La scomparsa di Pietro Citati: il ricordo di Chiara Fera

Grande cordoglio nel mondo della cultura per la scomparsa di Pietro Citati, scrittore, saggista e fine letterato. Lo ricorda Chiara Fera, giornalista e autrice de Il libro invisibile di Pietro Citati edito da  Rubbettino e presentato a Roma nel 2018  da Giorgio Montefoschi (scrittore Premio Strega) e Piero Boitani (direttore letterario della Fondazione Lorenzo Valla e già docente di Letterature Comparate all’Università La Sapienza di Roma e di Lingua e Letteratura Italiana all’Università di Cambridge).

«Il più grande scrittore dei nostri tempi – ha detto la Fera –.  Autore di brillanti articoli e saggi sui più importanti scrittori della letteratura mondiale, con la sua prosa giornalistica lucida e immediata ha compiuto il più straordinario del miracoli: riportare la letteratura lì dove è nata, tra la gente, avvicinando donne e uomini alla bellezza delle parole che raccontano la loro stessa vita e dimostrando che non può e non deve essere impolverata con tecnicismi accademici, né rinchiusa nelle aule universitarie o ridotta a pruriginoso sentimentalismo sulle terze pagine dei quotidiani. Il mio libro è una ricerca sulla sua straordinaria cifra stilistica che ha affascinato milioni di lettori nel mondo, sull’abilità di immedesimarsi nei grandi scrittori della letteratura mondiale, di insinuarsi nella loro individualità più intima per poi riemergere con incastri narrativi prima di lui inimmaginabili: autori e personaggi, romanzi e testi poetici sono stati spogliati, sviscerati e ricostruiti (o meglio, riscritti) con un ineguagliabile impulso narrativo che invade con prepotenza lo scopo critico dei suoi articoli, in cui autore e opera divengono protagonista e trama di un inedito romanzo critico».

Spiega Chiara Fera: «Appassionante la monografia su Fëdor Dostoevskij, scritta inavvertitamente e sorprendentemente sulle pagine culturali dei quotidiani, per lettori comuni, vincendo la faticosa sfida contro il reazionario elitarismo della letteratura. Per la sua intransigenza attirò diverse critiche. Ma faceva bene. Nella vita bisogna essere intransigenti. L’alternativa perseguita il nostro tempo: mollezza di spirito, superficialità d’animo, inconcludenza spaventosa. In uno dei nostri incontri mi disse: “Non badi alle chiacchiere che si fanno in giro, lasci perdere le mode del momento, i consigli improvvisati. Legga. Non deve fare altro che leggere, non solo per imparare a scrivere, ma per imparare a vivere”. Era austero, inscalfibile, aveva dalla sua la meraviglia della conoscenza sconfinata. Era il mare che arrestava la vanagloria del turbinio mediatico e gli elogi vacui e interessati dei pensatori del momento. Che riposi in pace, in uno dei tanti mondi che amava esplorare sulla sua poltrona giallo tenue, con un occhio rivolto alle parole e un altro alla mente fantasiosa»  (rrm)

Elsa di Angela Bubba

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Roma, giugno 2022. La città è asciutta. La bocca arsa. Trinità dei Monti una coltre di sole. Giugno è torrido sulla scalinata e anche altrove. Ho bisogno di un libro da leggere. Di pagine che voltate movimentano l’aria. Di una storia che mi trasporti altrove. Magari in un’isola. Passando per scogliere e mare blu.
Via del Corso, libreria Feltrinelli, Galleria Alberto Sordi (appena qualche settimana prima la chiusura dei battenti).

 La copertina è calda come Roma. Elsa è attraente. Angela Bubba, (Elsa – Ponte Alle Grazie, 2022), un’illuminazione sopra tutta la letteratura italiana.
Al Colosseo, il primo affondo. Poi altrove. Via del Babuino, Via dell’Oca, Basilica di Santa Maria del Popolo. Il ritorno in Calabria. La mia terra e la radice di Angela. È qui che mi inoltro con profonda devozione e rilasciamento, nella vita di Elsa Morante scritta da Bubba. Una lettura che mi raccomanda solitudine. Che è desiderio e godimento interiore. Procida è di fronte casa. Nei giorni di chiaranza la intravedo. Un punto a cui miro per non perdermi e non smarrire Elsa, a cui più passano i giorni più mi affeziono. Quasi mi affido. Conoscerla, è un desiderio antico. Conoscerla fino in fondo intendo. Fin dentro la pancia, nella testa, nelle pieghe dell’anima. Mi perfora il racconto di Angela. 

La sua scrittura è potente, ribelle, casta e assordante. Elsa non dà pace. Non ne ha. 

Irrompe nel sonno, corrompe al mattino. Turba e non risarcisce. Urge. Arde. Non un giorno di pioggia, tutto sole in questo viaggio intimo nella donna letteraria del ‘900.
Un volo il cui atterraggio è sempre stracolmo di urti. E dove fa male, dove rassetta il dolore. Irma, Elsa… Due madri diverse. Perché nessuna ha mai una copia identica. La prima compiuta, l’altra mancata (forse).
Augusto, Rolando, Arturo, la madrina… Il miagolio dei gatti e la gattara.
Elsa quasi sempre figlia e distrattamente madre. Madre irredimibile di Arturo. Un cuore grande quanto la sua isola. I battiti, le palpitazioni, gli arresti e le improvvise riprese. Le assenze assurde, quasi omicide.
Utilizzo come segnalibro, la sovracoperta, piccina piccina, de L’amata alla finestra di Corrado Alvaro. Una congiunzione che quasi mi disorienta, ma che avviene spontanea. Tengo entrambi i libri vicini, la raccolta di Alvaro è vecchissima, la copertina usurata. Elsa la tiene al riparo da ulteriori danneggiamenti tra le pagine di Angela che, tanto sapientemente l’accompagna, la sostiene, e si fa voce, e si fa incanto. Reincarnazione.
La vita di Elsa è millenaria. Ricca di appunti e di incontri. È “La storia”. La donna “menzogna e sortilegio”.
L’incontro con Alberto Moravia nel ‘36, il premio Viareggio nel ‘48.
Moglie e amante, scrittrice irrimediabile. Condannata al carcere dal demone sobillante della narrazione.
La perdizione con Luchino Visconti nel ‘50, l’incontro col poeta sopra ogni poesia nel ‘54. Pasolini, amicizia e sbattimento.
Premio Strega nel ‘57, lo sconfinamento del sogno nella realtà. 

Arturo, Procida, la meraviglia di tornare per sempre dove restare è l’idea, il progetto, al di là di ogni terrena emozione o condanna.

Angela Bubba accompagna Elsa Morante a fare a pezzi il mondo per ridargli vita. Soffre con lei. Vince, perde. Fa nodi e diventa una fune bagnata.
Il destino è pazzo, burlo. Quest’anno io Elsa e Angela siamo state proposte allo Strega. Il mio debole, però, era tutto per loro. Nonostante “io”. Sembrerebbe poco normale. Invece è normalissimo. È reale. Ed oggi che, con Angela Bubba, ho invaso, grazie all’eternità della letteratura, l’intimità di Elsa Morante, comprendo ciò che verso di loro mi calamitava. E anche il motivo per cui Angela Bubba non lo ha vinto, il Premio Strega. Elsa non era avvezza ai premi, ai podi, alle pose. Tra le pagine di Angela, il suo spirito forte e ardito, finalmente trova la pace a cui l’anima della Morante ha sempre anelato.
Non v’è definizione di spazi tra Elsa Morante e Angela Bubba.

 Esse sono una e una cosa sola.
“La fenice senza ceneri. Io. Elsa.” La spada.

ELSA, di Angela Bubba
Ponte alle Grazie, ISBN 9788833315294

Il custode delle parole, di Gioacchino Criaco

di MIMMO NUNNARI – Scrittore di fiabe e romanziere (l’uno e l’altro insieme) Gioacchino Criaco è la “voce” di quel Mediterraneo (italiano) mescolato con l’Africa e l’Oriente erede della civiltà greca e di altre culture e tradizioni dei popoli delle terre di mezzo. Al centro, nel racconto raffinato di Criaco, c’è sempre l’Aspromonte: la montagna dei profumi, della bellezza, delle magie e dei destini, fatti di abbandoni e partenze. Nel nuovo libro da poco in libreria: Il custode delle parole (Feltrinelli) lo scrittore di Africo narra questo meraviglioso microcosmo mediterraneo mescolato di saperi e tradizioni che s’incrociano.

Lo spiega lui stesso, nell’incipit del nuovo libro, che cos’è l’Aspromonte e la sua gente: “Siamo Oriente e Africa negli enigmi dei volti delle donne a cui apparteniamo…”. Criaco conduce questa volta il lettore sui sentieri naturali, reali e spirituali della montagna-madre: crocevia di sintesi umane che conservano culture e valori e potrebbero nutrire la vita di tutti nella nostra babele moderna. La sobrietà espressiva del romanzo, la sostanza del racconto, la ricerca delle parole salvifiche, unite al senso di concretezza dei fatti narrati, all’interrogarsi per metafore, sui problemi estremi dell’esistenza, danno impulso allo stile di Gioacchino Criaco che abilmente mescola la dimensione reale a quella fantastica, per celebrare l’umanità dell’Aspromonte: “La nostra è una storia millenaria che ha forgiato le parole intingendole nel cuore, nella testa, nella pancia, nel miele e nel sale, nel sangue eroico e in quello codardo, nella punta delle spade e nel taglio delle zappe” scrive, e questo suo modo di narrare sembra un andare indietro per andare avanti, come gli antichi navigatori, che dopo avere perduto la rotta per traversie di mare, al momento di ritrovarla, spesso dal lato opposto, chiamavano la manovra “avanzare di ritorno”.
Avanza di ritorno Criaco, in un libro cammino nell’umanità e nella storia di un sud del mondo in cui si sentono gli echi, le malinconie, la robustezza del racconto di Alvaro e Strati (scrittori di dignità e dimensione europea con salde radici piantate nell’Aspromonte) dei quali è l’erede, o quantomeno lo scrittore che ha assorbito di più la loro lezione di narrazione. Nella resa letteraria del romanzo di Criaco, nelle tematiche in cui s’incrociano ragioni della letterarietà con questioni antropologiche e dimensioni umane negate, ci sono anche le risonanze lontane di grandi scrittori del panorama letterario mediterraneo e sudamericano, o meglio di narratori delle periferie del mondo, come il Luis Sepulveda del romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, o il Nikos Kazantzakis di Zorba il greco. Non tanto per la trama del libro, e neppure per lo stile narrativo, perché quello dello scrittore di Africo è molto differente; anzi, è azzardato e fuorviante ogni accostamento, ma risonanze per l’affinità con la “lettura” di luoghi emarginati, sempre sotto il tallone di qualcun altro; per la somiglianza “nutriente” dei personaggi: il vecchio Antonio José Bolívar di Sepulveda, che viveva ai margini della foresta amazzonica ecuadoriana e l’Alexis Zorba, l’anziano geniale macèdone protagonista del romanzo di Nikos Kazantzakis, con l’Andrìa, il nonno pastore “custode delle parole”. Quei vecchi, appartenenti a mondi diversi, hanno in comune l’essere uomini veri che nel cuore custodiscono i segreti della natura, lo spirito della vita, i valori a cui abbeverarsi, nello smarrimento del presente fatto di inconsolabili ombre assetate. È nello spirito ereditato dai padri e dalle madri greche il custodire la parola del nonno Andrìa, che difende la lingua dei suoi avi come se conservasse fede, mito, Parola divina. Anche in questo intento salvifico della parola c’è un vicinanza spirituale tra la storia raccontata da Criaco e il personaggio del Kazantzakis che (nell’Odissea da lui riscritta) cerca tra i paesini di Creta le parole destinate a perire: nomi di fiori e piante, il lessico dei contadini e dei pescatori, della gente semplice. Kazantzakis nell’Egeo e Criaco nell’Aspromonte, narratori di epoche diverse, di stili differenti, hanno lo stesso obiettivo interpretato dai loro personaggi: salvare la parola, per salvare il mondo. Non ha importanza che Kazantzakis (morto nel 1957) abbia pubblicato il suo libro nel 1938 e Criaco abbia pubblicato Il custode delle parole nel 2022. C’è lo spirito della Madre Grecia a unire i pellegrinaggi alla ricerca di sé e delle proprie radici.
I protagonisti del romanzo di Criaco sono Andrìa il giovane, voce narrante, nipote dell’Andria “custode delle parole”, la fidanzata Caterina e Yidir, profugo africano arrivato sulle coste calabresi coi barconi dalla Libia. La figura del nonno, pastore e “sacerdote” della parola, domina su tutto. Andrìa il nipote, trattenuto nella sua terra dall’amore per Caterina, cambia la sua idea tenace di lasciare la sua terra e di partire, il giorno in cui salva dall’abbraccio mortale dello Jonio Yidir, sopravvissuto ad un naufragio, nelle acque dello Jonio. Anche lui, l’africano, sta cercando un futuro possibile. Quando il nonno lo prende clandestinamente con sé, come aiutante pastore, si accende una luce nella mente di Andrìa. Pian piano si riavvicina all’ambiente delle radici, alla Mana Gi, riscopre storia e cultura del suo popolo, lo stretto legame tra valore della vita e bellezza selvaggia dell’Aspromonte. Accetterà, così, il destino che è chiamato a compiere: custodire, come il nonno, le parole.
Questo nuovo romanzo di Gioacchino Criaco, con la narrazione minuziosa di fatti e cose, è una storia di identità e radici così forti da sfidare il futuro che ancora non conosciamo È romanzo ricco di metafore Il custode delle parole, di sottile ricchezza narrativa, di ritratti, di incontri, di figure che non si dimenticano. Le decisioni di Andrìa (simbolicamente del popolo dell’Aspromonte) richiamano alla responsabilità di doverci prendere cura di ciò a cui sentiamo di appartenere, di saper custodire un mondo e una lingua (il greco di Calabria) che stanno per sparire, ingoiati dalla falsa modernità̀.
Andrìa sente che nelle “parole” del nonno c’è il suo futuro, che quel territorio, l’Aspromonte, la Grande Madre, è la montagna lucente, bianca, non ostile, come è dipinta. Cosa rappresenta Mana Gi lo scrittore lo ha spiegato nell’intervista ad un giornale francese, nell’occasione dell’uscita Oltralpe di “La Maligredi”, il romanzo precedente a Il custode delle parole, il libro che apre definitivamente allo scrittore di Africo le porte della narrativa italiana migliore, dopo i successi di Anime nere, il primo romanzo pubblicato con Rubbettino.
L’Aspromonte, la Mana Gi, ha detto Criaco, è “la Grande Mère, comme est encore appelée la montagne, qui est femme, est l’archétype de la Calabre, du Midi. C’est ce que tout le Sud a été dans le passé. Il représente la dernière résistance d’un monde qui lutte pour ne pas mourir”. Non lo traduciamo questo passo dell’intervista, se non l’espressione “resistenza di un popolo che lotta per non morire”, che fa capire la storia passata e presente della Calabria nata greca. Andrìa, che alla fine accetterà̀ il destino di salvare le parole custodite del nonno, spiega, nella lingua dei padri greci, che ha la musicalità della tradizione orale, che cos’è l’Aspromonte: To Asprovunì anìghi te tthìre ti ston Thìo ppurrì. Anìghi t’arthàmmia apànu ston cosmo asce fata. Echi enan àthropo ti por patì pu, ston pròsopo cratì lagomata azze paleo pezò. Asprovunì ene mia fracti azze aklìese. Thire anictè ce to pedì (L’Aspromonte spalanca le porte al dio del mattino. Apre gli occhi su un mondo fatato. C’è un uomo in cammino che sul volto trattiene ferite di antico soldato. L’Aspromonte è una gabbia di perle. Porte aperte e il volo si perde. È distese di boschi che spengono il fiato. È una madre che sconta in eterno lo stesso peccato. (mn)
GIOACCHINO CRIACO
IL CUSTODE DELLE PAROLE
Feltrinelli, ISBN 9788807035043

La notte prima dell’arcobaleno, di Caterina Silipo

di RAFFAELLA PLUTINO – Ritrovo con piacere, a distanza di anni, la scrittura delicata di Caterina Silipo, già in passato apprezzata per i suoi versi di squisita bellezza, che l’hanno resa cara al pubblico e non solo a quello elitario che ruota intorno al pianeta spesso utopico e irraggiungibile della poesia; tal che, infatti, la sua voce poetica ha conquistato anche il cuore e l’attenzione dei cosiddetti ” non addetti ai lavori”, meritando significativi riconoscimenti da molteplici e variegati contesti.
Ho letto con molta attenzione questo terzo romanzo della Silipo, talmente che ne scrivo dopo mesi e dopo altre parecchie riletture. Non già perché il libro sia di difficile lettura o interpretazione, soltanto perché sin dalle prime battute mi sono resa conto che quest’opera meritava sicuramente un esame molto approfondito dei temi e dei contenuti, peraltro mirabilmente intrecciati a tutta una serie di esperienze umane e letterarie a volte ben delineate e facilmente riconoscibili, altre più sottese e visionarie, e qua, secondo me, sta un primo pregio del romanzo. Che si apre con una inquadratura temporale ben precisa (“era la fine di maggio”), e subito introducendo la protagonista della vicenda (“la mia adorata gattina”), la gattina Nuvola, attorno alla quale graviteranno poi tutte le emozioni, i ricordi dell’autrice, nonché tutte le altre figure di questa suggestiva trama, in primis Adele, l’io narrante, (Alba, Karima, Michele), a fare da cornice, ma tutt’altro che passiva o statica, al prezioso racconto. Dopo poche pagine, ecco che il lettore è portato in un contesto geografico ben preciso, Tirneto (tranquilla cittadina dell’entroterra calabrese),c he dà voce soprattutto ai ricordi, spesso dolorosi, e qua sta il lato realistico dell’opera, affrontato anche in chiave psicologica, attraverso flashback di scenari rurali, caratterizzati spesso da sofferenza, necessità di emigrazione, impotenza, mancanza di orizzonti.
Sappiamo, sin dalle prime battute, che la gattina è malata (“ho composto il numero della clinica veterinaria e ho chiesto di parlare con il veterinario Andrea”). Una malattia che la porterà alla morte. Ma ciò che affascina e cattura, in tutto il libro, è la sapiente mescolanza di sogno e realtà, visione e lucidità, sofferenza e speranza,r assegnazione e utopia. Splendidi passaggi soprattutto nei capitoli “Un tragico salvataggio” e “Il rogo”, forse i più drammatici di tutto il romanzo.
Tuttavia, e qua sta a mio parere la vera forza e magia dell’opera, la narrazione “circolare” apre uno spiraglio di luce su tutta la vicenda, presente, passato, aspettative del futuro, a dimostrazione che qualche filo, dal nero gomitolo, si può tirare.(“Allora niente è come sembra!…Avevo perduto la mia anima, avevo perduto mio fratello, avevo perduto Dio, alla fine ho trovato tutti e tre”).
Decisamente un’opera che tra dolore e visione, ripercorre con grande umanità e delicatezza il rapporto tra “anima” e il mistero della vita. Perché, forse, anche il sogno non sia sterile e la realtà non sia solo il regno del dolore.

CATERINA SILIPO
LA NOTTE PRIMA DELL’ARCOBALENO
Falzea Editore, ISBN 9788882965181

Noi lazzaroni di Saverio Strati (nuova edizione Rubbettino)

di MIMMO NUNNARI – Torna in libreria Saverio Strati con Noi lazzaroni (Rubbettino editore, pagine 235, euro 16) romanzo pubblicato la prima volta nel 1972, con cui lo scrittore di Sant’Agata del Bianco, scomparso a Scandicci in Toscana, il 6 aprile 2014, raccontò in parallelo l’emigrante, la sua terra d’origine, la Calabria dei baroni, e il Paese dov’era emigrato, la Svizzera, terra ricca e senz’anima.

È lo Strati migliore, indignato, appassionato, che spunta da questo romanzo, con una scrittura potente, a volte dura, ma rivelatrice di condizioni umane, nel microcosmo calabrese, ai più sconosciute: povertà insopportabili, angherie dei padroni, sottomissioni umilianti, rapporti umani e familiari lacerati, vita in case “piene di sospiri e lamenti”, quando l’uomo parte.

Mastro Turi, protagonista del romanzo, racconta: “Ero uomo. Ma che uomo sei se ti manca il lavoro e il mondo si rifiuta di darti una mano?”.

Noi lazzaroni, come tanti altri racconti di Strati, è romanzo sociale. Descrive la vita e la mentalità delle classe meno abbienti e svolge anche un ruolo di denuncia.

La particolarità, di queste narrazioni di Strati, rispetto al filone letterario del “sociale”, che in Italia ha padri come Giovanni Verga – che con il verismo il sociale lo ha anticipato – o Francesco Jovine (Le terre del sacramento), Ignazio Silone (Fontamara) e all’estero Charles Dickens (Oliver Twist) in Inghilterra e Emile Zola in Francia ( “Germinal”) è che generalmente l’autore è esterno al racconto, non si identifica con nessun personaggio, mentre lo scrittore di Sant’Agata è in presa diretta, un tutt’uno tra la storia, il protagonista, il contesto degli emarginati, degli sconfitti, che sognano di migliorarsi e vanno incontro a un destino oscuro. Anche quando scrive del lavoro dei muratori, di regoli, livella, squadra cazzuole, punteruoli, mazzuoli e martelli Strati parla della sua esperienza diretta, della vita che precede quella del futuro romanziere, dell’ex lazzarone che faticava a stare col berretto in mano davanti al padrone.

I lazzaroni erano i sudditi nel paese di mastro Turi: “Siete degli stramaledetti lazzaroni che mi andate contro appena potete… ma state attenti che vi taglio i viveri”.

C’è molto di letteratura meridionale naturalmente in “Noi lazzaroni”, ma c’è quello che Giacomo De Benedetti (maestro di Strati) diceva che era la caratteristica dello scrittore: quell’obiettivo di informare, denunciare, fare emergere situazioni umane nascoste, dimenticate, contrastate per l’avidità dei “padroni”.

Strati è il migliore interprete di questo tipo di letteratura, che gli appartiene, e  non è imitabile, anche perché nel frattempo le condizioni sociali sono cambiate.

In un certo senso i suoi romanzi assumono una valore storico rilevante. Il mastro Costanzo della “Teda” risorge in mastro Turi, emigrato in Svizzera, che torna al paese vent’anni dopo e riaccende il filo della memoria, ma senza molto sforzo, perché tutto sembra essere rimasto come prima. Attraversa l’epoca fascista e la seconda guerra mondiale il racconto: “S’invocava il cielo perché la guerra finisse presto”.

I vecchi, gli indomiti, gli idealisti, che si riunivano in casa di Turi, al paese, esclamavano: “Maledetta Italia pidocchiosa! Guerra, quanto ci impieghi a chiudere la partita!”, e sognavano l’arrivo degli Americani. Strati è uno e due in “Noi lazzaroni”. Dà vita al mondo contadino, che conosce per esperienza personale, e racconta il dopo della vita di emigrato (“la valigia è a portata di mano”) in terre che non accolgono, ma vogliono solo le braccia del meridionale, dell’emigrato, considerato un semplice “strumento” per la crescita e lo sviluppo e nient’altro. Quest’edizione di Noi lazzaroni che ritorna per merito dell’editore Rubbettino che, sta, con una grande operazione editoriale e culturale ripubblicando tutto Strati, ha la prefazione di Carmine Abate.

NOI LAZZARONI
di Saverio Strati
Rubbettino Editore, ISBN 9788849870510

“Leader al contrario”: esce il libro del sindacalista Roberto Castagna

Da domani, martedì 28 giugno, arriva in libreria l’attesa, vivida, testimonianza di uno storico rappresentante sindacale della Uil, Roberto Castagna, che ha raccolto sotto forma di intervista al giornalista Francesco Kostner nel libro Leader al contrario (Luigi Pellegrini Editore).

Anima. Cuore. Concretezza. Tanta passione. E un’invidiabile conoscenza dei problemi, passati e presenti, della regione, del Mezzogiorno e del Paese. Il tutto, sullo sfondo delle drammatiche vicende ucraine, delle ripercussioni geopolitiche causate (e prefigurabili) a causa della guerra, e di altri avvenimenti, che rendono incandescente lo scenario internazionale in questo momento storico. 

Sono questi e mille altri gli argomenti, di carattere economico, sociale, culturale, politico-istituzionale, che caratterizzano Leader al contrariolibertà, giustizia sociale, tutela dei lavoratori -, la corposa intervista, che Roberto Castagna, storico esponente della Uil calabrese con importanti incarichi ricoperti anche a livello nazionale, ha scritto con il giornalista Francesco Kostner. 

«Un dirigente di lungo corso, apprezzato e riconosciuto, con grande capacità di ascolto, di unire e fare squadra», lo definisce il segretario generale della UIL PierPaolo Bombardieri nella prefazione, secondo il quale nel libro, «letto con assoluto gradimento e soffermandomi a più riprese in analoghe riflessioni», è possibile «rintracciare non soltanto le qualità dell’uomo Roberto, ma anche le direttrici dell’esperienza sindacale e socialista, che ha trasmesso al nostro Paese inequivocabili impulsi di progresso, emancipazione, innovazione e giustizia sociale». 

Un’importante sottolineatura che fa il paio con le lusinghiere valutazioni nella postfazione di Giorgio Benvenuto, segretario generale della UIL negli anni ’80 del secolo scorso e attuale presidente della Fondazione “Bruno Buozzi”, secondo il quale Castagna è un «leader vero, autentico, competente, appassionato» e il libro, «che si legge e si rilegge con grande interesse, il colloquio tra un grande giornalista e un leader politico e sindacale carismatico».

Un protagonista della realtà, dunque, ma nel senso giusto del termine: «Cioè serio, responsabile, fidato, disinteressato», scrive l’autore, “sempre al servizio della propria organizzazione, dei propri iscritti, dei più deboli. Un testimone del proprio tempo, ma anche dei ‘tempi’ che, attraverso un impegno diuturno a difesa del lavoro e dei diritti dei lavoratori, ha modo di vivere, a diretto contatto con i suoi interlocutori. Le altre organizzazioni sindacali. Le controparti. I rappresentanti delle Istituzioni. Custode e testimone di un vissuto storico, culturale, economico, sociale, di momenti che hanno segnato la storia di un territorio. Di comunità e cittadini. Di operai alle prese con il rischio di perdere il lavoro, di imprese in crisi, contingenze difficili, cicli economici sfavorevoli. È ciò che è capitato anche a me”, prosegue Castagna, «in quarant’anni di impegno e di passione nella UIL, organizzazione sindacale cui sono grato per il percorso che mi ha consentito di fare. Un’esperienza fantastica, non facile, ma entusiasmante, che mi ha regalato momenti indimenticabili. Esperienze uniche. Incancellabili. Insieme con compagni inseparabili, amici sinceri e leali, riferimenti imprescindibili e preziosi di un pezzo di storia della nostra provincia, della nostra Regione. Tutto questo ho provato a raccontare in questo libro che dedico a mia moglie Mirella, ai nipoti e ai pronipoti Mario, Flavia e Giorgia. A questi ultimi, in particolare, perché sappiano che ogni esperienza nella vita va affrontata con onestà, lealtà e correttezza. E che, se è certamente possibile fare errori, mai bisogna anteporre i propri interessi a quelli, più importanti, del Paese e delle Istituzioni nelle quali si opera». 

I diritti degli autori saranno finalizzati alla realizzazione di iniziative di carattere socio-culturale, in particolare nel mondo della scuola, nel ricordo del Vigile del Fuoco e dirigente Uil Angelo Bonaventura Ferri, prematuramente scomparso nel 2020. (rcs)

Roberto Castagna, è stato Segretario nazionale della UILTE dal 1985 al 1990, Segretario provinciale della UIL di Cosenza dal 1990 al 2000, Segretario regionale della UIL Calabria dal 2000 al 2014, Segretario territoriale della UIL Cosenza dal 2014 al 2022. Attualmente è Segretario territoriale della UIL Pensionati di Cosenza.

Francesco Kostner, giornalista, già responsabile Relazioni esterne e Comunicazione e capo Ufficio stampa dell’Università della Calabria, ha pubblicato con Gianni De Michelis La lunga ombra di Yalta (3a ed. Marsilio, 2003) e La lezione della Storia – Sul futuro dell’Italia e le prospettive dell’Europa (Marsilio, 2013); con Enzo Paolini Agguato a Giacomo Mancini – Storia di un processo per ’ndrangheta senza prove (Rubbettino, 2011); con Costantino Belluscio Con Saragat al Quirinale e Il Vangelo secondo don Stilo – Il prete scomodo che per forza doveva essere mafioso (Pellegrini, 2020). Per Pellegrini ha pubblicato anche A tu per tu con la Scienza – Ritratti e testimonianze del nostro tempo (2022), La borsa o la vita? (2020), Confessioni di un Gran Maestro (2020) e il pamphlet Faccio quel che voglio e della legge me ne fotto! Intorno al concetto di delinquenza istituzionale (3a ed. 2021). Suo è anche il volume, scritto con Gerardo Sacco, Come l’Araba fenice – Rinascere dopo il Covid-19 (2a ed. 2021). Si occupa di educazione ai rischi naturali, tema al quale ha dedicato numerosi approfondimenti.  

Iubris, romanzo di Attilio Sabato

di FRANCESCO KOSTNER – Già il titolo: “Iubris” – termine che nella cultura greca riassumeva l’identikit di quanti, a causa di una smisurata considerazione di sé stessi, pensano, agiscono e valutano gli altri con distacco se non con tracotanza – è tutto un programma. Nel senso di inquadrare in modo efficace un elemento che dalla notte dei tempi ha segnato profondamente i rapporti tra gli individui e, dunque, la storia dell’uomo.

A fare il resto, è la trama del romanzo scritto per i tipi di Luigi Pellegrini Editore dal giornalista Attilio Sabato, direttore dell’emittente calabrese Teleuropa, che riesce a mettere insieme in maniera efficace protagonisti, comprimari, ambienti, contenuti, sfumature, ma, soprattutto, riflessioni di specifica attinenza alla complessa dinamica del potere, alle connesse ambizioni personali e alle peculiarità strutturali di un mondo complesso, di non facile interpretazione.

Il tema di fondo attorno al quale l’opera di Sabato si sviluppa riguarda il ruolo, la funzione, l’influenza negativa che alcuni “centri di potere” hanno svolto spesso (e tuttora, ahinoi, in molti casi esercitano) in paesini e piccoli centri urbani. Realtà tanto genuinamente protagoniste di vissuti semplici, di spinte solidali, di ricchezze umane di incomparabile importanza, quanto negativamente segnate dall’ossessiva, limitante, civicamente devastante politica di ben individuati attori locali (sindaci, medici, sacerdoti, congreghe etc.). Per cui, l’essere cittadino di questi mondi ha significato (e ancora in molte realtà vuol dire, sia pure con modalità e forme diverse rispetto al passato) subire condizionamenti pesanti. Limitazioni gravissime, anche e soprattutto di carattere culturale. Annebbiamenti “ideologici”, se così possiamo esprimerci, quando anche di profilo pseudo-religioso, alimentati da esigenze e aspettative di casta che, a fronte di una pressoché generale assuefazione, e a marcati profili di ignavia, hanno dato vita ad una quotidianità anomala. Spenta. Chiusa in se stessa. Poco incline ad allargare il confine delle proprie conoscenze. Ad investigare la propria identità. Elementi in conseguenza dei quali i cittadini sono diventati le vittime sacrificali di un gigantesco corto circuito democratico, in grado di lasciare indistinto, e dunque foriero di sempre più ampie e devastanti fratture sociali, il confine tra le esigenze reali di una comunità ed interessi rispondenti a precise logiche di potere, sideralmente distanti dalle prime.

All’interno di “Iubris”, la sequenza narrativa messa in piedi da Sabato (quasi che avverta l’esigenza di concorrere alla costruzione di una universale prospettiva di crescita civile) consente di mettere a fuoco questioni rilevanti: la correttezza dei comportamenti, il rispetto delle leggi, l’affermazione di un’etica pubblica inappuntabile, la consapevolezza che ogni cittadino deve avere dei propri diritti e doveri. Centrali, nel romanzo, non risultano solo gli scontri di potere tra i notabili del luogo. E nemmeno i cambi di casacca, che maturano con facilità impressionante, purché dall’altra parte della barricata vengano assicurati onori, prebende, riconoscimenti, vantaggi di ogni genere. E neanche la mai sufficientemente chiarita questione dei costi della politica che, almeno fino ad oggi, pochi hanno affrontato con onestà e concretezza, preferendo trovare riparo all’ombra di scenari caratterizzati da mistificazioni, semplificazioni, populismi, ipocrisie di ogni sorta.

Si dispiega, invece, in tutta la sua prorompente concretezza, il senso politico-educativo del romanzo di Attilio Sabato. La volontà di raccontare – senza mai perdere di vista l’attualità – le ferree regole e i principali attori di un mondo che non ha mai cambiato realmente fisionomia. Identità. Ruolo.  E che continua ad essere condizionato da logiche clientelari, gravissime limitazioni culturali, estranee al senso più pieno, alla dimensione più vera, ai riflessi più importanti dello spirito e dell’agire democratico.

Forse la soluzione, di fronte a tanto sconquasso, risiede nella rassicurante prospettiva palingenetica (che Sabato fa propria) verso cui il nostro mondo dovrebbe indirizzarsi, e che da decenni tiene banco assieme alle amare riflessioni di tanti (troppi) cittadini, e di altrettanti giovani delusi, bighellonati. Vittime designate di locuzioni vuote. Inconcludenti. Oltre che dall’assenza di un progetto politico degno di tal nome.

Il problema, a questo punto, è capire perché non sia ancora successo che i bersagli di questa nefasta condizione abbiano trovato il coraggio e la forza di reagire. E perché, ancora oggi, appaia una chimera anche il pensiero che questa rivoluzione delle coscienze possa realizzarsi.

Chissà che non diventi possibile, prima o poi, anche attraverso la lettura di “Iubris”. Il quale, oltre a regalarci una bella storia, mette in luce un profilo pedagogico che è bene non perdere di vista. Unendo al senso e alla profondità del romanzo, la certezza che l’agire consapevole e responsabile di ogni cittadino sia alla base di qualunque reale possibilità di cambiamento. Di qualsivoglia obiettivo di trasformazione della società e del perseguimento dei suoi primari interessi.

IUBRIS
di Attilio Sabato
Luigi Pellegrini Editore, ISBN 9791220501149

Giustizia è fatta! di Luigi Mazzei

di FRANCESCO KOSTNER – Luigi Mazzei, con la collaborazione della giornalista Velia Iacovino, racconta la drammatica vicenda giudiziaria in cui è rimasto coinvolto e rispetto alla quale, dopo quattordici anni di indicibili sofferenze personali e familiari, è stato assolto con formula piena.

Il titolo del libro, in prima battuta, e come sommaria ma significativa rappresentazione del suo contenuto, dovrebbe essere sufficiente ad evidenziare che le gravissime accuse mosse nel 2007 dalla procura della Repubblica di Lamezia a carico dell’imprenditore Luigi Mazzei (truffa ai danni dello Stato, falso ideologico, evasione fiscale, esportazione di capitali all’estero, bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e false fatturazioni), alla fine di una storia assurda e per molti aspetti inquietante, si sono rivelate infondate.

In secondo luogo, le poco più di centoquaranta pagine (presentate dal giornalista Piero Sansonetti), attraverso cui si sviluppa il racconto di questa incredibile vicenda, dovrebbero riuscire a dar conto di ciò che è accaduto fino al 22 giugno 2021, quando la seconda Sezione penale della Corte d’Appello di Catanzaro ha posto fine all’odissea giudiziaria di Mazzei, assolvendolo perché il fatto non sussiste.

Vorremmo, a questo punto, proporre una breve riflessione, che potrebbe arricchire il confronto, sia su quanto accaduto, sia, più in generale, sul tema della Giustizia. Il punto di partenza riguarda il titolo del volume. O, per meglio dire, il segno di interpunzione che lo completa. Con una domanda di fondo: va bene il punto esclamativo in copertina, o sarebbe stato più efficace, e giusto, di fronte a questa ennesima storia di ordinaria ingiustizia, un punto di domanda?

La questione non è di secondaria importanza. Il punto interrogativo, a nostro parere, avrebbe consentito di mettere a fuoco un aspetto rilevante. Mazzei, come si diceva, è stato assolto da ogni addebito. E ha dovuto aspettare un tempo infinito, fuori da ogni logica in linea con i nostri principi costituzionali, prima di poter ascoltare il verdetto che lo ha riabilitato agli occhi della Giustizia, visto che l’opinione pubblica non ha mai smesso di considerarlo come era conosciuto prima dei fatti. Cioè, una persona perbene oltre che un bravo imprenditore.

L’interrogativo cui stiamo facendo riferimento, riguarda le conseguenze legate all’assoluzione di Mazzei. E cioè: visto che, secondo la Corte d’Appello di Catanzaro, non avrebbe dovuto subire quel che è stato, il riconoscimento della sua innocenza fino a che punto può essere considerato espressione di una condizione – appunto la Giustizia fatta! – tanto importante quanto insacrificabile? Può bastare, non solo all’imputato, ma alla società, alla comunità, ai cittadini?

Il nostro parere è no!!! E i tre segni di interpunzione, questa volta, sono senza alcuna incertezza collocati al termine della frase. Non può soddisfare Mazzei, e nemmeno un Paese che si aspetta e deve pretendere un esercizio equilibrato, puntuale, responsabile (a questo punto verrebbe da dire anche non cervellotico) della Giustizia. Perché, di fatto – ed è la questione che più ci preme – non può parlarsi di una condizione con siffatte caratteristiche. Un punto rilevante, in quel che è accaduto, risalta nel libro. Casi giudiziari come quello di Luigi Mazzei, che fa la sua apparizione sulla scena come imputato di reati gravissimi e, solo dopo quattordici anni, con la famiglia e l’attività imprenditoriale a pezzi, scende dal palcoscenico tritacarne sul quale, suo malgrado, è stato costretto ad esibirsi, mettono in luce una Giustizia che (almeno in questo caso) non funziona. Una Giustizia, come si dice, ingiusta. Anche, con ogni probabilità, inadeguata. Il che comporta la negazione di una fondamentale funzione del nostro sistema democratico, e il venir meno di un presupposto basilare dello Stato di diritto.

Per dirla in modo ancora più chiaro, e conclusivamente: se Mazzei ha avuto quel che gli spettava e attendeva, cioè l’assoluzione perché il fatto non sussiste, lo stesso non può dirsi per chi parrebbe aver clamorosamente sbagliato nell’esercizio della propria attività. E, dunque: il punto esclamativo da cui siamo partiti è corretto? O sarebbe stato preferibile un bel punto di domanda, che avrebbe lasciato sul campo i dubbi, le preoccupazioni, gli inquietanti interrogativi di una vicenda assurda e inquietante?

La nostra idea dovrebbe essere chiara. La vostra, cari lettori?

GIUSTIZIA È FATTA!
di Luigi Mazzei
Luigi Pellegrini Editore

Il giudice, sua madre e il basilisco – di Pantaleone Sergi

di FRANCESCA RAIMONDI – Il romanzo Il giudice, sua madre e il basilisco (Pellegrini, Cosenza 2022, pp. 168) con il quale Pantaleone Sergi torna in libreria a cinque anni dal successo di Liberandisdomini, descrive con delicatezza e senza calcare la mano, un fenomeno articolato e complesso come quello della mafia calabrese, mediante un linguaggio sapientemente costruito e profondamente immaginifico.

La scelta di narrare l’inferno della Santa ’ndrangheta per il tramite della tenerezza familiare – come ha scritto Alessandro Gaudio, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università della Calabria – restituisce con maestria cosa può arrivare a essere un territorio che su quell’inferno è costruito.

Gli elementi di originalità presenti, infatti, permettono al racconto di staccarsi da modelli standardizzati e stereotipati di storie di ’ndrangheta, senza mettere in campo i soliti colpi di scena dei romanzi “tradizionali” sull’argomento.

Al fondo di questo racconto, non c’è tanto la solita storia di mafia, con tutti i suoi connotati tipici, quanto una storia sul destino dell’individuo che, in parte, ciascuno si costruisce da sé ─ come la protagonista Marelina ─ in parte è determinato dal passato  ─ il figlio Enrico Zanda, il giudice  ─  e in parte deriva da una combinazione di elementi accidentali ─ dalle circostanze, dai luoghi, dalla società, dal contesto ─  come si ricava dalla storia del capomafia don Sarazzo Borrello, “il Basilisco”, la cui vita s’incrocia drammaticamente con quella del giudice e della madre.

Il passato si ripresenta alla generazione del presente che, a prima vista, non lo riconosce ─ non nei termini tragici e ineluttabili della tradizione calabrese (che poi risale alla tragedia greca) ─ bensì lo avverte come “destino incompiuto”. Nel susseguirsi delle vicende, s’intravede un disegno superiore, non necessariamente divino e neppure religioso, volto a dare un assetto (o riassetto) complessivo all’intera storia.

Quando tutto finisce, tutto ricomincia, con un flebile motivo di speranza anche per la Calabria, individuato, senza troppa retorica, nelle donne, tanto nella loro delicata disposizione al sentimento quanto nella loro pervicacia e intelligenza, mediante un’appropriata descrizione dell’agire femminile nelle varie situazioni di vita. Marelina, la sua amica Melinna, Giuliana figlia ed erede del boss, la sorella Roberta e Luisanna sua figlia sono altrettante icone di una concezione diversa della vita e dei suoi valori e ciascuna di esse trasmette al lettore un messaggio forte e chiaro: la vita è sempre e comunque frutto di una libera scelta. Questa speranza chiude il cerchio che, all’inizio, si era aperto sulle speranze di Marelina che abbandonava la mitica Mambrici, luogo della fantasia letteraria in cui Sergi ambienta i suoi racconti.

Speranza che è necessaria e rende esplicite, una volta di più, le capacità di narratore di Sergi, attento anche alla struttura della storia che sta raccontando.

L’autore è stato inviato speciale de “la Repubblica” per trent’anni e quindi docente di Storia del Giornalismo e di tematiche sulla Comunicazione presso l’Università della Calabria. Il suo primo romanzo, Liberandisdomini, pubblicato sempre da Pellegrini, è stato ben accolto dalla critica (ha ricevuto il Premio Letterario nazionale Amaro Silano, il Premio Padula e il premio Carlo Alberto Dalla Chiesa), dalla stampa nazionale e dal pubblico dei lettori. (frr)

IL GIUDICE, SUA MADRE E IL BASILISCO
di PANTALEONE SERGI
Luigi Pellegrini Editore ISBN 9791220500906

“Quando c’era la politica” di Filippo Veltri

di PINO NANO –

Appena fresco di stampa l’ultimo libro del giornalista Filippo Veltri, Quando c’era la politica (Ferrari Editore, 112 pagine), e in cui il vecchio Caporedattore dell’’Ansa in Calabria ripercorre le fasi più complesse ma anche quelle più esaltanti del percorso politico regionale, riflettendo sulle soluzioni che in Calabria sono ancora possibili alla politica, e su quelle invece rispetto alle quali la politica non è più adeguata ad arrivare fino in fondo. Una analisi impietosa e senza rete che apre un grande dibattito.

Lo stereotipo purtroppo non cambia mai. Calabria all’anno zero, Calabria regione di fallimenti e di sconfitte, Calabria terra di diritti negati, Calabria regno del disordine amministrativo e del caos istituzionale, Calabria terra di malaffare, e ultima regione d’Europa. Ma cosa c’è di vero in tutto questo, oggi alle soglie del 2023?

In parte molto, ma molte altre cose sono per fortuna – ammette Filippo Veltri – sono cambiate negli anni. Per il grande cronista calabrese non tutto in Calabria va oggi letto in chiave negativa: «Certo che ci sono politici e momenti della politica diversi, positivi, corretti, sani. Ma è il quadro d’assieme – scrive con grande efficacia Filippo Veltri nel suo nuovo libro- che deve essere visto, corretto, analizzato. Nel cielo ci sono la luna e le stelle».

Diretto, completo, immediato, analitico, ricco di dettagli, di riferimenti temporali, di nomi di sigle e di progetti che hanno profondamente segnato la storia calabrese, Filippo Veltri riscopre in questo saggio la sua vera anima di cronista politico navigato e soprattutto appassionato, cronista severo ma anche vecchio militante politico, intellettuale e poeta insieme, un mix di emozioni e di analisi che trasforma il suo saggio in un racconto coinvolgente sul regionalismo e sul futuro di questa regione del Sud così lontana ancora da tutto.

«Il mio ultimo libro, scritto nel 2021, insieme al mio amico Franco Ambrogio – premette Filippo Veltri –, è dedicato al fallimento del regionalismo dopo oltre cinquant’anni dall’istituzione delle Regioni in Italia. Dopo un arco di tempo così ampio si può infatti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell’emergenza Covid ma che erano già venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni».

Da vecchio militante comunista, “puri e duri”, si diceva così un tempo, perché Filippo tale era, il libro di Veltri riflette, con un serrato confronto a più voci, quello che molta parte della sinistra italiana (e non solo, in verità) sta ora mettendo a fuoco: «Non si è raggiunto – riconosce – l’obiettivo di avvicinare l’Istituzione ai cittadini e le regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anziché aiutare a risolverli».

Come dargli torto? Da qui di sviluppa poi il ragionamento tutto “veltriano” della politica calabrese: «Ecco – scrive il grande cronista – la nascita della regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio Calabria, è un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi. Forse, bisognerebbe tornare a riflettere sulla nostra storia più recente senza omissioni o municipalismi di ritorno, giustificazioni che hanno fatto il loro tempo dopo un cinquantennio e passa».

112 pagine da leggere in un fiato, una scrittura veloce, dal taglio moderno, utile soprattutto ai più giovani che non hanno neanche idea di cosa sia stato il passato dei loro padri in Calabria, ma che conoscono invece bene l’attualità del momento politico e che Filippo Veltri giudica da osservatore distaccato come dannoso al futuro del Paese: «Perché populismo e qualunquismo – scrive – nascono alla fine da questo, e serve a poco la lamentazione se non c’è vera ed effettiva partecipazione dal basso. Se la cittadinanza non diviene attiva. Parolina magica ma unica strada».

Rieccola la sua vera anima, il grande cronista torna per un momento alla sua vecchia mania e insana passione politica, per ricordare ai suoi lettori quale dovrebbe essere il ruolo della politica e semmai la riscoperta dei partiti politici: «I partiti stanno ovunque perdendo la funzione che Benedetto Croce indicava, cioè operare per mandare nei Parlamenti «un buon numero di persone intelligenti, capaci, di buona volontà». I partiti in Italia hanno già perso questa funzione di tramite indicata da Croce perché le loro basi si sono limitate sempre di più».

E qui ha perfettamente ragione l’autore del saggio: «La politica, come disse tanto tempo fa un mirabile (lui sì) politico della prima Repubblica, Rino Formica, è sangue, sudore e merda. Lo era ai tempi di Formica, il quale non faceva minimamente cenni di autocritica o di lagnosi mea culpa, o peggio ancora di cenere sui capi per lavacri quanto mai fuori posto, ma stava al gioco e cercava di cambiarlo per quanto poteva e sapeva. O nemmeno ci provava a cambiarlo e si limitava a fotografare l’esistente, confermando alla fine i tre sostantivi che aveva messo assieme».

In un gioco di parole, Veltri riscopre la malinconia del passato: «La verità – scrive – è che la politica e la lotta politica erano allora solamente intellegibili, almeno un poco di più rispetto ad oggi, perché c’erano le sedi dove tutto avveniva. C’erano i partiti, innanzitutto, le sezioni, i circoli, le assemblee. C’erano le parrocchie e i sindacati, che per la verità ci sono anche ora ma un po’ più sbiaditi, più tenui, più regolari».

C’erano, insomma, i luoghi dove un potere di parvenza decisionale poteva essere esercitato. Attenzione, avverte però lo scrittore: «parvenza ma l’apparire è stato solo il fulcro e il motore che ha mandato avanti intere generazioni a spendersi e che ora non c’è più. Né l’apparire né lo spendersi. Ma questo è un ragionare che è valido ovviamente per tutto il nostro Paese, per l’Italia intera, da sud a nord e viceversa». Come si fa a non sottoscrivere questo manifesto?

E qui si innesta mirabilmente bene la post-fazione di Vincenzo Falcone, che in Calabria è stato tutto e il contrario di tutto in politica. Prima Grand commis della politica militante, poi parte integrante della stessa, poi confessore e spin doctor di molti dei protagonisti del regionalismo calabrese, e poi ancora giudice severo e inquirente delle loro colpe e dei loro tradimenti. Da qui il suo monito feroce: «Chi è chiamato a governare la Calabria deve sapersi scrollare di dosso il pesante peso del millenario sistema feudale che ha inginocchiato e immobilizzato questa regione a tutti i livelli. Deve avere la piena consapevolezza che non serve un modello di sviluppo tradizionale per liberarla dall’immobilismo e dalla stagnazione, in quanto le cause della debolezza dell’intero sistema regionale sono da attribuire a un fattore prevalentemente culturale. Deve assumere il pensiero di lungo periodo quale pilastro portante dello sviluppo sostenibile e della crescita strutturale in quanto il veloce ritmo dei mutamenti del sistema globale impone la ricerca di immediate strategie di adattamento alle mutevoli regole del mercato mondiale”. Una lucidità fuori dal comune, che lo aveva portato a diventare nel tempo- mi piace ricordarlo- pur essendo lui un uomo di sinistra, il grande saggio a cui far riferimento per ritrovare la bussola della crisi. Personalmente lo ammiro molto».

Ma il saggio di Filippo Veltri ha anche il grande privilegio di avere una prefazione “eccellente” scritta da un genio della statistica, Domenico Talia, professore ordinario di sistemi di elaborazione delle informazioni presso l’Università della Calabria, e autore di diversi libri a carattere scientifico e divulgativo sul tema dei Big Data. Non uno storico, dunque, né tanto meno un politologo, ma un analista puro dei dati che la storia ci offre. Questo spinge lo “scienziato dei numeri” ad una analisi viscerale, fredda, incontestabile e perfettamente aderente alle cifre reali del nostro tempo: «La Calabria di oggi – commenta Domenico Talia –  mostra picchi positivi in diversi ambiti che spesso non trovano analisti attenti, seppure in una geografia fatta di alcune carenze e criticità estreme (la sanità tanto per citare l’esempio più drammatico). Gli statistici direbbero che esiste troppa varianza».

Ma questo non basta a capovolgere il bicchiere della crisi: «Purtroppo, tante punte positive non fanno un sistema». Il giudizio del professore Talia è tranchant «Manca un sistema Calabria all’altezza delle sfide attuali. Ci sono esempi da studiare che si ergono sul caos, casi che hanno saputo creare ordine dal disordine. Le università, ad esempio, in Calabria come in tutto il Sud, sono grandi laboratori che, insieme ad altri, dovrebbero avere un ruolo di progettazione del domani. Contesti dove elaborare e proporre azioni concrete per trasformare la nostra antica identità in un fattore di competitività empatica. Bisognerebbe usare ogni mezzo, dalle nuove tecnologie alla letteratura, dall’antropologia al giornalismo, per scovare quello che c’è di buono e che a prima vista non appare».

Ma allora come se ne esce? Il matematico ha una sua certezza:” Serve lavorare per sistematizzare il sistema, per condividerlo e valorizzarlo. È questo il compito che la classe politica calabrese dovrebbe assumersi e che oggi purtroppo non sa svolgere con efficacia”. Finalmente una boccata di ossigeno, perché chi crede nella democrazia e nella libertà non può non condividere questa analisi. (pn)

QUANDO C’ERA LA POLITICA
di FILIPPO VELTRI
FERRARI EDITORE 
ISBN 9791280242150