1° MAGGIO, L’OCCASIONE PER RIFLETTERE
SULLA CALABRIA E IL LAVORO CHE NON C’È

di FRANCESCO RAO – Quella del Primo Maggio, oltre ad essere la “festa dei lavoratori”, vorrei potesse diventare presto un’occasione annuale per riflettere in lungo e in largo sulle sorti dei tantissimi “giovani adulti”, sempre più immersi come pesci nel mare della disoccupazione e privati di un diritto costituzionale chiamato lavoro. Alla luce dei dati pubblicati recentemente da Il Sole 24 Ore, in Calabria, il reddito medio, stante alla dichiarazione dei redditi 2022, è poco superiore ai 15.000 euro. Già questo dato, senza dover accedere ad altri indicatori utili ad analizzare la qualità della vita, in tutta la sua complessità, descrive la difficilissima condizione sociale che avvolge le famiglie della nostra regione, inibendo tra l’altro ad una parte di esse l’ipotesi di poter assistere alla realizzazione dei propri figli in questa terra. 

In modo particolare, tale circostanza riguarda quanti hanno conseguito titoli di studio difficilmente spendibili in un mercato del lavoro particolarmente complesso come quello calabrese. Seppur rispetto al passato si registrino alcuni cambiamenti strutturali, i processi di istruzione e formazione, al cospetto di un’evoluzione continua dei sistemi di consumo e produzione globale, continuano a essere asimmetrici, divenendo agli occhi degli analisti e dei diretti interessati una forbice che anziché chiudersi per offrire opportunità occupazionali, continua ad aprirsi lentamente generando inoccupazione per i più giovani e disoccupazione per quanti hanno perso o perderanno il posto di lavoro. 

Tale fenomeno, come già registrato in altre parti del mondo sovrapponibili per indicatori alla nostra realtà socio-economica, alimenta un duplice effetto: dal punto di vista quantitativo, incide direttamente sui processi occupazionali; dal punto di vista qualitativo gli effetti sono rilevabili nel rapporto qualità/soddisfazione per il lavoro svolto, circostanza che nel tempo farà registrare al mondo imprenditoriale forti difficoltà nel reperire Risorse Umane, mettendo a repentaglio la continuità aziendale. A destabilizzare ancora di più il sistema, nel corso degli ultimi anni, sono intervenuti altri fattori di natura culturale: in primis la penuria di formazione e aggiornamento continuo per i lavoratori, procedura ormai indispensabile per far fronte all’obsolescenza professionale e quindi alla continuità occupazionale. 

Nel corso dell’ultimo anno, la crisi economica post-pandemica e le crescenti difficoltà dettate dall’inedita inflazione generata dall’aumento del costo delle risorse energetiche, dovute al conflitto tra Russia e Ucraina, continuano incessantemente a incidere facendo registrare la mancanza di apposite misure atte a mitigare nel medio e nel lungo periodo un bagno di sangue occupazionale. 

Senza voler scendere in particolari tecnicismi, una tra le criticità maggiore da affrontare con urgenza è rappresentata da un’asimmetria tra domanda e offerta di lavoro che ne cristallizza il forte disallineamento tra le competenze richieste dai singoli settori e la reale disponibilità introdotta dai soggetti interessati ad ottenere un contratto di lavoro. Se in passato tale requisito afferiva principalmente al pubblico impiego, oggi si è letteralmente esteso anche ai contesti produttivi del settore privato, decretando in buona parte la fine del lavoro manuale e la crescente domanda di profili professionali altamente specializzati. 

Il “corto circuito occupazionale” ormai in atto, in parte potrebbe essere dovuto a seguito delle aspettative professionali avanzate da quanti hanno conseguito titoli di studio maggiormente elevati. In tal caso, la propensione a capitalizzare le competenze acquisite con specifici inquadramenti contrattuali a volte risultano essere inapplicabili dai vari settori di riferimento a causa delle limitate opportunità nel raggiungere velocemente mercati emergenti e dall’imponente cuneo fiscale posto a carico degli imprenditori. La conseguenza a tali dinamiche, nel breve periodo potrebbe tradursi in una crescente inoccupazione volontaria e nel medio periodo diverrà motivo principale per emigrare, esportando altrove competenze, entusiasmo e nuove opportunità 

Nelle osservazioni compiute da Bruxelles, dall’OCSE e dall’INDIRE, oltre alle profonde fratture che traggono origine dalle ben conosciute cause riconducibili alla diffusa povertà educativa, rilevabile in modo particolare nelle aree interne della Calabria, vi è la duplice responsabilità per aver disatteso nel tempo le numerose analisi sociali compiute e nell’aver utilizzato ingenti finanziamenti regionali, nazionale ed europei che di fatto non hanno prodotto i risultati attesi. 

In tal senso, la povertà educativa e la dispersione scolastica continuano ad essere criticità evidenti perché ancora oggi persiste un limitato ricorso al tempo scolastico prolungato, quale autentico antidoto alle difficoltà vissute dagli studenti maggiormente afferenti a segmenti sociali fragili; a ciò si aggiunga la penuria di asili nido indispensabili a garantire l’accesso al mondo del lavoro anche all’universo femminile; la debole e in taluni casi inesistente sinergia programmatica tra la scuola e mondo produttivo e  non per ultimo, il reiterarsi di una serie di indirizzi scolastici poco allineati alle esigenze di un mercato del lavoro riconducibile al modello “industria 4.0” che richiede urgentemente oltre alle competenze umanistiche anche quelle informatiche e tecnologiche.

Dalle colonne di Calabria.Live, considerate le circostanze trattate brevemente, vorrei condividere una proposta tesa a vivere in futuro un Primo Maggio da intendersi sia come la Festa dei Lavoratori sia come un’occasione nella quale gli “stati generali dell’occupazione e del lavoro”, rendano note proposte e strumenti atti a superare l’atavica crisi occupazionale che affligge da sempre il Meridione. Insomma, un momento solenne nel quale tutti i dati elaborati nel corso dell’anno da una cabina di regia composta dai rappresentanti del mondo del lavoro e delle professioni, dalla scuola, dai decisori politici e da rappresentanze studentesche possano divenire atti e indirizzi programmatici da sottoporre ai legislatori regionali e nazionali al fine di consentire loro, per le rispettive funzioni, di poter agire per rivedere a cadenza periodica la curvatura dell’offerta formativa e tutte quelle misure attuabili e atte a incidere nel breve e nel medio periodo con l’intento di invertire l’attuale trend per il quale si continuano a registrare fughe di cervelli, un aumento della disoccupazione giovanile e la costante desertificazione culturale, con conseguenti ricadute negative rilevabili tanto nei settori produttivi quanto sugli assetti politico-istituzionali dei vari territori. Non per ultimo considerando anche il costo pubblico generato dalla quota di devianza sociale che in marginali trova particolare attecchimento.

Vi è poi un capitolo a parte, sul quale si continua a marciare a vista forse perché manca la lungimiranza nel voler comprenderele potenzialità economico-produttive e occupazionali esprimibili dal turismo e dall’agricoltura. In tal senso non è mia intenzione sviluppare alcuna analisi, considerando l’evoluzione dei rispettivi settori e la domanda di elevate professionalità, mi limiterò a fare una domanda: annualmente, quanti sono i diplomati e laureati in ambito agrario e turistico in Calabria? Le considerazioni potrebbero essere scontate: non sono mancate le opportunità, è mancata la cultura. (fr)

Francesco Rao sociologo,  docente a contratto Università “Tor Vergata” Roma

MERCATO DEL LAVORO: LA CALABRIA NON È
UN PAESE PER GIOVANI, LO DICONO I NUMERI

Le cause della scarsa partecipazione dei giovani italiani al mercato del lavoro sono in parte culturali, in parte legate alla mancanza del servizio di orientamento e alla non corrispondenza tra formazione e qualità delle prestazioni richieste dal tessuto produttivo.

La questione dell’occupazione giovanile è gettonatissima sui social, ma se vogliamo parlarne senza sceneggiate è opportuno guardare qualche numero e fare qualche ragionamento.

In primissimo luogo le cifre della disoccupazione, che, ricordiamo, indicano quanti giovani cercano attivamente lavoro senza trovarlo. In Italia nel 2021 erano il 9,5% della popolazione in età da lavoro, contro il 3,6% della Germania, il 7,9% della Francia, il 7,7% dell’Area Euro. In generale nell’UE solo Spagna e Grecia sono messe peggio di noi.

Tuttavia se scendiamo nel dettaglio dell’occupazione giovanile esistente scopriamo qualcosa di interessante: nella fascia 15 – 24 anni il 23,9% degli occupati è sottoposto all’orrendo part time, ma in Danimarca sono il 45%, in Germania il 24%, in Olanda il 54% e nell’Area – Euro il 25%.

Da notare anche il dato sui contratti a termine: in Italia il 61% dei giovani tra 15 e 24 anni è occupato con contratto a termine, ma il dato non è lontanissimo da quello francese (56,1%) svizzero (54%) e addirittura inferiore a quello olandese (68%): segnale di una condizione largamente diffusa, per quella classe di età, in tutta Europa e non peculiarmente italiana.

È diffuso il fenomeno per cui ai giovani vengono inizialmente offerti posti di lavoro a basso contenuto professionale, ma non è un fenomeno tipico italiano; se guardiamo a due paesi paragonabili anche per popolazione all’Italia, vediamo che i giovani tra 15 e 24 anni sono occupati in professioni “elementari” (dati 2021) in numero di 148.000 in Italia, 149.000 in Germania, e 208.000 in Francia. Un altro profilo professionale piuttosto basso è quello dei sales services: in Italia 310.000 gli addetti, in Francia 333.000, in Germania 375.000. I giovani italiani non sono sostanzialmente più sottoccupati dei coetanei europei.

Tuttavia sono meno qualificati: sempre nella fascia 15-24 anni in Italia hanno concluso la secondaria superiore 1.612.000 lavoratori, contro 2.280.000 della Francia e 4.324. della Germania; sono laureati 627.000 italiani, 2.391.000 francesi e 1.696.000 tedeschi.

Alto invece il numero dei giovani italiani 15-24 anni che avviano un’attività autonoma: 99.200 in Italia contro 85.500 della Francia e 74.800 della Germania (dati 1° quadrimestre 2022). Il che però non è di per sé indice di una particolare propensione all’imprenditorialità ma sconta piuttosto un diffuso utilizzo del rapporto di lavoro autonomo da parte delle imprese per aggirare vincoli e costi del lavoro dipendente.

Sorprendentemente, le retribuzioni dei giovani italiani non sono da fame: nella fascia under 30 per un full timer la retribuzione media lorda annua espressa in PPS (Parità di Potere d’Acquisto) è di 25.123 € (dato Eurostat 2018); in Francia è di 23.434 €, in Germania 30.187 E, in UK 25.132 €, in Olanda 28.518 €.

I giovani italiani che percepiscono un salario povero (cioè inferiore ai 2/3 del salario mediano nazionale) sono il 15,94% del totale, in Francia il 15,85%, in Germania il 32% e in Olanda il 45% (in questi casi è determinante l’uso intensivo del part time) e nell’area Euro del 28%.

La retribuzione oraria espressa in Parità di Potere d’Acquisto per i lavoratori under 30 è di 10,53 € in Italia, 11,83 € in Francia, 12,74 € in Germania, 10,02 in Olanda e 11.8 euro per l’Area Euro.

Recentemente ha avuto una certa notorietà la notizia che le retribuzioni aumentano al crescere dell’anzianità: trattasi di ovvietà. A parte il fatto che gli stessi CCNL premiavano fino a poco tempo fa l’anzianità aziendale (e in alcuni casi lo fanno ancora) è naturale che le imprese privilegino in linea di massima, a parità di profilo professionale l’esperienza lavorativa.

Non è peraltro un fenomeno italiano: Eurostat ci dice che se prendiamo in considerazione tre classi di età (<30 anni, 30-50 e >50) nell’area € il rapporto tra la seconda classe e la prima è pari a un incremento di 138 vs. 100, in Germania di 153 vs. 100, in Francia di 140 e in Italia di 132. Siamo in linea con la realtà europea e addirittura ai margini inferiori per incremento dei salari in relazione all’età.

Non sono disponibili dati sui tirocini extracurricolari che comunque esistono, sia pure regolamentati in modi molto diversi, in tutta l’Ue. Altresì non esistono, ovviamente, dati attendibili sul lavoro nero o grigio, che certamente coinvolge un numero significativo di giovani, probabilmente in misura superiore a quella dei Paesi UE di maggiore industrializzazione, ma non certamente tale da determinare un differenziale decisivo sul complesso dell’occupazione giovanile.

Nonostante questi dati che dimostrano come le condizioni di lavoro offerte dal mercato ai giovani italiani siano del tutto simili a quelle dei giovani europei, ci differenziamo nettamente per la partecipazione dei giovani al mercato del lavoro: il dato dei Neet (Not in Employment,  Education or Training) tra i 15 e 29 anni è del 29,8%; nell’Area Euro è pari al 16,4% della popolazione di questa fascia d’età, in Germania del 14,6%, in Francia del 17,4& e perfino in Spagna e Grecia è inferiore (18,4% e 16,5%).

D’altra parte questo dato ha riscontro nell’analisi condotta da Eurostat sul labour slack, che dimostra come l’Italia potrebbe incrementare le forze di lavoro (la somma di chi lavora e di chi cerca lavoro) di quasi il 12%: un dato enormemente superiore a quello degli altri paesi europei (la seconda in graduatoria è l’Irlanda con poco più del 6%, la Francia e la Germania stanno attorno al 4%). Questi numeri si riferiscono al totale della popolazione in età da lavoro, ma è evidente la coincidenza con quelli riferiti alla fascia più giovane.

In sostanza il fenomeno italiano dei Neet è semplicemente il manifestarsi in quella determinata fascia di età di una propensione a fuggire dal mercato del lavoro che è comune alla società italiana.

Occorre, per verità, dire che è molto probabile che una quota consistente di Neet coincida con quote di lavoro nero, e ancor più di lavoro “grigio” (e questa è probabilmente una caratteristica “tutta italiana”) ma non in misura tale da giustificare la sproporzione con i Neet di Germania o Francia, a meno di postulare che tutti i lavoratori in nero in Italia appartengano alla fascia di età 15-9 anni.

In definitiva l’unico dato strutturale che sembra avere un effetto determinante sull’occupazione giovanile in Italia è quello relativo alla formazione e ai servizi al lavoro. Quanto alla prima basti notare che il mismatch tra domanda e offerta di lavoro nella fascia di età giovanile è del 41% per i profili più qualificati (programmatori, infermieri, disegnatori industriali, idraulici, elettricisti: come si vede, non scienziati nucleari, ma profili tranquillamente alla portata del sistema nazionale di istruzione-formazione).

Quanto ai secondi negli ultimi anni (e non solo a dire il vero) le politiche attive sono prevalentemente consistite in sgravi fiscali e contributivi per le aziende, in qualche intervento di sistema (Garanzia Giovani, Dote Lavoro Lombardia) e in zero servizi di orientamento, però in compenso in una importante mole di interventi normativi atti a vietare forme “improprie” di accesso dei giovani all’occupazione e a disincentivare, anche su pressione dei sindacati, forme innovative quali l’alternanza scuola-lavoro.

In definitiva: la disoccupazione giovanile italiana non è dovuta, se non marginalmente, a una propensione malvagia delle imprese a sfruttare i giovani lavoratori, che hanno in Italia trattamenti sostanzialmente analoghi a quelli di tutta Europa. Esiste un problema reale di formazione – istruzione e di servizi al lavoro, cui in generale le forze politiche e i sindacati rispondono non con politiche attive mirate ma con sussidi, divieti e obblighi.

A dimostrazione di una ormai conclamata inadeguatezza di forze politiche e sindacati a governare il mercato del lavoro e della connessa scelta di ripiegare sulla propaganda. Resta da comprendere se, oltre a questi dati oggettivi, vi sia anche una propensione “culturale” dei giovani italiani, che sarebbe interessante indagare. Ma questa, come si dice, è un’altra storia…

[Courtesy pietroichino.it]

REDDITO DI CITTADINANZA, TRA POLEMICA
ELETTORALE E SOSTEGNO PER I PIÙ DEBOLI

di PIETRO MASSIMO BUSETTAVoto di scambio o grido di dolore? Il reddito di cittadinanza continua ad essere un tema centrale rispetto all’andamento della competizione elettorale.

In molti lo ritengono uno strumento che è stato utilizzato in modo perverso da un raggruppamento politico senza scrupoli. Il Movimento Cinque stelle lo difende a spada tratta sfidando chiunque voglia eliminare una misura che, sostengono, ha salvato molti dalla povertà in un periodo particolarmente difficile, prima caratterizzato dalla pandemia ed ora da un aumento dell’inflazione che sta erodendo molti dei redditi degli italiani e delle pensioni, soprattutto quelle più basse. 

La cosa più facile é dire che incoraggia molti a scegliere di non lavorare, perché è molto più comodo avere un sussidio, che ti arriva mensilmente, piuttosto che faticare per avere un salario decente. E poiché tale strumento è utilizzato prevalentemente nelle regioni del Mezzogiorno il pensiero conseguente é che i meridionali sono nullafacenti, scansafatiche, e per essere completi aggiungerei anche mandolinari e mangia spaghetti. Completando la serie di luoghi  comuni che individuano le popolazioni dello stivale. 

Peraltro lo strumento ha colpito  pesantemente una certa imprenditoria del Nord che era abituata, soprattutto per i lavori occasionali e stagionali, ad avere tutta la manodopera che serviva loro. Ed in molti casi avere manodopera bianca e che parla in italiano è molto più comodo che  averla nera e che balbetta la lingua. Ma ha disturbato anche molta imprenditoria del Sud, abituata ad avere una massa disponibile che pressava  sul mercato del lavoro e che invece con tale strumento è venuta meno. 

Il tema è diventato di quelli dirompenti soprattutto perché  le forze politiche, che ritengono che tale strumento vada abolito o perlomeno pesantemente modificato, si sono convinte che abbia indirizzato il voto di molti elettori verso il Movimento5S, adesso partito, che del suo mantenimento ne ha fatto un cavallo di battaglia della campagna elettorale. 

Mentre dall’altra parte il Movimento 5S sostiene che è un loro merito aver saputo interpretare le esigenze di una popolazione marginale, che versa in stato di grande bisogno. Certamente non si può nascondere che alcune volte lo strumento può incoraggiare alcuni, abituati a vivere di espedienti, mettendo insieme reddito  di cittadinanza e lavoretti in in nero, a rinunciare ad un vero lavoro strutturato.

La verità però è che di lavori che abbiano una dignità sufficiente per essere chiamati tali,  nel Mezzogiorno, ve ne sono pochi e che le esigenze di un mercato del lavoro asfittico, nel quale l’offerta dei lavoratori sopravanza pesantemente la domanda delle imprese, sono sempre estremamente limitate.

Il macigno dell’esigenza della creazione di un saldo occupazionale di oltre 3 milioni di posti di lavoro,  per arrivare al rapporto popolazione occupati dell’Emilia-Romagna,  sta sempre lì ad incombere per dare quella spiegazione del fenomeno che molti non vogliono comprendere. Se ogni anno vi sono 100.000 persone che abbandonano la realtà del Sud, con un costo per le varie casse regionali di oltre 20 miliardi, considerato che ogni individuo per essere portato alla scuola media superiore  costa 200 milioni, è evidente che la realtà meridionale è più complessa di quanti la vogliano semplificare con stereotipi che sarebbe l’ora di abbandonare. 

E che invece la capacità di affrontare le difficoltà che la vita presenta é forse molto più grande nei ragazzi del Sud di quanto non abbiano coloro che evitano pure di  andare all’università, perché tanto il lavoro lo trovano facilmente dopo le scuole medie superiori. Tra parentesi non bisogna dimenticare che moltissimi di coloro che emigrano ogni anno, per  il primo periodo, che spesso non si limita a pochi mesi,  vengono aiutati pesantemente dalla famiglia, con rimesse importanti perché la remunerazione che percepiscono non è sufficiente per mantenersi fuori casa, cosa che provoca il primo salasso. 

 Il secondo si verificherà quando i genitori compreranno loro la casa nella periferia milanese. La gente del Mezzogiorno é in cerca di una forza politica che lo rappresenti, che si prenda carico di una problematica che dal 1860 è diventata sempre più irrisolvibile.

Stanca di vedersi utilizzare come colonia dove si può catapultare la Brambilla animalista a Gela, come la Fascina semi moglie a Marsala,  cerca, delusa  da molti partiti che dichiarano di volersene occupare solo a parole, qualcuno che la rappresenti adeguatamente e che possa contrapporsi ad una Lega che porta 100 rappresentanti nel Parlamento italiano, e ad un partito unico del Nord, nel quale si inserisce anche Bonaccini del PD, che vuole quell’autonomia differenziata che in assenza dei Lep, dei quali non si parla più, possa consentire ai bambini di Reggio Emilia di avere quei servizi che quelli di Reggio Calabria non riescono nemmeno a sognare. 

Per questo quello che viene dal Mezzogiorno e che andrebbe adeguatamente interpretato é un grido di dolore, una richiesta di aiuto, ma anche un moto di rabbia, perché ormai in tanti si sono stancati di essere sudditi, non di un re, ma di una realtà nordica che indirizza risorse, investimenti, infrastrutture, servizi in generale solo verso una parte.

E che al momento opportuno fa carte false per non perdere l’investimento della Intel, che porterà tanti posti di lavoro in un Veneto che non ha nemmeno il capitale umano da impiegare nelle fabbriche. 

Quando Conte dice a Renzi di provare a scendere tra la gente, senza la sicurezza che lo protegga, in modo assolutamente sbagliato perché  è sembrata una minaccia, evidenzia che il Sud è diventato una polveriera e che il pericolo che il bisogno possa portare a delle reazioni scomposte  é immanente.  

D’altra parte anche il segnale di Cateno De Luca, che oltre ad avere poco meno del 30%, non essendo supportato da alcun partito alle elezioni regionali siciliane, riesce a portare due rappresentanti nel Parlamento nazionale dà la dimensione di un disagio che non può essere ridotto alla questua di un popolo mendicante. 

Ma non mi pare che tali chiavi di lettura siano comprese da una realtà nazionale che continua il suo percorso, minacciando con Zaia di far saltare la formazione del nuovo Governo se non si procede immediatamente con quell’autonomia differenziata che sarà un ulteriore passo verso la secessione di fatto di una parte del Paese, che apre un panorama che potrebbe portare a  scenari non prevedibili. (pmb)

COLLASSO OCCUPAZIONALE PER I GIOVANI
IN CALABRIA SENZA LAVORO SONO IL 55,6%

di FRANCESCO RAO – I nostri giovani, dopo aver compiuto tanti sacrifici per conseguire l’ambito titolo di studio, oggi non riescono a mettere a frutto le loro conoscenze e affrancarsi dalla disoccupazione. Le cause di tali circostanze, in buona parte, sono rintracciabili in una serie di scelte fatte in passato e le responsabilità maggiori ricadono principalmente nella miopia della politica.

Quanto per cambiare, è stato speso moltissimo tempo per confrontarsi sul sesso degli Angeli, trascurando la vera e propria  valenza dell’ascensore sociale, rappresentato dai percorsi d’istruzione e dalla loro spendibilità nel mondo del lavoro. Per rimanere in tema, il numero chiuso per l’accesso alle Facoltà di Medicina sono state una scelta lungimirante? Oggi, tra le cause del mancato adeguamento tra domanda e offerta, proveniente direttamente dai mercati del lavoro, i Giovani del Meridione sono tristemente collocati all’angolo e pressati al muro dal collasso occupazionale che non potrà essere sanabile nel breve periodo.

La Calabria, nel 2017, restava al top in Ue, per tasso di disoccupazione giovanile, attestandosi al 55,6%. Ad oggi, non sono avvenuti grandi cambiamenti e persiste quel triste ancora quel primato patologico. Detto ciò, provo ad illustrare velocemente cosa è accaduto dal 1990 ai nostri giorni, tentando di analizzare brevemente le dinamiche Europee e mondiali afferenti al mondo dell’istruzione e del mercato del lavoro. Da una parte troviamo quanti hanno accolto, con umiltà ed entusiasmo, la tesi di Jeremy Rifkin guardando i processi di globalizzazione come una vera e propria opportunità.

A fronte di tali indicatori, sono state predisposte forme di adeguamento mediante l’istituzione di corsi di studio tesi a preparare i Giovani alle nuove competenze richieste da quel futuro che stava sopravvenendo. Dall’altra parte, cito l’esempio dell’Italia, in quel periodo era impegnata a reagire all’agenda politica del momento nella quale l’onda  lunga creatasi a seguito di tangentopoli, dall’ascesa di Berlusconi, dalla Destra al Governo, dal primo Governo Prodi, dall’adozione dell’Euro, con annessa la lotta eterna consistente nel decidere il rapporto di cambio lira/marco tedesco ecc. ecc.

Tutto ciò, purtroppo, oggi rappresenta la scadente cornice messa a disposizione dal Legislatore per il futuro dei nostri Giovani, costretti a non potersi posizionare positivamente all’interno del mercato del lavoro, tanto per inflazione di competenze quanto per problematiche legate alle tipologie cangianti dei contratti di lavoro. A ciò si aggiunge la penuria delle azioni concrete,  messe in atto per tentare di riportare nell’alveo ciò che oggi è diventato un vero e proprio fiume in piena identificabile nel crescente fenomeno della disoccupazione  giovanile. Allora come oggi, si è rimasti inermi a pensare che fosse sufficiente attutire l’urto sociale del momento, spendendo una marginale preoccupazione per il delicatissimo ambito maggiormente esposto e sperando nella così detta mano invisibile, pronta a riporre in equilibrio le condizioni venutesi a generare. Quella scelta ha cancellato il futuro di tutte quelle persone che oggi, alla soglia dei 40 anni, non hanno lavorato, versando contributi pensionistici nemmeno per un solo giorno.

Tanto per cambiare, noi Italiani, siamo stati sempre bastion contrario a fronte dell’innovazione; invece di leggere con attenzione i mutamenti sociali e farli immediatamente nostri, abbiamo saputo reagire al cambiamento epocale del mondo del lavoro ampliando i percorsi di studio in maniera così virtuosa per contare infiniti corsi di laurea, per giunta poco spendibili nel mercato del lavoro italiano ed in gran parte dell’Europa. Tutto ciò è avvenuto mentre l’Ocse e l’Invalsi illustrava le dinamiche del cambiamento e richiamava gli Stati, compresa l’Italia, a porre maggiore attenzione verso quali skills promuovere nei campus universitari e negli Istituti Superiori. L’effetto della mancata ed oculata attenzione verso i nostri competitor è stato ed è alla base di quanto viene dettato attualmente dal Mismatch tra domanda e offerta di lavoro.

Queste dinamiche di primissimo interesse, oggi coinvolgono i nostri Giovani e le loro famiglie, in modo particolare, quest’ultime, impegnate prima a sostenere la quotidianità dei loro figli nel percorrere la strada dell’istruzione e successivamente nel vederli penare a fronte del vortice della disoccupazione o, per la mancata gratificazione economica a fronte del lavoro svolto spesso in maniera precaria. Con l’avvento di Industria 4.0, le generazioni che oggi hanno un’età compresa tra 10 e 12 anni applicandosi soprattutto in matematica, informatica, lingue (inglese, arabo e cinese) troveranno in futuro maggiore opportunità occupazionale; anche lo studio della medicina e della chimica riscoprirà una nuova stagione, in questi ambiti sarà indispensabile approcciarsi all’informatica, alla robotica ed all’intelligenza artificiale.

Per le attuali generazioni, prive di occupazione,  a seguito delle letture e dagli studi sino ad ora compiuti e seppur la mia conoscenza non sia di rilevanza scientifica, l’unica chance intravedibile nel breve e medio periodo consisterà nel sapersi rimettere in gioco, reinventando un lavoro destinato a valorizzare ciò che ci circonda e ponendo il valore aggiunto delle nostre tradizioni  come un vero e proprio Brand da offrire a quote di mercato vogliose di vivere esperienze di accoglienza, cultura, prodotti locali e saperi dei quali il Meridione è ricco. Quanti sceglieranno di percorre questa strada, dovranno saper adempiere ad un primo ed importantissimo requisito: è vietato improvvisare, come purtroppo è stato fatto in passato, vendendo una pessima immagine dei nostri saperi e dei nostri luoghi.

Le parole d’ordine dovranno essere sostenibilità e qualità. Oggi, contrariamente al passato, possediamo i vettori giusti per canalizzare tali offerte e vi sono anche importanti finanziamenti per raggiungere gli obiettivi prefissati. Tali mezzi, da una parte alimentano alla massima velocità la diffusione del bello e potranno divenire il vero e proprio acceleratore del territorio e delle Comunità coinvolte. Perciò è sconsigliabile continuare ad usare i Social e la comunicazione in generale, in maniera spregevole. Si pensi per una volta all’importanza della web reputation da inquadrare anche come sistema di tenuta sociale.

L’esasperazione trasmessa mediante i vettori informatici crea vuoti economici ma anche nevrosi sociale. Queste scelte, qualora non governate adeguatamente dalle persone,  rappresenteranno un rinnovato senso di distruzione, volto a coinvolgere  quanti hanno intenzione di superare le difficoltà riconducibili alle tre generazioni viventi costrette a segnare il passo per mancanza di opportunità. Papa Francesco, durante il rientro da un viaggio in Marocco ha affermato: “chi costruisce muri finirà prigioniero delle sue barriere”.

Adesso, dipenderà soltanto da noi essere o non essere protagonisti. Ricorrendo ai nuovi modelli occupazionali, riconducibili soprattutto ai modelli di Start-Up, è possibile trasformare la tradizione in innovazione, interpretando il paradigma della criticità come una opportunità che sicuramente potrà conferire al Meridione una posizione attrattiva capace di aprire un dialogo con quanti non conoscono la parte bella delle nostre realtà.

Questa strada, messa a sistema, potrebbe aprire anche un nuovo percorso nel quale sia possibile infondere quella fiducia e quell’ottimismo indispensabile a superare l’attuale malessere sociale, rappresentato dalla disoccupazione, sempre più simile ad un vero e proprio male dal quale i nostri Giovani ne sono le vittime innocenti?

La Politica, in tal senso, é chiamata a dare risposte alle analisi offerte dalle scienze sociali e in tal senso, vorrei auspicare che la Campagna Elettorale in corso potesse immediatamente avere una svolta in meglio. Seguendo i vari Talk televisivi mi sembra di essere in una delle feste di paesi nei quali gli organizzatori, per raccogliere fondi, ricorrono al vecchio metodo dell’incanto, nel quale ad aggiudicarsi il bene é il miglior offerente. (fr)

(Francesco Rao, giornalista e sociologo, è Presidente del Dipartimento Calabria della Associazione Nazionale Sociologi)

L’OPINIONE / Claudio Aloisio: Un controsenso che a Reggio non si trovi personale nonostante la disoccupazione alta

di CLAUDIO ALOISIOLa difficoltà di trovare personale da parte delle aziende è un fenomeno nazionale che, però, balza maggiormente all’occhio quando ciò avviene in un territorio come quello di Reggio Calabria che ha una percentuale di disoccupazione tra le più alte d’Europa.

Un controsenso quindi, almeno così parrebbe a una prima occhiata: com’è possibile che in una provincia con un tasso di disoccupazione così alto non si trovi personale?La risposta è ovviamente complessa, non c’è un unico motivo ma, probabilmente, uno predominante si. E in questo caso ci vengono in aiuto i numeri.

I dati Istat aggiornati al 2021 ci dicono che le persone in cerca di occupazione nell’area metropolitana di Reggio Calabria sono 27.000. Un numero rilevante, ben maggiore della richiesta che proviene dal mercato. E allora?

Verifichiamo i numeri dell’Inps (anch’essi aggiornati al 2021) per ciò che concerne i percettori del reddito di cittadinanza. Sono 21.635 nuclei familiari per un totale di 52.609 persone coinvolte. Il reddito medio percepito è di 574,32 euro la tal cosa ci porta a desumere che, probabilmente, più della metà dei percettori arriva a prendere il massimo, 780 euro.

Quindi, al di là delle analisi sociologiche e antropologiche che pur servono, questi numeri forniscono una prima chiara risposta: tra i motivi principali della difficoltà per le aziende nel trovare personale, c’è il Reddito di Cittadinanza. 

Una misura di equità sociale che noi approviamo incondizionatamente negli obiettivi e nei principi, sia chiaro, ma non nella sua applicazione pratica dato che, da azione di sostegno e stimolo per riuscire a trovare occupazione si è trasformata, di fatto, nell’ennesima elemosina che nulla risolve a livello di sistema ma che, anzi, ostacola invece di agevolare il mercato del lavoro.

Perché se nella teoria i paletti previsti dalla norma avrebbero dovuto incentivare la ricerca di un posto di lavoro in pratica essi non sono attuati. I tre rifiuti previsti dopo i quali si decadrebbe dal beneficio sono una barzelletta dato che, se un imprenditore si rivolge ai Centri per l’Impiego, gli vengono forniti dei nominativi che lui stesso deve contattare i quali possono tranquillamente rifiutare l’offerta senza che nessuno ne prenda nota. 

Un esempio? Una nota imprenditrice, nostra dirigente, ha richiesto una figura specifica da assumere con contratto a tempo indeterminato. Il centro per l’impiego gli ha inviato 60 nominativi da contattare. Di questi 54 hanno immediatamente rifiutato senza nemmeno chiedere di che lavoro si trattasse, che tipo di azienda fosse e la tipologia di contratto. Gli altri 6 hanno solo chiesto qual era la mansione da svolgere e anch’essi, una volta saputala, hanno rifiutato (senza chiedere notizie sullo stipendio). Su 60 persone 60 dinieghi. Che ovviamente sotto il profilo formale non risultano da nessuna parte.

Ed allora, operiamo una buona volta affinché i centri per l’impiego divengano realmente operativi e forniamo ai “navigator”, altra figura mitologica di cui non si capisce bene il ruolo, gli strumenti per operare rendendo esecutive, inoltre, tutte le norme di controllo previste apportando ove necessario i dovuti aggiustamenti. 

Facciamo si che questa misura assolva realmente il compito per cui è nata: sostenere chi ha un reddito insufficiente istradandolo nel mondo del lavoro, garantendo al contempo i diritti ai lavoratori e alle imprese. Altrimenti, continuando così, il Reddito di Cittadinanza da strumento di supporto e sviluppo si ridurrà ad un costosissimo sistema di welfare dal quale difficilmente una volta entrati si potrà o vorrà uscire con il risultato che, l’unico lavoro che incentiverà, sarà quello “in nero”. (ca)

Lucia Anita Nucera: Dati Eurostat su disoccupazione mortificanti per la Calabria

Lucia Anita Nucera, presidente Commissione Pari Opportunità del Comune di Reggio Calabria, ha dichiarato che «la situazione che l’Eurostat ha fotografato sullo stato di disoccupazione e su come esso emerga nelle singole regioni italiane, è davvero avvilente e mortificante per la Calabria».

«I dati emersi – ha spiegato – indicano che una persona su cinque era senza lavoro nel 2020 in Calabria che, insieme ai territori del Mezzogiorno, si trova negli ultimi 15 posti della classifica europea. Sicuramente, la pandemia ha aumentato il gap e le difficoltà nel nostro territorio, ma questo non può giustificare una situazione atavica di ritardi e di inefficienze nelle politiche del lavoro che non ha saputo creare opportunità in Calabria anche e soprattutto attingendo ai fondi europei, risorsa importantissima, che come ho già dichiarato non è stata impegnata  per come doveva e poteva essere fatto».
«Una situazione desolante – ha proseguito – che spinge, ormai, i giovani ma anche famiglie ad abbandonare la  nostra terra in cerca di una maggiore sicurezza economia. A questo, si aggiunge il calo delle nascite, come indicato dai dati Istat, che vede il nostro Paese fanalino di coda insieme a Spagna, Francia e Belgio. La crisi economica e l’incertezza d futuro sono tra le cause che hanno pesato sulla decisione di mettere al mondo dei figli. Dai dati emerge soprattutto che la difficoltà per le famiglie è legata alla mancanza di  lavoro o, comunque, di uno stabile. È necessario, quindi, incentivare e sostenere le famiglia con politiche e interventi mirati, ma soprattutto creare occupazione, affinché questa condizione legata alla pandemia non abbia un’inversione di rotta».
«Non si può continuare – ha detto ancora – a navigare a vista, serve una  programmazione delle risorse, soprattutto dei fondi europei, una progettualità che ne consenta l’uso e non la dispersione ma, soprattutto, servono competenza,  preparazione e onestà da parte di chi amministra la cosa pubblica e  non improvvisazione e pochezza culturale, perché altrimenti si rischia sempre di rimanere allo stesso punto, e questo è ancora più importante quando si devono rappresentare i bisogni e le istanze del territorio a cui è necessario dare risposte e non vane illusioni».
«È necessaria una presa di coscienza collettiva – ha concluso Nucera – per un reale cambiamento rispetto a una tendenza che vede, spesso, l’immagine, la superficialità,  l’impreparazione come modus operandi della politica e questo deve partire da tutta la comunità calabrese che deve indignarsi e pretendere che chi rappresenta i loro diritti e bisogni lo faccia appieno. Una comunità che ha il diritto di rimanere nella propria terra e di vedere riconosciuti meriti e competenze». (rrc)