IL TRIONFO DELLA VICEPRESIDENTE PRINCI
MA HANNO VOTATO SOLO 4 ELETTORI SU 10

di SANTO STRATI – Con 84mila preferenze, la vicepresidente Giusi Princi trionfa e conquista il seggio di Strasburgo: la Regione perde un ottimo elemento, ma guadagna una presenza importante e significativa per l’Europa. Il consenso, inaspettato per l’ampiezza, premia qualità e competenza (merce rara di questi tempi) e non offre spazi a valutazioni discrezionali che prescindano dal merito. Se quando venne nominata VicePresidente da Occhiuto, le voci malevole la indicavano come “cugina di Cannizzaro” (come se ci fosse una sorta di inevitabile nepotismo), oggi, con un sorriso, si può dire di Cannizzaro che è “cugino” della VicePresidente. In altri termini, l’ex preside del liceo Scientifico Leonardo da Vinci, che ha inventato – tra le tante cose – il liceo biomedico che prepara l’accesso ai ragazzi che intendono studiare Medicina ha calcato le scene da protagonista conquistando simpatie e consenso.

È un segnale importante per un partito (Forza Italia) che in moltissimi davano per spacciato e che invece da queste elezioni rivela di avere una vitalità incredibile: significa voglia di centro, tradotto dal sentiment della gente, significa che contro gli estremismi e gli infantilismi di una politica sempre più distante dal territorio, c’è chi – da non politica – ha saputo non solo tessere una tela di relazioni e gradimento per le tante iniziative intraprese e le scelte di cultura, ma anche mostrare che la “politica del fare” è possibile e premia. Con buona pace di un’opposizione che si arrampica sugli specchi invece di produrre proposte alternative o complementari col solo fine del bene comune dei calabresi.

Non tutto quello che la Princi ha fatto merita un plauso incondizionato – sia chiaro – però un merito glielo deve riconoscere anche l’opposizione: la disponibilità al dialogo. La tentazione di superare schemi prefissati e guardare ai risultati, con l’ovvia predilezione per il merito.

Più volte si è detto che una terra dimenticata e trascurata come la Calabria avrebbe bisogno di intese trasversali, oltre lo schematismo dei partiti: bisogna rimboccarsi le maniche, dimenticando l’appartenenza politica, pur nel rispetto delle singole posizione e idee, e costruire insieme proposte e favorire realizzazioni a tutto vantaggio della comunità, afflitta, peraltro, da un astensionismo inarrestabile (hanno votato solo 4 elettori su 10 in Calabria).

La Calabria a questa tornata europea manda quattro suoi figli: dal prof. Pasquale Tridico, già Presidente dell’INPS mandato via dalla Meloni mentre stava rivoluzionando (in bene) l’Istituto di previdenza, che ha raccolto oltre 118mila preferenze, a Mimmo Lucano, già sindaco di quella Riace simbolo di accoglienza, con 76mila preferenze, fino all’europarlamentare uscente Denis Nesci che di preferenze ne ha prese 74 mila. Quattro pedine importanti per l’Europa che verrà e per la Calabria di domani e di dopodomani ma, soprattutto, degli anni a venire. (s)

DOPO LE ELEZIONI, QUALE EUROPA SERVE
PER LO SVILUPPO DI TUTTO IL MERIDIONE

di PIETRO MASSIMO BUSETTAQualche anno fa Giorgia Meloni affermava che Roma avrebbe tutte le carte in regola per essere capitale d’Europa. Ma la realtà è invece che il centro dell’Unione si è spostato verso Nord. 

Mentre i centri decisionali dell’Europa sono sempre più in realtà Berlino e Parigi, più che Bruxelles e Strasburgo. Ma forse per il Mezzogiorno che l’asse si sposti verso Nord è pure più conveniente, considerati i risultati acquisiti da 162 anni di governo romanocentrico.  

E infatti al Sud serve una governance meno nordista e disattenta alle sue problematiche. Al di là delle colpe degli scarsi  risultati acquisiti, non vi è dubbio che siamo di fronte a un fallimento delle azioni per il Sud. Di fronte a un Paese spaccato in due, economicamente e socialmente, che si avvia, con l’autonomia differenziata, anche verso una spaccatura normata costituzionalmente. 

Per questo la speranza che rimane è quella di più Europa. Perché accada quello che non si è verificato, e cioè quello  che potrebbe sembrare semplicissimo, di riuscire a dare i diritti di cittadinanza a una popolazione di 20 milioni di abitanti. 

Oggi che il Mediterraneo è ridiventato centrale, l’interesse sull’area diventa sempre più evidente, ma anche il pericolo che venga sfruttato soltanto senza che sul territorio rimanga nulla. 

Il concetto propalato di batteria del Paese va in questo senso. Pale eoliche che deturpano le bellissime colline di vigne, impianti solari che sostituiscono alle verdi colline grigie distese metalliche, impianti di rigassificazione a fianco delle Valle dei templi come nel passato la raffineria di Gela a fianco delle mura puniche. E in cambio il nulla in termini di occupazione. 

Forse l’Europa, ormai bloccata ad Est dalla guerra con la Federazione Russa, può diventare un interlocutore più attento e meno predatorio. 

Ma in realtà cosa chiede il Mezzogiorno alla Europa che sta rinnovando il suo Parlamento. La prima richiesta riguarda il controllo sulla destinazione dei fondi strutturali. Troppe volte essi sono stati utilizzati in Italia per sostituire la dotazione delle risorse ordinarie. 

Anche la destinazione dei fondi del Pnrr, che sembrava avesse l’obiettivo di ridurre i divari economici e quindi dovessero essere destinati ad aumentare la base produttiva, visti gli indicatori utilizzati per la distribuzione delle risorse, tasso di disoccupazione, popolazione complessiva e reddito pro capite, in realtà in buona parte andranno a finanziare l’equiparazione dei diritti di cittadinanza, perdendo di vista il vero problema del Sud che è il diritto al lavoro. Diritti che dovevano essere finanziati con le risorse ordinarie. 

Una seconda richiesta riguarda la sostituzione del disimpegno automatico con la sostituzione dei poteri, in modo da evitare la penalizzazione dei destinatari degli interventi.

È l’approccio utilizzato con il Pnrr che dovrebbe essere esteso a tutti i fondi strutturali. L’opportunità di collegare la erogazione delle risorse al raggiungimento di obiettivi meno aleatori e più quantitativi, come incremento del Pil e aumento del numero di occupati, è un terzo obiettivo. 

Per troppo tempo si è giocato con approcci del tipo sviluppo dal basso o investimenti a pioggia che, più che avere obiettivi di bene  comune, servivano   a soddisfare le clientele fameliche di una classe dominante estrattiva, affamata di risorse pubbliche. Un altro obiettivo importante per non penalizzare i territori delle realtà industrializzate, dove esistono aree a sviluppo ritardato, come in Italia,  é una armonizzazione europea della imposizione fiscale. Perché mentre una tassazione più favorevole può essere adottata più facilmente da Paesi piccoli come l’Irlanda, diventa più complesso per Paesi grandi che se vogliono adottarla solo per aree limitate rischiano di incorrere nell’accusa di concedere aiuti di Stato.      

Un’altra richiesta sarebbe quella di incrementare più possibile gli accordi di cooperazione con il Nord Africa facendo diventare Napoli e Palermo gli avamposti culturali del rapporto con i Paesi Arabi, considerato peraltro gli interscambi che nei secoli hanno caratterizzato le due sponde. 

Magari istituendo una Agenzia Europea per promuovere tali collegamenti e incrementando  i rapporti  nel settore della formazione, della sanità, della collaborazione ai grandi progetti infrastrutturali. 

Se l’idea è quella di evitare di continuare nei rapporti di colonizzazione predatoria, un simile intervento potrebbe essere non solo opportuno ma anzi indispensabile. E certo è più facile che tali collaborazioni possano localizzarsi in realtà frontaliere piuttosto che a Bruxelles o Helsinki. 

Se la vocazione mediterranea dell’Europa vuole diventare azione e non solo sfoghi di vento è necessario che il Mediterraneo ridiventi un lago che unisce e non un cimitero che divide. 

Ma una richiesta su tutte va soddisfatta; quella di chiarire  alla Commissione che i Paesi in Italia sono due, economicamente e socialmente. Allora molti blocchi che sono legittimi quando si parla di Francia di Spagna e oggi persino di Germania, per l’Italia, ancora profondamente divisa in due parti,  non devono valere. 

E per non rimanere nel vago e dimostrare l’assunto, basta verificare con cluster adeguati come le regioni meridionali, al di là di piccole differenze, si raccolgono per quanto attiene la maggior parte degli indicatori, come tasso di disoccupazione, reddito pro capite, export  pro capite, presenze turistiche per km quadrato, km di alta velocità, numero di posti in asili nido per popolazione, e potrei continuare per molte altre variabili, nello stesso nucleo. 

Cosi come accadrebbe per il Centro Nord. Situazione analoga non esiste in nessun altro  Paese europeo. Se viene accettato tale principio di conseguenza potranno essere adottate misure differenziate,  che per altri Paesi sarebbero inconcepibili. 

L’Europa ha un interesse estremo che le differenze territoriali diminuiscano tanto da finanziare con il debito comune il Pnrr, ma lo ha in particolare quando riguarda un territorio che se fosse uno Stato indipendente sarebbe il quinto per popolazione. Dopo solo Germania, Francia, Spagna, Italia del Nord e Polonia.  (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

EUROPA, UN VOTO IMPORTANTE E DECISIVO
MA RISCHIA DI VINCERE L’ASTENSIONISMO

di SANTO STRATI – Anche se i partiti, in via preliminare, hanno volutamente dato una valutazione modesta sull’importanza del voto europeo a cui sono chiamati ben oltre 370 milioni di elettori, in realtà questa consultazione ha particolare rilevanza. Soprattutto per il nostro Paese.

In primo luogo, al contrario di quanto sostiene Giuseppe Conte (M5S), è un test importante per il Governo e – se vogliamo – una misura precisa di distacco tra la Meloni e la Schlein. Difatti, stasera, quando cominceranno gli exit-poll e domani quando avremo le cifre del voto, sarà evidente che il “referendum” destra-sinistra avrà vincitori e vinti.

Il vero problema è, in realtà, un altro. Qualcuno ha sentito parlare di Europa durante questa campagna elettorale? Sì, vagamente, ma soprattutto in chiave partitica con lo spettro dei sovranisti a seminare timori sul trionfo del più becero nazionalismo, quando, in realtà i cittadini avrebbero voluto ascoltare dai leader – quasi tutti impegnati in prima persona a raccattare voti (tanto nessuno, a partire da Giorgia per finire alla Schlein, passando per Tajani, Calenda, Renzi e via discorrendo) ha la benché minima intenzione di andare a Bruxelles.

Non si pensi a una presa in giro dell’elettorato, che è molto più intelligente di quello che credono i politici, e ha immediatamente capito la mossa “acchiappa-voti” dei principali player del quadro politico italiano: la gente non va a votare per tante ragioni, prima di tutto perché delusa dalla politica e stufa di promesse date e poi mai mantenute, in lotta perenne (la stragrande parte) con i soldi che non bastano più e una povertà strisciante che sta insidiando il ceto medio. Hanno un bel dire che l’inflazione si è abbassata, sotto livelli apprezzabili: andassero i nostri amministratori, governanti, ministri a fare direttamente la spesa al supermercato. Da gennaio a oggi il cittadino medio ha visto aumentare i costi del 30-40-50 % (a essere generosi, per in verità qualche volta i prezzi sono raddoppiati). E il Governo in carica – come del resto tutti i precedenti – si trova a fare i conti della serva rosicchiando ove possibile sulla pelle, però, dei cittadini-sudditi (ed elettori), ma dimenticandosi di stanare i veri evasori e tagliare le spese inutili dei tantissimi enti a  loro volta fin troppo inutili.

Non si può giocare con mancette elettorali: una social card da 500 euro, da spendere a settembre, non basta nemmeno a fare una spesa decente di un mese, salvo a tagliare anche i generi di prima necessità. Il pane costa quanto le brioches, la carne è inavvicinabile per molte categorie di pensionati, il pesce nemmeno a parlarne, per non dire poi del latte, dei pannolini dei bambini, persino degli assorbenti intimi (sui quali è ritornata l’iva “pesante”, con buona pace dei buoni propositi di una politica a favore di donne e famiglie).

Se i nostri politici leggessero il Manifesto di Ventotene che un gruppo di intellettuali antifascisti, capitanati dallo straordinario Altiero Spinelli, scrisse nel 1941 con una visione di futuro formidabile, capirebbero che è quella l’Europa che gli italiani (ma non solo loro, bensì tutti i cittadini europei) sognerebbero di avere. Non un monumento stabile alla burocrazia che penalizza produttori e consumatori con ridicole imposizioni su dimensioni, formati, prescrizioni, etc, bensì una federazione di Stati in grado di esprimere, in unità, i valori fondanti del vivere civile, ovvero pace e libertà.

Due concetti in grande affanno da due anni a questa parte: il conflitto russo-ucraino non mostra soluzioni immediate e lo stesso si può dire per la “guerra” Israele-Hamas che ha colpito e continua a colpire palestinesi (e israeleliani)inermi che hanno soltanto capito quanto vale già la parola stessa “libertà”, senza la quale nessuna pace è possibile.

E l’Europa di fronte a questi due drammi che hanno già a dismisura riempito i cimiteri di vittime civili cosa ha fatto, cosa fa, cosa farà? Sarebbe stato utile per gli elettori ascoltare dai “contendenti” idee, programmi, progetti. Invece la campagna elettorale si è svolta nella più triste sceneggiata del voto: “se non vuoi la destra al potere vota a sinistra; se non vuoi far tornare la sinistra al potere vota a destra”. Elementare, direbbe monsieur de la Palisse, scompisciandosi dalla risate. Ma non c’è stato alcun confronto serio sui temi del vivere quotidiano, sulla necessità di affrontare in maniera seria la crisi della sanità (che non è nei guai solo  in Calabria), la crisi del lavoro che non c’è (per i nostri giovani laureati che se ne vanno all’estero o al Nord, per non tornare più), la crisi degli immigrati.

La scelta – discutibilissima – di inviare in Albania a nostre spese gli sventurati che s’avventurano nel Mediterraneo, privi di un qualsiasi permesso di soggiorno è certamente contraria ai principi di accoglienza e fraternità nei confronti dei profughi che la nostra Carta costituzionale, ha previsto. E pensare che con la stessa cifra prevista per la “deportazione” si potrebbero avviare programmi di formazione e avviamento al lavoro dei migranti, il cui numero autorizzato è sicuramente inferiore ai reali bisogni del Paese.

I migranti vanno considerati una risorsa, non un problema, e invece vengono trattati – quelli intercettati prima di poggiare piede in Italia – come carne da macello. Peggio delle infelici storie di schiavitù dei secoli scorsi che aiutano solo a giustificare il senso di pena per quei derelitti del Mediterraneo, ma nulla di più.

E l’Europa cosa ha fatto? Cosa fa, cosa pensa di fare a proposito dei migranti? Al di là delle volgari idee razziste di qualche imbecille che ha persino la faccia tosta di difendere, non c’è alcun piano programmatico, alcuna visione di aiuto.

La Calabria – lo abbiamo scritto tante volte – è stata un modello di inclusione e accoglienza con l’esperienza  (mai sopportata o supportata) di Mimmo Lucano.

Restiamo, come calabresi, un modello di fraterna accoglienza e di aiuto sincero nei confronti dei disperati che tentano la sorte affrontando un Mediterraneo che è sempre più un vergognoso e non più sopportabile cimitero di migranti, ma il Governo centrale malvede questo genuino slancio di generosità e di voglia di inclusione.

L’Europa, quella che uscirà dalle urne, domani mattina, richiede una visione che non pensi soltanto al giorno dopo, ma programmi a lungo termine interventi e iniziative che facciano sentire i cittadini d’Europa, orgogliosi della loro appartenenza.

Ecco perché il voto di ieri e di oggi è importante: andiamo tutti a votare, facciamo sentire questo bisogno di rinnovamento contestando antistoriche posizioni o illusorie e disastrose promesse. La Calabria è Europa, ma l’Europa siamo noi.

TUTTI A VOTARE PER L’EUROPA: NON VINCA
L’ASTENSIONISMO MA LA PARTECIPAZIONE

di SANTO STRATI – Se, ancora una volta, il vero vincitore di una tornata elettorale sarà l’astensionismo, possiamo considerare persa una buona occasione per dare il giusto peso all’idea di Europa. Vale per tutte le elezioni (il calo dei votanti è irrimediabilmente costante) ma, in questo caso, c’è l’opportunità di mostrare che si crede nell’Unione Europea e  nel ruolo che essa deve avere di fronte ai due terribili conflitti che, in vario modo, ci riguardano, e a una visione di futuro guardi fondamentalmente ai giovani e ai loro anni futuri.

Proprio i giovani, ahimè, sono quelli che – apparentemente – mostrano il maggior disinteresse non solo verso le elezioni europee, ma persino nei confronti dell’Unione, almeno questo dicono i sondaggi: nei fatti – crediamo, invece – c’è una forte domanda di partecipazione politica e il desiderio di poter puntare a un’Europa come una reale unione di Stati anche dal punto di vista politico (e non soltanto monetario).

I due conflitti in corso hanno fatto notare in maniera evidente la mancanza di un “ministro degli esteri” europeo, in grado di esprimere una comune visione contro la guerra  (contro ogni guerra) e di assumere una funzione negoziatrice in nome e per conto di 27 Paesi.

Un’illusione, forse, ma ai nostri giovani, già delusi da una politica nazionale quasi inesistente, come facciamo a offrire una così modesta idea dell’Europa se non esprimendo – compatti – un voto che equivale al senso di partecipazione e e di fiducia. Non importa chi votate, ma andate a votare: è un segnale quello che serve all’Europa dei popoli e ai suoi futuri rappresentanti, perché prendano atto che Bruxelles non sia un posto di potere (come tanti altri) ma una cabina di regia che finalmente possa accogliere e, quando possibile, soddisfare le richieste dei cittadini di uno Stato comune europeo, che pur nelle singole e inevitabili differenziazioni esprime i valori della libertà e del viver bene che sono la base fondante dei padri costituenti di quella “Comunità” (CEE) che sarebbe poi divenuta “Unione”.

Quando, il 25 marzo 1957, venne firmato il Trattato di Roma che istituiva la Comunità economica europea e l’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica), i padri costituenti di questa grande realtà “comune” mostravano una visione che rivelava la grande fiducia nel progetto europeo.

Un’idea nata nel 1941 ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi durante il confino a Ventotene (erano fieri oppositori del regime fascista): un progetto nato dalle riflessioni sui trent’anni di conflitti, dal 1914 al 1945, che cercavano di individuare un percorso comune per i cittadini di una “nuova” Europa.

Il cosiddetto Manifesto di Ventotene (poi curato e pubblicato da Eugenio Colorni) indicava la necessità di un radicale mutamento nel paradigma europeo, all’insegna di uno slogan che poi è il titolo originale del documento: “Per un’Europa libera e unita”. Scrivevano Spinelli e Rossi già nelle prime righe il concetto ispiratore dell’Unione: “La civiltà moderna ha posto come fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita”. No al cittadino suddito (naturale condizione dei regimi totalitari) ma protagonista della vita politica, sociale ed economica del suo Paese nel nome della libertà.

È in base a questo concetto, della libertà, che il voto rappresenta la conferma della stessa libertà.

Andiamo a votare: è un diritto conquistato, consideriamolo un dovere verso le nuove e future generazioni, che – magari – potranno anche dire grazie. Non solo all’Europa, ma soprattutto a chi ci ha creduto. (s)

COESIONE SOCIALE PARTE DA CATANZARO
CHE AMBISCE A DIVERTARNE LA CAPITALE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Catanzaro vuole essere la Capitale della Coesione Sociale. E lo fa attraverso la prima edizione di Coso – Giornate della Coesione Sociale, con cui si vogliono mettere al centro il futuro di una comunità più coesa e solidale, adottando un approccio che pone al centro le relazioni e in programma oggi, al Complesso Monumentale del San Giovanni e organizzato dalla Cooperativa Kyosei.

La scelta di far partire dal Capoluogo di regione la manifestazione non è del tutto casuale, come non lo è il panel dal titolo Catanzaro Capitale della Coesione Sociale: come spiegato dal sindaco Nicola Fiorita, nel corso della conferenza stampa di presentazione, che non è solo il tutolo di un panel, ma «l’obiettivo di questa amministrazione. Aumentare la coesione sociale è un impegno costante».

Così come non è casuale la scelta del nome della kermesse: CoSo perchè incarna non solo l’acronimo delle parole coesione e sociale, ma che è anche un termine familiare che evoca un senso di mistero e meraviglia di fronte a qualcosa di ignoto. Nelle nostre vite quotidiane, spesso ci imbattiamo in oggetti o concetti che ci sfuggono, che ci sono sconosciuti o che semplicemente non riusciamo a nominare all’istante. Proprio come la coesione sociale, un concetto tanto importante quanto complesso, che non è immediatamente comprensibile.

I temi portanti di CoSo saranno la rigenerazione territoriale e lo sviluppo di comunità, che saranno declinati in tre plenarie, tre panel formativi con 120 presenze, in cui professionisti, esperti del settore non profit, delle istituzioni, docenti universitari che si alterneranno per condividere una riflessione collettiva sulla necessità di rendere protagoniste, coese le comunità territoriali.

«Volevamo un evento – ha spiegato la Cooperativa – che trattasse temi specifici e che lo facesse senza fermarsi alla superficie, ma calandosi nelle questioni. Un evento organizzato coinvolgendo professionisti del settore non profit, delle istituzioni e docenti universitari per confrontarsi, lavorare insieme alla comunità».

E, infatti, i temi portanti della prima edizione di Coso saranno sviluppo di comunità, rigenerazione territoriale quali strumenti di coesione sociale. Per lavorare con la comunità e non su o per la comunità.

Ma non solo istituzioni ed esperti. Largo spazio, infatti, è stato dato ai giovani perché, come ha spiegato la Cooperativa Kyosei, «il punto di vista dei giovani è importante».

A loro, infatti, è dedicata la Plenaria A, in cui una rappresentanza degli studenti dell’Istituto “E. Fermi” dirà la sua sulla Coesione Sociale, confrontandosi con Giuseppe Manzo dell’ufficio comunicazione di Legacoopsociali e Carlo Andorlini, del comitato promotore nazionale della Biennale della Prossimità.

E lo faranno basandosi sulle idee raccolte durante l’incontro con una delle tecniche che la Cooperativa ha usato per coinvolgere attivamente le persone nelle comunità.

«La cosa che mi ha colpito di più è stata la maniera in cui siamo riuscite a esprimere il nostro pensiero, poiché si è creata un’aria tranquilla e un clima amichevole. Sembrava quasi di affrontare una discussione tra amici. Ci siamo sedute tutte intorno a un tavolo. Ognuno di noi ha espresso il proprio parere su quello che è la coesione sociale, utilizzando colori, post-it. Siamo riusciti a portare sulla carta quelli che sono i nostri pensieri e credo sia una cosa molto positiva», ha raccontato Sara, una studentessa del Fermi.

Nelle plenarie, dunque, si parlerà di Pon Metro plus, delle biblioteche e dello sviluppo delle comunità. I panel dedicati al Pon Metro Città medie Sud e allo sviluppo di quartiere attraverso le biblioteche di comunità saranno facilitati da Graziano Maino e Marco Cau della cooperativa sociale Pares.

«Ciascun panel – viene spiegato – ha una durata di due ore e ha un facilitatore. Abbiamo coinvolto voci autorevoli in materia di rigenerazione territoriale e sviluppo di comunità. Con taglio pratico e modalità exploring a situation, professionisti di diversi settori (terzo settore, Pubblica Amministrazione, Università) racconteranno e si confronteranno su come promuovere una crescita equa, sostenibile e intelligente per pensare in modo nuovo le comunità e il futuro».

L’intera manifestazione sarà introdotta dall’incontro dal titolo Catanzaro, la città della Coesione Sociale. Intervengono Danilo Ferrara, presidente dell’Ordine degli Assistenti sociali della Calabria, Nicola Fiorita, sindaco di Catanzaro, Giancarlo Rafele, presidente della Cooperativa Kyosei, che si concluderà, poi, con una riflessione sugli scenari e prospettive emerse dai panel.

Una nuova prospettiva di Coesione sociale, dunque, parte dalla Calabria. O meglio, da Catanzaro, che vuole essere apripista di un nuovo metodo in cui la comunità è protagonista. (ams)

IL MEZZOGIORNO MAI PIÙ “PALLA AL PIEDE”
PER LA CRESCITA E LO SVILUPPO DEL PAESE

di PIETRO MASSIMO BUSETTA –  Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna cambierà tutto. Così Chevalley si rivolge al Principe di Salina Don Fabrizio, che non vuole accettare l’offerta del Regno di diventare senatore e che manifesta tutte le sue perplessità sul nuovo corso prospettato dai nuovi regnanti.

Era il 1860 e da poco i mille garibaldini, aiutati dalle baronie che volevano liberarsi dai Borbone e dagli Inglesi che non volevano competitori nel Mediterraneo, avevano “liberato” il Meridione d’Italia. Vi credevano invece i “ picciotti” e i “cafoni” che rimarranno delusi da promesse che non si avvereranno. 

Dopo la seconda guerra mondiale, con la sconfitta e la distruzione di molte parti del Paese e  qualche dubbio sulla correttezza della conta del verdetto, si ha la Repubblica. Un ragazzo napoletano, dopo le votazioni, chiedeva al nonno, noto monarchico borbonico, come mai avesse votato per la Repubblica. E il nonno rispose deciso: cosi ci siamo liberati dai Savoia.  

E nasce quella Repubblica fondata su una Costituzione che afferma nel suo incipit: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. 

Sappiamo come è andata. Potremmo dire che tale assunto é simile a quello della pasta con le sarde dei poveri di Palermo. Chiamata pasta con le sarde …a mare. Nel senso che le sarde non le potevano comprare e mettevano lo stesso condimento nella pasta senza le sarde. L’Italia diventa una repubblica fondata sul lavoro… all’Estero o al Nord per quanto attiene il Sud.  

Ma il discorso è analogo per tutti i diritti di cittadinanza. L’unificazione politica risale al 1860, quella economica non è ancora avvenuta. E l’approccio più recente di chi ci governa è quello di statuire che tutto questo si può costituzionalizzare con l’autonomia differenziata, che in realtà si potrebbe chiamare “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”.  

Perché la teoria del mantenere le risorse nelle Regioni che le incassano presenta molti limiti. A parte tutta la problematica del soggetto che alla fine paga le tasse vi è il grande contributo dato dal Sud alla cosiddetta locomotiva, dal piano Marshall in poi.  

In termini di risorse, concentrate tutte in una parte, destinataria di grandi interventi per esempio per l’Autostrada del Sole e l’Alta Velocità Ferroviaria, al grande apporto di 100.000 persone all’anno formate trasferite al Nord, con un costo per le Regioni di provenienza di 20 miliardi l’anno. Alla spesa storica che prevede ogni anno un trasferimento dal Sud verso Nord di oltre 60 miliardi, se l’attribuzione pro capite fosse uguale. E al contributo culturale a un Paese repubblicano che diventava protagonista della nuova Europa, voluta da Spinelli, rilanciata da Ventotene.  

Non si sono fatti tanti sacrifici, anche umani, per consentire a pochi furbetti del quartierino senza visione  di spaccare il Paese tenendo il malloppo accumulato negli anni, investito nei grandi trafori, nel Mose di Venezia, nella Tav da completare, nella infrastrutturazione complessiva fatta per consentire alla locomotiva di correre con le risorse della fiscalità generale.       

Che tanto, era nella convinzione di molti, avrebbe trainato tutto il resto. Adesso che la locomotiva si é fermata e accumula ritardi incredibili rispetto ai grandi Paesi europei qualcuno ha pensato bene di sganciare i vagoni, perché ritiene che sono quelli che rallentano la corsa, non capendo che invece serve una seconda locomotiva che spinga da dietro tutto il convoglio.  

Solo degli inadeguati possono pensare che un Paese possa competere lasciando il 40% del territorio e il 33 % della popolazione fuori dal circuito produttivo. Lo ha capito così bene la Germania che ha riversato un mare di marchi nella ex Ddr, da avviare a soluzione un problema incancrenito da decenni di comunismo. 

Lo avevano capito prima gli Stati Uniti d’America che hanno fatto diventare la California una realtà produttiva importante. E invece noi ci accontentiamo di avere una colonia interna, che poco produce e poco dà a tutto il Paese, lasciandola nella mani di una classe dominante estrattiva locale, con la quale si è stabilito un accordo scellerato che tiene il Sud in una condizione di sottosviluppo.  

Per questo la Repubblica è stata tradita, per questo i meridionali sono stati gabbati con la promessa di uno Stato nel quale essere cittadini alla pari di tutti gli altri.

Per questo è necessario un cambio di passo per completare l’unificazione del nostro Paese. Il Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale, queste cose le ha dette nell’ultimo periodo molto decisamente. Ma bisogna che se ne rendano conto anche i Ministri che spesso più che giocatori della squadra Italia sembrano appartenere a un un team virtuale che si chiama Nord. 

Adesso che il Mediterraneo è ridiventato sempre più centrale, ci si rende conto che una parte ha bisogno dell’altra, così come l’Europa ha bisogno dell’Africa. Ma non in termini estrattivi, ma per moltiplicare con la collaborazione i risultati desiderati. Riuscire a capire che il gioco può prevedere che si perda tutti o che si vinca la battaglia insieme non è né semplice né scontato, ma è assolutamente necessario. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

LE STRUTTURE DI MEDICINA TERRITORIALE
NON DIVENTINO CATTEDRALI NEL DESERTO

di SANTO BIONDO –  Con la pandemia da Covid 19 sono emerse, in tutta la loro gravità, le carenze strutturali della medicina del territorio.

Questi ritardi stanno provocando, come riflesso immediato e più importante, l’aumento esponenziale dei carichi di lavoro per il personale infermieristico e medico che, dopo anni di grave stress lavorativo, stanno scegliendo di lasciare il Servizio sanitario nazionale per la sanità privata o per trasferirsi all’estero, dove gli stipendi sono più alti e i carichi di lavoro meglio gestiti, determinando così l’ulteriore depotenziamento della sanità pubblica italiana.

Dall’evidenza di tali criticità, è nata la scelta di destinare una quota importante sia di finanziamenti europei, attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza, sia di investimenti pubblici al potenziamento della sanità in Italia e, in particolare, della medicina del territorio. Stiamo parlando di un investimento totale che sfiora i 19 miliardi di euro: risorse, comunque, a debito che graveranno sulle spalle delle italiane e degli italiani.

Il nostro lavoro di analisi e approfondimento, vuole mettere in risalto i rischi che ne deriverebbero per la sanità pubblica, se questo progetto non andasse in porto e se non si potenziasse la medicina del territorio con l’effettivo funzionamento degli ospedali di comunità, delle case di comunità e delle centrali operative.

Il primo elemento di criticità emerge dalle piattaforme online (Regis; Portale Italia Domani; Ministeri competenti per materia; Sigeco; Agenas; OpenPnrr e Regioni) che dovrebbero consentire un’azione di controllo sociale sull’avanzamento del Piano nazionale di ripresa e resilienza nella fattispecie legata alla sanità e, in particolare, alla medicina del territorio. Molte di queste non sono aggiornate costantemente, forniscono pochi e frammentati dati e, in alcuni casi, persino in evidente contrasto tra loro.
Vengono meno così sia il dovere di trasparenza amministrativa sia la possibilità di valutare l’operato delle Istituzioni in materia.

C’è, inoltre, un grande rischio per il futuro delle strutture sanitarie della medicina del territorio. Se anche il piano venisse attuato, dal punto di vista infrastrutturale, gli ospedali di comunità, le case di comunità e le centrali operative territoriali difficilmente potrebbero funzionare, a causa della forte carenza di personale, per il cui pagamento, è bene ricordarlo, le risorse non possono provenire dal Pnrr, ma dai bilanci nazionali.

Incrociando i dati relativi agli standard del personale del Dm77 con il costo unitario medio annuo indicato dal Ministero dell’economia e delle finanze, infatti, si evince che per far funzionare le 1038 Case di comunità, indicate dal piano, servirebbe un investimento in personale stimabile in circa 1 miliardo di euro annui. Mentre per i 307 Ospedali di comunità previsti sarebbero necessari oltre 218 milioni euro. Infine, per coprire le spese per il personale delle 480 Centrali operative territoriali servirebbero 163 milioni di euro.

Il fabbisogno totale stimato, dunque, è pari a 1 miliardo e 366 milioni di euro per circa 30.000 professionisti. Quantità, a nostro avviso, comunque sottostimata per un giusto equilibrio dei carichi di lavoro.

A fronte di questi numeri, invece, l’impegno totale previsto dello Stato è di soli 250 milioni per il 2025 e 250 milioni per il 2026.

Quindi, a meno che non si intenda spostare personale sanitario dagli ospedali, svuotandoli di professionalità necessarie all’erogazione di un servizio sanitario pubblico efficiente e moderno, le strutture della medicina del territorio previste dal Pnrr, una volta costruite o reperite, rischierebbero di diventare delle cattedrali nel deserto.

Il Governo, purtroppo, sta investendo poco in sanità (le stime nazionali parlano del 6% del Pil) e non rimuove il tetto di spesa per l’assunzione di nuovo personale, paralizzando di fatto l’operatività delle strutture dedicate alla medicina del territorio. Se non si realizzasse questo obiettivo, sarebbe il crollo del Servizio sanitario nazionale: non solo il Sud, ma anche il Nord del Paese rischierebbe di arretrare in Europa.

Gli indirizzi da assumere per attuare la Missione 6 prevista dal Pnrr e salvare quindi anche il Sistema Salute del Paese devono essere incastonati all’interno di un SSN che sia effettivamente universale, pubblico e diffuso in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale.

Un Sistema Salute la cui realizzazione passa attraverso una riforma fiscale improntata a principi di equità e progressività, che realizzi una redistribuzione della ricchezza funzionale a costruire uno Stato Sociale a misura della persona. (sb)

[Santo Biondo è segretario confederale della Uil]

CALABRIA POCO PROPENSA AL RISPARMIO
TRA LE PROVINCE CROTONE È PENULTIMA

di MICHELE CONIA – Nel Rapporto risparmio e reddito delle famiglie del Centro Studi Tagliacarne, Unioncamere, la Calabria si assesta nella non invidiabile terzultima posizione mentre, scorrendo la classifica delle province italiane, relativamente all’anno 2022 e mettendo in collegamento i risparmi e il reddito disponibile,  bisogna scendere  all’ 81° posto per trovare una provincia calabrese e cioè  Cosenza con una  propensione al risparmio del 6,5%.

A seguire Reggio Calabria all’88° posto e Catanzaro al 93 esimo con, rispettivamente, il 6,2 % e il 6,1% di capacità di risparmio. Chiude, in penultima posizione, Crotone alla 110° posizione con famiglie che riescono a mettere da parte solo il 4,6% del loro reddito. Se nell’Italia settentrionale la propensione al risparmio è dell’11% scendendo di latitudine, il valore è pressoché dimezzato riducendosi al 6,4%.  Perché al Sud si risparmia meno e non si riesce a mettere da parte un po’ del proprio reddito?

Se il reddito familiare al Sud è di circa il 32% inferiore a quello del Centro-Nord i motivi sono presto detti: le famiglie fanno difficoltà ad accantonare dei risparmi per le necessità future a causa del basso tasso di occupazione, del reddito da lavoro povero e saltuario e per l’impennata dell’inflazione che ha ridotto il potere d’acquisto, inversamente proporzionale alla crescita dei salari. Se il Sud continua a mostrare in maniera consistente budget familiari più ristretti del Nord, conseguentemente anche i comportamenti di spesa delle famiglie saranno più prudenti riflettendosi anche nel tempo libero: meno vacanze e meno intrattenimento.

Ma non solo, si tira la cinghia anche sui prodotti alimentari a causa della brusca accelerazione dei prezzi di questi beni a cui corrisponde una frenata dei consumi delle famiglie. Infatti dal 2014 al 2022, si legge nel report, l’incidenza della spesa media mensile per prodotti alimentari nel Sud è passata dal 21,7% al 23,5% sul totale degli acquisti. Ma non c’è da sorprendersi. L’inflazione erode sempre più i redditi con una progressiva perdita di potere d’acquisto, spingendo verso la soglia della povertà un numero enorme di cittadini e cittadine che non riescono più ad affrontare le spese quotidiane, a pagare l’affitto, rinunciando persino a curarsi. La fragilità economica è stata causata anche dall’aumento generalizzato dei prezzi arrivando all’assurdo paradosso, per cui le famiglie, nel 2023, pur riducendo i consumi, si sono ritrovate a spendere un + 9% rispetto all’anno precedente.

Sono convinto che le sacche di povertà e i fenomeni di vulnerabilità sociale ed economica si accentueranno con l’irricevibile progetto di Autonomia differenziata, calendarizzato alla Camera a partire dal prossimo 11 giugno.

La condizione delle famiglie è lo specchio di un Paese sempre più diseguale, con divari macroscopici che non potranno che ampliarsi sensibilmente dopo l’approvazione del Ddl Calderoli. Noi non ci rassegniamo e proseguiremo le azioni di lotta pacifica e che la Costituzione ci consente accanto ai  Comitati  territoriali per il ritiro di ogni autonomia differenziata. Se il Ddl Calderoli dovesse essere approvato, avanziamo fin da ora la richiesta di impugnazione della legge davanti alla Corte costituzionale da parte delle singole Regioni e il referendum abrogativo se sarà dichiarato ammissibile. (mc)

[Michele Conia è sindaco di Cinquefrondi]

ENI E GOVERNO SCOMMETTANO SU JONIO
LAVORO, DIGNITÀ E FUTURO SONO POSSIBILI

di DOMENICO CRITELLI – Conservo memoria di quando i partiti, nel distinguo delle posizioni di Governo o di opposizione, esercitavano il loro potere di influenza sui livelli Regionali e Nazionali. Vi era rispetto delle regole e, soprattutto, del consenso che essi esprimevano su base territoriale e non sempre in funzione di governo.

Erano i tempi dei partiti di massa, del sistema proporzionale e del peso specifico che il collegio elettorale esprimeva nella formazione del consenso Nazionale. Ebbene, al netto anche dei difetti che quel sistema elettorale generava, i candidati avevano come riferimento i territori, e, l’azione politico istituzionale, imponeva una visione generale.

Come nel caso del processo di deindustrializzazione che ci ha riguardato a partire dagli anni ’80 fino agli anni ’90. Ricordiamo tutti la stagione dei “Fuochi” e lo scontro politico e sindacale che ne scaturì.

Ognuno di noi difendeva posizioni politiche, visioni diverse talvolta contrastanti senza nulla di personale e a poco varrebbe stabilire, oggi, chi avesse ragione o torto nel difenderle.

Sta di fatto, però, che quella crisi trovò ascolto e impegno del Governo Nazionale, oltre che fronte comune del movimento Sindacale e delle Istituzioni Locali e Regionali, pur in presenza di equilibri politici non sempre coincidenti.

Quella crisi assunse una dignità nazionale con la istituzione di un tavolo concertativo (task force) presso la stessa Presidenza del Consiglio. Bisognava ridefinire una prospettiva di sviluppo per un’area, quella Crotonese, che aveva rappresentato un unicum nell’intero mezzogiorno.

Vi era da prevenire oltre che l’impoverimento di un territorio che aveva garantito quasi piena occupazione anche una diversificazione del suo tessuto imprenditoriale e produttivo.

L’autorevolezza di quel livello di interlocuzione che il sistema Politico e Sindacale seppe realizzare, garanti’ un monitoraggio della crisi che generò un’idea di “Contratto d’area e Sovvenzione globale” con le risorse Nazionali adeguate ed un soggetto locale, “Crotone Sviluppo Spa, che sapesse valutare le manifestazioni di interesse di imprenditori locali e Nazionali a raccogliere la sfida del Governo.

In pratica, una lunga e virtuosa stagione di riconversione industriale, ambientale e produttiva. Osservando, oggi, il montare dell’onda protestataria, dopo anni di silenzi, omissioni, rinvii e un fatalistico “quieta non movere” degli ultimi Governi nazionali, escluso l’ultimo, sembra di essere in presenza di un’onda anomala che può trasformarsi in uno tsunami.

Mi verrebbe da suggerire, a tutti i protagonisti in campo, di immaginare che le attività industriali di Pertusola e Montedison non siano cessate, compiutamente, sul finire degli anni 90(oltre 20 anni fa’) ma da appena qualche anno, in coincidenza della Pandemia, giusto per intrecciare, suggestivamente, una fase di cimento globale.

Provo ad usare questo schema per capire se il confronto, sempre fra gli attori locali si concentrerebbe sulle prospettive e le potenzialità da cogliere piuttosto che sul rimpallo di responsabilità di chi ha avvelenato e di chi si è girato dall’altra parte; di chi ha fatto la faccia feroce nei confronti “dell’avvelenatore” e di chi, invece, ha svestito i panni del Masaniello per indossare quelli del Macchiavelli o del “Re Travicello”.

Si tenga conto, oltretutto, che anche le Amministrazioni Comunali che hanno interloquito con “l’avvelenatore”, per i diversi atti concessori e autorizzativi, dovrebbero essere posti sul banco degli imputati, quanto meno per culpa in vigilandi. E a cascata le Direzioni Aziendali piuttosto che i Sindacati che sarebbero venute meno alla funzione di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori.

Un puzzle inestricabile. Un collo di bottiglia che non so’ quanto convenga perpetuare se si intende “Bonificare” piuttosto che tombare che, poi, è poco meglio della realtà fattuale: tutti quei veleni sono a cielo aperto o in fondo al mare.

Al netto del giudizio che si può avere sulle Amministrazioni locali, Comune e Provincia, e su quella Regionale, esiste un punto di caduta che impone di ricreare la stessa “unità-diversita’” degli anni della concertazione sapendo che oggi, meglio di ieri, non vi è la necessità di inventarsi o reperire risorse, strumenti e strategie, perché esistono e si chiamano: Sin (Sito interesse nazionale), Pnrr (Piano nazionale ripresa resilienza); Green Deal (Comm.ne Europea); Zes ( Zona Economica Speciale).

A mio giudizio, e non perché elettore di Roberto Occhiuto, il Governo Regionale ha una guida autorevole, di peso nazionale, anche un po’ solitaria, visto il contesto generale e lo stato di salute dei partiti a tutti i livelli.

Non ho la pretesa di essere condiviso nel mio giudizio su Occhiuto, così come, all’epoca, nessuno poteva contestare il ruolo e il peso specifico che ebbe Riccardo Misasi.

Si converrà che se si ricreassero le stesse condizioni politiche degli anni ’90 di “unità nella diversità” ed il tavolo concertativo, guidato da Occhiuto, chiamasse alle loro responsabilità, il Governo Nazionale ed Eni Corporate, forse si potrebbe immaginare di riscrivere la storia della Calabria Jonica “Ripartendo dall’ultima e dalla Polis”.

L’ho virgolettato perché è l’apertura del documento politico col quale, con un gruppo di amici, proviamo a ridare voce ad un’area politica in grande sofferenza, soprattutto alle nostre latitudini, rispetto alla visione di sviluppo e di rilancio della Città di Crotone e della sua Provincia: quella Popolare Liberale e Riformista.

Ma l’imperativo è per tutti, perché ci stiamo spopolando e non possiamo consentirci pause di riflessione, addirittura di conflitto o di visione monocorde. Ci sono decisioni e iniziative che si sarebbero dovute prendere 20 anni fa.

Ecco perché la storia non assolverà nessuno: né quelli di ieri ma neppure quelli oggi.

Proprio in quell’area dove Crotone ha conosciuto il suo riscatto e il suo benessere, l’ex area industriale, bisogna ricreare le condizioni per ridare speranza ai nostri giovani che un futuro di dignità del lavoro è possibile senza dover emigrare e, magari, dando l’opportunità agli altri anche di ritornare a casa per remare, tutti, nella stessa direzione. Nella diversità. (dc)

«LA REGIONE SBAGLIA SULLA DIRETTIVA UE:
COSÌ NON TUTELA LE SPIAGGE CALABRESI»

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «La scelta della Regione Calabria di applicare la Bolkestein è una decisione sbagliata». È ferma e dura la posizione di Anna Parretta, presidente di Legambiente Calabria, esprimendo la propria contrarietà «perché viola le norme europee e gli orientamenti giurisprudenziali in materia di concessioni demaniali marittime, tutela della concorrenza, diritti dei consumatori e tutela dell’ambiente, aprendo, di fatto, ad una ulteriore, insostenibile, sostanziale privatizzazione delle aree pubbliche».

Una possibilità «insensata» quella di «mettere a gara in Calabria ulteriori spiagge libere limitando i diritti della collettività perché le aree demaniali appartengono a tutti i cittadini», ha detto Parretta, sottolineando come «l’idea che ci siano enormi spazi lungo le coste calabresi su cui si può ulteriormente investire ed aprire nuovi stabilimenti balneari è collegata ad una logica di sfruttamento delle risorse naturali, considerate inesauribili, che è antistorica e scientificamente errata. La Regione Calabria dovrebbe, invece – prosegue Parretta – limitare l’occupazione delle spiagge e le concessioni demaniali esistenti dovrebbero essere assegnate in base a rigorosi criteri di sostenibilità ambientale e sociale, per  salvaguardare gli arenili e le acque marine da ogni causa di inquinamento e degrado. Il futuro del turismo calabrese passa dalla tutela dell’ambiente».

La direttiva Bolkestein ( 2006/123/CE) è una norma approvata nel lontano 2006 dall’Unione europea: gli Stati hanno avuto tempo fino al 28 dicembre 2009 per dare attuazione al suo contenuto; attuazione che in Italia è avvenuta  concretamente con l’emanazione del d.lgs 59/2010. L’obiettivo della direttiva è di promuovere la parità di professionisti e imprese nell’accesso ai mercati dell’Unione europea, per cui concessioni e servizi pubblici possono essere affidati a privati solo con gare pubbliche aperte a tutti gli operatori presenti in Europa al momento della scadenza della concessione.

A dicembre 2020, vista la mancata ottemperanza da parte dell’Italia, la Commissione europea ha aperto una nuova procedura di infrazione contro il nostro Paese per violazione della direttiva Bolkestein con il rischio di gravi sanzioni economiche. Ricordiamo, infatti, che la durata delle concessioni demaniali marittime è stata disciplinata dall’articolo 1 commi 682 e 683 della legge n. 145/2018, che aveva disposto la proroga di quindici anni per quelle vigenti. Proroga ritenuta dalla Commissione europea in contrasto con la direttiva e con gli articoli 49 e 56 del Trattato europeo.

Successivamente, il Consiglio di Stato nel novembre 2021 ha dichiarato la proroga nulla, differendo tuttavia gli effetti della sentenza fino al 31 dicembre 2023 «al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che sarebbe derivato  da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere», senza alcuna possibilità di proroghe ulteriori.

L’Europa chiede, quindi, da molto tempo – almeno 15 anni- a Roma di bloccare i rinnovi automatici delle concessioni agli operatori storici e di aprire il mercato a nuove imprese attraverso dei bandi di gara, così come previsto dalla cosiddetta direttiva Bolkestein. Il governo italiano non si è adeguato alla richiesta, nonostante la procedura d’infrazione aperta da Bruxelles, e dopo aver rinnovato ancora le concessioni fino al 31 dicembre 2024 sta ipotizzando di ampliare le spiagge da assegnare ai balneari, in maniera tale da “salvare” i gestori degli stabilimenti esistenti.

In questo quadro la Regione Calabria, prima fra le Regioni italiane, afferma che non applicherà la direttiva Bolkenstein, sostenendo che non vi è scarsità della risorsa spiaggia, in maniera tale che gli attuali concessionari possano continuare ad operare e contestualmente possano essere messe a bando porzioni delle attuali spiagge libere calabresi. Al contrario la citata sentenza del Consiglio di Stato n. 4481/2024 dovrebbe rappresentare una linea di sbarramento chiara per tutti i tentativi, giudiziari e legislativi, di mantenere in capo ai concessionari uscenti, il cui contratto è in scadenza, la gestione delle zone balneari sinora assegnate senza alcuna procedura selettiva comparativa.

Non solo: anche nel caso di risorse non scarse può sussistere un obbligo di disporre una procedura comparativa, perché l’onere di effettuazione di tale procedura per la concessione di beni demaniali non trova quale sua unica fonte soltanto la direttiva Bolkestein, ma anche l’art. 49 del TFUE e la libertà di stabilimento, dovendo l’assegnazione essere effettuata secondo criteri di trasparenza e imparzialità. La Regione Calabria, con la decisione assunta, sta quindi  entrando nel vicolo cieco del rischio di una nuova infrazione comunitaria con i relativi costi in termini di sanzioni e sta ipotizzando una inaccettabile sottrazione di spiagge attualmente fruite in maniera libera e gratuita dai calabresi e dai turisti.

Secondo il Rapporto Spiagge 2023, pubblicato da Legambiente, la Calabria si colloca tra le regioni più a rischio. La ricerca, che analizza sei indicatori, dalla crisi climatica al rischio di inondazioni, dalle spiagge inaccessibili al mare inquinato, rivela un quadro di fragilità per i territori costieri calabresi poco tranquillizzante. Per consumo di suolo costiero collegato anche al grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, la Calabria segna il quarto valore per crescita a livello nazionale (+6,26 % tra il 2006 ed il 2021)  e il terzo nel rapporto tra consumo di suolo litoraneo e superficie regionale.

A causa del grave fenomeno dell’erosione delle aree costiere destinato ad aggravarsi per effetto dei cambiamenti climatici, anche la Calabria sta perdendo parte delle proprie spiagge: nel complesso oltre il 26% della costa bassa regionale è in erosione. Sempre a livello regionale il rapporto di Legambiente segnala il valore particolarmente elevato – in rapporto alle altre regioni – delle concessioni balneari, che corrispondono al 13,8 per cento del totale italiano. In Calabria – dove ci sono 614 km di spiagge – il totale di concessioni di demanio marittimo è di 4.665, delle quali 1.677 per stabilimenti balneari, per un totale del 29,4 % di costa sabbiosa occupata.

Tutte queste ragioni dovrebbero indurre la Regione Calabria a limitare l’occupazione delle spiagge, alzando il relativo limite regionale, attualmente solo del 30% a fronte del 60% di altre regioni come Puglia e Sardegna. Sarebbe necessario in questa situazione un rigoroso controllo ambientale sulle concessioni, che al momento durano da decenni, con il pagamento di canoni molto bassi e con  stabilimenti balneari che spesso si trasformano in veri e propri locali che occupano il demanio in maniera stabile. La prospettiva verso cui occorre andare, insomma, è ben altra rispetto a quella prospettata dalla giunta regionale.

La Direttiva Bolkestein prevede, peraltro, che gli Stati membri possono tenere conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale della salute e sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi di interesse generale conformi al diritto comunitario. Gli stabilimenti balneari ed i titolari delle  attuali concessioni che hanno ben lavorato ed investito nella giusta direzione non devono avere timore delle gare europee.

Il modello da seguire deve essere costituito da investimenti, sostenibilità e qualità per creare occupazione reale ed al contempo proteggere l’ambiente in base a criteri posti alla base, ad esempio, della prassi Uni per gli stabilimenti accessibili e sostenibili definita da Legambiente. In sostanza si devono tutelare gli imprenditori seri, onesti ed attenti all’ambiente ed alla legalità.

«La soluzione – ha concluso Legambiente – non può e non deve certamente essere quella di cedere ulteriore spiaggia, sottraendola all’uso libero e gratuito della collettività per metterla a bando». (ams)