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L’inchiostro di seppia è il vero tesoro di Cassiodoro

di SALVATORE MONGIARDOUn segreto riguardante Cassiodoro è arrivato a me tempo fa. Mi trovavo al Mulinum di San Floro, ospite di Stefano Caccavari, dove ho conosciuto l’avvocato Antonio Prejanò, nato a Catanzaro nel 1953. Egli risiede a Copanello, a poca distanza dalla chiesetta di cui si vedono ancora le fondamenta, detta di San Martino, con abside rigorosamente volta a oriente. Accanto a quella chiesetta, intorno al 1950, fu scoperto il sarcofago chiamato Tomba di Cassiodoro.

Cassiodoro (485-580 d. C.), originario di Squillace, nobile e coltissimo fu per decenni ministro dei re Goti a Ravenna, in particolare di Teodorico, finché, stanco di politica e guerre, si ritirò nella natìa Squillace nel 554 d. C., dove fondò il Vivarium. Ancora oggi sono visibili i contorni rocciosi degli scogli affioranti dal mare di Copanello, dove si rinchiudevano i pesci vivi, specialmente cefali: vivarium significa vivaio di pesci, peschiera.

Quei pesci erano destinati alla mensa dei cenobiti che seguivano Cassiodoro. Egli istituì lì uno scriptorium per la raccolta e la copiatura di manoscritti, che, assieme a quello dei benedettini, fece da modello ai monasteri medievali. Basti ricordare che dal Vivarium proveniva il cosiddetto Codex Grandior, che fece da modello in Europa per le riproduzioni più importanti della Bibbia fino alla stampa di Gutenberg (1455). Il Codex fu realizzato nel Vivarium con circa cinquecento pelli di pecora ed è enorme, tanto che ci voleva un carro per trasportarlo. Una copia di esso, fatta in Inghilterra intorno al 700 d. C., fu donata al Papa e ora si trova a Firenze. 

Per inciso, ricordo che il romanzo Il quinto evangelio di Mario Pomilio (1975), capostipite dei romanzi con monasteri, biblioteche e cattedrali, prende le mosse dallo scriptorium del Vivarium e fu seguito da Il nome della rosa di Umberto Eco (1980) e da tanti altri.

I monaci del Vivarium copiavano i codici su pergamena, cioè pelle di pecora o capra, che facevano con inchiostro di seppia, di ottima qualità e di color marrone tendente al rossiccio. Qui entra in scena Antonio Prejanò, la cui nonna materna era Maria Piccinné, discendente di un nobile francese che, sotto gli Angioini (circa 1300-1400 d.C.), aveva sposato a Stalettì l’ultima discendente della famiglia di Cassiodoro.

Antonio riporta queste informazioni sentite in famiglia da bambino, quando vedeva ancora la pesca delle seppie fatta da due famiglie di pescatori di Stalettì, Accorinti e Garofalo. La pesca vista da Prejanò avveniva intorno al 1960, quando però il prezioso inchiostro di seppia non era più usato per copiare codici, ma finiva in mare o in cucina. 

Dunque, il breve pendio che dalla chiesetta di San Martino arriva al mare, era allora ricoperto di erica arborea dai profumati fiori bianchi, arbusto sempreverde. La sua radice nodosa molto forte è ancora usata in ebanisteria per oggetti di pregio, specie le pipe. L’erica è leggermente appiccicosa e i pescatori ne mettevano dei rami dentro le nasse o ne facevano delle fascine legate a una pietra, che buttavano in mare vicino agli scogli. Le seppie risalgono dalle profondità marine tra gennaio e aprile per deporre le uova. In tale stagione i pescatori ponevano in mare le nasse nelle quali le femmine entravano per deporre le uova, e così venivano catturate. Oppure le pescavano con le reti calate vicino alle fascine: era questa la pesca più ricca perché richiamava i maschi che si lottavano tra di loro. Prejanò ricorda la pesca di un esemplare di otto chili, fatta da Giuseppe Bocchino.  

I pescatori di Stalettì, il paese che sorge sul promontorio di Copanello, ancora nel 1960 dicevano che l’inchiostro di seppia era il vero tesoro di Cassiodoro, perché permetteva la trascrizione dei numerosi codici. Essi riferivano una tecnica usata nell’antichità per salvare l’inchiostro, impedendo alla seppia di versarlo per nascondersi. I pescatori antichi, difatti, usavano un bastoncino che infilavano nell’orifizio nella pancia della seppia, collegato alla sacca dell’inchiostro, e così l’inchiostro non fuoriusciva. Tanto mi è confermato da Antonio Longo, pescatore di Soverato, dove è nato il 20 giugno 1977.

Da casa mia a Soverato vedo il promontorio di Copanello e penso alla fatica dell’evoluzione umana. La seppia cerca di riprodursi, il pescatore la cattura, il monaco di Cassiodoro scrive la Bibbia, Gutenberg la stampa, Lutero la traduce in tedesco, il mondo è pieno di copie in tutte le lingue, ma è senza pace come ai tempi di Cassiodoro. Sono cosciente, ma non affranto, perché so che il grande cambiamento evolutivo è vicino e partirà dalla Calabria, dove vissero grandi profeti di pace come Pitagora, Cassiodoro e Campanella. (sm)