaglianza dei cittadini  e cioè, con espressione univoca e omnicomprensiva “il principio di non frammentarietà” , secondo cui  “quando la funzione attiene agli interessi dell’intera comunità nazionale, la sua cura  non può essere frammentata territorialmente senza compromettere la stessa esistenza di tale comunità, o comunque l’efficienza della funzione” (Sentenza Corte Costituzionale 192/24 in più passaggi ed in particolare al punto 4.2.1.). (em)

(Questo articolo è un contributo al Gruppo di Lavoro dei Comitati NO AD,Tavolo Tecnico NO AD per lo studio e l’approfondimento delle problematiche sui livelli essenziali delle prestazioni)

CHI PERDE IL LAVORO E CHI NON LO TROVA
L’AMAREZZA DI GIOVANI ED EX DIPENDENTI

di ALESSIA TRUZZOLINO – Per una vita ha lavorato come operaio specializzato per una grossa azienda di Lamezia Terme. A 56 anni, però, da un giorno all’altro si è trovato senza un impiego, senza uno stipendio ma anche senza uno scopo da dare alle proprie giornate. Nonostante vivesse da solo, ad un certo punto non è più riuscito a mantenere neanche se stesso. Perché, per quanto specializzato, non c’è posto per un artigiano di più di 50 anni.
Le difficoltà economiche lo hanno costretto a chiedere aiuto ai servizi sociali. «Mi sono accorto che non aveva denaro nemmeno per un biglietto d’autobus. Si vergognava a chiede un passaggio», racconta Antonio Mangiafave, presidente della comunità di volontariato SS Pietro e Paolo – Progetto Gedeone.
Ma, soprattutto, Mangiafave si è accorto che l’uomo versava in uno stato di profonda depressione. «La mancanza di lavoro e di potersi autostenere come aveva fatto per una vita lo tormentava».

A risollevarlo, per un certo periodo di tempo, è stata l’attività di volontariato con il Progetto Gedeone. Oggi l’uomo lavora in nero, sbarca il lunario ma è tutt’altra cosa rispetto alla stabilità e serenità che aveva un tempo.

«Si sopravvive», spiega Antonio Mangiafave che di casi di depressione legata alla mancanza di uno scopo nella vita, di un lavoro che dia un senso alle giornate e porti la tranquillità di uno stipendio, ne ha incontrati diversi negli anni spesi nel Terzo settore.
La depressione si manifesta anche nei giovani laureati. Molti, dopo aver raggiunto il traguardo, si accorgono che la loro laurea non è spendibile nel mondo del lavoro. Sono spesso vittime di lauree senza sbocchi, corsi che nascono e muoiono alla fine del primo quinquennio.
Il caso incontrato da Mangiafave è quello di una giovane di 28 anni, in tasca un pezzo di carta che la rendeva esperta in restauri. All’orizzonte concorsi che dovevano partire e che non sono mai partiti.
Oggi anche lei, dopo aver affrontato una brutta depressione, «sopravvive» con lavori part time che non hanno alcun collegamento con i propri studi.

Sono l’esempio di due generazioni, vittime di un sistema economico fragile, in Calabria più che altrove, e di un disallineamento allarmante tra la formazione scolastica e quello che chiede il mondo del lavoro.
«Oggi – dice Mangiafave – c’è molta formazione e poco lavoro». L’operatore è scettico anche sui risultati del programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori), un’iniziativa finanziata con il Pnrr per rilanciare l’occupazione in Italia e combattere la disoccupazione.
«Dal nostro punto di vista Gol non funziona: ci sono troppi corsi di formazione che non terminano col lavoro».
Un esempio è quello sui servizi socio sanitari. «La richiesta nella formazione è 100, la domanda nel mondo del lavoro è 10», dice Mangiafave.
Cadere nella depressione o in altre forme di disagio psico-sociale è fenomeno ormai molto comune e diffuso a tutte le età. La cura tarda ad arrivare: «Il lavoro rappresenta un pezzo importante in qualsiasi terapia». (at)

[Courtesy LaCNews24]

LA CALABRIA E IL PROBLEMA DEPURAZIONE:
UNA BATTAGLIA CHE SI DEVE VINCERE OGGI

di BRUNO GUALTIERIIn Calabria, terra bellissima e fragile, l’ambiente ha bisogno di essere difeso con determinazione e competenza.

Lo ha fatto recentemente il giornalista Alfonso Naso con un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Sud, nel quale ha raccontato con chiarezza che il mancato funzionamento della depurazione produce effetti negativi sul mare, che ne paga le conseguenze. È un esempio di giornalismo che non si limita a descrivere i problemi, ma cerca di smuovere coscienze e responsabilità. E proprio da quel tipo di narrazione parte questa riflessione.

Da anni la Calabria è maglia nera per il trattamento delle acque reflue; con 188 agglomerati urbani fuori norma, situazione questa che ci rende la seconda regione peggiore in Italia. Una condizione che ha portato l’Unione Europea ad aprire diverse procedure d’infrazione, tra cui la 2017/2181, ancora oggi non definita. Le richieste dell’Ue sono precise: monitoraggi continui, sistemi di controllo, validazione dei dati e verifiche indipendenti. Eppure, a distanza di anni, queste azioni restano inattuate.

Se l’inerzia è preoccupante, lo è ancora di più la scelta, reiterata, di non agire. La Regione Calabria, attraverso il Dipartimento Ambiente e Territorio, ha promesso, ma non ha realizzato: il catasto unico degli impianti non è stato completato, i misuratori di portata non sono stati installati, i controlli automatizzati mai attivati. Ancora più grave è che i dati inviati a Ispra/Sintai ogni sei mesi sono incompleti o inutilizzabili ai fini della procedura europea, impedendo di fatto qualsiasi verifica. Nessuna richiesta di audit di conformità è mai stata formalizzata, perché la Regione non ha nemmeno avviato l’iter necessario. Non si può uscire da un’infrazione se prima non si dimostra, per almeno due anni, di rispettare i requisiti, ma se neanche si comincia, è evidente che si è deciso di restare fermi.

E purtroppo non finisce qui: non solo quegli interventi strategici previsti sin dal 2012 – e già finanziati con la Delibera Cipe n. 60 – sono stati ignorati, ma in alcuni casi addirittura osteggiati. Nel 2021, con la Delibera Cipes n. 79, sono stati proposti nuovi finanziamenti per interventi, in sovrapposizione con quelli già previsti anni prima, creando un cortocircuito amministrativo che ha prodotto uno stallo totale: nessun progetto nuovo, nessun completamento del vecchio. Solo spreco di risorse e di tempo.

Lo stesso Piano d’Ambito redatto dall’Arrical, che rappresenta lo strumento operativo per pianificare gli interventi in modo razionale e secondo le direttive europee – dando priorità ai territori con maggiore carico inquinante – è bloccato. Non per mancanza di fondi o di progettualità, ma perché il Dipartimento regionale ne ostacola l’attuazione, impedendo l’avvio delle procedure. È un fatto molto grave, che rischia di vanificare ogni sforzo tecnico e programmatico. A peggiorare il quadro, c’è l’inerzia dell’Assemblea dell’Arrical, che non ha ancora assunto alcuna decisione concreta, paralizzando il sistema proprio nel momento in cui servirebbe il massimo della reattività.

Eppure, sul piano politico, i segnali non sono mancati. Il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, ha mostrato sin da subito un atteggiamento deciso, commissariando dove necessario e mettendo la tutela del mare tra le priorità del suo mandato. L’assessore all’Ambiente, Giovanni Calabrese, ha lavorato in stretto contatto con Comuni e Consorzi per sbloccare cantieri e sostenere interventi. Ma quando la burocrazia è lenta o, peggio, ostile, anche la migliore volontà politica rischia di naufragare.

Ogni estate si ripete lo stesso copione: acque inquinate, divieti di balneazione, turisti delusi, cittadini esasperati. E intanto la Regione diffonde dati poco utili, promette controlli che non arrivano mai, rinvia decisioni attese da anni. Il rischio non è solo ambientale o economico, ma anche culturale: si consolida l’idea che la Calabria non sia capace di governare se stessa, che l’emergenza sia la norma. Un’inerzia burocratica che costringe la Giunta Regionale a correre ai ripari all’ultimo minuto, stanziando risorse straordinarie per provare a salvare, almeno in parte, la stagione estiva. Quando invece, con interventi strutturali e tempestivi, l’emergenza non esisterebbe affatto.

Ma non può essere così. I calabresi hanno diritto a un mare pulito, a istituzioni trasparenti e funzionanti. È tempo che la società civile si faccia sentire: comitati, associazioni, tecnici, cittadini. Chi ha responsabilità deve rispondere. E chi vuole cambiare, deve essere messo in condizione di farlo.

Non è un problema tecnico, è una sfida di civiltà. Lo sviluppo turistico, la qualità della vita, la credibilità della Calabria si giocano anche – e soprattutto – nella capacità di risolvere un problema come la depurazione. Un problema che dura da troppo tempo e che può essere superato solo se la volontà politica e il coraggio amministrativo si incontrano davvero.

Il mare calabrese non può più aspettare. E neppure noi. (bg)

[Bruno Gualtieri è già Commissario Straordinario dell’Autorità Rifiuti e Risorse Idriche della Calabria (ARRICal)]

1° MAGGIO, MA NON TUTTI FESTEGGIANO
IL LAVORO NON C’È, I GIOVANI SONO TRADITI

di PINO APRILE – Buon Primo Maggio, Sud. Buon Primo Maggio ai nostri ragazzi costretti a emigrare come i loro padre e i nonni, dopo aver studiato, conquistato livelli di sapere e saper fare che avrebbero dovuto metterli al riparo da quella sorte e invece, paradossalmente, sono diventati una ragione in più per andare via.

Questo non era mai accaduto, al Sud, in tutta la storia dell’umanità, da Neanderthal a Garibaldi e i Savoia. L’emigrazione, prima di allora settentrionale e soprattutto piemontese e veneta, passò al Sud, nella direzione inversa delle risorse meridionali che andavano a finanziare lavoro e infrastrutture in casa dei vincitori della guerra civile.

E non Buon Primo Maggio agli ascari che, nelle università, nei libri di scuola, nei giornali, nelle istituzioni, nei partiti, non spiegano perché i terroni sono costretti a emigrare da quando vennero imprigionati nell’Italia unificata (che andava fatta, non così), come una colonia interna, senza diritto a quanto, a loro spese, era garantito agli altri.

Buon Primo Maggio a quelli che hanno deciso di restare al Sud, nonostante sia più difficile fare le cose facilitate altrove, pure con i soldi rubati al Mezzogiorno dallo Stato e dall’economia razzista del Nord, d’intesa con governi succubi e parlamentari e classe dirigente complice meridionale. Pur senza i trasporti pubblici del Nord (strade, treni, aerei, porti iper-finanziati persino a perdere), fanno lo stesso e spesso anche più e meglio, questi meraviglioso “rimanenti”.

E son sempre di più, perché non vogliono rinunciare al bello e ai sentimenti di casa, del paese, della radice che li rende come sono. Sono quel movimento sociale ed economico che l’etnografo Vito Teti ha definito “Restanza”, una nuova branca dell’antropologia.

E non Buon Primo Maggio a quei meschini che, dalle istituzioni al crimine organizzato, all’invidia per quel che questi eroi civili riescono a realizzare, mettono loro i bastoni fra le ruote, mirano a strappare parte dei meriti e degli utili così miracolosamente prodotti.

Buon Primo Maggio a quelli che, andati via, tornano per nostalgia, per calcolo intelligente (visto cosa c’è “fuori”, scoprono quanto si può “a casa”). E fanno. Non sono un grande flusso, ma sono un fenomeno che non c’era e cresce, mentre diminuisce l’età di quelli che rientrano. Una volta erano professionisti a fine carriera, pensionati che ridavano vita alla casa ormai vuota dei genitori. Oggi sono giovani determinati, che hanno visto mondo e questo ha ridato valore al loro paese, da cui alcuni, magari, erano fuggiti maledicendolo, per le possibilità negate. Adesso, sono loro a dare al paese quelle possibilità.

E non Buon Primo Maggio a chi, alla guida della “Nazione” (ma mi faccia il piacere!, direbbe Totò), vede i dati della disoccupazione al Sud che sono i peggiori d’Europa; della povertà, che è la più profonda e diffusa d’Europa, con le regioni meridionali tutte prime nella classifica di chi sta peggio; vede i dati dello spopolamento massiccio delle città e dei borghi del Sud, anche perché non ci sono le strade, chiudono gli ospedali, le scuole e, “per rimediare”, toglie il reddito di cittadinanza, non incentiva la formazione delle famiglie, non combatte il crollo delle nascite, addirittura finanzia, pure con i soldi dei meridionali, l’emigrazione dei nostri giovani, garantendo loro facilitazioni per l’affitto di casa, sconti e altro, ma al Nord.

Buon Primo Maggio ai tarantini che si sono ribellati alla complicità dei sindacati con i padroni delle acciaierie (tacquero persino sulla Palazzina Laf, dove i “disturbatori” venivano isolati, indotti alla malattia mentale e qualcuno al suicidio). Buon Primo Maggio alla memoria a Massimo Battista, il saggio e coraggioso operaio che non lo accettò, protestò, divulgò, seppe raccogliere intorno a sé altri lavoratori “liberi e pensanti” che non vendettero la dignità e i diritti conquistati con le lotte di tanti prima di loro, a prezzi altissimi.

E Buon Primo a Michele Riondino, che su “La Palazzina Laf” ha fatto un grande film che ci ha reso giustizia; e che con Antonio Diodato e Roy Paci anche quest’anno organizza il Primo Maggio di Taranto, dedicando il concerto a Massimo Battista, ora morto di cancro (Taranto è “terra sacrificale”, nelle mappe dell’Onu). Ricordo quando nacque il Primo Maggio della mia città: ero con Massimo e gli altri, accompagnato dal collega Gianluca Coviello, li intervistavo per scrivere “Il Sud puzza”, in cui li racconto.

E non Buon Primo Maggio ai sindacalisti che si vendettero la storia del sindacato, le vite e i diritti dei loro compagni di lavoro; i politici che sapevano della “Palazzina Laf” e non mossero un dito; i giornalisti, gli amministratori, i sindacalisti che erano a libro paga dell’acciaieria o ponevano la vita degli altri al disotto dei loro vantaggi personali o di fazione o “per quieto vivere” (non dei sacrificati, ovvio).

Trovo inutile continuare, perché penso che ci siamo capiti.

Io credevo di sapere cosa fosse il Primo Maggio, giovane presuntuosello perché giornalista di vent’anni (modestamente, capisciammè). E invece, me lo spiegò un fattorino precario, occasionale e semianalfabeta della Gazzetta del Mezzogiorno, in cui lavoravo (ero stato trasferito da Taranto a Bari). Era cresciuto senza famiglia, orfano, e appena fisicamente in grado, se ne fece una, sfornando figli e campandoli di mille lavoretti, elemosina e tanta Divina Provvidenza. Lo chiamavano, per questo, Gesù. Molto anziano. Io i giorni in cui i giornali chiudono, vedi il Primo Maggio, lavoravo sempre, perché pagavano tre volte tanto e avevo molte cambiali da pagare (mobili, macchina…).

E Gesù venne al giornale anche il Primo Maggio, passava per un saluto, un caffè, una mancia. Era un narratore straordinario, intelligente e arguto.

«Gesù, ma sotto il fascismo?»

«Il Primo Maggio lo festeggiavamo lo stesso. Non potevi in piazza, il comizio… Così, andavamo a Torre a Mare (un borghetto marino alle porte di Bari) e mangiavano le sardine fritte tutti insieme. Se non avevamo i soldi (cioè quasi sempre…), ce li facevamo prestare, ma il Primo Maggio doveva essere festa. Quelli del fascio, vedendo questa gente tutta insieme a far festa, venivano a chiedere: “Beh, come si sta con il Duce?”. “Non ci possiamo lamentare”, rispondevamo noi: infatti, se ti lamentavi, la pagavi cara. “E che state festeggiando: il Primo Maggio dei lavoratori?”. “No”, dicevo e loro restavano disorientati, perché la frase non coincideva con quella “proibita”, “festeggiamo quelli che vivono del lavoro”. Non sapevano che fare e andavano via, con una mezza minaccia e mezza raccomandazione: “Non fate casini, se no…”. Manganello».

«Gesù, ma se t’avessero preso, con tutti quei figli… rischiavi!»

«Sì, lo sapevamo. Ma noi volevamo essere liberi».

E io che credevo di sapere, perché scrivevo, leggevo tanti libri e a vent’anni ero giornalista.

Grazie, Gesù. E Buon Primo Maggio, ma non a tutti, solo a chi vuol essere libero, ma soprattutto vuole che anche gli altri lo siano. E la prima libertà è quella dal bisogno. (pa)

FERMARE LE STRAGI SUI LUOGHI DI LAVORO
CALABRIA TRA LE REGIONI “MAGLIA NERA”

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Oggi è il Primo Maggio, la Festa dei Lavoratori, ma la strada per una vera sicurezza sul lavoro è ancora lunga e tortuosa.

«Quella delle morti del lavoro è una piaga che non accenna ad arrestarsi e che, nel nostro Paese ha già mietuto, in questi primi mesi, centinaia di vite, con altrettante famiglie consegnate alla disperazione», ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della sua visita a Latina all’Azienda Bsp Pharmaceutica Spa, per la Festa del Lavoro.

Quella che sta avvenendo in Calabria e in Italia, infatti, è una strage silenziosa che non può più essere ignorata: Il 2024 è passato con tre morti sul lavoro al giorno, mentre il primo bimestre del 2025 ha registrato un aumento del 16% delle vittime. Si contano già 138 decessi, 19 in più rispetto allo scorso anno. Di queste, 101 in occasione di lavoro (10 in più rispetto a febbraio 2024) e 37 in itinere (9 in più rispetto a febbraio 2024). Questi i dati dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro e Ambiente Vega di Mestre, elaborati in occasione della Giornata mondiale per la sicurezza sul lavoro, in cui emerge come la Calabria fa parte delle sette regioni con una incidenza superiore a +25% rispetto alla media nazionale (Im=Indice incidenza medio, pari a 4,2 morti sul lavoro ogni milione di lavoratori).

Nell’ultimo quadriennio, dal 2021 al 2024, sono 4.442 le persone hanno perso la vita sul lavoro in Italia. Il settore delle Costruzioni è quello in cui si conta il maggior numero di decessi con 564 vittime. Le zone con il rischio più alto sono al Centro e al Sud: Basilicata e Umbria sono in zona rossa da quattro anni consecutivi, seguite da Campania e Valle d’Aosta per tre.

Gli aspetti più preoccupanti: gli over 65 sono i più vulnerabili, gli stranieri registrano un tasso di mortalità doppio rispetto agli italiani, sia sul posto di lavoro sia in itinere. 418 le donne che hanno perso la vita sul lavoro.

Per Mauro Rossato, presidente dell’Osservatorio, si tratta di un bilancio «più che drammatico, perché le nostre indagini sono elaborate su dati ufficiali che escludono, quindi, il mercato del lavoro sommerso in cui ovviamente risulta assai difficile indagare. Ma i dati ufficiali da soli parlano di una situazione allarmante. L’incidenza di mortalità rispetto alla popolazione lavorativa non accenna a diminuire. Ciò significa che il rischio di morte per i lavoratori rimane sempre elevato e pressoché invariato negli ultimi anni».

Cosa fare, allora? Il Presidente Mattarella è categorico: «non sono tollerabili né indifferenza né rassegnazione», ma, come evidenziato dal segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, «ogni anno ci sono più di mille morti e 500.000 incidenti: sono numeri da guerra civile».

Anche il Presidente della Repubblica ha riconosciuto – nel corso del suo intervento – come sia «evidente che l’impegno per la sicurezza nel lavoro richiede di essere rafforzato». A tal proposito, la presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, ha annunciato che, in occasione della Festa dei Lavoratori, il Governo sta preparando un decreto proprio sulla sicurezza sul lavoro, «un lavoro – ha detto Mattarella – che non può essere quello di consegnare alla morte, ma che sia indice di sviluppo, motore di progresso, sia strumento per realizzarsi come persona, come poc’anzi ricordava il Presidente di Unindustria».

«Il lavoro non può separarsi mai dall’idea di persona, dalla unicità e dignità irriducibile di ogni donna e di ogni uomo. Nessuno deve sentirsi scartato o escluso», ha continuato il Presidente della Repubblica, ricordando che «la Repubblica è fondata sul lavoro» e che «il lavoro è radice di libertà, ha animato la nostra democrazia, ha prodotto eguaglianza e, dunque, coesione sociale».

«Il Primo Maggio non è solo festa. È memoria, responsabilità, impegno», ha detto categorica Mariaelena Senese, segretaria generale di Uil Calabria.

«Non si può più accettare che una giornata lavorativa si trasformi in una tragedia familiare – ha sottolineato – ogni morte sul lavoro è una sconfitta per lo Stato e per chiunque continui a ignorare il problema. Ogni giorno si muore cadendo dai tetti, schiacciati da macchine da cantiere, senza protezioni adeguate, senza controlli e senza formazione vera. È intollerabile che queste morti, evitabili, continuino a essere considerate un prezzo accettabile per il profitto».

«Non possiamo più accettare – ha proseguito Mariaelena Senese – un sistema ispettivo ridotto all’osso, in cui gli stessi ispettori devono controllare un’ azienda tessile, un cantiere edile o un’azienda agricola. Non si può vigilare sulla sicurezza senza specialisti nei settori più a rischio. Gli organi ispettivi vanno necessariamente specializzati. Punto!»

«Troppi lavoratori muoiono – ha spiegato – perché non hanno ricevuto una formazione adeguata o perché le certificazioni sono falsificate. Proprio per questo chiediamo un portale regionale digitale che renda tracciabile ogni attestato di formazione. Basta con i fogli di carta che non valgono nulla!».

La Uil Calabria invita tutte le cittadine e i cittadini, i delegati sindacali, le famiglie, le istituzioni a partecipare alla marcia silenziosa organizzata per questa mattina, alle 11, nella zona industriale di Lamezia, per ricordare le due vittime sul lavoro o avvenute nei primi mesi dell’anno proprio in quell’area industriale: Francesco Stella di soli 38 anni e Roberto Falbo di 53 anni.

«Ogni morte sul lavoro è una ferita che non si rimargina. Non vogliamo più piangere operai, madri, padri, giovani che escono di casa per guadagnarsi il pane e non tornano mai più», ha concluso Senese.

Ma non solo in Calabria: a livello nazionale, Cgil, Cisl e Uil hanno organizzato in tre luoghi simbolici (Roma, Casteldaccia (PA) e Montemurlo (PO) una manifestazione dal titolo “Uniti per un lavoro sicuro”, perché è inaccettabile «che ogni giorno si muore sul lavoro», hanno tuonato Cgil nazionale e Inca. (ams)

AL SUD C’È UN “CAMBIO DI PARADIGMA”
COSA SIGNIFICA E LE SUE CONSEGUENZE

di ERCOLE INCALZA – Ricordo spesso la delusione di Pasquale Saraceno, consigliere di Amministrazione della Cassa del Mezzogiorno, fondatore dello Svimez e grande meridionalista, quando nel 1973, dopo praticamente 23 anni di attività della Cassa del Mezzogiorno, precisò che, purtroppo, non era cambiato praticamente nulla e ricordò gli indicatori che erano rimasti quasi identici a quelli del 1950 e cioè: Il reddito pro capite; Il tasso di occupazione; Il costo del denaro e l’accesso al prestito.

Ma, sempre Saraceno, ricordò che il Mezzogiorno possedeva tutte le condizioni per “cambiare paradigma”; si usò proprio la frase “cambiare paradigma” e portò come riferimento, in difesa di questo suo “ottimismo della ragione”, alcuni punti chiave come: La portualità campana ed il suo retroporto ricco di attività commerciali; La elevata produzione agricola della Regione Calabria e la rilevante potenzialità industriale di Gioia Tauro (allora si pensava di realizzare un secondo centro siderurgico); La elevata capacità produttiva della Regione Sicilia e degli hub portuali di Catania e di Palermo; L’avvio dei lavori di costruzione del porto canale di Cagliari, determinante piastra logistica all’interno del bacino del Mediterraneo; La rilevanza strategica del porto di Taranto e del nuovo centro siderurgico; La grande produzione agro alimentare presente nelle Regioni Basilicata, Molise ed Abruzzo.

Sono passati più di cinquanta anni, sì sono passati un numero enorme di anni, però oggi finalmente stiamo misurando davvero un cambiamento di paradigma sostanziale. Tre anni fa, al primo Festival Euromediterraneo svoltosi a Napoli, nelle conclusioni dei lavori fu prodotta la “Carta di Napoli” in cui venne chiaramente denunciato il cambiamento della narrazione del Mezzogiorno ed emersero subito le conferme ed i dati che confermavano un simile cambiamento, emersero i dati che davano ragione alle previsioni di Saraceno e cioè: Il Mezzogiorno stava diventando un riferimento determinante della ricerca, stava diventando un polmone di eccellenze tutte comparabili con analoghe realtà a scala comunitaria ed internazionale; Il Mezzogiorno, anno dopo anno, si confermava come elemento determinante del sistema agro alimentare, un sistema che incideva per oltre il 25% nella formazione del Pil nazionale e che in tale percentuale il Sud era presente con oltre il 50%; Gli Hub portuali ed in modo particolare Gioia Tauro diventava sempre più il porto transhipment più strategico dell’intero Mediterraneo; La Regione Campania aveva al suo interno un Hub logistico, formato dai porti di Napoli e di Salerno e dagli interporti di Nola, Marcianise e di Battipaglia, che lo rendevano, in termini di movimentazione, paragonabile ai grandi Hub comunitari; Crescevano sempre più, proprio nelle attività commerciali e produttive, le Regioni Basilicata, Puglia, Molise ed Abruzzo; Il Mezzogiorno diventava in modo inequivocabile un teatro di crescita del turismo, una crescita testimoniata dalla vera esplosione della domanda passeggeri negli aeroporti del Sud: oltre 50 milioni di passeggeri (un aumento del 30% in soli dieci anni).

Ebbene, questo cambio di paradigma si è ulteriormente consolidato sicuramente grazie anche alla istituzione della Zona Economica Speciale Unica e si potrà ulteriormente rafforzare se le 8 Regioni del Sud cercheranno, in modo sinergico, di: Utilizzare in modo organico ed in tempi certi le risorse già assegnate e disponibili dal Pnrr; Utilizzare le risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027. Più Istituti di ricerca hanno in più occasioni anticipato che se a questo cambiamento di paradigma facesse seguito anche una misurabile capacità della spesa allora la incidenza del Mezzogiorno nella formazione del Pil del Paese passerebbe dall’attuale soglia del 22% ad oltre il 30 – 32% ed una simile percentuale non rappresenterebbe un dato sporadico di una felice annualità ma diventerebbe un riferimento stabile. (ei)

CIAK SI GIRA, BASTA CON LE “ANIME NERE”
E ORA IL BELLO DELLA CALABRIA NEI FILM

di FRANCESCO RAOIn questa riflessione non è mia intenzione mettere in discussione il valore dell’arte, della cinematografia o della libertà espressiva: ogni opera creativa è un tassello fondamentale del nostro patrimonio universale ma personalmente credo che i fini educativi possano essere praticati attraverso altri messaggi.

Tuttavia, quando la rappresentazione mediatica si ostina a raccontare solo una parte della realtà – quella più oscura – diventa necessario porsi delle domande. In questi casi, la comunicazione non è mai neutra: plasma percezioni, orienta il pensiero collettivo e contribuisce a definire l’immagine di un luogo ben oltre i suoi confini geografici. Da sociologo vorrei condivider con i lettori di Calabria.Live alcune considerazioni per tentare di decifrare questi processi.

Pierre Bourdieu, attraverso i suoi studi, ha chiarito come il potere simbolico agisca nel determinare ciò che viene percepito come “normale” e ciò che viene etichettato come “deviante”.

Se la Calabria continua a essere raccontata esclusivamente attraverso la lente del malaffare, questo racconto finisce per consolidarsi nell’immaginario collettivo, trasformandosi in quella che Robert K. Merton definisce una “profezia che si autoavvera”. Di conseguenza, il rischio che si andrà a consolidare nel tempo è evidente e sarà unicamente finalizzato ad alimentare pregiudizi esterni e, ancor più grave, generare nei calabresi un senso di rassegnazione e impotenza.

La narrazione ha dunque un impatto diretto sulla fiducia sociale, sul senso di appartenenza e sulla capacità espressa dai territori per poter attrarre opportunità di sviluppo e non vie di fuga. Come sottolineato da Robert Putnam, il capitale sociale di una comunità – ovvero la rete di relazioni, fiducia e cooperazione – è fondamentale per il suo sviluppo.

Una comunicazione orientata solo al negativo mina dalle fondamenta questo capitale, mentre una narrazione equilibrata e costruttiva, con pochissimi sforzi può rafforzarlo generando bene comune. Non si tratta di negare i problemi o di edulcorare la realtà, la lotta alla criminalità dovrà essere un fatto concreto e praticato quotidianamente, percorrendo il solco tracciato dal certosino lavoro svolto con professionalità sia dalla Magistratura sia dalle Forze dell’Ordine. Per generare risultati evidenti è necessario dare spazio anche alla Calabria che resiste, innova, crea e ispira.

La Calabria dei giovani imprenditori, delle università in fermento, delle eccellenze enogastronomiche, dei borghi che riscoprono il turismo sostenibile, degli artisti, dei ricercatori e delle imprese sociali. Perché non raccontare la storia di una terra che ha dato i natali a scienziati, giuristi, filosofi e artisti di rilievo internazionale? Perché non proiettare sul grande schermo le esperienze virtuose di chi ogni giorno costruisce la legalità, la cultura e lo sviluppo, contrapponendosi a logiche becere e figlie della devianza? Nel mondo, oltre ai calabresi residenti, esistono altri sei milioni di Calabresi, figli e discendenti di questa terra ai quali è necessario far giungere il desiderio di essere sostenuti anche nel processo di una nuova narrazione di questa terra e successivamente chiedere loro sostegno per pensare al rilancio della nostra economia, dello sviluppo sociale e organizzativo, ponendoci tutti e insieme in una discontinuità evidente rispetto a quel passato nel quale chiamarsi fuori dalle responsabilità, formalmente poneva fine al problema ma sostanzialmente lo faceva crescere indisturbato.

Credo che l’importante legame esistente tra la nostra realtà con la teoria dell’agenda setting di McCombs e Shaw possa insegnarci tanto: i media – secondo gli autorevoli studiosi – non dicono alle persone cosa pensare, ma su cosa pensare. Ecco perché è urgente spostare il focus verso una narrazione che sappia illuminare anche ciò che di positivo germoglia in questa regione. Attraverso una “curvatura positiva” che non vuole essere semplice ottimismo di facciata ma un atto strategico e sociale bisognerà stimolare il senso della fiducia collettiva per attrarre investimenti, favorire il turismo e creare nuove opportunità.

La Calabria ha bisogno di essere raccontata nella sua complessità autentica in quanto terra fatta sì di contraddizioni, ma anche di bellezza, resilienza e ingegno. Personalmente credo che la quantità di bene sia nettamente superiore alla quantità del male e per estirparne le radici di quest’ultimo è indispensabile scegliere una comunicazione costruttiva tesa ad attivare un circolo virtuoso in cui le comunità si riconoscano nelle proprie eccellenze e diventino protagoniste del proprio destino attraverso una rinnovata autodeterminazione.

Attivare questi anticorpi sociali non significherà solo alimentare una sfida culturale e artistica ma nel tempo potrà divenire esigenza sociale diffusa attraverso la quale la responsabilità delle persone sarà il catalizzatore di una scelta. Continuare a proiettare sul mondo l’immagine di una Calabria prigioniera degli stereotipi significa tradire le sue potenzialità ostacolandone il riscatto che passa anche – e soprattutto – dalla capacità di raccontarsi in modo diverso, con dignità, fiducia e orgoglio.

Cerchiamo di non dimenticare che ogni territorio, prima di essere trasformato, deve essere prima immaginato in modo nuovo. Per il bene della Calabria è tempo di cambiare sguardo, evitando di fare spot a ciò che da tempo ostacola il bene. 

[Francesco Rao è sociologo e docente a contratto Università “Tor Vergata” – Roma]

INFRASTRUTTURE: LA MANCANZA AL SUD DI COMPETITIVITÀ EQUIVALE A 8 PUNTI DI PIL

di ERCOLE INCALZA – Solo ultimamente abbiamo cominciato a capire che il settore primario, sì quello che comprende le attività legate allo sfruttamento delle risorse naturali quali l’agricoltura, la pesca, l’allevamento, la pastorizia ecc., riveste un ruolo chiave nella crescita del Paese e che, in questo determinante ruolo, il Mezzogiorno è senza dubbio determinante.

Pochi giorni fa il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, ha ricordato che elemento cardine della agricoltura non è solo la produzione quanto, soprattutto proprio nel Mezzogiorno, la ristorazione, la trasformazione e la distribuzione ed ha precisato che è necessario supportare le nostre imprese convincendole ad investire in tecnologie e tracciabilità ed in particolare ha precisato: «È prioritario arrivare a sistemi di snodo logistico. I porti sono basilari, sono le autostrade del futuro che daranno ulteriore centralità al Mediterraneo. Ma si deve realizzare un meccanismo di interconnessione. Il porto deve essere collegato al retroporto, alla ferrovia e anche per una breve percorrenza alle autostrade. Solo con un sistema misto ed interconnesso potremo recuperare quella competitività che oggi costa 96 miliardi di euro al sistema Paese e 9 miliardi solo al comparto agro alimentare».

Leggendo attentamente la ricerca prodotta dall’Istituto “Divulga” della Coldiretti ci si convince che dei 96 miliardi di danno alla economia, circa la metà è proprio relativa alla carenza infrastrutturale del Sud, di un Sud che, a differenza delle aree del Centro Nord, possiede solo un Hub interportuale come quello di Nola – Marcianise a differenza del Nord che ne ha invece otto; un Sud che, in 74 anni, ha realizzato solo le autostrade Palermo – Messina,  Salerno – Reggio Calabria e Catania – Siracusa (non cito le autostrade Napoli – Bari – Taranto e Palermo – Catania perché le caratteristiche non possono certo essere definite di livello autostradale) ed invece non ha realizzato assi viari essenziali come la Maglie – Santa Maria di Leuca o l’asse 106 Jonica che collega Taranto con Reggio Calabria, non ha realizzato reti ferroviarie ad alta velocità lungo il collegamento Salerno – Reggio Calabria, Palermo – Catania, Catania – Messina, Palermo – Messina, non ha neppure elevato i livelli funzionali di un asse ferroviario come quello jonico che collega Taranto – Sibari – Crotone – Reggio Calabria.

Lo abbiamo capito tardi e lo abbiamo capito proprio simulando queste macro aggregazioni; questo approfondimento sicuramente sarà bene utilizzarlo sia nella lettura delle “autonomie regionali differenziate”, sia dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) ed un simile approccio, a mio avviso, servirà sia a confermare la nuova narrazione sul Sud emersa già nel Festival Euromediterraneo dello scorso anno, sia a creare, insisto fino alla noia, dopo 74 anni, strumenti ed organismi davvero capaci per leggere ed al tempo stesso interpretare fenomeni che, specialmente durante i Governi Conte 1 e 2 e, purtroppo, anche Draghi, erano stati sempre affrontati con la logica davvero “offensiva” del 30% delle risorse degli investimenti globali da assegnare al Sud; purtroppo dichiarazione rimasta sempre una “buona intenzione”.

Ebbene, pochi mesi fa ebbi modo di ribadire che, senza innamorarci più di “percentuali” e di norme annunciate e mai attuate, eravamo in grado, senza inventare o programmare nuove opere, ma prendendo in esame il quadro di quelle già programmate ed in alcuni casi già supportate finanziariamente, di rigenerare davvero questa vasta tessera del mosaico Paese e, a tale proposito, elencai un quadro di interventi attraverso i quali era possibile, a mio avviso, ridimensionare il forte danno denunciato proprio dalla Coldiretti. Anticipai il quadro degli interventi, precisando che, se entro 5 – 8 anni fossimo stati in grado di attivare la spesa realizzando i vari interventi, il Mezzogiorno sarebbe stato in grado di passare dall’attuale 22% ad oltre il 30% nella formazione del Pil del Paese.

Devo dare atto al presidente Prandini ed al mondo degli operatori della logistica, soprattutto del comparto agro alimentare, di aver denunciato questa impellente esigenza di offerta infrastrutturale e, al tempo stesso, come ribadito dallo stesso Prandini, di aver posto, dalla stessa Coldiretti, come elemento centrale la Zes Agricola che questo anno era scomparsa dalla Legge di bilancio e che grazie ai Ministri Fitto e Lollobrigida è stata poi recuperata.

Ed allora con queste scelte la dominanza del Mezzogiorno nei confronti del Nord nel processo di crescita del Paese non sarebbe un caso sporadico, come avvenuto lo scorso anno, ma diventerebbe un dato strutturale consolidato. (ei)

L’ULTIMO ADDIO A FRANCESCO
IL PAPA DEGLI ULTIMI

di SANTO STRATI – L’ultimo addio col funerale che tutto il mondo ha potuto seguire in diretta attraverso tv e social (quanti milioni, forse miliardi di persone?) ci ha messo di fronte a una realtà ineludibile.

Francesco non c’è più e lascia un vuoto enorme. Ci mancheranno la sua freschezza, la sua spontaneità, il suo sorriso, ma peserà, soprattutto, l’assenza di una figura carismatica che contro la guerra – contro tutte le guerre – ha usato lo strumento della persuasione opponendo nessuna indulgenza nei confronti dei responsabili.

La guerra – le guerre (ci sono più di 60 conflitti in corso, non è solo Russia-Ucraina e Israele-Gaza) – sta diventando l’atroce paradigma di questo Terzo Millennio che doveva segnare orizzonti di prosperità e benessere e, invece, ha pagato il caro prezzo della pandemia prima e dell’acuirsi dei conflitti mondiali.

La pace non è un’utopia, ma bisogna crederci per volerla davvero, attività che non sembra praticata né dai grandi né dai piccoli della terra. E a fianco allo strazio della guerra si deve registrare il deterioramento dei rapporti umani, delle relazioni sociali, con il prevalere di una intollerabile (ma ahimè troppo in crescita) indifferenza. Un sentimento che è peggio dell’odio perché induce a dimenticarsi degli altri e scartare a priori fragilità e povertà, malesseri che non derivano da scelte personali ma condizionano in maniera severa l’intera esistenza di milioni di persone.

Francesco aveva preso a cuore la lotta contro l’indifferenza, esaltando la necessità non solo di concorrere al bene comune ma anche l’esigenza di condivisione dei valori cristiani opposti alla non-curanza: il paradigma sociale della concuranza (termine coniato dal prof. Mauro Alvisi in un voluminoso trattato costato 10 anni di lavoro) era nel percorso indicato da Francesco: curare insieme, occuparsi degli altri, spendere la vita guardando anche a chi non porge la mano per vergogna, pur avendo bisogni estremi.

È una traccia importante dell’eredità di Papa Francesco, come la sua personale “guerra” contro tutte le guerre, in nome dello spirito cristiano, in nome di Dio in tutte le sue declinazioni. Il dialogo interreligioso è stato una costante di Francesco, un Papa che, non a caso, ha scelto il nome del poverello d’Assisi e ne ha mutuato gli insegnamenti, portandoli a diventare un modello di vita.

La sua stessa fine – pur paventata, temuta e consapevolmente avvertita come prossima – ci indica la caducità della nostra stessa esistenza: domenica di Pasqua era – pur malato e affaticato – tra i fedeli, a scorrere in piazza San Pietro a far vedere che il Papa c’era. Qualche attimo dopo, Dio l’ha chiamato a sé. Questo ribadisce – per chi ancora non se n’è fatto una ragione, da credente o no – che siamo niente. Stamattina siamo forti e ci sentiamo invincibili, trascurando le vere cose della vita (amore e sentimenti), stasera possiamo non esserci più.

Muore il corpo – è vero – secondo la dottrina cristiana – ma non lo spirito: povere ossa che andranno a diventare cenere e con esse superbia, ambizione, indifferenza, passioni, amore e corsa verso la ricchezza e il potere. Tutte cose che non serviranno più: potere e ricchezza saranno dilapidati in un modo o nell’altro) da chi rimane, ma i sentimenti d’amore (come si raccomandava di insegnare Francesco) sono un’eredità inalienabile per chi sente e avverte l’assenza fisica della persona cara, ma ne accoglie la vitale essenza spirituale.
Francesco lascia questo in eredità a tutto il mondo: tornare a ragionare con la testa e far prevalere il sentimento sull’indifferenza.

È un’indicazione per il futuro pontefice, ma soprattutto per il popolo cristiano che, troppo spesso, ormai usa la religione a corrente alternata. La fede è un dono che lo spirito cristiano deve saper utilizzare in tutte le sue opportunità. La vita si è allungata, ma si sono ristretti i sentimenti di altruismo e il desiderio (innato) di fare del bene, seguendo gli insegnamenti di Cristo: non sappiamo se ha saputo Francesco risvegliare le tante coscienze sopite, ma sicuramente ha acceso tante lampadine che sembravano fulminate.

Grazie Papa Francesco per quanto ci hai donato e perdona chi non ha capito. E come hai sempre chiesto, pregheremo per te, questa volta, però, con gli occhi lucidi di lacrime. Quelle sì, vere, autentiche, meglio di tante parole intrise d’ipocrisia che hanno accompagnato il tuo ultimo viaggio terreno. (s)

PORTO DI GIOIA, 50 ANNI FA L’INIZIO LAVORI
OGGI UNA GRANDE REALTÀ MEDITERRANEA

Nessuno, quando venne messa la prima pietra del Porto di Gioia, avrebbe potuto immaginare uno sviluppo così forte e, diciamolo, anche inaspettato. Ma il Porto sta esprimendo solo il 20% del suo potenziale: la Calabria deve adottarlo e farlo diventare il volano della crescita del territorio per l’attrazione di investimenti (c’è un retroporto vastissimo e inutilizzato). E – quando si farà – per il Ponte Gioia può rappresentare una sede logistica eccezionale dove stoccare (e perché no? lavorare) i “pezzi” che andranno allestiti e montati. Non ci vuole un genio, ma solo buonsenso, quello di cui la Calabria ha davvero tanto bisogno. Presidente Occhiuto non sottovaluti questa ulteriore opportunità per Gioia Tauro. Il futuro è lì, tra quelle banchine e il retroporto. (s)

di MICHELE ALBANESE – Ricorrono oggi (ieri ndr), 25 aprile, i 50 anni dalla posa della prima pietra per la costruzione del porto di Gioia Tauro. Fu GiulioAndreotti, all’epoca Ministro alla Cassa per il Mezzogiorno, presente anche Giacomo Mancini, ad inaugurare il cantiere che costruirà il porto.

In occasione della visita, un po’ oscura e misteriosa tanto che pochi giorni prima nessuno tra i dirigenti provinciali della Dc sapeva della presenza del Ministro e della cerimonia che molti anni dopo farà parlare di se anche per l’imbarazzante presenza, al rinfresco, di esponenti del clan mafioso dei Piromalli, Andreotti diede prova del suo proverbiale senso dell’ironia commentando la sfiducia delle popolazioni locali nei confronti delle promesse del governo.

«I calabresi hanno ragione di diffidare», disse, «perché spesso alla prima pietra non segue la seconda».

La cava dei Mancuso e il ruolo dei Piromalli

Ma in quella circostanza non an­dò così. Alla prima ne seguirono altre e poi altre ancora, molte delle quali provenienti da una cava tra Nicotera e Limbadi che abilitò i Mancuso di Limbadi alla conquista del vibonese. Si scrisse che i Piromalli di Gioia Tauro per mettere le mani sulle quelle pietre diedero dei soldi a don Ciccio Mancuso per comprare e poi sfruttare quel pezzo di montagna di granito fatta saltare con la dinamite. Un’opera­zione che fece con volare i Mancuso ai tavoli che contavano della ‘ndrangheta calabrese. Il comple­tamento del porto avvenne ben 13 anni dopo con un costo stimato di quasi mille miliardi di vecchie lire. Una cifra mostre per allora. Quel 25 aprile il palco era stato allestito dal comune di Gioia Tauro in C.da Vota proprio davanti alla distesa di agrumeti già espropriati e da­vanti al piccolo paese di Eranova che nonostante la tenace resistenza degli abitanti verrà spazzato via dalle ruspe. Si dava quindi il via a quella che veniva ritenuta essere l’avvio dell’industrializzazione calabrese. Il porto costituiva l’asset principale per la realizzazione del Quinto Centro Siderurgico partorito dopo i moti di Reggio Calabria del 1970.

Le resistenze dell’Iri e di Confindustria sul Quinto Centro Siderurgico

Allora c’era da combattere, per avere ragione delle ultime resistenze sulla strada della realizzazione dell’impianto siderurgico, provenivano dall’Iri, dalla Confindustria e da alcuni settori delle forze politiche di Governo e di opposizione. Il porto fu finito, ma del siderurgia che avrebbe all’impiego di 7500 posti di lavoro non si vide nemmeno l’ombra. Il Cipe aveva deliberato per la costruzione del porto 178 miliardi di lire che, presto, a suon di perizie e varianti, si moltiplicarono. Nonostante tutto, tra le potreste della gente di braccianti e operai già allora dubbiosi che la siderurgia effettivamente si realizzasse, che issarono cartelli “Non basta la prima pietra, il quinto centro non ce lo darà nessuno”.

«Tutte le preoccupazioni e le perplessità della popolazione della zona e, allo stesso tempo, la piena consapevolezza che quanto finora sia è ottenuto è frutto delle lunghe lotte popolari (anche contro le provocazioni fasciste che qui spalleggiano gli agrari) – scrisse nella sua cronaca sull’Unità Franco Martelli allora – sono state espresse a nome della Cgil, della Cisl e della Uil dal compagno Alvaro il quale ha, anche, chiaramente indicato l’esigenza che la lotta prosegua per battere tutte le resistenze e avviare veramente la costruzione del Quinto Centro Siderurgico. Né – ha aggiunto ancora Alvaro – il conto coi lavoratori calabresi da parte del Governo può chiudersi qui, dal momento che anche altri impegni assunti sono ancora in gran parte da realizzare».

Una passerella per tutti

Durante la cerimonia presero la parola i dirigenti locali del Pci, del Ps, della Dc e della Psdi e il presidente della Regione Ferrara e il sindaco di Gioia Tauro Gentile. Come sospettavano gli operai, il Quinto Centro Siderurgico sparì ben presto e le sole opere realizzate furono il porto, la Diga sul Metramo e la Superstrada Jonio-Tirreno. Perché? Primo perché, allora, la siderurgia era già in crisi per cui realizzare un altro impianto siderurgico era praticamente inutile e, secondo, perché quelle opere civili servirono ad altro e cioè a far dare alle famiglie di ‘ndrangheta il salto di qualità, trasformando la loro dimensione agro pastorale in vere e proprie imprese criminali: nacque in quel modo la “‘ndrangheta imprenditrice”, che cominciò a mettere le mani sui cantieri con le guardianie e successivamente, grazie ai subappalti, a divenire unici fornitori di servizi ai mega Consorzi edili che stavano per realizzare il porto imponendosi con le forniture di cemento, movimento terra, ferro e altro. I boss divennero “imprenditori”, comprarono camion e ruspe e misero le mani sulla montagna di miliardi destinati alla costruzione del Porto, della Diga e della strada tra i due versanti della Provincia reggina.

Il progetto del Porto

Il progetto per la costruzione del porto prevedeva la realizzazione di “un canale della larghezza di galleggiamento variabile da 250 a 350 metri e della lunghezza di 3200 metri, che doveva avere regine dal bacino d’ingresso proteso a mare e protetto a due moli foranei convergenti. I quali formeranno un’imboccatura della larghezza di 300 metri al galleggiamento e di 220 metri a quota meno quindici metri. Il molo Nord, lungo 950 metri, raggiungerà con l’unghia della scarpata esterna il fondale di meno 50 metri, mentre quello Sud si spingerà fino a 440 metri dalla battigia raggiungendo un fondale di 35 metri. L’avamporto avrò un cerchio di diametro di 800 metri per l’evoluzione del naviglio all’attracco, mentre il banchinamento è previsto per oltre cinque chilometri, di cui tre saranno adibiti alle necessità del Centro siderurgico. Per le sue caratteristiche, il costruendo porto consentirà l’attracco di navi fino a 80mila tonnellate.

Tutte le infrastrutture al servizio dell’agglomerato di Gioia Tauro interessano una superficie di oltre 500 ettari; il consorzio industriale ha, fino a oggi, acquistato la disponibilità dell’area interessata alla realizzazione della prima fase dei lavori del porto, la cui ultimazione è prevista entro 40 mesi.

Per l’esecuzione dell’opera si calcola che saranno impegnate oltre duecentomila giornate lavorative. Si prevede che, entro il 1978, il complesso delle opere portuali e delle altre infrastrutture generali (con un ulteriore investimento globale di oltre 200 miliardi di lire) sarà completamente ultimato. Di tempo per finirlo ci sono voluti non 40 mesi, ma quasi 160 e quella somma totale di 200 miliardi in totale non bastò manco a realizzare meno di un quarto delle opere previste. La “grande piscina”, come veniva troppo affettuosamente chiamata in zona, nella quale brulicavano le cozze e le ostriche, restò tale per alcuni anni, prima che qualcuno pensò di utilizzarlo come terminal carbonifero, osteggiato per anni dalla popolazione. Poi arrivò il transhipment! Ma questa è un’altra storia. (ma)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud]