TUTELA MINORI, LA CALABRIA È INDIETRO:
SONO NECESSARI SERVIZI E SOSTEGNO

di FRANCESCO CANGEMI – La Calabria è indietro nell’attenzione verso i minori. La fotografia è stata scattata dal 13esimo rapporto stilato dal Gruppo Crc – Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Dal rapporto emerge una realtà in cui le ragazze ed i ragazzi che vivono nel nostro Paese manifestano un malessere diffuso, che si esprime in diversi modi, ma riguarda tutte le sfere dell’esistenza e coinvolge le diverse fasce d’età. Pesa la percezione di un futuro incerto: crisi economiche ricorrenti, crescenti disuguaglianze, pandemia, guerre anche ai confini dell’Europa.

Nello stesso tempo resta viva in molti bambini e ragazzi, sia la consapevolezza delle sfide che il mondo attraversa, sia la volontà di impegnarsi personalmente e collettivamente per affrontarle. Su queste grandi risorse, di coscienza e di solidarietà, si può e si deve far leva per rendere bambini e ragazzi più protagonisti del loro presente e del loro futuro.

Il lungo isolamento generato dal Covid ha comportato il rarefarsi dei luoghi di incontro ed ha indotto molti giovani e giovanissimi a chiudersi in sé stessi, e ad un eccessivo utilizzo dei media. I dati a livello nazionale evidenziano una sorta di “onda lunga” dell’aumentato rischio di dipendenza tecnologica tra bambini e adolescenti. In molte città mancano anche punti di riferimento territoriali, luoghi aggregativi aperti, spazi gioco, contesti di socializzazione occasionali e liberi come piazze e cortili. Senza considerare il tema della scarsità di spazi verdi cittadini a disposizione di bambini e ragazzi, essenziali per lo sviluppo psicofisico.

«È quindi necessario e doveroso – è scritto nel rapporto – che gli adulti assumano responsabilità e riconoscano le mancanze dell’attuale sistema per avviare un ripensamento complessivo delle politiche avendo un orizzonte temporale di lungo periodo ed in maniera che coinvolga tutta la comunità educante, se non si vuole perdere di vista un’intera generazione. E per far questo è centrale ascoltare le ragazze e i ragazzi, promuoverne il protagonismo e tenere conto delle loro esigenze e della loro opinione per giungere alla piena attuazione dei loro diritti».

Secondo gli ultimi dati rilevati da Gruppo Crc le persone di minore età in Calabria sono 299.140, il 15,9% della popolazione totale della regione (media nazionale 15,7%), in diminuzione rispetto al precedente rapporto del 2018. Il tasso di natalità (per mille abitanti) è di 7,4, superiore dello 0,6 alla media nazionale. La speranza di vita alla nascita è di 82 anni (in linea con la media nazionale). Le famiglie con 5 o più componenti sono 6,1 su 100, rispetto alla media italiana di 5,2, mentre i nuclei monogenitoriali sono il 16,7% (media italiana di 17,5%).

La percentuale di minori in povertà relativa è del 32,7%, superiore di 12,3 punti rispetto alla media nazionale, e in diminuzione di 10,1 rispetto alla prima edizione. La percentuale di minori che vive in abitazioni prive di alcuni servizi e con problemi strutturali è un dato non rilasciato perché la numerosità campionaria è troppo bassa. I bambini e i ragazzi di 6-17 anni che nel tempo libero hanno l’abitudine alla lettura di libri sono il 35,9%, quota inferiore alla media nazionale del 51,9%.

La percentuale di bambini e ragazzi di 3-17 anni che, nel tempo libero, praticano sport in modo continuo o saltuario è del 51,5%, inferiore di 8,3 punti rispetto alla media nazionale, e con un trend in aumento di 13,3 punti rispetto alla prima edizione. Per quanto riguarda la povertà educativa digitale, la percentuale di minori tra 6 e 17 anni che non utilizzano Internet è del 18,5%, superiore rispetto alla media nazionale del 15,7%. La percentuale dei minori che non consuma un pasto proteico al giorno è un dato non disponibile per la Regione Calabria.

Rispetto ai dati relativi all’ambiente familiare e misure alternative, in Calabria il tasso di affidamenti familiari è di 1,2 ogni mille residenti (media italiana 1,5), valore in aumento rispetto alla precedente edizione. I bambini e gli adolescenti stranieri in affidamento familiare sono l’8,8%, inferiore di 10,1 rispetto alla media italiana, ed in diminuzione rispetto al precedente Rapporto. Il tasso per mille residenti di 0-17 anni nei servizi residenziali per persone di minore età è di 1,1 (media nazionale 1,3), con una tendenza in aumento.

La percentuale di bambini e adolescenti stranieri presenti nei servizi residenziali è del 16% (inferiore di 38,9 punti rispetto alla media nazionale), mentre la percentuale di bambini e adolescenti accolti nei servizi residenziali con disabilità certificata è del 2,8% (leggermente inferiore alla media italiana). Rispetto alle adozioni, le dichiarazioni di adottabilità di minori per adozione nazionale sono state 44 (1237 il totale nazionale), di cui 11 da genitori ignoti. Il numero di minori per i quali è stata rilasciata l’autorizzazione all’ingresso in Italia per adozione internazionale secondo la regione di residenza dei genitori adottivi è di 74 (il totale nazionale è di 1205).

Rispetto al tema relativo alle persone di minore età con un genitore detenuto, la percentuale di colloqui con minori sul totale dei colloqui è del 35,9% (rispetto alla media nazionale del 20,4%), mentre il numero di istituti penitenziari in cui è presente una ludoteca è di 3 su 12.

I dati su educazione indicano che la percentuale dei comuni coperti da servizi socioeducativi per la prima infanzia è del 22,8%, inferiore di 37,3 punti alla media nazionale del 60,1%. Il numero di posti nei servizi socioeducativi per la prima infanzia per 100 bambini di 0-2 anni è di 10,9% (Italia 26,9%). Tra i bambini iscritti alla scuola dell’infanzia, il 78,4% è iscritto alla scuola pubblica e il 21,5% alla scuola privata. Gli anticipatari sono l’8,7%, superiori di 4,5 rispetto alla media nazionale. La percentuale di alunni della scuola primaria che usufruiscono del servizio mensa è del 24,6% decisamente inferiore rispetto alla media nazionale del 56,3%.

Nelle scuole statali sono presenti 8.733 alunni con disabilità, mentre la percentuale di alunni con cittadinanza non italiana presenti nelle scuole di tutti gli ordini è del 4,3%. La percentuale di Early School Leaver è del 16,6% (Italia 13,1%), mentre la percentuale di Neet è del 34,6% (media nazionale 23,3%). La percentuale di edifici in cui è presente il certificato di agibilità è del 21,16%, inferiore rispetto alla media italiana del 39%. Considerando l’area salute e servizi, il numero medio di residenti per sede consultoriale è di 29.054 (Italia 32.325). Sono presenti 13 punti nascita, di cui il 23,1% con meno di 500 parti l’anno (media nazionale 24%) e in aumento rispetto ai dati riportati nel Rapporto del 2018. I bambini residenti per medico pediatra sono 897 (Italia 966,7), con tendenza in diminuzione rispetto alla prima edizione. Rispetto alle coperture vaccinali: la copertura per il morbillo è del 78,7%, inferiore di 16,5 punti rispetto alla media nazionale del 95,2% e con una tendenza in diminuzione.

La percentuale di bambini obesi e gravemente obesi è del 15,7%, superiore di 6,3 punti rispetto alla media nazionale, ma con una tendenza in diminuzione. Il tasso di mortalità infantile è del 3,95‰, rispetto alla media nazionale 2,88‰. Passando all’ambiente, e specificatamente alla qualità dell’aria urbana, i livelli di esposizioni della popolazione urbana all’inquinamento atmosferico da particolato pm 2,5 superiore a 10 mcg/m3 è dell’80%, inferiore di 1,9 rispetto al dato nazionale 81,9%. Infine, la disponibilità di verde urbano in Calabria è di 62,5, superiore del 28,7 rispetto alla media nazionale di 33,8. In merito al tema della protezione, i minori stranieri non accompagnati presenti e censiti in Calabria sono 362 (Italia 7.802), con tendenza in diminuzione.

Con riferimento alle persone di minore età in stato di detenzione o misure alternative, nei Servizi residenziali sono presenti 36 minorenni, il 2,7% rispetto al totale nazionale di 1.310, in diminuzione. Infine, considerando i minori vittime di abusi, i reati per maltrattamento contro familiari e conviventi segnalati nel 2020 sono 665, il 3% del totale nazionale (21.709). (fc)

QUALITÀ DELLA VITA, LA CALABRIA IN CODA
CROTONE ULTIMA, MA C’È VIBO CHE RISALE

La tradizionale classifica del quotidiano Italia Oggi assegna, come ormai da tradizione, gli ultimi posti alle città calabresi per la qualità della vita. Crotone ribadisce il suo ruolo da ultima della classe, ma per fortuna ci sono tiepidi e incoraggianti segnali da Vibo Valentia che risale di otto punti la classifica. Dunque a Vibo si vive un po’ meglio. L’indagine sulla Qualità della vita di Italia Oggi e l’Università La Sapienza, vede il capoluogo conquistare il 92esimo, otto punti in più rispetto al 2022. Un risultato importante, nonostante la posizione comunque molto bassa, ma un importante segnale, soprattutto se si considera che Reggio, Catanzaro e Crotone hanno mantenuto le stesse posizioni del 2022. Cosenza, invece, ha perso tre posizioni.

Il report, giunto alla 25esima edizione, ha analizzato le dimensioni di affari e lavoro, ambiente, istruzione e formazione, popolazione, reati, reddito e ricchezza, sicurezza sociale, sistema salute, tempo libero.

Quello che è emerso, dunque, è che la qualità della vita è risultata buona o accettabile in 63 province su 107, in linea con gli ultimi due anni (erano 64 nel 2022; 63 nel 2021; 60 nel 2020, anno dell’emergenza pandemica). Si tratta per lo più di province dell’arco alpino, centrale e orientale, della pianura padana e dell’appennino tosco-emiliano, con ramificazioni verso Toscana, Umbria e Marche.

Al contrario, le province del Sud e delle Isole compaiono quasi integralmente nei gruppi 3 e 4 dell’indagine, in cui la qualità della vita è valutata scarsa o insufficiente.

L’indagine 2023 conferma una tendenza: la frattura tra il Centro-Nord, più performante e resiliente, e l’Italia meridionale e insulare, caratterizzata da una persistente vulnerabilità.

Tornando alle province calabresi, per quanto riguarda Affari e Lavoro, il vibonese occupa il 96esimo posto, preceduta da Catanzaro (94) e seguita da Reggio (97) e Cosenza (98) e Crotone (107), come nelle ultime quattro passate edizioni. Nell’indagine, poi, si analizza il caso della città pitagorica, a confronto di Bolzano, che è in testa alla classifica.

Quello di Crotone «è un caso paradigmatico di provincia del Mezzogiorno, di cui presenta le tipiche vulnerabilità in molti degli aspetti relativi alla qualità della vita. La provincia di Crotone si classifica nel gruppo 2 nella dimensione del sistema salute, nel gruppo 3 nelle dimensioni relative a popolazione e reati e sicurezza, nel gruppo di coda nelle restanti 6 dimensioni (affari e lavoro, ambiente, istruzione e formazione, reddito e ricchezza, sicurezza sociale e tempo libero)».

Per quanto riguarda l’ambiente, Catanzaro è 65esima, mentre Vibo si posiziona 89esima, preceduta da Cosenza (80) e seguita da Reggio (98), Crotone (103).

Per reati e sicurezza, «l’analisi dei risultati ottenuti nelle passate edizioni denota una sostanziale stabilità del quadro relativo alla sicurezza». Per questo ambito, Cosenza è 27esima, mentre Reggio 31esima. Seguono, poi, Vibo (48esima) Crotone (70esima) e Catanzaro (80esima).

«La dimensione della sicurezza sociale – si legge – ha subito alcune significative variazioni nell’impianto. Rispetto al disegno dello scorso anno, è stato eliminato il dato sui Neet, ovvero la percentuale di persone in età compresa tra 15 e 29 anni che non lavorano, non studiano e non aderiscono a programmi di formazione, in quanto non più prodotto dall’Istat. L’indicatore è sostituito dal tasso di inattività registrato tra i 25 e i 34 anni. Inoltre non è più riportata l’incidenza dei casi registrati di Covid-19, in quanto nuovamente i relativi dati di base non sono più pubblicati».

«Il tasso di disoccupazione giovanile 15-24 anni – si legge ancora – da quest’anno è pubblicato separatamente per maschi e femmine, al fine di catturare l’effetto dovuto alla diversità di genere. Per catturare l’effetto determinato dalla diffusione del Covid-19 abbiamo calcolato la variazione nella mortalità registrata nel periodo 1° gennaio-31 luglio 2023 fra gli individui di età inferiore a 65 anni rispetto alla media quinquennale registrata fra il 2015 e il 2019, sempre con riferimento ai primi sette mesi dell’anno».

«Lo stesso indicatore – si legge ancora – è riportato con riferimento agli individui di età maggiore o uguale a 65 anni. Infine le dimissioni per trattamento sanitario obbligatorio (TSO) non sono più calcolate per 100 mila abitanti, ma sulle dimissioni ospedaliere totali. A seguito di tali innovazioni metodologiche il piazzamento conseguito da una qualsiasi provincia lo scorso anno, che continua ad essere riportato per completezza, non deve essere confrontato con la posizione in classifica del 2023».

Su questo ambito, Catanzaro è 64esima, seguita da Vibo (84), Crotone (86), Reggio (91) e Cosenza (104).

Su Istruzione e Formazione, viene evidenziato come l’obiettivo di questo ambito è quello di «una maggiore dotazione di capitale umano, infatti, è una precondizione per una maggiore produttività e, dal punto di vista settoriale, favorisce una maggiore specializzazione in produzioni ad alto valore aggiunto, con evidenti benefici per la collettività, non soltanto sotto il profilo di una migliore capacità nella generazione di reddito».

«La dimensione comprende 6 indicatori, tutti positivamente associati alla qualità della vita, tratti dal BES (Benessere equo e sostenibile) curato dall’Istat: tasso di partecipazione alla scuola dell’infanzia (che consente indirettamente di cogliere la dispo-nibilità sul territorio di asili), percentuale di persone di età compresa tra 25 e 64 anni in possesso almeno di un diploma di istruzione secondaria superiore, percentuale di persone di età compresa tra 25 e 39 anni in possesso di laurea o altri titoli c.d. terziari, percentuale di persone di età compresa tra 25 e 64 anni coinvolte in attività di formazione permanente e, dallo scorso anno, la percentuale di studenti in possesso di adeguate competenze numeriche e alfabetiche».

Le cinque province calabresi, purtroppo, sono tutte verso la fine della classifica, con Crotone che chiude. Vibo è 84esima, Cosenza 90esima, seguita da Catanzaro (90) e Reggio (91).

Per quanto riguarda la popolazione, Catanzaro è 57esima, seguita da Cosenza (63), Vibo (64). Reggio e Crotone si posizionano, rispettivamente, al 70esimo e 71esimo posto.

Sul Sistema Salute, Catanzaro – assieme ad Ancona e L’Aquila – conferma l’eccellente piazzamento conseguito nella scorsa edizione.

«La scarsa consistenza numerica del primo gruppo segnala che nelle province italiane la dotazione di servizi sanitari – si legge – si attesta prevalentemente su livelli medi o medio-bassi. In generale, per quanto riguarda la distribuzione territoriale dei servizi, questa si presenta ampiamente eterogenea. I servizi sanitari si concentrano prevalentemente nelle province in cui è presente un grande centro urbano (Roma, Milano), in poli di eccellenza nella ricerca medica (Pisa, Siena), ma esistono anche altri fattori. L’eterogeneità nella distribuzione territoriale delle strutture sanitarie riflette verosimilmente le caratteristiche dei rispettivi bacini di utenza o specifiche scelte politiche nazionali e soprattutto locali. Va comunque notato che nelle prime 50 posizioni figurano tutte le province in cui sono presenti centri urbani di dimensioni medie e grandi».

Nello specifico, Crotone è sesta, seguita da Catanzaro (10). Reggio è 51esima, Cosenza è 77esima, mentre Vibo è 100esima.

Sul tempo libero, l’indagine ha evidenziato come «complessivamente, il gruppo di testa comprende 21 province ed è caratterizzato da una notevole stabilità nel tempo, con una presenza pressoché esclusiva di province dell’Italia centro-settentrionale, ad eccezione della provincia di Sassari in rappresentanza dell’Italia meridionale e insulare».

Le cinque Province calabresi, purtroppo – ad eccezione di Catanzaro e Cosenza che sono state ritenute “scarse” e si sono posizionate rispettivamente 65esima e 77esima  – sono risultate insufficienti su questo ambito: Reggio (83), Vibo (100) e Crotone 107esima.

«La dimensione del reddito e della ricchezza – si legge – è stata oggetto di una profonda revisione due anni fa. La nuova struttura comprende ora il reddito medio annuo pro capite, il reddito medio annuo pro capite dei lavoratori dipendenti, l’importo medio annuale (e non più mensile) dei trattamenti pensionistici, la ricchezza patrimoniale pro capite e, nella sottodimensione negativa, la variazione dei prezzi al consumo, i valori immobiliari, l’incidenza delle sofferenze bancarie per i prestiti alle famiglie e l’incidenza dei trattamenti pensionistici di modesta entità sul totale dei trattamenti erogati».

Catanzaro è 86esima, mentre Vibo si è posizionata 91esima, seguita da Reggio (94), Cosenza (102) e Crotone (107). (rrm)

LA POLITICA JONICA SI “VESTA” DI DIGNITÀ
E PRETENDA CHE CI SIA L’ALTA VELOCITÀ

di DOMENICO MAZZA – Avrebbe dovuto essere la risoluzione ai problemi calabresi della mobilità; l’ingresso della Regione in un processo di sviluppo coerentemente europeo; il ragionevole tasso d’interesse per favorire l’uscita della Calabria dal pantano dell’immobilità trasportistica. Quanto descritto, almeno nelle originarie intenzioni, le aspettative riposte nell’agognata linea Av SA-RC.

Una doppia lingua di ferro che dall’estrema punta dello stivale dovrebbe raggiungere Salerno, ove già da tempo esiste la modernità, l’evoluzione, il sentirsi fieramente cittadini italiani ed europei. E per la prima volta, nella travagliata storia di questa Regione, era stata presentata un’ipotesi progettuale slegata da lacci e lacciuoli. Un tracciato rispettoso di tutti gli ambiti regionali, pensato con una ramificazione ad albero che dal flusso principale e baricentrico avrebbe raggiunto ogni singolo ambito della Calabria. Anche quello più periferico, marginalizzato, bistrattato e finanche disconosciuto: l’Arco Jonico.

Alla fine, però, questa speranza si sta sgretolando come un castello di sabbia. Si avvia anch’essa, infatti, ad essere inghiottita dalla spirale del centralismo. La politica, all’ipotesi di un tracciato Praia-Tarsia o, in alternativa, il più lineare tragitto Lagonegro-Tarsia (entrambe le ipotesi già vagliate da studi di fattibilità e fondamentali per le esigenze di connessione alla linea AV dei comprensori crotonese e sibarita), sembrerebbe preferire un sostanziale restyling della ferrovia esistente da Praia in giù. Parlo di restyling — pur non essendo un tecnico — perché anche un bambino capirebbe che lungo il Tirreno cosentino, realizzare una nuova linea AV sarebbe pura utopia. Fatto salvo che non si vogliano buttare giù la maggior parte delle Comunità ivi localizzate. Con l’aggravante di sventrare ancor più di quanto non sia stato fatto con la Tirrena Meridionale, le pendici che dalla Catena Costiera strapiombano verso la linea di costa.

Eppure, tra un trionfalismo e l’altro, legato il più delle volte a banali quisquillie, la politica calabrese, sull’argomento, sembra disincantata, assopita. Sarò sincero: il pensiero che molti Amministratori, soprattutto lungo il versante jonico, ignorino il dibattito in atto sulla futura linea ad alta velocità, mi ha sfiorato. Forse saranno alle prese con i preparativi di sagre rionali o intenti a stabilire che amperaggio dovranno avere le luminarie da imbastire per le imminenti festività natalizie, ma tant’è. Non si spiegherebbe altrimenti, il tombale silenzio registrato sulla sciagurata ipotesi di mettere da parte il percorso vallivo per ingrassare ed ingessare ulteriormente il Tirreno. Il silenzio, poi, di Enti come la Provincia di Crotone e quella di Cosenza è surreale.

Ad onor del vero, devo registrare la presa di posizione dei Sindaci di Corigliano-Rossano e di Tarsia, e, nelle ultime ore, anche del Primo cittadino di Cosenza.

Tuttavia non basta. È troppo poco!

Le posizioni dei menzionati Amministratori suonano come flebili sussurri senza una coralità di intenti che veda insieme tutti i Sindaci dell’Arco Jonico e delle aree interne. E, insieme a loro, le associazioni di categoria, i gruppi sindacali, gli ordini professionali e il movimentismo civico.

Le aspettative riposte nella realizzazione della futura linea AV erano (e mi auguro possano continuare ad essere) quelle di dotare il Mezzogiorno d’Italia di un corridoio ferroviario funzionale e fruibile da parte di tutti. Contrariamente, la già esigua dermografia regionale non consentirebbe neppure di immaginare un investimento di tale portata, senza un ritorno massivo in termini di fruizione dell’opera da parte di tutta la popolazione calabrese.

La linea in questione non è stata pensata per velocizzare di un quarto d’ora il percorso tra Reggio e Roma, ma per  consentire ad ogni angolo del Meridione di spostarsi in tempi europei. Accantonare, quindi, l’idea di un tragitto vallivo — valido compromesso alle esigenze delle aree interne e delle due linee di costa — comprova, ancora una volta, quanto iniquo sia l’andazzo che si registra alle nostre latitudini. Ancor più, certifica quanto in Calabria sia  disconosciuto il concetto di coesione territoriale, al solo fine effimero di favorire sterili e vacui interessi di campanile. Se così non fosse, gli intervenuti ad un recente incontro sul tema celebrato a Scalea, non avrebbero salutato la sciagurata ipotesi di un tracciato Praia-Paola come la soluzione di percorso ottimale per la conformazione territoriale calabrese. Costoro, con ogni probabilità, disconoscono che la Sibaritide ed il Crotonese, sono le uniche due aree in Italia che per raggiungere le Località del nord, prima devono compiere una innaturale ed antieconomica virata verso sud.

Il massiccio della Sila, infatti, obbliga il  Crotonese a scendere su Lamezia e la Sibaritide a circoscrivere le pendici montuose per raggiungere Paola. In entrambi i casi si impiegano circa due ore per compiere insensati itinerari nella sola Calabria. Nessun altro ambito della Regione è costretto a percorrere tragitti assurdi come quelli appena descritti, per raggiungere una stazione nodo sulla tirrenica.

La politica jonica si vesta di dignità. Provi, almeno, ad impedire una iattura che condannerebbe ancor di più all’isolamento ed all’oblio lo Jonio. Si smetta di celebrare i quattro spicci che saranno utilizzati per la posa di un filo elettrico lungo la ferrovia jonica. Non ci si può accontentare, sempre e solo, di briciole e molliche, quando altrove si prospettano investimenti miliardari. Vieppiù, con la consapevolezza che a poco serviranno i lavori di semplice elettrificazione lungo la dorsale jonica se poi questa non sara adeguatamente collettata alla futura linea AV. E di certo il collettore non può essere il rifacimento della Santomarco. Galleria, quest’ultima, totalmente fuori asse rispetto alle Comunità dell’Arco Jonico.

La futura infrastruttura ferroviaria, quella pensata per declinare una nuova prospettiva di coesione territoriale per il sud Italia, dovrà essere funzionale a tutti gli ambiti del Mezzogiorno e non solo ad alcuni di essi. Non si trasformi un progetto di alta velocità in un non meglio definibile concetto di “altra velocità”. (dm)

NELLE INFRASTRUTTURE LA CALABRIA NON
È COMPETITIVA: IL GAP È SEMPRE PIÙ GRAVE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – La Calabria non è competitiva a livello infrastrutturale. Non è una novità ma, a certificare questo pesante gap, il recente Rapporto dell’Osservatorio di Confcommercio Trasporti presentato all’8° Forum Conftrasporto-Confcommercio, assieme a uno studio sulle infrastrutture realizzato da Svimez per Conftrasporto.

La nostra regione, infatti, ha perso cinque posizioni rispetto al 2019, posizionandosi 139esima con un modesto 73,8. Un dato che deve far preoccupare, se si considera che l’indice di competitività delle regioni europee è un indicatore di benchmark europeo basato sul criterio di funzionalità delle reti. Esso, infatti, misura l’accessibilità alle infrastrutture, la capacità di ridurre le distanze effettive per spostamenti di persone e merci piuttosto che la pura dotazione.

Si tratta, dunque, dell’ennesima dimostrazione del grande limite, a livello infrastrutturale, di cui la Calabria è “vittima”. Strade difficili da percorrere, aree interne sempre più isolate e pochi collegamenti con i treni. Un insieme di criticità che, nel loro insieme, delineano un quadro sconfortante. Nè deve consolare che, nel report, l’Italia stessa, rispetto al 2019, ha perso quattro posizioni.

Nella sua relazione il direttore della Svimez, Luca Bianchi, ha parlato di una «sotto-dotazione al Sud e di una congestione al Nord».

«In rapporto alla superficie, la dotazione del Sud è superiore al Centro-Nord per strade di interesse nazionale (13,2 km/100 km2, 6,5 per il Nord e 9,3 per il Centro), allineata per strade regionali e provinciali, ma molto inferiore per rete autostradale (1,87 km/100 km2, 3,29 al Nord e 2,23 al Centro)».

«Fanno relativamente meglio Campania, Abruzzo, Molise (non per autostrade), Puglia e Sicilia. Sottodotate Sardegna (nessun km di autostrada) e Basilicata (autostrade marginali)», ha detto ancora Bianchi, tornando a parlare del divario Nord-Sud: «c’è una sottodotazione di binari nel Mezzogiorno, specialmente nell’alta velocità».

Nel Mezzogiorno, infatti, sono solo stati sviluppati 5.717 km su una lunghezza complessiva dei binari di 7.528 km contro gli 11.046 km sviluppati nel Centro-Nord e i 16.032 km di binari. Male anche nell’alta velocità: al Sud ci sono solo 181 km, di cui il 21,4% sono linee fondamentali e linee di nodo, mentre il 58,1% è la rete elettrificata e il 31,7% p la rete a doppio binario. Inutile dire che, al Centro Nord, i valori sono ben superiori. Solo per citarne una, al Centro Nord l’80% della rete è elettrificata.

Solo la Campania, ha rilevato Bianchi, si avvicina agli standard del Nord. Il resto delle regioni, invece, evidenziano un grave gap infrastrutturale che, invece di diminuire, si allarga.

Per il direttore della Svimez è necessario una inversione di rotta. E, per farlo, si potrebbe valutare la «regionalizzazione» catene del valore in continuità con le risposte osservate durante la pandemia, ossia:  ripiegamento della globalizzazione e reshoring/nearshoring internamente all’EU (automotive, settori high-tech); Aumento degli scambi intraeuropei».

Nella sua analisi, Bianchi ha evidenziato come «fatta eccezione per l’asse Italia–Svizzera, la magior parte delle merci viene movimentata con il trasporto stradale. Al confine con l’Austria, inoltre, passa circa il 40% del traffico merci che entra ed esce dal Nord-Europa». Per il direttore della Svimez, dunque, sarebbe auspicabile uno shift modale gomma-ferro e l’apertura di altri passaggi, come autostrade del mare.

Bianchi, poi, rilancia il potenziale del traffico marino che, dopo il calo generalizzato a causa della pandemia, è tornato ai livelli pre-covid.

Nel 2022, infatti, per i cargo mare ha raggiunto i 490 milioni di tonnellate, con 380 mld di euro, un 36% totale movimentato di merci, un +11% rispetto al 2019 e, non meno importante, un +2% rispetto al 2021, con un +1,1% nel Mezzogiorno e 2,7% nel Centro Nord.

Per quanto riguarda i cargo mare Ro-Ro (ossia i cargo rotabili), si sono calcolati cira 120 milioni di tonnellate (+57,2% rispetto al 2009, -1,4% rispetto al 2021 di cui: -5,4% nel Mezzogiorno e +3,1% nel Centro Nord); per i cargo mare container, invece, 119,5 milioni di tonnellate, con un +26,7% rispetto al 2009, +2,2 % rispetto al 2021 di cui: +4,9% nel Mezzogiorno e -0,1% nel Centro Nord).

Il buon andamento delle merci movimentate nei container è stato possibile anche grazie all’exploit dello scalo di Transhipment di Gioia Tauro.

Spazio, poi, alla “vecchia” Zes, per cui sono previsti 630 mln che si aggiungono all’1,2 mld che il Pnrr riserva a interventi sui principali porti del Mezzogiorno. Con questi fondi, si dovrebbe intervenire sul collegamento di “ultimo miglio”, digitalizzazione e potenziamento della logistica, urbanizzazioni green e lavori di efficientamento energetico e ambientale nelle aree retroportuali e nelle aree industriali appartenenti alle ZES; potenziamento resilienza e sicurezza per l’accesso ai porti. Ma qual è il problema? Che c’è una frammentazione eccessiva degli interventi. Per fare un esempio, in Calabria, sulla Jonica sono previsti 108,1 mln di euro, ma sono previsti solo due interventi per l’ultimo miglio, 7 per la logistica e nessuno per la resilienza dei porti, mentre per tutta la regione, invece, oltre a essere previsti 11,7 mln, sono programmati 7 interventi sull’ultimo miglio, nessun intervento per la logistica e solo 3 per la resilienza dei porti. La Sardegna, per citare un altro caso, prevede solo un intervento per l’ultimo miglio e un importo di solo 10 milioni, mentre la Campania, invece, ha ben 136 milioni e 10 interventi, tra ultimo miglio (5) e logistica (4).

Una frammentazione che, in teoria, si dovrebbe risolvere con la Zes Unica (che entrerà in vigore a gennaio 2024). Bianchi, dunque, suggerisce le condizioni per rendere efficace questo strumento per il Sud e il Paese, ovvia con la fiscalità di vantaggio e la sburocratizzazione e un piano strategico.

Nel primo caso, si tratterebbe di introdurre un credito di imposta investimenti, proroga della decontribuzione Sud e lo sportello unico, che potrebbe rappresentare un’occasione per rendere le tempistiche più omogenee tra i territori. Per quanto riguarda il piano strategico, si devono definire le priorità produttive e specializzazioni strategiche, esaltare le specificità produttive, valorizzare i legami funzionali e strategici con le infrastrutture, come i porti collegati alla rete Ten-T.

In questo modo, si può rendere «il Mezzogiorno attrattivo per investimenti e talenti», realizzare una «logistica meridionale integrata nel sistema Paese e internazionale» e, infine, una «integrazione del Mezzogiorno e del Paese nelle filiere strategiche europee».

Bianchi, poi, fa il punto sullo stato dell’arte sugli interventi infrastrutturali per i trasporti: Infrastrutture di trasporto prioritarie: costi per 131 miliardi (Relazione su stato di attuazione, 2022); Finanziamenti acquisiti (101 miliardi) e Fabbisogni residui (29.5 miliardi) e quasi il 75% delle risorse destinate alle infrastrutture ferroviarie. 

Da questi dati, è emerso un forte ritardo del Mezzogiorno: il 56% delle opere, infatti, sono ancora in stato di progettazione contro le 36% del Centro Nord. Ci sono, poi, pochi lavori in corso: sono il 13% contro il 34% del Centro Nord.

Spazio, poi, al Ponte sullo Stretto, il cui costo sarà di circa 15 miliardi. Esso dovrebbe prevedere 2560 mila addetti in 7 anni, con una media di 40 mila all’anno), 35,5 mld di produzione e 14,6 mld di valore aggiunto (10,4 mld al Sud, ossia il 3,4% del Pil) e 4,2 mld al Nord, con lo 0,26% del Pil).

Nonostante questi numeri, il direttore Bianchi ricorda le criticità geologiche e tettoniche per realizzare l’infrastruttura:

  • Attesa completamento dell’AV  Palermo-Messina e Reggio Calabria/Salerno per il collegamento con Roma (Roma-Palermo: 7 ore tot.)
  • Sostenibilità ambientale: 2 Zone di Protezione Speciale: Costa Viola (RC) e Monti Peloritani (ME); 11 Zone Speciali di Conservazione (possibile violazione direttiva Comunitaria Uccelli/impatti sull’ecosistema marino)
  • Sostenibilità economica: costo superiore dall’AV Torino-Milano e triplo del Fondo nazionale TPL che finanzia trasporto su gomma e ferro

Importante, poi, il ruolo delle politiche. Servono, infatti, «azioni di policy tese a potenziare la dimensione quantitativa e qualitativa delle infrastrutture nel Paese hanno un valore strategico fondamentale, consentendo di: 

  • raggiungere gli obiettivi europei al 2030 e 2050: trasferire il 30% del traffico stradale (> 300 km ) su modalità alternative (il 50% nel 2050); Green Deal | Fit for 55, col taglio 55% emissioni / riduzione del 47,2% delle emissioni nel settore dei trasporti italiano
  • migliorare la dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno, quale pre-condizione per promuovere un percorso di sviluppo industriale lungo le nuove direttrici strategiche: green e digitale
  • sostenere grandi opere di collegamento ma solo coerentemente a un progetto infrastrutturale sistemico per tutto il Paese (collegamenti interni e attenzione alle aree marginali)
  • ridurre la pressione sulle infrastrutture del Nord (specialmente sui valichi) che presentano elevate criticità sotto il profilo della saturazione e, a questo proposito, sono auspicabili azioni di potenziamento (seconde canne per Monte Bianco e Frejus) e potenziamento della dotazione ferroviaria per promuovere lo shift modale gomma-ferro
  • sfruttare il potenziale del «mare»:  le rete ferroviaria presenta vincoli strutturali (in termini di capacità di trasporto). Le autostrade le mare possono rappresentare una soluzione complementare allo shift gomma-ferro, nonché un settore economico di interesse e di traino per l’economia del Mezzogiorno. 

«I dati evidenziano come sia urgente investire in infrastrutture, e mettono in luce il divario tra Sud, con un difetto strutturale di connessioni, e il Nord Italia, con un alto indice di saturazione, soprattutto in relazione ai valichi – dichiara il presidente di Conftrasporto Pasquale Russo –. La situazione che emerge, ancora una volta, dimostra come sia stato sbagliato, nelle scelte compiute in passato, non aver finanziato le infrastrutture fisiche stradali.  Per quanto riguarda il Pnrr, è positivo, necessario, aver previsto fondi significativi per la ferrovia, ma la mobilità delle merci e del Paese deve utilizzare il sistema infrastrutturale in maniera integrata: è controproducente aver lasciato autostrade e aeroporti fuori dalla programmazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza». (ams)

 

PONTE, LA DISINFORMAZIONE DI “REPORT”
CONTRO IL SUD BALLE DELLA TV DI STATO

di SANTO STRATI – L’informazione di Stato, quella pubblica, contro il Sud e la sua voglia di sviluppo: la discutibile puntata di Report sul Ponte sullo Stretto è un chiarissimo esempio di disinformazione partigiana e assecondata di punti di vista unilaterali, con esclusione di qualsiasi contraddittorio. Ma il Governo, il ministro Salvini, hanno visto la puntata dedicata al Ponte? Ce n’è di lavoro per la commissione di vigilanza…
Nello scenario dei no-pontisti a tutti i costi è intollerabile il messaggio stracolmo di balle propalato ai telespettatori, da cui si deduce subliminalmente una sola cosa: il Sud deve schiattare e qualsiasi innovazione va bloccata. Ci avevano provato con l’Autostrada del Sole e con la Salerno-Reggio Calabria dopo: se avessero vinto i superscettici (che notoriamente non hanno alcuna competenza delle cose di cui parlano) non avremmo l’Italia collegata da Nord a Sud da un’infrastruttura stradale straordinariamente utile (che però ha prodotto utili solo ai privati, chissà perché?).

Si può essere di opinione contraria a quanti vorrebbero il Ponte (che significa – al di là di qualunque scetticismo – una grande operazione infrastrutturale per i territori della Calabria e della Sicilia: senza il Ponte scordiamoci l’alta Velocità ferroviaria e il rifacimento della statale 106), purché si oppongano argomentazioni basate su inoppugnabili elementi scientifici di valutazione. Lo sport nazionale negli ultimi anni è intervenire pro o contro qualsiasi opera pubblica (vedi i “grullini” antiTav) solo per essere controcorrente e alla disperata ricerca del famoso quarto d’ora di celebrità di warholiana memoria. Ebbene, sul Ponte si è scatenata una campagna di disinformazione spaventosa, di mitizzazione dell’impossibilità della realizzazione, probabilmente per salvaguardare (occulti) interessi di lobbies a cui del Sud interessa poco o, anzi, niente: si raccontano balle un tanto al chilo e arriva il risultato (anche se parziale) di confondere le idee, allarmare la gente, vaticinando disastri inimmaginabili, spaventando l’opinione pubblica.

Con tutto il rispetto per Report che negli anni ha spesso condotto campagne di civiltà con un’informazione corretta ed equilibrata, questa volta si è andati oltre ogni ragionevole sopportazione. Sarebbe bastato – vista la chiara impostazione no-ponte della trasmissione – chiamare esperti e progettisti di ponti (in Italia ne abbiamo svariate eccellenze) e controbattere le tesi a favore o contro con numeri, cifre, dati di fatto, documentazione reale non parole colte da incompetenti alla riscossa che vedono l’inferno in tutto ciò a a che fare con l’innovazione tecnologica. Ora, il minimo sarebbe una puntata dove siano ospitati tecnici, progettisti, costruttori di ponti per esporre con cifre reali e non citate a sentito dire gli aspetti positivi del progetto e le sue eventuali criticità. Guarda caso nel mondo ormai si parla di ponti Messina Type visto che il progetto originario viene utilizzato in tutto il mondo per le qualità innovative (il Ponte sui Dardanelli – realizzzato in tempi record – è un “piccolo” Ponte di Messina basato proprio sul progetto dello Stretto) che i nostri progettisti, tra i migliori al mondo, sono stati in grado di raggiungere.

Il sospetto è che la sospirata realizzazione del Ponte (che non è di Salvini né di Messina, ma appartiene al Paese) in queste condizioni stenti a decollare non perché manchino le condizioni tecniche e le soluzioni tecnologiche, ma per il prevalere di un atteggiamento negativo che presta il fianco ad alimentare la polemica politica. I dem un tempo erano favorevoli all’opera: siccome al Governo c’è la destra, improvvisamente si sono scoperti no-pontisti affiancando le folli idee di decrescita infelice predicate da Grillo & Co.

Salvini difende il suo progetto ed è comico constatare che debba essere un lumbard a difendere un’idea di sviluppo per il Sud (ma ricordiamoci che la Cassa per il Mezzogiorno nacque per iniziativa di illuminati settentrionali), ma farebbero bene i calabresi e i siciliani a difendere quest’idea di crescita che è solo il Ponte (futura nuova meraviglia del III Millennio?) ma le infrastrutture necessarie a rendere utilizzabile l’opera. Se ci sarà il Ponte non potrà non esserci l’Alta Velocità (ad alta capacità) in gradi di collegare Roma e Palermo con tempi accettabili; se ci sarà il Ponte non potranno non esserci strada sgarrupate e finte superstrade (la ss 106, per esempio) perché la mobilità sarebbe impossibile nell’ottica dell’attraversamento stabile.
La comunicazione sul Ponte – lo abbiamo scritto tante volte, sempre manifestando senza sotterfugi di condividere quest’idea di sviluppo – dev’essere non al servizio di lobbies e interessi oscuri: sia al servizio del Paese e dei citatdini. Con onestaà, correttezza e soprattutto basata su competenze specifiche. I mestieranti del No non hanno argomenti, solo slogan e prese di posizione basate sul nulla, in base a un’idea di terrorismo ideologico che non porta nulla di buono. Divide il Paese e danneggia il Mezzogiorno che, invece, vuole crescere  e donare un futuro nella propria terra alle nuove generazioni. (s)

PS: Chi ha voglia si legga il lungo dossier apparso su Facebook che riproponiamo che contesta punto per punto le osservazioni (vistosamente di parte) proposte dal servizio di Report. Non è legge divina o verità assoluta, ma almeno si basa su studi, numeri e cifre inconfutabili.

CON ZES UNICA, UN MEZZOGIORNO DIVERSO
NON INTERVENTI SPARSI, MA COORDINATI

di ETTORE JORIO – Il Mezzogiorno espunto dalla Costituzione revisionata nel 2001 è rientrato dalla porta principale delle politiche solidaristiche e agevolative del Governo. Lo ha fatto con il DL per il Sud n. 124/2023, divenuto da poco legge dello Stato (legge n. 162 del 13 novembre scorso).

Un Mezzogiorno diverso dal solito

Tuttavia, il Mezzogiorno è stato (ri)concretizzato in una composizione geografica monca di quella parte del Lazio a sud di Frosinone, che godette più che altrove dei benefici erogati dalla allora Cassa del Mezzogiorno.

Insomma, un Mezzogiorno ad otto che comprende Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, sotto l’effigia di Zes Unica.

Una ratio, quella di costituire una Zes unica nazionale, che dà un ampio riconoscimento alle ragioni che imposero ai Padri costituenti di renderlo elemento interiorizzato della Carta costituzionale. Ciò nella logica di volere dare attuazione ai valori della solidarietà e di una rinnovata attenzione a favorire una tangibile unità economica nazionale attraverso il ricorso ad una programmazione di risorse comunemente destinate dall’UE alle regioni in ritardo.

Una regola ripristinata che, da una parte, consentirebbe uno sviluppo comune alle anzidette Regioni costrette così ad esercitare politiche favorevolmente aggressive contro le cause dei ritardi che ne hanno rallentato la crescita e, dall’altra, alleggerirebbe attraverso il conseguimento, nel tempo, dello sviluppo il peso della perequazione gravante sull’imposizione generale a compensazione della attuale povertà di gettito fiscale territoriale.

Una occasione per accelerare, ma non in curva

Una condizione teoricamente ideale che impone, finalmente, investimenti, caratterizzati da una unicità progettuale e una crescita unitaria, difficile da conseguire ma più possibile rispetto a ieri.

Le domande da porsi sono diverse.

Prioritariamente cosa significhi Zes Unica e cosa comporti. Zes Unica per il Mezzogiorno, oltre che recuperare l’errore di averle istituite per dividere di più quanto negativamente differenziato, è funzionale a generare un sistema di governance monolitico, basato su una struttura unica nazionale funzionale a semplificare e razionalizzare gli interventi, attraverso politiche di coordinamento. Ciò senza alterare minimamente l’autonomia delle Regioni e degli enti locali. Questi infatti rimarranno sempre i protagonisti delle opportunità di investimento. Un ruolo difficile a comprendersi se non si tiene nel debito conto di che cosa sia nel concreto lo strumento operativo denominato Piano strategico di sviluppo della Zes che reca, a valle, consistenti benefici fiscali e semplificazioni procedurali per le imprese che decideranno di insediarsi ivi e per quelle già esistenti. Alla luce di siffatte agevolazioni, la Zes Unica si rende garante di politiche coordinate che specializzino i singoli territori regionali, sulla base delle loro peculiarità territoriali e delle infrastrutture liberamente programmate attraverso anche il ricorso alle risorse del Pnrr.

Dubbi comuni

Vengono pertanto a porsi degli interrogativi più specifici ai quali fornire le risposte adeguate. Essi riguardano: le modalità di sviluppo del progetto industriale della ZES Unica; la sua direzione affidata ad una Cabina di regia istituita presso la Presidenza del Consiglio con funzioni di indirizzo, coordinamento, vigilanza e monitoraggio, cui competerà al suo esordio la redazione del regolamento di organizzazione dei lavori; la sua durata; i settori, eventualmente privilegiati, di intervento produttivo e quelli esclusi; l’entità e il percorso, infine, di godimento delle agevolazioni incentivanti e delle semplificazioni amministrative.

Il piano industriale è dimostrativo della visione strategica di somma, nel senso di riassunzione delle linee delle Regioni tradotte in una azione unitaria e coordinata della durata di un triennio, a partire dall’1 gennaio 2024. I settori di intervento strategico sono tutti quelli capaci di sviluppare e rafforzare, in modo organico, la capacità produttiva del Mezzogiorno, rendendolo massimamente attrattivo per  le nuove iniziative, specie di grande portata, determinanti un sensibile incremento del patrimonio produttivo, culturale e naturale. Gli incentivi e le facilitazioni sono segnatamente interessanti, atteso che riguardano importanti crediti di imposta godibili a seguito degli investimenti realizzati e sostegni finanziari ai relativi progetti avviati dalle imprese finalizzati a generare incremento nell’area della ZES Unica.

Tra le semplificazioni amministrative presiede l’autorizzazione unica per l’avvio delle attività produttive e il riconoscimento, a tutto il 2026, dell’anzidetto credito di imposta, previsto nella misura massima consentita dalla Carta degli aiuti a finalità regionale 2022-2027 notificata all’UE (di gran lunga più consistenti di quella scaduta 2014-2020), operante a fronte dell’acquisizione di beni nuovi strumentali alla produzione. Tali benefit erariali saranno differenziati, maggiori per Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, medi per Basilicata, Molise e Sardegna, più bassi per l’Abruzzo

Autonomia nella programmazione e condizioni diseguali tra Regioni ordinarie e a statuto speciale

La costituzione della Zes Unica pone tuttavia la necessità di una considerazione, che è primaria per il suo buon esito. Essa riguarda le attività che ciascuna Regione dovrà svolgere in termini di definizione delle proprie politiche, garanti della rispettiva autonomia e – per quanto riguarda la Sardegna e la Sicilia – della loro specialità statutaria, e dei limiti che imporrà il progetto di sviluppo unitario della Zes Unica alla loro programmazione ordinaria. Un evento che, così come se ne discute di sovente, sembra assumere sempre di più la previsione di un acconto alla costituzione di una macro-Regione del Mezzogiorno. Una osservazione che assume però una maggiore preoccupante importanza per la velocità del suo esordio, prevista per l’inizio del prossimo anno, e la brevità del godimento relativo, peraltro in netta coincidenza con gli interventi del Pnrr, dei quali invero si sa poco o nulla. Al riguardo, un problema sarà quello di affrontare il tema delle gare già in via di perfezionamento da parte delle vecchie Zes regionali o comunque di loro interessamento (si veda NT+Enti Locali&Edilizia del 16 novembre scorso).

Un altro tema da affrontare, e presto, sarà quello di riconsiderare la previsione applicativa della Zes Unica con quella attuativa del regionalismo differenziato, che potrebbe offrire l’occasione alle anzidette Regioni ordinarie di ragionare su una rivendicazione comune delle materie soggette a differenziazione in modo da raggiungere una sorta di omogeneità legislativa con quelle a statuto speciale. Una necessità, questa, per dare più legittimazione al Ponte sullo Stretto da parte della Regione Calabria.

Quanto alle previsioni occupazionali ad hoc risultano interessanti: circa 2.500 unità, di cui 71 al Dipartimento per le politiche di coesione di Palazzo Chigi e 266 a tempo determinato, a fronte delle quali insorge qualche sospetto sulla idoneità delle procedure assunzionali. (ej)

(Ettore Jonio è avvocato, professore all’Unical, editorialista de Il Sole 24 Ore)
[Courtesy Il Sole 24 ore – Norme e Tributi]

AUTONOMIA, TRA L’INDIFFERENZA E LA NOIA
I CALABRESI IGNORANO I PROBLEMI FUTURI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Ormai da oltre due anni il dibattito sull’opportunità di normare, in conseguenza della riforma del Titolo V della Costituzione, voluto colposamente dal Pd, le autonomie differenziate, richieste da alcune Regioni settentrionali,  è stato intenso e continuo.    Soprattutto docenti universitari, politologi, giornalisti, uomini di cultura, centri di ricerca nazionale importanti, hanno scritto  migliaia di pagine di quotidiani, partecipato a tantissimi talkshow, elaborato studi e ricerche molto approfondite ed esaustive,  per affrontare la problematica e capire le conseguenze economiche rispetto alle varie aree territoriali.

Da quando poi la legge è stata incardinata nella Commissione che ha prodotto un testo di  legge da portare in Parlamento, molte Istituzioni, ma anche singoli studiosi e centri di ricerca, sono state auditi portando un contributo alla conoscenza delle conseguenze che l’attuazione di una simile normativa avrebbe potuto portare nelle varie aree del Paese.

In  generale i pronunciamenti sono stati molto cauti ma anche decisi sulla non opportunità che la normativa andasse  avanti, considerata peraltro l’impossibilità finanziaria

Quella che si vuole attuare, meglio quello  che la Lega vuole far diventare legge, ma che è stata inserita nel programma di Governo, sottoscritto da tutte le quattro forze di maggioranza, riguarda una distribuzione diversa delle risorse all’interno del Paese, considerando le singole Regioni piccoli Statarelli, autonomi, con un  un loro bilancio, che  considerano il reddito prodotto dai propri cittadini un bene da gestire ed amministrare senza considerare tutte le interrelazioni che quando si è nazione possano esistere.

Versando solo una piccola parte dei loro introiti come contributo alle Regioni meno sviluppate. In realtà sì considererebbe la spesa storica legittimata, mentre oggi tale distribuzione delle risorse, che non faccia riferimento ad una spesa pro capite uguale per cittadino di qualunque parte del Paese, sarebbe anticostituzionale.

Una nuova “mini Costituente”, un nuovo Comitato tecnico scientifico è stato costituito per occuparsi dei LEP, livelli essenziale delle prestazioni,  per determinare quali materie saranno  di competenza delle singole Regioni italiane. Il nuovo comitato é stato chiamato  CLEP, un acronimo che sta per Comitato per i Livelli essenziale di prestazione, un comitato di “saggi” che doveva  valutare i servizi che la Repubblica italiana si impegna a fornire a tutti i suoi cittadini in cambio delle tasse.

Presieduto  dall’illustre giurista, ex Ministro e Presidente emerito della Consulta, Sabino Cassese, è stato abbandonato quasi subito da alcuni dei più prestigiosi componenti, che  hanno evidenziato con le loro dimissioni l’impossibilità tecnica economica di arrivare all’approvazione  della normativa in contemporanea con l’attuazione dei LEP.

Gli incontri relativi alla legge si sono moltiplicati. Si sono pronunciati anche molti Consigli comunali contro questa normativa ed è stata fatta una raccolta di firme, guidata dal professore emerito costituzionalista Massimo Villone, per un’iniziativa di proposta di legge popolare contro l’autonomia che ha raccolto quasi 100.000 firme, anche se ne sarebbero bastate 50.000.

Bene tutto questo attivismo da parte dell’intellighenzia colta meridionale non ha trovato molto riscontro nelle popolazioni, che rispetto ad un cambiamento così radicale ed al pericolo che le risorse per avere gli stessi diritti di cittadinanza esistenti nelle parti ricche del Paese possano, se non diminuire pesantemente, rimanere a livelli tali da non consentire l’adeguamento e l’aggiustamento al rialzo del diritto alla mobilità, ad una buona sanità alla scuola a tempo pieno e ad una formazione adeguata, é rimasta pressoché indifferente, quasi che si parlasse di problematiche che non la  riguardavano.

Gli stessi quotidiani meridionali o meridionalisti, tranne alcuni meritevoli come il Quotidiano del Sud, hanno dedicato all’argomento articoli assolutamente minori malgrado la normativa, a detta di tutti, tranne poche posizioni direttamente interessate di controparte, peggiori la distribuzione già oggi negativa per il Mezzogiorno della spesa storica.

Perfino le forze politiche di maggioranza, che dovrebbero essere particolarmente preoccupate per i loro territori, hanno aderito in Conferenza Delle Regioni all’ipotesi formulata dal ministro Calderoli, come quei capponi che festeggiano l’arrivo del Natale.

Tale lontananza da parte dell’opinione pubblica meridionale, rispetto alle problematiche di sopravvivenza che le riguarda, dimostra una mancanza di consapevolezza dei diritti collettivi. Forse poiché rifugiati da sempre a cercare soluzioni individuali, che siano quelle della raccomandazione per avere un’occupazione o anche di programmare il proprio trasferimento in modo da far si che visto che la montagna non va a Maometto ci si trasferisca verso la montagna sacra del Nord.

Cioè considerato che i diritti di cittadinanza nel Mezzogiorno sono di scarso livello, invece di lottare perché vengano migliorati, adottare la soluzione che sembra più semplice cioè spostarsi laddove essi sono garantiti a livelli migliori. Soluzione per abbandono potremmo chiamarla. (pmb)

(courtesy Il Quotidiano del Sud / L’Altravoce dell’Italia)

CALABRIA, VIOLENZA SULLE DONNE: TROPPI
REATI SPIA: SERVE PREVENIRE, NON CURARE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – La giornata internazionale contro la violenza sulle donne trova, anche in Calabria, una situazione alquanto inquietante. Difatti, pur in presenza di un elevato numero di casi di violenza, tutto lascia supporre che siano ancora moltissime le donne che non denunciano maltrattamenti e violenze soprattutto in ambito familiare. La nostra regione è sopra la media nazionale per i “reati spia” quali stalking e maltrattamenti contro familiari e conviventi e per i femminicidi; mentre è sotto la media nazionale per il reato di violenze sessuali.

Secondo i dati Istat sugli accessi ai pronto soccorso per motivi di violenza la Calabria è tra i più bassi indici di incidenza d’Italia, ma, secondo la stessa nota Istat, i dati della Calabria non sono correttamente pervenuti. L’indice di femminicidi (0,33), superiore a quello medio italiano, va considerato come un indicatore importante sia della diffusione del fenomeno e sia della insufficienza del sistema di prevenzione, sostegno e protezione della donna e dei figli/e.

È il quadro sconfortante emerso nel corso degli Stati Generali sulla violenza di genere, svoltosi nei giorni scorsi in Consiglio regionale. Ginestra è stato il titolo dato all’evento, teso a significare il concetto chiave della resilienza e del coraggio delle donne che si affrancano dalla morsa maschile.

Lo stesso presidente del Consiglio regionale, Filippo Mancuso, nel suo messaggio di apertura ha ribadito la necessità di «interventi preventivi e immediati, soprattutto quando si percepiscono segnali di pericolo» per fronteggiare la violenza sulle donne.

«Troppe volte le donne denunciano – ha detto – e le denunce vengono sottovalutate o si interviene a dramma consumato. Le leggi devono essere severe, ma anche efficacemente applicate. C’è bisogno che le Istituzioni valutino costantemente l’efficacia delle politiche e dei servizi messi in atto, perché solo attraverso una valutazione continua possiamo migliorare le nostre risposte».

Per Mancuso, poi, il testo di legge approvato in Senato «è un ottimo segnale, perché si individuano risorse destinate alla formazione di tutti i soggetti che sono coinvolti nelle dinamiche della violenza sulle donne, agendo anche sulla dimensione culturale, in un’ottica di prevenzione della violenza che risalga alla radice del problema».

«L’Italia – secondo l’indice di uguaglianza di genere 2023 dell’EIGE/ – ha recuperato terreno da molti punti di vista – ha proseguito il presidente del Consiglio regionale – ma contro la violenza sulle donne resta ancora molto da fare. I dati, o se vogliamo ‘numeri della vergogna’,  in possesso del Ministero dell’Interno sulla violenza alle donne sono allarmanti. Anche la Calabria, in queste tragiche statistiche, conta le sue vittime».

«Secondo il Viminale dal 2020 ad oggi si contano 17 femminicidi nella regione – ha detto ancora – di cui gli ultimi due nel 2023. E poi ci sono le violenze sessuali che contano numeri importanti, senza riferirsi al cosiddetto ‘numero oscuro’ rappresentato dalla miriade di episodi di soprusi e violenze che subiscono le donne e che non vengono denunciati alle autorità per paura, pudore, sudditanza. Ma che chiariscono quanto sia diffuso in Calabria un fenomeno che riflette il retaggio arcaico che vuole la donna succube del maschio».

Mancuso, infine, ha ribadito la disponibilità «del Consiglio regionale a mettere a disposizione, in questa battaglia di civiltà, le proprie prerogative legislative”, ma auspica “che ogni impegno su questo fronte possa trasformarsi in azioni tangibili».

«Come il ‘Protocollo d’intesa’ sostenuto da questa Presidenza – ha ricordato – da sottoscriversi nei prossimi giorni fra l’Aterp (Azienda per l’edilizia residenziale pubblica della Regione) e l’Osservatorio del Consiglio, per offrire soluzioni alloggiative alle donne vittime di violenza e ai loro figli, prevedendo la loro collocazione e il recupero di una quotidianità lontana dagli abusi. L’obiettivo è mettere a sistema un percorso virtuoso, per scongiurare tragedie familiari e dare continuità all’azione a tutela delle donne. Dobbiamo esigere un impegno deciso da parte di chi ha il potere di fare cambiamenti significativi».

«Dobbiamo realmente tendere la mano a queste donne che non hanno il coraggio – ha ribadito – i mezzi e spesso neanche la necessaria sensibilizzazione per dire basta alla violenza. È un dovere verso i nostri bambini, perché i maschietti non crescano come potenziali assassini né le femmine come vittime predestinate. Essere donna non può diventare una malattia mortale».

«Abbiamo voluto un grande laboratorio, con un orizzonte nazionale, capace di mettere a frutto esperienze, progetti e idee, per quanto ambiziosi. Se non si comincerà a lavorare in seria sinergia investendo sulla parità di genere, sull’educazione emotiva e sentimentale, coinvolgendo così come stiamo facendo oggi, il territorio, le scuole, le istituzioni, i mass-media, continueranno ad esserci vittime predestinate di uomini violenti», ha dichiarato la coordinatrice dell’Osservatorio regionale sulla violenza sulle donne, Giusy Pino.

 La sessione del mattino ha visto l’attuazione di 3 focus group, moderati per l’Osservatorio dal dott. Antonio Goiello, dalla dott.ssa Anna Briante e dall’avv. Giusy Spinella, e la larga partecipazione di esperti nazionali ed addetti ai lavori, dei Centri Antiviolenza e dei funzionari regionali. Gli esiti dei lavori hanno portato ad un’analisi di contesto e monitoraggio del fenomeno, all’individuazione di proposte sui modelli culturali da adottare per contrastare i diversi tipi di violenza agita sulle donne e alla mappatura degli strumenti esistenti e dei benefici economici per favorire l’autonomia e l’empowerment delle donne.

La sessione pomeridiana dei lavori ha visto inoltre la realizzazione di una tavola rotonda, condotta dall’avv. Lucia Lipari, componente dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere, che ha anticipato la sigla di un imminente protocollo d’intesa tra il Consiglio regionale, l’Osservatorio e l’Aterp, finalizzato allo sviluppo di azioni condivise e mirate al sostegno delle donne vittime di violenza e alla loro prole attraverso la concessione di unità abitative di residenza pubblica.

Nel corso dell’attività avviata da un testo in ricordo di Giulia Cecchetin letto da Maria Milasi e scritto da Lucia Lipari, si sono intervallati numerosi interventi di spessore, dal procuratore della Repubblica Giovanni Bombarbieri e il procuratore presso il tribunale dei minorenni reggino, Roberto Di Palma, da remoto la senatrice Susanna Donatella Campione della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, dal sindaco di Catanzaro Nicola Fiorita, la dott.ssa Vittoria Doretti per il Ministero della Salute, la dott.ssa Elisabetta Franzoia, responsabile pari opportunità Orfani di femminicidio, Monica Pietropaolo Pres. Ass. “Dai un pugno alla violenza”, dir. nazionale INPS, la prof.ssa Francesca Cuzzocrea per l’Università Magna Graecia, la presidente dell’osservatorio regionale per le discriminazioni sul lavoro, Ornella Cuzzupi, i garanti regionali Luca Muglia, Antonio Marziale e Anna Maria Stanganelli, la dott.ssa Daniela De Blasio per la Commissione Pari Opportunità regionale, il presidente di Confcommercio Lorenzo Labate.

Ornella Cuzzupi, ha ricordato come «questo Osservatorio è nato per rappresentare un punto di riferimento del mondo del lavoro calabrese, ai cui cambiamenti bisogna adeguarsi, facendo leva con l’informazione e la formazione delle aziende, per superare certe disdicevoli pratiche che ancora esistono, e vanno dagli ostacoli agli avanzamenti di carriera fino al licenziamento».

«Azioni – ha aggiunto – spesso nascoste dietro un muro d’omertà… le discriminazioni possono celarsi persino dietro alcuni incidenti sul lavoro”.  L’osservatorio ha di recente iniziato una collaborazione con l’Unar (ufficio nazionale contro le discriminazioni che fa capo alla presidenza del consiglio), una bozza di protocollo d’intesa mirata a contrastare in modo congiunto la discriminazione negli ambienti produttivi, portando la Calabria all’attenzione di palazzo Chigi».

La presidente della Commissione Legalità del Comune di Cosenza, Chiara Penna, intervenendo su delega del sindaco Franz Caruso, ha ribadito la necessità di «fare rete  per proporre azioni concrete e, soprattutto, per agire in via preventiva favorendo l’indipendenza economica delle donne, causa spesso di accettazione di stili di vita che favoriscono contesti maltrattanti».

«È questo quello che in soli due anni, su volontà precisa del sindaco, Franz Caruso, abbiamo cominciato a fare a Cosenza, ottenendo i primi risultati positivi», ha ricordato Penna, parlando in particolare della partecipazione «al tavolo tecnico “Empowerment ed imprenditoria femminile-Strumenti esistenti, benefici e modelli economici per favorire l’autonomia” – dove ho esposto l’esperienza  importantissima dello sportello spazio donna».

«Un progetto proposto dall’assessore Pina Incarnato, su cui ho lavorato anche io insieme all’assessore Veronica Buffone, avviato nel maggio 2022 con l’obiettivo di agevolare i percorsi di autonomia ed emancipazione delle donne in condizione di vulnerabilità, ovvero vittime di violenza economica. In questi mesi l’attività di empowerment dello sportello a sostegno delle donne che vivono una situazione di violenza economica, portata avanti in collaborazione con Spazio Donna Cosenza, gestito dal Moci Cosenza Aps e We World onlus, ha fatto emergere una forte richiesta di aiuto da parte di donne con varie difficoltà, non riconducibili immediatamente ad atteggiamenti di violenza psicologica e di prevaricazione perché spesso camuffati da comportamenti “culturalmente accettati”. La prevaricazione e la sopraffazione psicologica ed economica, infatti, sono forme infide di violenza di genere che occorre combattere per debellarle». (ams)

 

L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA IN ARRIVO
ULTIMA CHIAMATA PER I POLITICI DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «Dietro quel Ddl, bocciato ripetutamente da tutti gli esperti che si sono avvicendati nelle audizioni in commissione Affari costituzionali al Senato, c’è una scriteriata architettura leghista partorita dal ministro agli Affari regionali».

Così ieri Claudio Marincola sul Quotidiano del Sud, in modo caustico, definiva la grande esigenza leghista di arrivare, al di là di qualunque logica, all’approvazione del DDL in Commissione. 

 E malgrado le pie intenzioni di Forza Italia e di Antonio Tajani, manifestate all’ombra dell’Etna, si arriverà alla sua approvazione, perché dietro il ricatto di una parte della Lega, quella che fa riferimento a Luca Zaia, vi é una forza parlamentare consistente. 

Sono infatti 95, tra deputati e senatori, i politici del Carroccio eletti in questa legislatura e che li rendono indispensabili per la tenuta della maggioranza. É il motivo per il quale la loro rappresentanza nel Governo, in posizioni fondamentali, é così ampia. 

Infatti oltre ad avere la terza carica dello Stato, con la presidenza della Camera a Lorenzo Fontana, è stata affidata la Vicepresidenza del Consiglio e il Ministero delle Infrastrutture a Matteo Salvini, il Ministero dell’Economia e delle Finanze a Giancarlo Giorgetti, a Roberto Calderoli agli Affari Regionali e le Autonomie e poi ad Alessandra Locatelli, il ministero  per le disabilità, e a Giuseppe Valditara, il ministero dell’Istruzione e del Merito. 

Possiamo dire che oggi la Lega ha in mano molti dei ministeri fondamentali, che hanno competenza per le questioni più importanti riguardanti il nostro prossimo futuro: dal ponte sullo stretto di Messina all’autonomia differenziata. 

Di contro gli altri partiti nazionali devono fare i conti con le sollecitazioni di raggruppamenti interni nei quali sono rappresentati tutti. Infatti il Pd si è ritrovato a portare avanti la modifica del Titolo V per inseguire le esigenze del partito in Lombardia e Veneto, che si vedeva messo all’angolo dalla Lega; Stefano Bonaccini si é ritrovato in passato a sostenere le stesse ragioni di Fontana e Zaia sulle autonomie, perfino Eugenio Giani, Presidente della Toscana, ovviamente rema più a favore di interessi delle regioni più ricche. 

I rappresentanti al Parlamento delle Regioni meridionali sono invece distribuiti nei partiti nazionali, nei quali spesso contano poco, e nei quali  sono costretti ad atteggiamenti e comportamenti ascari per evitare di essere esclusi nelle successive tornate elettorali. 

Per cui si assiste a Presidenti delle regioni meridionali del Centro-destra che votano compatti in conferenza delle Regioni a favore delle autonomie differenziate, nascondendosi dietro il dito dell’attuazione, chiaramente impossibile, dei Lep. Tranne a stranirsi, come ha fatto Roberto Occhiuto, quando le dichiarazioni sulla mancanza di legame temporale tra Autonomia e Lep viene dichiarata in modo inequivoco dal Ministro.

Per cui a difendere le ragioni del Sud non rimangono che pochi gruppi, guidati da intellettuali, come Massimo Villone o la Svimez, che continuano a voler dimostrare che é impossibile che l’agnello sporchi l’acqua al lupo che sta sopra. 

Pensando in molti che il tema sia quello della spiegazione tecnica e cercando di contrastare le dichiarazioni, assolutamente in mala fede, che affermavano non ci sarebbe stata una sottrazione di risorse alle Regioni più povere, sapendo perfettamente di fare riferimento ad una spesa storica che ogni anno sottrae, rispetto a un calcolo fatto con la spesa pro capite uguale, circa 60 miliardi al sud del Paese. 

La verità é che la Lega sta mettendo sulla bilancia la sua spada pesante, pronunciando metaforicamente la frase “Guai ai vinti”. 

La locuzionedi Brenno, capo dei Galli dopo il sacco di Roma, divenuta proverbiale in molte culture e che viene più frequentemente utilizzata come amaro commento dinanzi ad una crudele sopraffazione di chi ha di fronte un avversario non più in grado di difendersi.

D’altra parte é un approccio che va avanti dall’Unita d’Italia. Dimostrazioni palesi? L’autostrada del sole che si ferma a Napoli, l’alta velocità che arriva a Salerno, i mancati diritti di cittadinanza nella sanità, nella formazione, nella mobilità, il processo emigratorio che obbliga 100.000 persone ogni anno a trasferirsi, lo scambio salute lavoro avvenuto nelle raffinerie di Priolo o di Milazzo o all’Ilva di Taranto, lo scippo della Intel recente, la finta alta velocità progettata tra Catania e Palermo, che percorre i 200 chilometri in due ore. 

D’altra parte la presenza di una democrazia incompiuta al Sud, sulla quale una classe dominante estrattiva locale  domina, approfittando della scarsa consapevolezza di un elettorato stanco, assente, spesso comprato  con lusinghe vane, perché spinto dal bisogno, e che  scambia i propri diritti negati con le cortesie dispensate dal potente di turno, fanno permanere una situazione di stallo che ogni tanto cerca il San Gennaro o la Santa Rosalia, o un Deus ex machina, come il Berlusconi del 60 a zero in Sicilia, che lo salvi. 

E che continua a fidarsi malgrado tutto anche di chi non é stato proprio trasparente rispetto ai rapporti con la criminalità organizzata. Per la quale forme di autonomia spinta, invece che servire a conseguire meglio il bene comune, sono strumentalizzate per un assalto alla diligenza sempre più violento. 

Uscire da una situazione talmente complessa con gli strumenti democratici sembra impossibile, mentre il Governo avendo chiaro il problema sta accentrando moltissimi degli interventi, dal Pnrr alla Zes unica, in un processo di commissariamento che spesso diventa una soluzione peggiore del male, come si è visto con la sanità calabra. 

 Mentre un sentimento di scoramento e di rifiuto di questa logica si manifesta sempre più spesso. Nella festa al “Maradona” per il Napoli che ha vinto il titolo non è passato inosservato quel bandierone che aveva l’icona tricolore capovolta, accompagnato da due messaggi: bottino di guerra e campioni in Italia. 

Intanto  movimenti indipendentisti e anti unitari, sotto traccia, arruolano nuovi adepti. Sottovalutare tutto questo sarebbe superficiale. Nulla é per sempre e il nostro Paese unito ha soli 160 anni, mentre l’ombrello europeo può consentire ipotesi in tempi passati non percorribili. Per questo non bisogna tirare troppo la corda, perché potrebbe spezzarsi. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud  – L’Altravoce dell’Italia]

L’OCCASIONE DEL TURISMO DELLE RADICI
TROVA IL TERRENO IDEALE NELLA LOCRIDE

di ARISTIDE BAVATurismo delle radici: una grande occasione per i territori come questo della Locride, ricco di piccoli centri interni in gran parte abbandonati proprio dai migranti di prima generazione. La riscoperta dei luoghi di origine, della cultura, dei modi di essere,  dell’enogastronomia, delle tradizioni sono, infatti, gli elementi giusti capaci di incidere in modo significativo sul tessuto sociale ed economico delle piccole comunità della Calabria.

Ormai è chiaro che il turismo delle radici si porta appresso una forte nicchia di mercato, e certamente un territorio come quello calabrese, ha tutte le carte in regola per porsi come punto di riferimento di questo settore. Non a caso ci si è accorti dell’importanza di questo tipo di turismo. L’anno 2024, infatti, è stato dichiarato proprio l’anno del turismo delle radici, ovvero quel tipo di turismo per cui gli italiani emigrati nel mondo e i loro discendenti (circa 60/70 milioni di persone) vogliono tornare a visitare i luoghi natii.

Per i piccoli comuni della Calabria, e per la provincia reggina e la Locride in particolare, è certamente molto importante approfittare di questa occasione e cercare di promuovere quanto più è possibile questi luoghi ancora pieni di fascino. Luoghi che possono, adesso, diventare parte integrante del turismo moderno. Sono moltissimi gli emigrati, o i loro discendenti, che vogliono scoprire o riscoprire i luoghi nativi dei loro antenati. Secondo un apposito studio fatto dagli esperti del settore le tipologie delle persone che appartengono a questo particolare tipo di turismo sono, principalmente, quattro. 

Si parte dal cosiddetto “nostalgico”, ovvero un migrante di prima generazione che ha un legame molto stretto con il suo luogo d’origine e con il territorio circostante. Parla bene l’italiano, o più spesso il dialetto, e si sente il classico  italiano all’estero. Per lui il turismo delle radici è un desiderio di condividere con la famiglia la propria storia. Nel suo viaggio riesce ad essere anche una buona guida e ancora sa dove andare e come muoversi. C’è, poi, chi viene spesso in Italia per motivi lavorativi. Si sente italiano. Organizza da solo i propri viaggi anche con la famiglia. È una persona che ha una buona influenza nella propria comunità di adozione e che è un vero e proprio testimonial di italianità all’estero. Poi c’è l’ Italiano di seconda generazione, che non si definisce solo italiano ma italo-americano, o italo-argentino, o italo-brasiliano, o spesso, soprattutto in Calabria, e nella Locride in particolare, è anche Italo-canadese.

Questo tipo di turista approfondisce le sue radici come ricerca di identità. Il viaggio in Italia significa rivedere i luoghi di origine, i borghi, le case, i cimiteri dove sono sepolti i propri antenati. Questo turista ha bisogno di percorsi programmati e di vivere esperienze di italianità. Infine c’è l’italiano nato all’estero che desidera venire in Italia per fare esperienze immersive non necessariamente legate alla volontà di riscoprire le proprie radici genealogiche. Fa parte di un gruppo con un profilo più turistico, che non si sente italiano, ma che desidera fare esperienza di italianità a lui veicolate, spesso, tramite filmografia e, più recentemente attraverso i social.

Anche per questo, il territorio calabrese dovrebbe organizzarsi seriamente per questo tipo di turismo. Un turismo  che dovrebbe  puntare, soprattutto,  all’investimento nei borghi antichi di cui il territorio e ricco e dove si possono proporre un vasto raggio di offerte turistiche mirate soprattutto al coinvolgimento del grande numero  di oriundi italiani sparsi nel mondo.

E chi, meglio della Locride, ad esempio, che ha vissuto in maniera fortemente “pesante” il dramma dell’emigrazione negli anni del dopoguerra può vantare numeri molto rilevanti di emigrati o loro discendenti, dislocati in tanti Paesi, che sarebbero molto propensi a riscoprire i luoghi delle loro origini o dei propri avi?

È chiaro, però, che bisogna dire basta all’improvvisazione e attivare una seria programmazione progettuale che con tutti gli accorgimenti necessari. Ciò potrebbe essere veramente dirompente per il territorio e diventare  un potenziale incredibile per la qualificazione e la riscoperta degli stessi borghi antichi perché si porterebbe appresso effetti positivi a cascata in diversi comparti. E con essi economia e occupazione. (ab)