INDUSTRIALI ALLARMATI PER IL RINVIO ZES
SE VINCE LA BUROCRAZIA NON C’È SVILUPPO

di ALDO FERRARALa transizione dalle otto Zes al nuovo modello Zes per il Mezzogiorno ha subito uno slittamento dell’ultimo momento proprio nella fase di scadenza di tutti i Commissari. Il mancato trasferimento di compiti e funzioni dagli otto Commissari straordinari alla nuova Struttura di missione centralizzata ha richiesto quindi un urgente provvedimento di proroga fino al 1° marzo degli attuali Commissari straordinari. I tempi per il perfezionamento del provvedimento di proroga hanno tuttavia provocato una sensibile discontinuità nei tempi di svolgimento delle conferenze dei servizi e nel rilascio delle autorizzazioni agli investimenti. Una circostanza che basta da sola ad evidenziare la complessità della materia e ad alimentare incertezze riguardo la fluidità della transizione e la messa a regime del nuovo modello.

Da mesi ribadiamo di come sia necessario un ordinato e graduale passaggio delle consegne affrontando per tempo alcune potenziali criticità del nuovo modello di Zes che rischiano di depotenziare la validità dello strumento e la sua utilità, soprattutto in Calabria. Il Mezzogiorno viaggia a una velocità ridotta rispetto al resto del Paese. La Zes calabrese, con il suo valore aggiunto determinato dalla semplificazione burocratica per l’avvio degli insediamenti produttivi, grazie ai poteri assegnati al Commissario, e dal sistema di incentivi fiscali, stava dimostrandosi uno strumento utile a rendere la nostra regione attrattiva per investimenti interni ed esterni.

La preoccupazione forte, adesso, è che il nuovo modello renda più sfumati i vantaggi, soprattutto in termini di semplificazione e fluidità delle autorizzazioni, tanto da rendere poco attrattiva la Zes a causa di sistema di gestione che centralizza i rapporti e riduce il legame con il territorio. E in questo senso, preoccupa anche il limite minimo di 200mila euro posto all’ammontare degli investimenti nell’area Zes: il tessuto imprenditoriale, soprattutto quello locale, è formato prevalentemente da piccole imprese che sarebbero disposte a investire nella Zes, ma quel limite le tiene fuori da un’opportunità concreta, limitandone così le potenzialità di crescita e di sviluppo. Ciò anche in considerazione del venir meno del credito d’imposta per investimenti nel Mezzogiorno.

C’è poi una criticità non secondaria sollevata dagli amministratori locali: come si concilieranno gli strumenti urbanistici pianificati dai Comuni se tutto il Mezzogiorno sarà area Zes? Le deroghe urbanistiche saranno concedibili ovunque? Anche qui, è necessaria chiarezza. Così com’è necessaria chiarezza sulle risorse per la Zes unica, che attualmente appaiono inadeguate a coprire le esigenze dei territori. Non solo, mentre si prevede di erogarle “a rubinetto”, mancano ancora i moduli per le richieste e il termine ultimo di presentazione delle istanze scade il 15 novembre prossimo: in queste condizioni è impossibile programmare investimenti e pianificare nuovi insediamenti».

L’attrattività della Zes in Calabria è, poi, funzione degli investimenti in interoperabilità, servizi, ambiente, raccolta dei rifiuti e soprattutto sicurezza nelle aree industriali: senza un ecosistema accogliente, le imprese, a parità di vantaggi ottenuti dalla Zes, non sceglieranno certo la nostra regione per nuovi insediamenti produttivi. A tal fine, auspichiamo la pronta nascita dell’Agenzia regionale che sostituirà il Corap e l’immediato avvio della riqualificazione delle aree industriali».

Infine, il precedente modello aveva iniziato a dare frutti anche grazie alla stretta sinergia tra Commissario Zes e parti sociali. Il nuovo modello non prevede il coinvolgimento nella cabina di regia della Zes né delle associazioni datoriali, né dei sindacati, allargando lo scollamento tra imprese, territorio e lavoratori. Auspichiamo si ponga rimedio a questa che è una vera e propria stortura nel modello di management della nuova Zes unica, attraverso il coinvolgimento formale e sostanziale delle parti sociali. Ne va del futuro della nostra regione. (af)

[Aldo Ferrara è presidente di Unindustria Calabria]

CALABRIA, POLITICHE GIOVANILI: UNA RETE
AD ARGINARE E CURARE DEVIANZA E DISAGI

In Calabria, come in tutta Italia, il disagio giovanile è un problema che non può essere ignorato. Una piaga che bisogna combattere e che si può e deve affrontare attraverso non solo misure, ma anche strumenti adeguati per aiutare le famiglie e i ragazzi affinché non si ripetano più i tanti e deplorevoli episodi di violenza registrati nella nostra regione.

«In un tempo ‘inquinato’ dall’individualismo e dall’inasprimento della violenza che vede protagonisti, soprattutto i giovani, è fortemente necessario lavorare sulla prevenzione del disagio attraverso interventi formativi, aggregativi che promuovano personalità giovanili forti e resilienti rispetto alle vulnerabilità della vita», aveva dichiarato la vicepresidente della Regione, Giusi Princi, nel presentare la misura a favore delle Politiche Giovanili a settembre.

«Dobbiamo affrontare le tante forme di disagio che esistono nella nostra comunità, tra cui quello economico, sociale, culturale e, soprattutto, quello giovanile», aveva dichiarato a marzo il sindaco di Catanzaro, Nicola Fiorita, nel corso di una iniziativa sul tema.

La sua vice, Giusy Iemma, ha ribadito la necessità di «cambiare passo, imparare a dialogare, a costruire una rete sociale proattiva che si preoccupa di dare spunti ed opportunità ai nostri giovani».

Antonio Marziale, garante regionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza, presente all’incontro, aveva ribadito la necessità di «ricostruire, negli adulti, la percezione dell’adolescenza. Siamo immersi in una società  in cui l’adolescente quasi non esiste, perché si passa dall’infanzia all’essere considerati adulti».

«Questo – ha spiegato – è un vizio che abbiamo come genitori ma anche come società e come istituzioni”. “Dobbiamo responsabilizzarci come adulti ad accompagnare questo passaggio – la conclusione del garante – all’interno del quale, non avendo guide, gli adolescenti si smarriscono e ricadono in comportamenti devianti».

Ma quali sono le origini della devianza giovanile contemporanea? Perché si verificano questi fenomeni? A tutto ciò risponde il dott. Franco Leone, sociologo presso l’Asp di Cosenza, intervistato dal Centro di Ricerca Cresesm.

A cosa è imputabile il disagio giovanile?

«Certamente il disagio giovanile attuale è imputabile alla serie di fattori: credo che il disagio psichico, in età adolescenziale, si caratterizzi come problema multifattoriale. Esso riguarda ambiti legati alla sfera della realtà personale e socio-ambientale in cui il giovane vive e sviluppa la propria personalità».

Quali sono le cause che fanno esplodere la violenza di adolescenti e giovani?

«Il fenomeno dell’agire violento da parte di alcuni giovani va inquadrato in ambito personale e sociale. Solitudine, mancanza di riferimenti, paura del confronto paritetico con l’altro sesso, subcultura patriarcale, stimoli negativi dai media, dilagare della pornografia, cultura dell’avere tutto e subito, disagio genitoriale, disvalori sociali; e inoltre consumismo affettivo, superficialità relazionale, agenzie educative primarie e secondarie silenti o inadeguate, che arrancano dietro a uno sviluppo repentino delle mode e dei consumi, guerre e offese alla natura e al creato, costituiscono i fattori di rischio in cui si innesta l’agire violento in generale».

 Vi sono altre concause?

«Una specifica attenzione va riservata al mondo dei social. Le nuove generazioni sono sottoposte a notevoli e molteplici impulsi negativi veicolati ad una velocità sorprendente dai mezzi tecnologici. A portata di pochi clic un mondo feroce e insano, deforme e bugiardo, disfunzionale e disvaloriale si offre alla mente dei giovani, deturpandone lo sviluppo e la coscientizzazione dei processi conoscitivi che prima avvenivano con gradualità e con l’accompagnamento di adulti e figure parentali-educative di riferimento>.

 Vi sono giovani che fanno uso di sostanze allucinogene: spesso si registra la presenza di cani antidroga nelle vicinanze di alcuni istituti scolastici

«L’uso di sostanze allucinogene stimola il bisogno di emulare i componenti del gruppo ed un senso innato di gregarietà per non distinguersi dal gruppo dei pari, rappresentano un enorme stimolo all’agire scorretto e autolesionista tipico di chi fa uso di sostanze psicotrope. Quindi, più che rafforzare, le droghe tendono a indebolire la rappresentazione del sé».

Le agenzie educative svolgono un ruolo importante nella formazione dell’adolescente 

«Le agenzie educative primarie (famiglia) e secondarie (scuola, gruppi, associazioni, mondo religioso, ecc.) annaspano dinanzi alla velocità dei cambiamenti e delle mode. Senza demonizzare le tecnologie e gli stessi giovani, le agenzie educative devono confrontarsi con loro e accompagnarli con amore e con lo sforzo di capire i contenuti di cui essi si cibano, cercando di indirizzare la loro voglia di vivere verso mete nobili. Se i giovani hanno difficoltà a inserirsi armonicamente nella società forse è anche perché noi adulti gli stiamo costruendo un modo disvaloriale. Quindi bisogna fare anche un’onesta autocritica da parte nostra».

 In pratica gli adolescenti e i giovani vanno alla ricerca di cosa? 

«La contrapposizione generazionale dovuta all’incomprensione crea un disagio comunicativo. Criticare sempre e solo, senza capire, ascoltare, cercare il buono e il bello che c’è nel cuore di tutti i giovani significa dichiarare guerra e rinchiudersi in una sterile autodifesa che a sua volta ricrea il circolo vizioso della incomunicabilità fra generazioni».

Le agenzie educative si impegnano adeguatamente per la costruzione della persona?  

«La scuola spesso viene indicata come il capro espiatorio su cui sfogare le delusioni e l’impotenza di noi adulti quando constatiamo il fallimento dell’approccio educativo. Certo, la scuola ha la finalità di formare informando, ma al tempo stesso ha quella di liberare le capacità dei singoli costruendo sulle potenzialità individuali, sfuggendo alla tentazione della rigidità dei programmi e dei comportamenti. La sfida sta tutta in questi termini: informare, rispettare, accompagnare, liberare. Se ai giovani non viene parlato questo linguaggio essi tenderanno sempre più a isolarsi, ad avere atteggiamenti autolesivi o di aggressione verso il gruppo dei pari e verso le figure considerate come “altre da sé».

La famiglia, la scuola e la pandemia cosa hanno provocato fra i giovani?   

«Le figure degli specialisti sono fondamentali ma non devono sostituirsi alle figure parentali. Devono accompagnarsi vicendevolmente e stabilire strategie condivise fra scuola e famiglia, per aiutare il giovane a ricercare quell’equilibrio perduto. La pandemia ha notevolmente contribuito a creare solitudine e senso di spaesamento soprattutto negli adolescenti che maggiormente hanno bisogno di relazioni e integrazione nel gruppo dei pari».

Gli adulti sono “incapaci” di dare ai giovani il buono esempio?  

«Nessuno può dire di non essere all’altezza di un compito educativo insito nella natura umana. Intelligenza, umiltà, ascolto, proposta e testimonianza di valori vissuti e praticati da parte degli adulti sono sempre possibili. I giovani ci guardano sempre e ci giudicano dalla nostra coerenza e serietà. Si sentono traditi quando tra il dire e il fare si frappone sciatteria e noncuranza da parte degli adulti.  Non si tratta quasi mai di salute mentale, ma di disagio personale e sociale. I disvalori tendono a suggerire di avere tutto e subito, a scapito dell’essere individuo di senso e di significato. La subcultura del possesso, la fragilità nell’accettare un rifiuto, la violenza verbale in famiglia e nel mondo dei media, tendono a scatenare l’agire violento».

I cellulari, i social, gli smartphone sviluppano dipendenza fra i giovani? 

«Stabilire ex-cattedra un orario per l’uso degli strumenti tecnologici è sciocco e controproduttivo oltre che impossibile e illusorio. Decidere insieme un uso adeguato e in momenti adeguati è molto più possibile e corretto. Confrontarsi poi sui contenuti appurati in rete dai giovani e dagli stessi adulti con cui convivono sarebbe poi un degno elemento di armonia esperienziale fra generazioni.  I social sono per i giovani ciò che per noi era il telefono fisso o la corrispondenza cartacea qualche decennio fa. Ogni epoca ha le sue peculiarità positive e negative. Non bisogna criminalizzare il presente solo perché stupidamente ne abbiamo paura non riuscendone a leggere i contenuti in quanto precari nella formazione informatica. Lo psicoterapeuta – secondo me – senza il dialogo con le figure adulte parentali e non di riferimento del giovane, può essere utile ma non risolutivo».

La sfera affettiva e sessuale come viene vissuta dai giovani?

«Quando tutta una cultura dilagante propone al giovane una visione dell’amore come cosa da ottenere, sempre e comunque, e non come progetto da costruire e condividere con un essere paritetico, allora si creano gli squilibri di cui la cronaca si riempie in questi tempi. All’amore inteso come donazione e incantamento stiamo sostituendo una visione dell’amore inteso come possesso e sfruttamento. La colpa di questo credo sia più degli adulti che dei giovani ai quali si propone una subcultura del successo, dell’avere, del piacere subito e comunque. Credo comunque che ogni epoca ha in sé gli strumenti per riprendersi e per non sprofondare completamente nel nulla».

Il prof. Luigi Troccoli: Le aggressioni alle giovani donne è dovuto all’istinto di possesso

Sulla ricerca della devianza giovanile, avviata dal Centro studi Cresesm, è intervenuto Luigi Troccoli, già Ispettore periferico del Miur, Dirigente scolastico della Provincia di Cosenza, nonché docente, scrittore e giornalista, che ha affrontato il problema del mondo contemporaneo giovanile alla luce della sua esperienza.

«Il disagio giovanile contemporaneo è stato aggravato dalla pandemia, ma non è attribuibile esclusivamente ad essa, se è vero che c’era prima e continua ancora adesso. Le aggressioni alle donne – ha osservato Troccoli – che intendono interrompere le relazioni credo che abbiano cause ancestrali. Esse si verificano anche da parte di uomini che sembrano avere avuto un vissuto normale in famiglie coese. C’è, purtroppo, l’istinto di possesso che non viene rimosso quando l’altra si allontana e genera un senso di sconfitta, che innesca frustrazione e incapacità di vedere oltre la rottura della relazione, determinando un blocco di prospettiva di vita, del quale è ritenuta responsabile la partner».

Troccoli ha continuato sull’uso delle droghe da parte dei giovani, inserendo il problema nel contesto più vasto della società contemporanea.

«L’uso di droghe è connesso a cause molteplici. La pressione del gruppo – ha proseguito Troccoli – il desiderio di essere accettati, la fragilità derivante spesso da situazioni familiari deflagranti. Infine, la curiosità che spesso è la porta invisibile che apre alle dipendenze. Sono tanti i giovani che si inseriscono nel mondo del lavoro, lasciando spesso famiglie ed affetti e dirigendosi fuori regione o all’estero».

«Pertanto, non generalizzerei – ha aggiunto –. In questo campo si generano anche differenze tra chi intraprende e chi attende. Nel mondo di oggi, in cui i bambini ed i ragazzi sono chiusi nei condomini ed avulsi dalla strada, che era l’educatrice prima, con la matrice solidale e stimolante del vicinato, i rapporti interpersonali sono creati artificialmente, senza l’aggregazione spontanea ed irriflessa tipica del gruppo dei vicini, o nelle palestre o nelle esangui reti digitali. Qui, empatia, fantasia, creatività, scontri tra pari, invenzioni di giochi e di regole davano sfogo e risalto a crescite autonome e autocostruite».

«Ad esempio, la lettera della liceale che parla della mancata di costruzione della persona da parte della scuola – ha proseguito –. La scuola italiana non è un costrutto uniforme ed omogeneo. Anche perché il docente, come gli studenti, non sono tutti uguali. C’è chi enfatizza il valore formativo delle discipline; c’è chi privilegia la relazionalità. Fatto sta che, in un mondo globalizzato e non parcellizzato in realtà politiche chiuse, in cui la competitività aumenta di livello ogni giorno che passa sia nel lavoro dei singoli sia nelle imprese, la realizzazione di sé esige anzitutto duraturi potenziamenti culturali. Proprio perché la debolezza da isolamento è visibile nei giovani, l’ingresso della figura dello psicologo nella scuola mi sembra non più procrastinabile».

 Il ruolo della scuola, l’uso dei cellulari, dei social e della rete, la violenza di genere sono oggetto di riflessione da parte dell’ex dirigente scolastico della provincia di Cosenza.

«Una cosa è certa: si è diluita la capacità della scuola di esigere o di evocare rispetto – ha sottolineato – e si è attenuato il timore dell’autorità, sia perché i genitori non sono più alleati della scuola, ma dei figli, sia perché la scuola è da alcuni anni affetta da una sorta di manifesta difficoltà a reprimere gli errori ed a dare risalto inconfondibile al valore prospettico dell’impegno negli studi. Ritengo che i cellulari a scuola non debbano entrare. O non si portano o devono essere disattivati. Anche social e rete ormai permeano la vita dei ragazzi e dei giovani. Usati con parsimonia e con finalità mirate integrano la capacità di acquisire conoscenze». 

«Il discrimine tra questa utilizzazione e quella ludica e disgregante sul piano morale e della formazione – ha concluso – sta nella capacità della scuola di esemplificare l’uso buono del mezzo e rigettarne gli impieghi perversi. È  un’opera difficilissima, alla cui efficienza la famiglia potrebbe contribuire. La ventenne violentata dopo essere stata drogata. L’abiezione morale di chi fa questo denota l’emersione dell’istinto non scomparso della sopraffazione dell’altro, per fini di piacere. È l’uomo nel quale scompaiono migliaia di anni di evoluzione sociale, annullata, in un gesto, e riportata nella logica primitiva del possesso di ogni cosa che si ritenga essere un bene». (rrm).

VANNO VALORIZZATI GLI ANTICHI BORGHI
SONO RISORSE PREZIOSE PER LA LOCRIDE

di ARISTIDE BAVA –  Le migliaia di persone che hanno affollato, in occasione del periodo natalizio i due centri interni di Siderno superiore e Placanica, grazie alle importanti manifestazioni di carattere sociale organizzate rispettivamente dall’Associazione sidernese Pajisi meu ti vogghiu beni e dalla Pro loco di Placanica, hanno confermato, ove ce ne fosse bisogno, che i borghi antichi possono essere, se opportunamente valorizzati, una grande risorsa per il territorio della Locride.

Il discorso, d’altra parte, riguarda non solo la Locride ma molte regioni italiane dove già a tempo, come è stato rilevato in molti studi un numero sempre maggiore di persone lasciano, finanche le città e si trasferiscono nei borghi dove trovano un’ottima qualità della vita, con  costi  ragionevoli, e ormai collegamenti telematici che consentono di non essere isolati. E poi c’è anche, ad incrementare la necessità di valorizzare i borghi antichi, il nuovo modo di fare turismo: soggiorni anche brevi, ma soprattutto con il desiderio di entrare in contatto diretto con la storia, l’arte, la cultura e l’enogastronomia delle tante realtà locali di cui è ricco il nostro Paese.

La Locride certamente non fa eccezione ma riesce pure ad offrire sempre maggiori forme di ospitalità aggiungendovi la valorizzazione delle tipicità locali. Bisogna, dunque, continuare nella politica di valorizzazione dei borghi antichi che la stessa Regione Calabria in tempi recenti aveva affrontato per cercare di ripopolare gli splendidi borghi presenti nel territorio calabrese evidenziando, peraltro,  quanto importante sia questo grande patrimonio dell’intera Calabria, e della Locride in particolare, dove lo sfruttamento ai fini turistici di questi siti è ancora latente. Eppure quanto accaduto durante il periodo natalizio a Siderno Superiore e a Placanica dimostra l’interesse della gente, e in particolare dei forestieri per questi luoghi pieni di fascino dove, non solo d’estate, ma anche in periodi “morti” l’afflusso continua ad aumentare e si vedono continuamente piccole comitive di turisti che confermano, che i borghi antichi esistenti sono un patrimonio turistico di immenso valore.

Se a ciò si aggiunge, appunto, che anche i mutamenti climatici consentono di avere giornate “estive” anche in questo periodo appare evidente che bisognerebbe programmare ipotesi progettuali che tengano conto anche di questo. Uno degli aspetti più importanti legato alla necessaria “valorizzazione” di questi luoghi rimane il fatto che il periodo estivo contrariamente a quanto si possa pensare, non è l’unico periodo ottimale per la “frequenza” di questi siti anche se, ovviamente, il periodo estivo garantisce, grazie alla presenza di più forestieri,  numeri maggiormente consistenti.

Resta una verità indiscutibile determinata dai fatti reali: proprio una loro adeguata valorizzazione potrebbe garantire presenze altrettanto numerose, anche durante altri periodi dell’anno così come accade in occasione di manifestazioni bene organizzate come quelle di Siderno Superiore e di Placanioca, tanto per citare quelle che hanno fatto maggiore scalpore in quest’ultimo periodo anche se già c’era stato un positivo riscontro con l’Ottobrata sidernese che ha riscosso un altrettanto grande successo con presenze molto notevoli.

E, se è vero che buona parte di queste presenze riguarda cittadini calabresi, è pur vero che esistono tantissimi forestieri/turisti  che possono essere richiamati da manifestazioni di vario genere o da attrazioni che spesso calzano a pennello con la voglia di fare un turismo diverso. Certo, bisogna dire basta all’improvvisazione, attivare una buona programmazione e agire, soprattutto in un territorio come questo della Locride in buona sinergia per far cambiare seriamente in meglio le cose. Si comincia, dunque, a cominciare a pensare sul serio che ci siano le giuste possibilità di dar vita ai necessari cambiamenti e alle nuove ipotesi progettuali che tengano conto dell’intero territorio.

Le potenzialità sono tante e alcuni borghi antichi offrono possibilità enormi. Si pensi veramente ad una loro necessaria rivitalizzazione. (ab)

QUANT’È AZZURRA LA CALABRIA: MODELLO
PER LA VOGLIA DI CENTRO CHE HA IL PAESE

di SANTO STRATI – I congressi provinciali di Forza Italia che si sono svolti nei giorni scorsi in Calabria confermano una forte voglia di centro (moderato) e assegnano alla regione un ruolo importante nello scenario politico attuale. Che la Calabria fosse la regione più azzurra d’Italia si era già notato alle elezioni del 2022: se Forza Italia ha conquistato 22 seggi alla Camera (8,11%) e 9 al Senato (8,27%) lo deve soprattutto al sorprendente risultato calabrese: 16,25% al Senato e 15,64% alla Camera. Per intenderci, in Lombardia alle stesse elezioni il partito-non partito di Berlusconi superava di poco il 7%.

Cosa è che ha fatto diventare così “azzurra” la Calabria? Ma soprattutto come ha fatto questa terra, troppo spesso trascurata e dimenticata dal Nord ricco e opulento, a dare nuovo impulso a una formazione che, alla scomparsa di Berlusconi, sembrava inevitabilmente destinata all’estinzione? Pensateci bene: alla morte di Berlusconi gli osservatori politici più attenti presagivano una vera e propria fuga di parlamentari verso gli altri due partiti della coalizione, Fratelli d’Italia e Lega. Al contrario, non solo la fuga non c’è stata, ma l’ottimo lavoro di Antonio Tajani (su cui nessuno scommetteva un centesimo) ha fatto in modo di far ritornare l’orgoglio azzurro dei primi tempi dell’ex cavaliere, conquistando nuove simpatie nell’elettorato di centro destra.

Il segnale più evidente di questi congressi nelle cinque province calabresi, che hanno puntato sul territorio e hanno espresso nuovi – motivati – segretari provinciali, è la manifesta voglia di centro che l’elettorato (non solo calabrese) sta esprimendo, in un momento storicamente fallimentare per le politiche di partito alla vecchia maniera. Non è vero che non ci sia la voglia di fare politica, di partecipare, impegnarsi, ma i riscontri e le indicazioni (negative) che ogni giorno arrivano da maggioranza e opposizione, decisamente, scoraggiano ogni ardimento. Soprattutto i giovani, che mostrano più degli anziani una innata curiosità verso la politica, rischiano di venirne allontanati da atteggiamenti e polemiche giornaliere che sono una terribile cartina di tornasole per misurare la crisi della politica.

Intanto, c’è da dire che la tradizionale dicotomia destra-sinistra non ha più molto senso: negli ultimi trent’anni, dopo “Mani pulite”, la crisi della politica, intesa come schieramenti opposti ma in grado di dialogare, è esplosa in maniera irreversibile. Il risultato si tocca con mano guardando le percentuali del cosiddetto partito del non-voto. Scoramento, noia, rabbia hanno prevalso sulla passione politica e invitato gli elettori a disertare le urne. Con il governo di centrodestra della Meloni la sinistra (ma c’è ancora?) sta mostrando una debolezza estrema e l’incapacità di cogliere i segnali che arrivano dal territorio. La sinistra è diventata una sorta di partito d’élite che ha dimenticato le nobili origini e si diletta in abominevoli quanto inutili polemiche su chi (e non cosa) è “meglio” . Lo scontro dialettico ha lasciato il posto a insulti a volte velati e spesso mistificati da poco sottili ironie, senza poter offrire un minimo di contributo costruttivo. Il Paese va a rotoli (soprattutto per quanto riguarda i giovani, le donne, il lavoro – nonostante i tiepidi segnali di ripresa) ma si discute di aria fritta e si polemizza su qualunque cosa offra il pretesto per accusarsi a vicenda. Le cosiddette “armi di distrazione di massa”.

Il Paese non subisce né ha subito un governo di centro-destra: gli elettori hanno scelto democraticamente da chi volevano farsi governare, ma l’attuale momento con i fuochi di guerra che vanno dall’Ucraina al Medio Oriente meriterebbe un lavoro di squadra e non bisticci sul sesso degli angeli. Certo, allo stato, è solo utopia pensarlo, ma il Paese non vuole promesse e chiacchiere, ma provvedimenti seri in grado di cavalcare la crisi.

Questo governo, poi, va a corrente alternata: prima pensa di tassare i superprofitti delle banche, poi fa marcia indietro. Si ascrive una politica di welfare e per le famiglie, ma aumenta le tasse su pannolini e assorbenti (quindi penalizzando donne e famiglie). Annuncia roboanti misura per la crescita infrastrutturale, ma si perde nei vortici della burocrazia (la Zes unica che doveva partire il 1° gennaio è slittata – salvo nuovi impedimenti – a marzo) penalizzando imprese e deprimendo nuovi investimenti. Ma a queste defaillances della destra soprattutto meloniana (che ancora non ha deciso cosa farà da grande) non ci sono proposte serie, concrete, non si notano iniziative da parte dell’opposizione. E lo scenario della conservazione delle poltrone e del rispetto delle tradizionali cambialette elettorali (ancora in pagamento) si ripercuote sul Paese. Basti guardare alla scelta dei candidati per le Regioni che andranno al voto a breve. Una rissa continua, da una parte e dall’altra. Per non parlare, poi, della squallida messinscena della Giunta comunale di Reggio Calabria dove Falcomatà ha, alla fine, vinto la sua personale scommessa di potere sul suo stesso partito (il PD) che lo voleva fuori dai giochi. La partita – nonostante le accuse di antidemocraticità – gravissime, vista la provenienza – mosse dalla segretaria cittadina del PD, si è ricomposta non certo nel nome di un “volemose bene” a favore della città, bensì di una reciproca garanzia del mantenimento – fino a fine consiliatura – delle ricche prebende per assessori e consiglieri comunali. Scusate, ma bisogna dirlo: e quando gli ricapita?

In tutto questo, l’inaspettato segnale che arriva dalla Calabria, come Forza Italia, diventa un elemento cardine per gli scenari futuri: è stato presente a tutti i congressi provinciali il segretario nazionale nonché ministro degli Esteri Antonio Tajani il quale – è opportuno sottolinearlo – ha ben capito che dal Sud, anzi dalla Calabria, verranno indicazioni utili per una rigenerazione politica di un centro moderato. La cui guida – è ovvio – spetterebbe, con grave disdoro di Salvini e Meloni – a Forza Italia. È un segnale inequivocabile, quello della voglia di un centro moderato, non troppo vicino a nostalgie destrorse e a sogni leghisti di autonomia differenziata a danno del Sud.

Non dimentichiamoci che il presidente Occhiuto è di Forza Italia ed è un consumato politico, come di larga esperienza risulta il coordinatore regionale Francesco Cannizzaro. Se sanno cogliere l’occasione, saranno loro due i protagonisti di un crescendo importante dell’elettorato (azzurro) di centro. Per guidare la Calabria a diventare un modello centrista cui il Paese (quello che va a votare e non ama la sinistra) possa ispirarsi. (s)

IN SENATO IL FUNERALE DELLA RAGIONE
SI VOTA SULL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA

di PINO APRILE – Parteciperemo a un funerale, oggi a Roma, al Senato: con il varo dell’Autonomia differenziata si celebra l’inizio della fine di questo Paese mai davvero unito e della decenza, dell’equità, della Costituzione che, sia pure solo a chiacchiere, riconosce pari diritti a tutti gli italiani (non avendoli mai avuti, nello stato a parole unitario, i terroni non sono evidentemente ritenuti italiani.

Infatti, all’università, a proposito del cosiddetto Risorgimento, distinguono fra “italiani” e “borbonici”, ovvero gli abitanti dell’ex Regno delle Due Sicilie, la cui lingua ufficiale era l’italiano, mentre Cavour, Vittorio Emanuele II e gli altri parlavano francese). Il capolavoro razzista della Lega, infatti, il disegno di legge sull’Autonomia differenziata per rendere costituzionale il riconoscimento di ulteriori privilegi al Nord (a spese di tutti) e la negazione di diritti fondamentali ai colonizzati del Sud, esordisce martedì 16 al Senato.

I parlamentari meridionali della maggioranza, a quanto si sa, sono pronti a votare questa porcheria, per conservare al proprio culo il pagatissimo seggio, un po’ come i neri che aiutavano i negrieri a fare schiava la propria gente, perché ci guadagnavano, vendendo loro le catene.
C’è poco da sperare dagli onorevoli terroni, considerando che hanno già approvato l’ordine del giorno della Lega, per chiedere una legge in base alla quale pagare di meno gli insegnanti del Sud; hanno fatto passare il furto di quasi quattro miliardi dal fondo di perequazione destinato ai Comuni più poveri del Sud; hanno condiviso lo svuotamento del Pnrr di progetti per il Sud da finanziare con i fondi europei e la proposta di usare le risorse Coesione-e-Sviluppo, che pur essendo all’80 per cento per il Sud, verrebbero dirottate altrove; hanno assistito silenti e complici alla sottrazione, finora, di circa 20 miliardi di euro destinati al Sud e alla cancellazione del Mezzogiorno dall’agenda di governo, sino alla folle idea della Zes (Zona economica speciale) unica per tutto il Sud, misura ingannevole che intanto ha bloccato quelle già esistenti e funzionanti, e che accentra il “sì” per ogni iniziativa nel Mezzogiorno, fosse pure una sorta di B&B, nelle mani di un potere politico centrale, romano: di fatto, la dichiarazione ufficiale dello stato di colonia interna.
Addirittura, uno dei due relatori dell’infame disegno di legge dell’Autonomia differenziata è molisano, Costanzo Della Porta!
Vi ricordo che l’autore dell’immondo disegno di legge è quel Roberto Calderoli che solo astuzie e lungaggini processuali salvano da una probabilissima sentenza definitiva per razzismo, essendo stato condannato già in primo e in secondo grado e, dopo il passaggio in Cassazione, di nuovo in primo grado. Quel Calderoli che vanta di aver avuto dal padre l’educazione umana e politica riassunta nella frase: “Bergamo nazione, tutto il resto è meridione”.

E che, rubando a Goebbles il concetto con cui giustificava lo sterminio degli ebrei (animali, non esseri umani), definì i napoletani “Topi da derattizzare”. E uno così, in Italia, diviene ministro!, e gli danno da stuprare la Costituzione. Ed è lui il parlamentare più influente del partito che ha, come segretario nazionale, un tale che ha dovuto patteggiare una condanna per razzismo contro i napoletani, Matteo Salvini (uno così, Italia, diviene nientemeno che vice capo del governo, con la complicità del partito che si dice “della Nazione”, FdI, e nel 2018, dei cinquestelle). Partito che, incredibilmente, ha parlamentari e dirigenti meridionali. Del resto, ad amministrare le colonie nell’interesse della potenza colonizzatrice, sono dirigenti locali “al servizio”.
Chissà a cosa pensava Fabrizio de André, quando scrisse che “lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano/quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano”.
Con l’Autonomia differenziata, nel patto indecente siglato il 28 febbraio 2018 da governo Gentiloni (Pd) e Regione Veneto (Zaia, Lega), si prevede che, con il trasferimento di competenze dall’amministrazione centrale a quelle regionali, si consenta a queste di trattenere sino al 90 per cento delle tasse statali (sulla percentuale si discute); si pretende che divengano di proprietà regionale i beni demaniali di Stato e opere pubbliche costruite con soldi di tutti gli italiani (che verrebbero derubati di quanto loro appartiene); si chiede addirittura che se il Paese dovesse sprofondare, a loro, e solo a loro, si dovrebbe garantire un flusso di risorse non inferiore alla spesa storica (quindi, uno Stato fallito dovrebbe svenarsi per mantenere il loro attuale livello di vita). E altre bestialità del genere.
Vi diranno che alcune di queste cose sono state attenuate nelle versioni successive. Fumo negli occhi, visto che quel testo rivela le ragioni e i fini per cui si è dato in via a un tale scempio.
Tutte queste schifezze (su cui la politica nord-centrica, dalla Lega al Pd è sempre stata unanime contro il Sud, vedi l’intesa perfetta fra i presidenti leghisti Fontana, della Lombardia, Zaia, del Veneto e il piddino presidente dell’Emilia Romagna, Bonaccini) son possibili in seguito allo stupro della Costituzione compiuto nel 2001, con la devastazione del Titolo V, da un altro governo di centrosinistra. La foglia di fico per far passare il mostro sono i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire in egual misura e qualità a tutti i cittadini (salute, istruzione, trasporti, eccetera). Di fatto, in 23 anni, i Lep non sono stati varati. Ora, in pochi mesi, la pagliacciata calderoliana con uso di ministero e pletora di alti nomi in acconciata Commissione ai desideri del leghista ordinante, ha buttato giù una indicazione dei Lep.
Ma, per legge, il passaggio di competenze dal governo alle Regioni deve avvenire senza aggravio di spesa e solo per tre di quei poteri (ufficialmente 23, di fatto, quasi 500), sanità, istruzione e trasporti, servirebbero da 80 a 100 miliardi, calcolò il precedente ministro alle Regioni, Francesco Boccia, Pd. Ed ecco che il ministro contro il Mezzogiorno, quel Raffaele (Buio) Fitto, salentino di Maglie, propone di stornare i FSC (fondi per lo sviluppo e la coesione), all’80 per cento del Sud, e usarli per far contenta la Lega.
Molti parlamentari meridionali del centrodestra, per non ammettere la vergogna del sostegno a un’azione contro il Sud di portata storica, forse definitiva (su questo, il Paese può spaccarsi. E chissà se sarebbe davvero un male), ripetono a cantilena le patacche che i loro capibastone spacciano come vere: l’Autonomia servirà anche al Sud, il Sud diventerà più responsabile, le Regioni meridionali potranno sfruttare le loro specificità… Palle, colossali palle: o sono talmente ignoranti da non capirlo o tanto falsi da fingere di crederci.

Le risorse sono quelle che sappiamo e sono in calo, se le Regioni più ricche ne trattengono ancora di più, non resterà nulla nemmeno per il poco che c’è adesso, a Sud.
Ma per finanziare i Lep, anche le Regioni del Sud potrebbero trattenere parte delle tasse statali, obiettano. Vero, ma un conto è trattenere una certa percentuale di molto e un conto trattenere la stessa percentuale, ma di poco, visto che al Sud il reddito medio è circa metà di quello del Nord. Ci prendono in giro. Già adesso, con questo sistema, non ancora portato alle stelle dall’Autonomia differenziata, i Comuni del Mezzogiorno devono imporre, per necessità, tasse locali più alte che al Nord, ma ne ricavano così poco, che non riescono comunque a garantire quello cui i cittadini avrebbero diritto. Gli italiani che pagano di più sono quelli di Reggio Calabria, per avere molto meno di altri.
Altra foglia di fico con cui tanti parlamentari terroni cercano di nascondere la loro cattiva coscienza è dire che ormai “qualcosa bisogna dare”, magari competenze che non prevedono il calcolo dei Lep, così la Lega può gridare alla vittoria prima delle elezioni europee, e di fatto non si cede quasi nulla. Non è vero: una volta aperta la strada, passerebbe tutto. Ma se Fratelli d’Italia non converge sull’Autonomia differenziata (AD), la Lega blocca la riforma del Premierato per dare più forza al capo del governo. Un’altra bestialità: per avere più poteri al centro, Giorgia Meloni trasferisce i poteri dal centro alle Regioni. Ma ci fanno o ci sono? La verità è che hanno trasformato questi temi in bandiere di partito e devono andare avanti anche se sanno che sono incompatibili.
Ovviamente, se passasse questa schifezza dell’Autonomia differenziata (che comunque deve avere l’ok del Senato, poi della Camera dei deputati, poi un nuovo “sì” di entrambe le aule), le disuguaglianze fra Nord e Sud in Italia, già adesso le più grandi del mondo sviluppato, esploderebbero. E il Paese (come dimostrato storicamente, quando il livello di disparità supera una certa quota-limite) potrebbe spezzarsi. Paradossalmente, forse sarebbe la salvezza del Sud, dopo una fase iniziale durissima.
Quasi quasi, riesce difficile scegliere cosa augurarsi, se l’estremo atto di uno Stato razzista con il varo dell’AD o il rinsavimento dell’ultimo minuto di un Paese che ha perso la testa, e finalmente una botta di coraggio e orgoglio dei parlamentari terroni stufi di un blocco politico economico nord-centrico che, superando le distinzioni di partito (vedi proprio l’AD), da oltre un secolo e mezzo concentra risorse e investimenti pubblici solo in una parte del Paese (grandi eventi, autostrade, aeroporti, centri di ricerca, rete ferroviaria, alta velocità, sedi di Authority europee, diritti di scalo portuali…).
Noi oggi staremo al funerale che si terrà al Senato, e con l’elenco dei senatori meridionali. I quali speriamo ci sorprendano felicemente. Altrimenti, non dovrebbero stupirsi se, votando proni ai comandi dei loro partiti-padrone, ricevessero dai propri elettori messaggi tipo: “Ci indica, per favore, l’indirizzo a cui dobbiamo inviarLe i trenta denari che si è guadagnati per averci venduto? Grazie”. (pna)

TOLTI I FONDI A 5 AREE URBANE REGIONALI
SI SALVANO REGGIO, CATANZARO E COSENZA

In una recente delibera di Giunta, la Regione Calabria ha depennato (almeno per il momento) i fondi di Agenda Urbana 21/27 destinati a 5 delle 8 Aree Urbane regionali. La spada di Damocle grava sulle sorti di Corigliano-Rossano, Lamezia Terme, Crotone, Vibo Valentia e l’ambito della Città Porto (Gioia Tauro, Rosarno, San Ferdinando). Al contrario, invece, percorsi di prelazione favoriscono le tre Aree Urbane dei Capoluoghi storici (Rc, Cz e Cs-Rende).

Non che la cosa ci meravigli, s’intende. Ormai la bieca visione regionale, volutamente schiacciata sull’accentramento di risorse e competenze esclusivamente verso i poli principali, è arrivata a tal punto da non scandalizzare nessuno. Tuttavia, spiace prendere atto che l’ennesimo scippo, nonché l’ulteriore mortificazione, consumata a scapito di talune realtà, passi quasi del tutto inosservata dalla pur folta Rappresentanza Istituzionale che fa capo ai contesti sibariti, lamentino, vibonesi e della Piana. Escludiamo dal nutrito elenco il Crotonese. Non già perché territorio non meritevole d’attenzione, anzi… Piuttosto perché ormai appare chiaro anche ai meno avveduti quanto impalpabile sia — numericamente parlando — la delegazione Politica dell’estremo levante calabrese.

Ad onor del vero, fatta salva la posizione del Sindaco di Corigliano-Rossano sulla tematica, non ci è parso di scorgere il minimo risentimento neppure da parte delle Istituzioni locali.

La vicenda, proprio per le caratteristiche su denunciate, assume connotati ancora più grotteschi, inquadrandosi in un contesto che definire surreale sarebbe un eufemismo.

È bene ricordare che l’Agenda Urbana per l’Unione Europea rappresenta una iniziativa intergovernativa lanciata dal “Patto di Amsterdam” il 30 maggio 2016. Obiettivo dell’operazione è quello di favorire — attraverso la partecipazione alla definizione delle politiche europee — uno sviluppo equilibrato, sostenibile e integrato delle Città europee. Con il fine ultimo di incrementare vivibilità, attrattività e per stimolare l’innovazione degli ambiti urbani.

Va de se che, quanto appena ricordato, debba (o almeno dovrebbe) facilitare il percorso di quelle aree marginali europee affinché si possano creare i presupposti per un’accelerazione dei processi di governance. Pertanto, una devoluzione di fondi finalizzata a favorire la crescita dei richiamati contesti per portarli a competere con aree già più emancipate ed allocate nei medesimi riferimenti regionali e macroregionali.

È altrettanto vero, però, che Il profilo di designazione delle Aree Urbane regionali nacque già viziato quando furono definiti perimetri, competenze e valenza degli ambiti urbani regionali. Nella prima decade degli anni 2000, infatti, si procedette alla classificazione delle polarità urbane calabresi. In quella circostanza furono riconosciute come Aree Urbane Principali (poli direzionali) i contesti di Reggio, Catanzaro e Cosenza-Rende. Per le richiamate Città fu applicato il principio 5.1a. Tale classificazione prevede spettanze di finanziamento che oscillano intorno ai 30 milioni di euro per settennio di programmazione per ognuna delle 3 Aree Urbane.

Per le rimanenti 5 polarità (l’Area Urbana degli estinti Comuni di Corigliano e Rossano, Lamezia Terme, Crotone, Vibo e la Piana di Gioia) si applicò la misura 5.1b. Quest’ultima classificazione fu parametrata con una previsione di finanziamento compresa tra 16 e 19 milioni di euro a contesto.

Tuttavia, le caratteristiche che venivano espressamente richieste dall’Europa per la identificazione e la classificazione delle Aree Urbane erano e sono rappresentate dai riferimenti di dimensionalità territoriale ed indice demografico. Ebbene, nonostante nel frattempo (2018) fosse intervenuto un processo di fusione che aveva sancito la nascita della terza Città calabrese e la creazione del più grande territorio comunale in Regione, non sono state apportate modifiche atte a riequilibrare un dato che già, originariamente, appariva scriteriato. Si pensi che oggi la città di Corigliano-Rossano condivide la misura 5.1b, quindi la quantità di finanziamenti spettanti, con contesti come Vibo V. o come “la Città porto della Piana”.

Tuttavia, le menzionate Città, rappresentano ambiti, demograficamente e territorialmente, più succinti rispetto quelli delle già Città autonome di Corigliano e Rossano. Nonostante le lapalissiane differenze acclarate dai numeri e l’ulteriore distanziamento conclamato dal processo di fusione amministrativa jonica, le richiamate Città restano destinatarie delle medesime spettanze di Corigliano-Rossano. A fianco tale scellerato ed iniquo sistema di valutazione, che — come dimostrato — partiva già da un grossolano errore di fondo, duole registrare la mancata applicazione di correttivi da parte della Politica regionale.

Al danno, quindi, si aggiunge la beffa! Non solo i tre Capoluoghi storici vengono incanalati in una corridoio preferenziale per ciò che attiene i fondi di Agenda Urbana, ma le rimanenti 5 polarità vengono “congelate” con la motivazione di aver  registrato avanzamenti poco significativi nella crescita e con risultati ancora ad uno stadio attuativo iniziale.

Peccato, però, che la Politica tenda ad obliare sulle modalità con cui le identificate “Aree minori” accedano ai fondi in questione. Ebbene, mentre nel caso dei poli principali le interlocuzioni  avvengono direttamente tra Comuni e riferimenti europei, nella seconda casistica, invece, a mediare fra le due Istituzioni è l’Ente regionale di riferimento. Nel caso di specie: la Regione Calabria.

Ed è lampante finanche ad un cieco quanto la Regione sia schiacciata da dinamiche centraliste che continuano, senza remora alcuna, a favorire taluni contesti. Vieppiù, marginalizzando e relegando in un angolo proprio quelle realtà che, seppur suffragate dai numeri, stentano ed arrancano a trovare la via dell’emancipazione.

Si persevera, quindi, in una visione di aree di figli ed aree di figliastri, mentre una Classe politica poco attenta, ma non stupida, finge di non accorgersi di questa iniqua condizione, solo per mantenere ruoli di privilegio. Gli stessi ruoli concordati ed assegnati direttamente dalle sedi dei Capoluoghi storici. Insomma, si continua a vedere un “film” ormai vecchio. Una moderna rappresentazione di servile vassallaggio che le Rappresentanze locali esercitano verso i rispettivi centralismi storici.

E, mentre nelle città di Lamezia, Vibo e Gioia si cercano soluzioni per accedere alle classificazioni importanti (Lamezia e Catanzaro pianificano da tempo la costituzione di un ambito metropolitano del centro Calabria, mentre Vibo e la Piana studiano percorsi comuni per aumentare l’appeal territoriale e demografico) l’opinione pubblica in Città come Crotone e Corigliano-Rossano risulta appiattita su se stessa. Non si riesce a fare di meglio, invero, rispetto a parlare di magnificenza degli eventi di Capodanno, restyling di piazze, aziende che rovinerebbero lo skyline di un lungomare, stemmi e gonfaloni.

Tale gioco al massacro si consuma mentre i tre Capoluoghi storici della Calabria continuano a recitare un ruolo di prim’ordine; non filtrato da altri Enti e a filo diretto con le Istituzioni europee.

Chiaramente, una siffatta condizione non fa altro che produrre aree sempre più sature di servizi (CS, CZ, RC) e lande sempre più desolate e depresse come Corigliano-Rossano e Crotone.

Invero, l’attuazione delle Zone Omogenee Territoriali (come già in essere in alcune Regioni del nord) avrebbe potuto favorire i processi di amalgama tra aree ad interesse comune. Sistemi amministrativi, i succitati, che avrebbero giocato un ruolo fondamentale nell’attuazione dei processi di modernizzazione europea. Del resto, e lo ripetiamo ormai da anni, continuare ad intendere la Sibaritide ed il Crotonese come territori separati, e marginali rispetto ai relativi contesti centralisti, non farà altro che continuare a scrivere la storia che ormai si ripete da oltre 50 anni: lasciare l’area dell’Arco Jonico in una condizione di sciocca e prona servitù ai desiderata dei centralismi regionali.

Solo quando le classi dirigenti joniche dimostreranno coraggio e determinazione nell’attuazione di programmi e progetti finalizzati ad elevare il proprio territorio — ponendolo in una condizione di pari dignità con gli altri ambiti regionali — si potrà riscrivere una nuova pagina di progresso ed emancipazione. L’idea di una nuova Provincia jonica a saldo zero per lo Stato e con due Capoluoghi alla guida, d’altronde, è nata proprio per questo: favorire una diversa visione del territorio, concorrendo al riequilibrio di tutti gli ambiti regionali. (Comitato Magna Graecia)

MALEDETTA 106 E QUELLE GIOVANI VITTIME
DAVVERO IGNORATE DALLE ISTITUZIONI

di FRANCO CIMINO – Se non avessi avuto preoccupazioni familiari non riducibili e conseguenti incombenze non trasferibili, venerdì mattina sarei andato a San Luca per i funerali dei giovani morti sulla strada più importante del nostro territorio. La strada che avrebbe dovuto essere della crescita e dello sviluppo. Quelli che si realizzano anche attraverso la mobilità (di merci e persone, pensieri e azioni) e l’unificazione del territorio dai tanti pezzi ancora presenti. Questa strada, invece, si è rivelata il contrario, con l’aggravante aggiuntiva di procurare la morte a tanti che la percorrono, costretti a farlo.

Ma è di più, quella strada. Diciamolo anche nel giorno del dolore assurdo. È la strada dove sono transitati tutti i mali del mondo, le mafie di ogni genere, quelle fisicamente vissute e militarmente armate, i giudici costretti a super scorte per salvare la propria vita da queste, gli inganni di politici che ne hanno garantito, mentendo, sempre l’ammodernamento per la sicurezza e la modernizzazione, i soldi promessi e mai arrivati, i tanti, pur se pochi, gettati al vento in opere fatte male e nella corruzione che li ha in parte divorati. E fra tutti, l’incultura politica, che ha prodotto più danni delle stesse guerre.

Specialmente quando, qui e a Roma, non si è voluto capire che solo attraverso la costruzione di una moderna rete di infrastrutture moderne (stradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali) la Calabria potrà uscire dall’isolamento. E salvarsi la vita, salvando vite.

Per saltare a piè pari questa diffusa responsabilità e lasciarla rigidamente anonima, a ogni incidente mortale, quasi tutti, si attende che gli organi di Polizia e della Giurisdizione, giungano alla scoperta delle responsabilità di chi guida le auto. Le società delle assicurazioni sono in agguato e non aspettano altro che poter salvare le proprie tasche. Nel frattempo, ci pensiamo noi, con i commenti del giorno dopo, quello che precede l’oblio dopo l’ondata emotiva che ci commuove fino a quando i mass media non passeranno ad altra notizia.

Cosa diciamo, sempre, e in coro? “La colpa è di quello che andava veloce – No, è sicuramente dell’altro, che aveva bevuto – Ma, no sicuramente era drogato, uscivano dalla discoteca- Non sapeva guidare. Parlava. E poi il cellulare”. Alla fine di questi discorsi, quella strada non c’entra nulla. Non è colpevole affatto. E se la colpa è del guidatore, non è della strada. E se non è della strada, non sarà,di certo, di coloro i quali avrebbero dovuto “rinnovarla” o costruirne una nuova. E se la colpa non è di quelli là (come si usa dire da noi), non è di nessuno. Tutti, pertanto, assolti! Nessun colpevole tra noi, se non coloro i quali saranno condannati, com’è sicuramente giusto, per omicidio stradale.

Intanto le stragi continuano, senza soste e senza riduzione del numero. Pochi ricorderanno quella del 21 agosto del 2016. È avvenuta nel tardo pomeriggio del 21 agosto, a Santa Caterina dello Jonio, a meno di venti chilometri da Montauro. Quattro giovani, tutti di Badolato, morti nell’auto che è andata a sbattere contro l’unico albero che si trovava sul ciglio della strada, la stessa. Sempre quella.

Brutta già dal nome che porta, un numero freddo e cinico. Beffardo. Il 106. Un numero, questo, assai più basso di quello incalcolabile dei morti sulla strada. Che non dà scampo. Non perdona errori o scorrettezze dei conducenti. Tanti ve ne sono in vetture modeste, pochi se ne salvano.

Venerdì, si chiedeva silenzio, perché è il giorno del lutto. Ma è difficile, questa volta, in cui questo processo ai morti è già iniziato su vasta scala, restare in silenzio. Dicono obbligatoriamente parole, ciò che vediamo, anche attraverso le televisioni. O leggiamo sui giornali, stampati e in rete. Dicono che oggi a San Luca c’erano centinaia di persone e una decina di sindaci, tutti del luogo e dei paesi vicini. Ed è un fatto buono, in cui c’è tanto dei valori che si stanno perdendo. Dicono parole, le corone e i cuscini di fiori, degli amici e dei parenti, e quella del Comune. Gesto carico di significati, una coperta di seta su quei giovani corpi al posto delle lenzuola bianche che li hanno coperti prima del più amaro dei trasporti.

Dicono parole, la bella omelia del vescovo di Locri, mons Francesco Oliva. È ricca di tenerezza. Una carezza autentica sul volto di quei ragazzi, un abbraccio forte ai genitori e ai compagni che li hanno perduti, un bacio delicato sulla bambina che è rimasta senza la madre.

Dicono anche parole, ma diverse, le assenze. Quelle delle istituzioni tutte, regionali e nazionali. Sono parole di dispiacere, delusione. Di monito duro. Tutte si racchiudono in una domanda, che di null’altro ha bisogno: “se questa tragedia fosse avvenuta su una strada di un’altra regione, i ragazzi morti fossero di un’altra Città, pure calabrese, e magari tornassero da un altro luogo che non quello sottolineato in “neretto” dagli organi d’informazione, ci sarebbero state quelle assenze o non, invece, sarebbero intervenute le più alte autorità dello Stato, magari lo stesso presidente della Repubblica o del Consiglio e con loro il lungo codazzo di altre cariche pubbliche a scendere fino all’ultimo sindaco, in particolare quelli dalle facili dichiarazioni stampa? Sicuramente sì.

Noi siamo la Calabria, la regione degli stigma negativi, per i quali le morti hanno un diverso valore e meritano un diverso rispetto. Siamo una regione nella quale tutto coloro che discendono da un familiare portano su di sé le colpe di quello. Per cui anche le loro vite vengono valutate diversamente da quelle di ogni essere umano che voglia vivere con dignità la propria.

No, oggi, non può essere il giorno del silenzio, perché di silenzio su questa giornata ne scenderà a coltre spessa già da domani. Una coltre che non fa vedere. Nel silenzio che non ci fa sentire.

Oggi, la cosa più degna di “ bontà” che ci è facile fare, è pronunciare il nome dei quattro ragazzi. Solo il nome, Antonella, Domenico, Teresa, Elisa. E non per privarli del loro cognome e delle loro radici, tutti da rispettare. Ma per farli nostri.

Su quella maledetta strada, sono morti quei ragazzi, e senza colpa, che sono anche nostri. Ché in guerra nessuno muore colpevole. Ma da domani mattina, onoriamo tutte le vittime della 106, battendoci uniti per realizzare la nuova strada subito. Ché anche le promesse uscite dalla riunione di venerdì tra Anas e Regione, non ci bastano più. Specialmente, nei tempi, anche questi promessi, di realizzazione di una parte dell’opera. Il 2030 è un tempo troppo lungo. Come la scia di morte e di sangue che potrebbe lasciare. (fci)

SÌ ALLA FUSIONE DEI PICCOLISSIMI COMUNI
IN CALABRIA SON TANTI I PAESI “FANTASMA”

di FRANK GAGLIARDIQuanto ci costa la frammentazione. Fusione dei Comuni: Quali vantaggi? è il titolo dello studio del sociologo Claudio Cavaliere, già segretario regionale di Lega Autonomie, e la cui sintesi è stata pubblicata alcuni anni fa dal Quotidiano della Calabria.

Per il sociologo in Calabria i piccoli comuni sono tanti, troppi, e governano su gran parte del territorio regionale ben oltre la media nazionale. Per lui le dinamiche demografiche in atto porteranno entro qualche decennio alla scomparsa di decine di comuni e al declino di centinaia di altri. Ci fa sapere che nei piccoli comuni fino a mille abitanti le spese correnti sono quasi il doppio della media regionale. Al contrario la pressione tributaria pro capite è il 50% superiore della media regionale. È favorevole, dunque, alla fusione dei piccoli comuni. Per lui i risparmi sarebbero certi, ma anche un sicuro miglioramento delle performance gestionale su il lungo percorso derivanti da una maggiore libertà di manovra economica.

Conclude: «Di certo i processi non sono semplici né veloci ma l’alternativa non può essere un sicuro declino senza reazione. Tanto meno le ricette possono essere imposte dall’alto attraverso normative prescrittive».

Il tema dell’accorpamento dei piccoli comuni non è nuovo al dibattito politico istituzionale italiano. Già nel 1860 il Ministro dell’Interno dell’epoca, Luigi Carlo Farini, propose infatti un progetto per l’accorpamento dei Comuni con meno di 1.000 abitanti. La proposta non ebbe seguito. Ci pensò il fascismo ad accorpare i piccoli comuni col Regio Decreto Legge 17 marzo 1927 n.383. La politica fascista portò complessivamente all’unione, soppressione o aggregazione d’imperio di 2.184 piccoli Comuni. Anche il nostro Comune venne aggregato al Comune di Amantea, senza alcuna consultazione della popolazione. Tutte le funzioni in precedenza attribuite al Sindaco, alla Giunta e al Consiglio Comunale furono conferite ad un unico organo, il Podestà, nominato con regio decreto reale per cinque anni e revocabile dal Ministro degli Interni.

Un aspetto preoccupante della realtà dei piccoli comuni è dato dalla perdita della popolazione dovuta: Fenomeni di urbanizzazione; esodo dei giovani verso i centri urbani di maggiori dimensioni; invecchiamento della popolazione; esodo dei giovani all’inizio della vita attiva che lasciano il paese d’origine al termine degli studi; calo di natalità; chiusura delle strutture scolastiche. La riduzione degli abitanti comporta: perdita dei servizi essenziali come scuole, uffici postali, sanità e assistenza agli anziani, degrado di tipo ambientale, causato dalla mancanza di manutenzione del territorio rurale, un tempo luogo di lavoro di centinaia di persone e ora abbandonato a una natura che se ne appropria in modo disordinato.

Il sogno dei nostri governanti è quello di avere un’Italia con solo 2.500 Comuni. Sogno impossibile. Lo vorrebbero in tanti, ma gli interessi e la burocrazia remano contro. Finora i tentativi di favorire le aggregazioni sono falliti. Passare dagli 8.100 Comuni italiani a non più di 2.500 non mi sembra un obiettivo credibile, anche se effettivamente 8.100 Comuni sono fonte di costi ormai insostenibili per le pubbliche finanze. È davvero una situazione insostenibile dal punto di vista dei costi di gestione. I nostri piccoli comuni non hanno davvero i mezzi e le risorse per sviluppare le proprie comunità. Ma l’aggregazione dei piccoli comuni incontra forte resistenza, perché ci sarebbe la soppressione della Giunta e del Consiglio Comunale.

Il sindaco rimarrebbe il solo organo di Governo, eletto a suffragio universale diretto. Ma così, però, non si può più andare avanti. Davvero i piccoli comuni sono a rischio scomparsa. Regna caos e incertezza. Tra leggi e leggine, tra risorse ridotte al lumicino e tra una serie di norme spesso contraddittorie stanno creando un clima di forte confusione. Pochi comuni hanno i requisiti per restare indipendenti. Non tutti sono, però, favorevoli alle fusioni. Non hanno capito che per mantenere i servizi con risorse sempre più limitate c’è bisogno di stare insieme, rinunciando a qualcosa per avere qualcos’altro. Il percorso da compiere è inevitabile ed è dettato soprattutto da questioni economiche. La strada è obbligata per evitare di sperdere in migliaia di piccoli rivoli i fondi statali sempre più scarsi. Ma i Sindaci non ci stanno. La possibile scomparsa dei piccoli Comuni non s’ha da fare e non soltanto per questioni meramente campanilistiche. I piccoli Comuni sono gelosi della propria identità, della propria storia.

La fusione porterebbe alla perdita dell’identità e dell’appartenenza insieme al patrimonio dei valori condivisi, la perdita della rappresentanza politica e la scomparsa del municipio come valore storico – identitario.  Se l’accorpamento dei piccoli Comuni per il legislatore non mette a rischio i servizi ai cittadini, ma li rende almeno in potenza più efficienti, per i Sindaci, invece, l’aggregazione fa aumentare i costi. Tutto questo rende problematica ed incerta la fusione dei comuni perché molti cittadini non vedono di buon occhio il cambiamento. Cosa si dovrebbe fare allora? Con un decreto legge il Governo dovrebbe stabilire che i Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti sono obbligati a gestire in forma associata i servizi essenziali con i Comuni viciniori. Il problema prioritario non è però solo quello dei costi, ma anche la capacità di offrire al cittadino servizi migliori e opportunità di vita più efficiente.

Numeroso il gruppo dei primi cittadini dei piccoli comuni italiani contrari all’aggregazione. Hanno finanche manifestato a Roma davanti a Montecitorio gridando: «Non è così che si risparmia. Mille anni di storia non si cancellano con un decreto. Ogni territorio deve mantenere la propria autonomia». Il 9 aprile 2015, poi, 324 Sindaci provenienti da tutta Italia, si sono riuniti a Napoli all’adunanza dei “Sindaci ribelli”, convocata dall’Asmel contro l’accorpamento coatto dei Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, previsto dalla legge Delrio del 2014.

Era presente anche il nostro sindaco Gioacchino Lorelli con la fascia tricolore, il quale venne intervistato da una giornalista della Rai e l’intervista mandata in onda nel TG Regionale delle ore 14,00. I Sindaci si sono riuniti nell’Auditorium del Consiglio Regionale della Campania per far sentire le ragioni dei 5700 Comuni italiani con meno di 5000 abitanti che rischiano di perdere l’autonomia delle principali funzioni amministrative. Secondo loro i piccoli Comuni hanno tutto l’interesse a mettersi in rete per accorpare i servizi, ma non le funzioni. Hanno fatto ricorso al Tar della Campania contro l’accorpamento coatto delle funzioni comunali. Secondo i Comuni ricorrenti la norma è “Anticostituzionale perché lede il principio di autonomia degli enti locali, garantito dalla Costituzione Italiana” e “irragionevole in quanto i dati Istat sulla spesa dei Comuni evidenziano che i piccoli comuni hanno una spesa annua di 852 euro pro capite a fronte della media nazionale di 910 euro e della media dei grandi comuni pari a 1250 euro”. Per i sindaci a Napoli riuniti non è affatto vero che con la fusione diminuiscono le spese. Un risparmio vero potrebbe arrivare invece dalla gestione associata dei servizi.

Ma veniamo a San Pietro in Amantea in provincia di Cosenza. Nu truppiellu e case abbandonate, le porte e le finestre sono chiuse, le strade deserte, nell’aria solo il fruscio delle foglie degli alberi di Nmienzu u largu e Nmienzu u puritu, i cani di Ciccio Grassullo che scorazzano per Via del Popolo e quelli di Peppino Prati che abbaiano in lontananza. Non si vedono neppure gli anziani seduti sugli usci delle case che scrutano il passaggio dei rari passanti. Tutto intorno regna un silenzio spettrale. Fra qualche decennio anche San Pietro in Amantea diventerà un paese fantasma come del resto tanti altri paesi del Nord, del Centro e del Sud Italia.

È un vero peccato che sia destinato a scomparire. Eppure oggi il paese è curato nei minimi particolari. I vicoli e le strade sono pulitissime. La raccolta differenziata dei rifiuti funziona a meraviglia. È un paese molto accogliente. È veramente emozionante l’atmosfera che si respira in questo borgo. Ti puoi sedere tranquillamente sulle panchine sotto i secolari pioppi o sui gradini della Chiesa di San Bartolomeo Apostolo e non pensare a niente. L’amministrazione comunale ha recuperato, restaurato e riqualificato un edificio in Via del Popolo, la vecchia casa di don Achille Lupi, e riconvertita in centro sviluppo innovazioni gastronomia calabrese e ristrutturato la vecchia chiesa di San Bartolomeo Apostolo in parte distrutta dal terremoto del 1904 e riconvertita in sala polifunzionale e centro espositivo arte orafa calabrese, sperando che qualche privato faccia altrettanto.

San Pietro in Amantea che nel censimento del 1951 contava 1705 abitanti, oggi gli abitanti sono poco più di 500. E’ nella lista dei paesi destinati a scomparire. Eppure San Pietro ha attraversato periodi floridissimi. C’erano un tempo non lontano tantissime cantine, botteghe artigianali, trappiti, palmenti, forni, telai, forge, falegnamerie, sartorie maschile e femminile, negozi di genere alimentare. Le terre erano fertilissime. Producevano in grande quantità grano, mais, fichi, uva, olive.

Aveva ed ha 4 chiese, due in campagna. Quella della Madonna delle Grazie è molto conosciuta dagli abitanti dei paesi vicini e meta di pellegrinaggi e richiamo quando si celebra la festa del 2 luglio anche per quelli che sono andati via. Oggi la campagna, purtroppo, non viene considerata più una risorsa. È vissuta come luogo di bellezza ma non della produzione e per molti è diventata luogo di isolamento. (fg)

PARTE IN RITARDO LA ZES UNICA, PROROGA
PER I COMMISSARI DELLE VECCHIE AREE

di PIETRO MASSIMO BUSETTAContinuità è la parola chiave del primo incontro svoltosi il 9 gennaio a Palazzo Chigi tra gli otto commissari e i vertici della nuova struttura di missione della Zes unica. In realtà tre sono le date importanti nel cammino dell’introduzione delle Zes nel Mezzogiorno d’Italia: il 2017 quando il decreto 91 prevede la nascita delle Zone Economiche Speciali (Zes); il 2021, anno nel quale le otto zone economiche speciali vengono potenziate con il decreto 77 e il 2023 quando si istituisce, con il decreto 124/2023, dal 1 gennaio 2024, la Zes  unica del Mezzogiorno.  

L’ultima scadenza, cioè Il trasferimento delle competenze, alla Zes unica previsto per il 1 gennaio, non è stata rispettata. La struttura centrale non era pronta per sostituirsi agli otto commissari nominati in accordo con le Regioni. Per cui essi continueranno a gestire, fino al 1 marzo prossimo, le singole Zes, che però saranno estese a tutto il territorio regionale e non più alla sola area precedente. 

In tal modo i Commissari potranno completare le operazioni in itinere e non si rischierà di perdere affari  già maturati. Il ministro Raffaele Fitto ha nominato i vertici apicali della Struttura di missione: Il coordinatore sarà di Antonio Caponetto, che rappresenterà il nuovo punto di riferimento operativo della Zes unica per il Mezzogiorno.

Consigliere di Stato, 58 anni, originario di Catania, Antonio Caponnetto, dal 2020, è stato responsabile dell’Ufficio per le politiche in favore delle persone con disabilità presso Palazzo Chigi e in passato ha ricoperto anche l’incarico di direttore generale dell’Agenzia di Coesione territoriale.

Insieme a lui sono stati nominati gli altri vertici apicali dell’organismo chiamato al coordinamento strategico e all’indirizzo delle attività connesse all’istituzione della Zes unica.

I due direttori generali che affiancheranno Caponetto saranno Pietro Paolo Mileti, già segretario generale del Comune di Roma, e Lorenzo Armentano, dirigente dei ruoli della Presidenza del Consiglio dei ministri. 

Queste nomine, come ha spiegato  lo stesso Ministero, «rendono operativa la Struttura di Missione Zes e consentono di avviare tempestivamente le attività propedeutiche all’estensione a tutto il territorio del Sud Italia delle misure di semplificazione e agevolazione fiscale, precedentemente limitate alle aree retroportuali delle attuali otto Zes».

«Con la piena operatività della Struttura di Missione Zes», ha dichiarato il Ministro Fitto, «il Governo fornisce un nuovo e fondamentale impulso al rilancio del Mezzogiorno attraverso la semplificazione normativa e procedurale e l’attrazione degli investimenti privati in tutto il territorio del Sud».

La centralizzazione della struttura di missione  di tutte le competenze è un passaggio delicato e presenta alcuni rischi che vengono messi in evidenza sia dalle Organizzazioni Datoriali che dai Sindacati. 

«Zes unica? Lo prendiamo come un segnale di fiducia nello strumento Zes per promuovere lo sviluppo del territorio del Meridione. Mettendo mano su uno strumento che stava funzionando vorremmo in primis non generare soluzioni di continuità fra gli investimenti in corso e quelli in partenza e partecipare allo sviluppo della strategia sia a livello nazionale, sia per le singole Regioni». Così Vito Grassi, Vicepresidente Confindustria, e Santo Biondo, segretario confederale della Uil, manifesta le sue preoccupazioni dichiarando «abbiamo sempre sostenuto la necessità di un potenziamento concreto delle Zone economiche speciali. Anche per questo, dopo aver ritenuto inopportuna l’idea del Governo di accentrare a Roma tutte le responsabilità progettuali delle Zes, riteniamo determinante che questo strumento, dall’alta valenza produttiva, rimanga legato alle strategie territoriali». 

Le preoccupazioni manifestate traggono origine da un pensiero che attiene ai compiti ai quali le Zes dovrebbero dare risposta, e cioè che diventino strumento per l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area, indispensabili per potenziare la base produttiva manifatturiera del Mezzogiorno, estremamente contenuta, e che rappresenta il tallone di Achille del suo sistema occupazionale. 

Esiste il rischio che la  struttura centralizzata, che si sta creando a Roma, possa  dedicarsi prevalentemente alla semplificazione amministrativa delle richieste, non costituendo però quella task force che vada a recuperare gli investimenti importanti che vogliono localizzarsi in Europa. 

Il recente episodio della Intel che rinuncia al suo insediamento a Vigasio è illuminante della difficoltà e della competizione esistente tra Paesi che vogliono tutti quanti la localizzazione di quelle imprese, che prevedano un  numero elevato di professionalità di livello. 

Esiste anche il rischio che la struttura centralizzata, si attivi per seguire alcune operazioni, anche importanti, ma non metta in funzione  quel meccanismo virtuoso che dovrebbe far diventare attraenti per gli investimenti alcuni territori particolari del Sud, considerato che la Zes  ormai unica per tutto il territorio, corrisponde al 40% della superficie di tutto il Paese. Quello che deve accadrà é tutto da scrivere, ma il compito é certamente di quelli ardui.  (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

L’UNIVERSITÀ DEI RECORD: TUTTI PAZZI
PER L’UNICAL, È VERO BOOM DI MATRICOLE

L’Università della Calabria continua a mietere successi. Stavolta l’ateneo di Arcavacata di Rende, a pochi chilometri da Cosenza, entra nelle prime posizioni delle classifiche che riguardano le immatricolazioni.

Il nuovo primato per l’UniCal, riguarda le iscrizioni: è risultato il primo grande ateneo statale in quanto a crescita di immatricolati al Sud, segnando oggi un +23% rispetto al pre-pandemia (anno 2019/2020), e tra le sole 3 università d’Italia a vantare un aumento in ciascun anno del quadriennio, nel numero di studenti neo-iscritti.

Il risultato appare ancor più rilevante nel confronto col sistema universitario statale italiano, che nello stesso periodo risulta a crescita zero, per cui l’aumento Unical è di ben 23 punti percentuali al di sopra della media nazionale. Infatti, dall’analisi dei dati dell’Anagrafe Nazionale Studenti resi recentemente disponibili dal Ministero dell’università e della ricerca sulle nuove iscrizioni ai corsi di laurea triennale e a ciclo unico, emerge che il sistema universitario statale, che contava 275.812 immatricolazioni nel 2019/2020, ha avuto una forte crescita (+5,2%) dopo l’inizio della pandemia, a cui è seguito però un rimbalzo negativo con due anni consecutivi di perdita degli iscritti, e una lieve ripresa quest’anno (+1,9%), che l’ha riportato ai livelli pre-pandemia, con 275.768 immatricolati nel 2023/2024, appena 44 studenti in meno del 2019/2020. L’Università della Calabria, invece, ha segnato un significativo aumento nel quadriennio, passando da 3.834 immatricolati del 2019/2020 a 4.704 del 2023/2024 con una crescita percentuale del 23% contro la media nazionale pari allo 0%.

L’Unical registra quindi, dall’anno pre-pandemia 2019/2020 a quello attuale, la crescita più alta in assoluto tra tutte le grandi università statali del Sud, inclusi i mega atenei, e registra uno dei più alti tassi di sviluppo tra tutte le università d’Italia. Non solo, Unical con Pavia e Parthenope, è tra i 3 soli atenei del Paese che segna sempre un aumento, in ciascuno degli anni accademici del quadriennio, a conferma di un miglioramento strutturale con un’offerta didattica e servizi agli studenti che la rendono attrattiva anche nei periodi di difficoltà del sistema universitario nazionale.

Sul fronte delle università private, i dati disponibili sono incompleti e non consentono un’analoga analisi del quadriennio; ma emerge una crescita degli iscritti alle università telematiche.

L’Università della Calabria non solo ha mostrato una crescita significativa sul quadriennio, ma è riuscita a posizionarsi in modo positivo rispetto ad altre università italiane, anche quest’anno. Il confronto tra gli immatricolati del corrente anno 2023/2024 con il precedente 2022/2023 evidenzia, infatti, un incremento del 9%, che la fa passare da 4.316 immatricolati ai 4.704 attuali. Si tratta di una delle migliori performance tra le università italiane, molto al di sopra della media nazionale che, pur in ripresa, si ferma all’1,9%, ben 7 punti percentuali al di sotto della crescita Unical.

L’ateneo ha investito nella qualità dell’offerta formativa e conta su una vasta gamma di corsi in diverse discipline, garantendo agli studenti una formazione completa e diversificata. Uno dei punti di forza dell’Università della Calabria, che ne ha decretato il successo, è sicuramente la qualità dell’offerta didattica, completamente rinnovata negli ultimi anni con l’apertura di nuovi corsi e l’ammodernamento di quelli esistenti. Grande attenzione è riservata anche ai servizi offerti agli studenti, tanto che le classifiche Censis premiano da anni l’Unical come la grande università italiana con quelli più qualificati, a partire da mensa e alloggi. Proprio la residenzialità è un altro punto di forza: grazie a un patrimonio in costante ampliamento, l’Unical accoglie tutti i vincitori di borsa di studio nei suoi 2.500 posti, che la rendono prima in Italia in quanto ad alloggi per iscritti in corso, con un rapporto superiore al 15%, il quadruplo della media nazionale, che salirà ulteriormente grazie alle nuove residenze in corso di completamento.

La crescita costante dell’ateneo non solo porta benefici agli studenti, ma ha anche un impatto positivo sulla regione stessa. L’ateneo può diventare un motore di sviluppo per attrarre risorse e aziende nella regione, come sta già accadendo, ad esempio, nel settore ICT. Inoltre, la formazione di giovani professionisti altamente qualificati contribuisce a colmare il divario di competenze nel mercato del lavoro e a promuovere lo sviluppo socio-culturale della regione. Alcuni passi in avanti si stanno facendo anche nel campo della sanità, grazie all’attivazione del corso di laurea in Medicina e Tecnologie digitali che consente di creare sinergie mettendo in rete competenze medico-scientifiche e strumentazioni di avanguardia dell’Università con le strutture ospedaliere di Cosenza.

«I dati del Mur – dice il magnifico rettore dell’Unical Nicola Leone – danno uno spaccato dell’evoluzione delle università italiane e di quale sia stato l’impatto della pandemia. Questo è in effetti il primo anno di completo ritorno alla normalità, tanto che a livello nazionale il numero di iscritti è sovrapponibile a quello dell’ultimo anno pre-pandemia. Ma in questo confronto col 19/20 – che coincide con l’avvio del mio mandato – spicca il dato dell’Unical che ha dimostrato una crescita straordinaria e persistente, reggendo bene anche all’onda d’urto del periodo pandemico. Ciò è dovuto certamente alla coraggiosa e profonda revisione dell’offerta formativa, che si è aggiornata globalmente rendendo i corsi innovativi e al passo con i tempi, offrendo programmi di avanguardia e rispondenti alle esigenze del mondo del lavoro. Ma anche all’alta qualificazione del corpo docente, rafforzato dalle politiche di reclutamento mirate ad attrarre studiosi altamente qualificati, e puntando anche sul “rientro dei cervelli”».

«Grande apertura – conclude il Rettore – è stata offerta anche agli studenti internazionali con l’attivazione di 10 corsi erogati interamente in lingua inglese che ha determinato l’arrivo di oltre 9.000 domande da parte di aspiranti matricole extraeuropee, provenienti da 108 diversi Paesi del mondo. A ciò si aggiunge il contesto naturale unico del Campus, immerso nel verde e ricco di strutture sportive, culturali e spazi per la socializzazione. Un ambiente ideale per la formazione e la ricerca, come certifica la Commissione Europea con l’assegnazione del prestigioso award HRS4R, che insieme alle borse di studio, ai premi di laurea e agli incentivi per gli studenti più meritevoli, attrae ogni anno nuovi studenti desiderosi di formarsi in Calabria». (rcs)