C’È CHI PENSA ALLA SECESSIONE DEL NORD
IN TAL CASO NE GUADAGNEREBBE IL SUD

di PINO APRILE – Resisterà unita l’Italia al saccheggio delle risorse del Recovery Fund da parte delle prenditrici orde ferroviarie della “locomotiva” padana? Accadono cose che dovrebbero suonare non come un campanello, ma come campane a stormo d’allarme per il sistema di potere che regge il nostro Paese, incluso il fatto che l’entità dei furti di fondi pubblici subita dal Sud con la complicità dello Stato è tale che ci si potrebbe salvare solo con la fuga; e qualcuno fa i conti e scopre che sarebbe un affare, per il Mezzogiorno: avremmo i conti a posto con l’Europa e debito zero!

Bruxelles è preoccupata dello squilibrio del PNRR, il Piano italiano per la ripresa con i soldi i soldi dell’Unione Europea, tanto che vuole indagare per capire se saranno davvero usati per ridurre il divario Nord-Sud, come chiede, o per aumentarlo, come ormai appare evidente; il presidente della Campania, Vincenzo De Luca non usa mezzi termini: «Questo Pnrr è una truffa»; in Senato cresce in pochi giorni la quasi inesistente pattuglia di difensori del Sud e in 26 votano contro una mossa pro-Nord del governo collegata al Pnrr; la politica ha fiutato il vento e nelle regioni meridionali si assiste a ricoloriture in tinta terrona di vecchi navigatori di mille partiti e all’apparentamento in corsa con movimenti, partitini, gruppi che possano dare un “passato meridionalista” a chi magari sino a ieri li accusava di “voler dividere l’Italia”; giornali che non degnavano di un rigo i temi della Questione meridionale, ora fanno titoloni sparati in prima pagina, sviluppando gli argomenti in quelle interne, per due-tre pagine.

La vera portata di quanto sta accadendo sfugge ai più, perché le dimensioni del fenomeno sono ancora minoritarie, rispetto al panorama politico nazionale, ma la velocità con cui questi fermenti si stanno imponendo è sorprendente. Forse, tutto questo ci sembra comunque scarso, ma sarebbe parso incredibile se, appena due-tre anni fa, ci avessero detto che sarebbe accaduto. Per fatto personale, ricordo che undici anni fa, del mio “Terroni”, inaspettatamente divenuto un best seller (e chi se lo aspettava, parlando di Sud!), si disse che aveva “riaperto la Questione meridionale ormai chiusa da decenni”. Ma avrei dato del pazzo a chi avesse preconizzato quanto stiamo vedendo oggi: sui diritti negati al Sud, di cui si prende coscienza, si sta costruendo un sistema di potere.

Ora l’Italia con la puzzetta antimeridionale sotto il naso ha di che essere inquieta.

La furia predatoria delle Regioni più ricche ed egoiste (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) che tentano di svuotare la cassa comune, trattenendo le tasse statali con l’Autonomia differenziata, porterebbe alla “Secessione dei ricchi”, secondo l’appello di centinaia di docenti universitari al presidente della Repubblica e firmato da 60mila cittadini. Ma cosa succederebbe se il Sud decidesse di separarsi e tornare uno Stato indipendente, come prima dell’Unità?

Abbiamo avuto una forza politica barbarica e razzista (terun de merda, porci, topi… Vesuvio, Etna, colera ammazzateli tutti, eccetera) che per anni ha minacciato la secessione, persino con uso di non so più quanti milioni di fucili (quello delle baionette era un altro). Tutta scena, ma serviva per accampare il diritto di togliere altri soldi al Sud (ladri, mafiosi, incapaci…) e spenderli al Nord (locomotiva che traina il resto del Paese, favoletta che non regge più: Milano e Lombardia, secondo uno lo studio più recente, ci sono costati 18 miliardi per una Expo che ha reso 400 milioni, per dirne una). Al contrario, al Sud la secessione converrebbe davvero, e basterebbero pochi esempi: l’Italia è sia un Paese ricco (il Nord, che assorbe praticamente tutti gli investimenti pubblici per le grandi opere), che un Paese povero (il Sud dove lo Stato non spende per treni, strade, porti, lavoro…).

Questo comporta che arrivino per il Sud tanti soldi dall’Unione europea, perché si aggiungano a quelli che deve spendervi l’Italia, per colmare il divario fra le due parti del Paese. Invece, i governi di ogni colore sottraggono al Mezzogiorno gli investimenti nazionali e li dirottano al Nord, lasciando che del Sud se ne occupi l’Europa, se vuole. Così, il mezzo Paese ricco guadagna a spese del mezzo Paese povero (perché impoverito dal sistema economico italiano).

E così la Questione meridionale, invece di essere sanata, si aggrava. Poi arriva il Recovery Fund e l’Italia, per la presenza della più vasta area europea con la più alta disoccupazione e i più bassi redditi, il Sud, “guadagna” circa 200 miliardi. Senza il Sud, sarebbero stati la metà. Applicando i criteri di ripartizione europei, il Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale, il parlamentare europeo Piernicola Pedicini, gli esperti della Regione Campania e quelli del Comune di Messina hanno scoperto (nell’ordine) che al Sud spetterebbero dal 66 al 70 per cento del totale, ovvero da poco meno a poco più di 140 miliardi. Mentre il governo ne promette 82 (finti) e, certificati, nel Pnrr ce ne sono soltanto 22, forse 35.

Se il Mezzogiorno fosse un Paese autonomo, quei soldi resterebbero tutti al Sud e non sarebbero rubati per regalarli alle Regioni più ricche. Ma se ci si dovesse separare, ci sarebbe la questione del debito pubblico, che è di circa 2.500 miliardi e che andrebbe diviso fra gli italiani, pro-capite. I meridionali sono venti milioni, il 34 per cento della popolazione, quindi dovrebbero pagare il 34 per cento di 2500 miliardi, che fa 850 miliardi (ha fatto i conti, ancora una volta, l’onorevole Pedicini, che al parlamento di Strasburgo rappresenta il M24A-ET, di cui è vice presidente): è più di quanto, con il Recovery Fund, l’Europa distribuisca ai 27 Paesi dell’Unione. Ce li ha il Sud tutti quei soldi? No, perché glieli hanno rubati. Chi? Lo Stato italiano, per darli al Nord. E chi lo dice? L’ente di Stato che certifica che fine fanno i soldi pubblici (Conti pubblici territoriali). E quanto è stato rubato, al Mezzogiorno dallo Stato e si dovrebbe restituirgli, in caso di secessione? In 17 anni, 850 miliardi circa, senza contare il prima. Quindi, il Sud potrebbe uscirsene senza pagare un euro ed entrerebbe nell’Unione europea con zero euro di debiti, il che consentirebbe di attingere prestiti di malamorte dalle casse europee. Sulla carta, come dati economici, staremmo meglio della Germania!

Che dite, la tentazione viene? In più, sempre per iniziativa del M24A-ET, della Rete dei 500 sindaci del Mezzogiorno sorta per tutelare i loro diritti alle risorse europee, e di Pedicini, è stata presentata a Bruxelles una petizione illustrata in una seduta pubblica che LaCNews24) e il suo sito web trasmisero (unici in Italia). Giorni fa, al sindaco di Acquaviva delle Fonti, Davide Carlucci, portavoce dei 500 (mentre le firme furono raccolte dal M24A-ET) è giunta la risposta della presidente della Commissione per le petizioni, l’europarlamentare Dolors Montserrat, da cui si apprende che i timori dei sindaci meridionali di vedersi privati di quanto loro spetta sono fondati, perché la Commissione ha deciso “di condurre una indagine preliminare” sul rischio che “l’uso delle risorse del Next Generation Eu”, con la ripartizione “del Pnrr italiano”, invece di ridurre il divario Nord-Sud, come chiede Bruxelles, accresca la “divaricazione economica, sociale e territoriale ai danni del Mezzogiorno d’Italia”.

Aggiungete che al Sud c’è il più ampio bacino di voti in libera uscita, per il crollo dei votatissimi cinquestelle, nel 2018, il fallimento del tentativo della Lega di accaparrarsi quegli elettori e la mancata crescita (anzi!) dei partiti tradizionali. Così, alcuni giorni fa, i 26 senatori, dei quali, salvi un paio, appena una mezza dozzina, a voler essere generosi, erano sospetti di meridionalismo e persino di fresco conio, votano contro l’Autonomia differenziata che ha fatto capolino nel Pnrr (e sarebbero stati di più, senza i tanti assenti giustificati). Un segnale forte per il governo, ma soprattutto del fatto che “puzzare di terronico” politicamente ora conviene: già nelle regionali calabresi avevamo visto l’ex presidente Mario Oliverio allearsi a Identità calabrese, l’ex sindaco di Napoli, comunemente (e non a torto) ritenuto più giacobino che “lazzaro”, scivolare a sorpresa, nel racconto di alcuni suoi elettori, verso il revisionismo storico meridionale, mentre dalla Sicilia (un recente incontro a Taormina) alla Puglia (dove pare si stia riattivando l’ex ministra Poli Bortone, che già condusse un tentativo alcuni anni fa), alla Campania, anche politici senza base elettorale si offrono a terroni organizzati in… schiere di quattro-cinque elementi o di migliaia di iscritti “a voce” (senza chiedersi come mai quelle moltitudini non abbiano mai espresso, finora, manco un capo condomino in elezioni fra parenti. Ma “tiemp ‘e tempest, ogne pertuso è porto”, dicono a Napoli).

E nei gruppi già esistenti e di un certo corpo, si accendono ambizioni che portano a ideare nuove “fusioni”, “federazioni” per domani, ma che cominciano con nuove divisioni oggi. Il caos? Ma è dal caos che nasce l’ordine di un diverso futuro.
Come direbbe Mao: grande confusione sotto il cielo, dunque la situazione è eccellente: ma è un cielo meridionale che si sta alzando sull’orizzonte. (pap)

[Pino Aprile, giornalista e apprezzatissimo scrittore di  problemi del Mezzogiorno, è direttore de LaC24News]

[courtesy LaC24News]

DISPARITÀ SOCIALI E SCUOLA IN CALABRIA
IL GRAVE EFFETTO NEGATIVO DELLA DAD

di VITTORIO DANIELE – Data l’importanza dei fattori sociali ed economici, per ridurre i divari nelle competenze tra individui e territori non basta intervenire sulle risorse scolastiche o sui curricula. È necessario anche ridurre le disuguaglianze sociali che ne sono alla base. I divari nelle competenze scolastiche non sono solo sintomo di iniquità, di disuguali opportunità. Rappresentano anche un’insidia, perché sono una delle modalità attraverso le quali povertà e disuguaglianza si trasmettono tra le generazioni.

Come mostra l’ultimo rapporto Invalsi (2021), la pandemia da coronavirus, rendendo necessaria la didattica a distanza, ha avuto un effetto negativo sull’apprendimento degli studenti. Si è verificato un calo generalizzato delle competenze scolastiche, mentre i divari, già molto ampi, tra Nord e Sud sono cresciuti. Nelle regioni meridionali, il 50-60% degli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori non ha raggiunto la soglia minima di competenze in italiano; una quota che sale al 70% nelle prove di matematica. Nelle regioni settentrionali, le quote variano tra il 35-40% per la matematica e raggiungono il 50% in quelle del Centro Italia.

Sebbene aggravati dalla pandemia, i divari tra Nord e Sud sono strutturali. Per esempio, nei test in matematica Ocse-Pisa 2018, il risultato medio degli studenti del Nord (515 punti) è stato simile a quello della Svizzera, ai primi posti nella graduatoria internazionale, mentre nel Sud Italia (445 punti) analogo a quello della regione Karagandi, in Kazakistan. Da cosa dipendono questi così ampi divari?

In Italia, come in altre nazioni, i punteggi medi nei test scolastici sono in relazione col livello di sviluppo economico delle regioni. Maggiore il livello di sviluppo, misurato dal reddito pro capite, mediamente più elevati i risultati ottenuti dagli studenti nei test sulle competenze. Come mostro in un recente articolo pubblicato sulla rivista Intelligence c’è, però, un’altra variabile che, più del reddito pro capite (che, ricordiamo, è una media) ha un forte legame con i punteggi scolastici regionali: si tratta della povertà relativa.

Questa misura di povertà è detta relativa perché è data dalla percentuale di famiglie il cui reddito è inferiore al 50% di quello mediano. Per tale ragione, oltre a essere una misura di deprivazione, la povertà relativa è anche una misura di disuguaglianza nella distribuzione del reddito.

Come mostra il grafico tra le regioni italiane si osserva una forte relazione tra i livelli di povertà relativa e i risultati degli studenti nei test in matematica (Pisa 2012). I punteggi nei test sono, infatti, mediamente più bassi nelle regioni meridionali, in cui l’incidenza della povertà è maggiore. È importante osservare che i punteggi nei test sono calcolati per tener conto dello status socioeconomico e culturale delle famiglie degli studenti. Ciò significa che le differenze Nord-Sud nelle competenze non dipendono solo dal retroterra familiare degli studenti, ma anche da altri fattori.

Questa forte relazione tra povertà relativa e competenze scolastiche si riscontra anche quando si considerano altre rilevazioni, come quella Pisa 2018 e quella Invalsi (V classe della scuola secondaria). Inoltre, la relazione si osserva anche tra le regioni della Spagna, dell’Australia e di altre nazioni.

Le cause dei divari

I fattori che influenzano il rendimento scolastico sono numerosi. Le differenze individuali (cioè tra i singoli studenti) sono spiegate sia da fattori genetici, sia ambientali. Tra questi ultimi, la condizione socioeconomica delle famiglie ha un ruolo fondamentale. Com’è intuibile, gli studenti provenienti da famiglie povere e con basso livello d’istruzione ottengono, mediamente, risultati inferiori a quelli dei loro compagni le cui famiglie hanno uno status socioeconomico più elevato. Il rendimento è influenzato, però, non solo dal contesto familiare, ma anche da quello extra-familiare, cioè sociale e culturale, in cui gli studenti, sin dall’infanzia, vivono.

Nelle scuole situate nei quartieri più poveri e svantaggiati, gli studenti ottengono risultati mediamente inferiori a quelli dei loro pari che frequentano le scuole dei quartieri più ricchi. Come è intuibile, la qualità delle scuole è inestricabilmente connessa alla condizione sociale ed economica degli studenti che le frequentano e, di conseguenza, a quella del contesto territoriale in cui si trovano.

Già nel 1966, il sociologo James Coleman, in un noto studio riguardante gli Stati Uniti (il Rapporto Coleman) evidenziò come, per il rendimento scolastico, l’importanza del retroterra familiare degli studenti e delle condizioni socioeconomiche fosse di gran lunga maggiore rispetto alle risorse finanziarie e materiali a disposizione degli istituti scolastici. Sottolineava, invece, l’importanza della qualità degli insegnanti.

Ma torniamo alle differenze regionali nei punteggi nei test scolastici. Alcuni studiosi, tra cui Richard Lynn, sostengono che queste differenze sarebbero, in parte, dovute a fattori genetici. Secondo questa tesi, nel Sud Italia il quoziente d’intelligenza (QI) medio sarebbe inferiore a quello del Nord e ciò contribuirebbe a spiegare i più bassi risultati scolastici. Una tesi non supportata da solide basi scientifiche. È, invece, ragionevole che, analogamente a quanto accade tra scuole situate in aree diverse, le differenze regionali nelle competenze scolastiche riflettano sottostanti diseguaglianze socioeconomiche, di cui la povertà relativa è un indicatore. Una società disuguale tende a produrre esiti disuguali anche nell’istruzione.

Una riflessione conclusiva. Data l’importanza dei fattori sociali ed economici, per ridurre i divari nelle competenze tra individui e territori non basta intervenire sulle risorse scolastiche o sui curricula. È necessario anche ridurre le disuguaglianze sociali che ne sono alla base.

I divari nelle competenze scolastiche non sono solo sintomo di iniquità, di disuguali opportunità. Rappresentano anche un’insidia, perché sono una delle modalità attraverso le quali povertà e disuguaglianza si trasmettono tra le generazioni. (vd)

[courtesy opencalabria.com]

BENTORNATO IN CALABRIA, PRESIDENTE
SCUOLA: BISOGNA CANCELLARE IL DIVARIO

di FRANCESCO RAO – Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel suo primo impegno pubblico in qualità di Prefetto di Palermo, tra gli argomenti affrontati il giorno dopo l’omicidio dell’on. Pio La Torre e di Rosario Di Salvo, in occasione di una cerimonia svolta presso la Camera di Commercio, si soffermò sulla distinzione del termine “potere” con la seguente affermazione: “Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti. Potere può essere un sostantivo nel nostro vocabolario ma è anche un verbo”, un verbo al quale dovranno attingere con coraggio anche i nostri giovani studenti per “poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccia l’interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa, poter guardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici, di rinunzie, ma di pulizia, poter sentirci tutti uniti in una convivenza, in una società che è fatta di tante belle cose, ma soprattutto del lavoro”.  

Con sentimenti di particolare gioia, la Calabria ed i Calabresi domani accoglieranno il Presidente della Repubblica, on. Sergio Mattarella il quale, dopo aver raggiunto la sede dell’Istituto Tecnico Nautico di Pizzo, insieme al Ministro dell’Istruzione prof. Patrizio Bianchi, inaugurerà l’Anno Scolastico 2021/2022. 

La presenza del Capo dello Stato, in questo particolarissimo momento storico, rappresenta una straordinaria attenzione rivolta sia all’universo giovanile sia al mondo della scuola in generale. La formazione e lo studio, come avvenuto già in passato, potranno far comprendere ai giovani la strada da praticare nel tempo per poter scegliere e decidere liberamente il loro futuro, superando il paradosso nel quale la promessa facile, praticata in questa parte d’Italia, non sia più lo strumento usato sin dalla notte dei tempi per far sperare le persone più umili in un domani migliore. Quanti sceglieranno di formarsi occupando un banco, una sedia e mantenendo curva la schiena sui libri, potranno vivere la bellezza del sapere non come fonte di sofferenza ma come opportunità per intravedere nuovi orizzonti. Per essere un buon Cittadino non bisogna per forza essere laureato o cattedratico. Bisogna saper essere parte attiva di una grande Comunità come l’Europa. 

La scuola dell’obbligo, sin dalla sua istituzione, è stata un gran punto d’arrivo per quella parte di società costretta all’ignoranza e proprio da quella conquista sociale, resa possibile dalla Costituzione repubblicana, bisognerà ripartire ogni giorno con l’identico intento praticato dei padri costituenti: poter scrivere belle pagine di storia e imprimere un rinnovato slancio alla crescita economica, culturale e sociale del Paese. Anche il mondo della politica avrà bisogno di maggiore conoscenza e un più ampio sapere, altrimenti il rischio sociale potrebbe essere identificato in una futura marginalità e insicurezza, vissuta soprattutto dal segmento sociale più fragile e residente nelle aree interne del Paese. Grazie al sapere offerto dai docenti ai loro discenti, lungo la strada della formazione, tale pericolo potrà essere scongiurato guardando al futuro con maggiore ottimismo, responsabilità e serenità.

Da persona impegnata professionalmente nel mondo della formazione, dopo aver lavorato a contatto con i giovani residenti in realtà sociali complesse, vorrei cogliere l’occasione per suggerire agli studenti che accoglieranno il Presidente della Repubblica di non dimenticare mai questo giorno. Da ora in avanti, dovremo impegnarci a superare quella barriera della difficoltà che noi Meridionali viviamo quotidianamente. Il divario Nord-Sud, in parte è anche un fatto da noi stessi alimentato con la rassegnazione e lo scoramento. Occorre saper osare ed immaginare lo studio non più come un lavoro oppressivo ma come una costante azione volta al miglioramento personale da acquisire come elemento vitale della nostra stessa esistenza. È questa la strada per ritrovare la fiducia indispensabile per raggiungere la vetta più alta della soddisfazione. Accarezzando quotidianamente i sogni, anche quelli più grandi e studiando seriamente, l’immaginazione potrà diventare una realtà tangibile. 

La scuola è stata e continuerà ad essere l’unico ascensore sociale destinato ad affrancare dalla povertà educativa e sociale soprattutto le persone più umili e modeste. Quanti hanno avuto e quanti continueranno ad avere fiducia in quell’ascensore sociale, avranno scoperto e scopriranno che il coraggio non è incapsulato nella violenza o nella sopraffazione e non potrà mai essere acquistato al supermercato. Il coraggio continuerà ad essere una scelta di campo, mantenuta quanto tutto diventerà difficile anzi, quando tutto sembrerà essere impossibile. Sarebbe troppo semplice essere coraggiosi quando tutto va bene e il rischio è pari a zero. Quando saranno le tue idee a farti correre, oppure farti fermare per prendere fiato e poi ripartire con la giusta determinazione, quella sarà una scelta dettata dal coraggio che avrà fatto tacere tutte le umane debolezze e frustrazioni. Pensando ad ogni studente come fosse un mio giovane fratello vorrei dire: quando i tuoi occhi, attraverso le tue parole, racconteranno il vero, anche a costo di avere tutti contro, quello sarà il coraggio. Il resto potrà anche essere bello, affascinante, irraggiungibile e piacevole ma fai bene attenzione, proprio in quella misura del bello c’è tanto vuoto, molta inconsistenza e soprattutto il rischio di perdersi nel nulla. I criminali impegnati ad assoldare i tanti giovani disperati, presenti tanto nella nostra Calabria quanto nell’Italia intera, promettono loro soldi e vita facile ma non potranno guardare le persone negli occhi con l’identico sguardo che tua mamma e tuo papà hanno da sempre per te. Mentre i genitori nutrono amore per i loro figli, i criminali non cercano persone da amare, cercano soltanto numeri da usare per poi mandarli in galera oppure all’obitorio. Pensaci bene, prima di perdere tutto, compresa la vita e l’affetto dei tuoi cari, investi su te stesso. Studia. Per volare alto, scegli le pagine dei libri e non aver mai paura di sognare. 

Buon Anno Scolastico a tutti i discenti, i docenti ed il personale della Scuola e grazie di vero cuore al nostro Presidente Sergio Mattarella per aver scelto di inaugurare l’Anno Scolastico recandosi in Calabria.

[L’Autore è Dirigente Nazionale e Presidente del Dipartimento Calabria Associazione Nazionale Sociologi]

BANKITALIA: SANITÀ, TRASPORTI, SCUOLA
COME RIPIANARE LO SVANTAGGIO DEL SUD

Ci sono tanti, troppi e grandi divari tra il Nord e il Sud, a livello di infrastrutture, trasporti, sanità e istruzione, come è stato rilevato nel report I divari infrastrutturali in Italia realizzato da Banca d’Italia e di Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller e pubblicato lo scorso mese di luglio.

I risultati del report documentano la presenza in Italia di differenze molto pronunciate nella dotazione infrastrutturale economiche e sociali tra i diversi territori, evidenziando come, «per quanto riguarda alle infrastrutture di trasporto, emerge che le aree con i collegamenti stradali e ferroviari più veloci nonché quelle con le maggiori possibilità di accesso ai principali scali aeroportuali e portuali, in termini di traffico merci, sono prevalentemente collocate nelle regioni centro settentrionali (in particolare in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Toscana)».

«Le regioni del Sud e delle Isole – si legge – si trovano in una condizione di relativo svantaggio, fatta eccezione per le aree della fascia tirrenica limitatamente alla possibilità di accedere a scali portuali rilevanti per il solo traffico di passeggeri. Le reti di comunicazione presentano una dicotomia Nord Sud meno marcata se si guarda alla disponibilità delle infrastrutture, soprattutto per quanto attiene alla rete mobile ad alta velocità (un discorso diverso riguarda però l’accesso effettivo alla rete, che riflette l’eterogeneità territoriale delle condizioni economiche e della cultura digitale delle famiglie)».

«Il gap infrastrutturale appare, invece – si legge nel rapporto – molto profondo nell’ambito della distribuzione dell’elettricità e dell’acqua: nelle regioni meridionali e insulari la frequenza delle interruzioni senza preavviso del servizio elettrico per gli utenti a bassa tensione è più che doppia rispetto al resto del paese, oltre un terzo degli utenti a media tensione riceve un servizio inferiore agli standard previsti dalla regolazione nazionale e gli acquedotti disperdono una quota di acqua 1,4 volte più elevata rispetto a quanto avviene nel resto del paese».

Un altro aspetto affrontato, è quello delle telecomunicazioni, in cui è stato ribadito il suo ruolo «di primo piano tra le infrastrutture necessarie per lo sviluppo delle economie moderne, segnate dalla rivoluzione digitale e da continue trasformazioni nei processi di lavoro».

Per quanto riguarda la distribuzione dell’energia elettrica e dell’acqua, è stato evidenziato come le «province meglio servite sono quelle collocate nella fascia alpina del Trentino Alto-Adige e della Lombardia (favorite dalla prossimità agli impianti di produzione), nonché quelle dell’area padana», mentre si registrano frequenti interruzioni della fornitura nelle aree appenniniche interne dell’Italia centrale e soprattutto nelle regioni meridionali e in quelle insulari: in queste ultime la frequenza annua dei distacchi per ogni utente a bassa tensione è pari a 14,3 (contro 5,1 nelle regioni centrosettentrionali)».

«I divari di qualità del servizio – è stato evidenziato – sono peraltro confermati dai dati circa la durata complessiva delle interruzioni senza preavviso, che ammontano a oltre 60 minuti l’anno per utente nella media delle province del Sud e delle Isole (con punte di oltre 90 minuti in Sicilia), a fronte di circa 30 nelle regioni settentrionali (con valori minimi di 20 in Valle d’Aosta). Anche i buchi di tensione si verificano con una frequenza significativamente maggiore nelle regioni meridionali e insulari rispetto al resto del paese (nel 2019 sono stati registrati circa 76 buchi di tensione complessivi per singolo nodo nelle regioni meridionali continentali e ben 130 in Sicilia, a fronte di circa 23 nelle regioni settentrionali e 30 in quelle centrali)».

«Perdite idriche di entità rilevante – si legge nel report – si registrano nei territori di Frosinone e Latina e in molte province del Sud e delle Isole: in oltre la metà di quelle campane, siciliane e sarde la quota di acqua effettivamente messa a disposizione degli utenti è inferiore al 50 per cento29. Le cattive condizioni delle infrastrutture idriche rendono alcune realtà più esposte a fenomeni di razionamento dell’acqua per uso domestico. Tali episodi sono pressoché interamente concentrati in alcune province del Sud e insulari (figura 10, pannello b); in alcuni capoluoghi (Catanzaro, Palermo, Enna e Sassari) il razionamento idrico non è limitato ai periodi estivi ma interessa, per alcune ore al giorno, l’intero arco dell’anno».

Per la Banca d’Italia, «il gap infrastrutturale delle regioni meridionali e insulari è confermato anche dalle condizioni delle infrastrutture preposte agli altri segmenti della filiera dell’acqua, quali la raccolta delle acque reflue e le attività di depurazione. Vi sono circa 40 Comuni tuttora sprovvisti di servizio di raccolta delle acque reflue (poiché la rete fognaria non è presente o non è collegata a un depuratore), di cui oltre la metà localizzati in Sicilia; nelle aree meridionali inoltre si verificano con maggiore frequenza episodi di allagamento, sversamento e rottura delle fognature e la qualità delle acque depurate è sensibilmente peggiore della media italiana».

Per quanto riguarda le infrastrutture ospedaliere, mentre al Nord si può accedere a un numero di posti letto pari a circa una volta e mezza la media italiana, scendendo verso le aree meridionali e verso le isole si riduce: l’indicatore è pari al 70 per cento della media per le province calabresi, al 50 per quelle siciliane e al 20 per quelle sarde. Anche per le aree di confine l’accessibilità a posti letto in strutture ospedaliere è inferiore alla media, ma di poco (l’indicatore si aggira intorno al 90 per cento).

Questione rifiuti

Per quanto riguarda la raccolta indifferenziata, «la maggiore facilità di accedere a impianti di smaltimento dei rifiuti sono localizzati in Emilia Romagna, avvantaggiata dell’elevato numero di impianti collocati sia nella regione di appartenenza (complessivamente 28) sia nelle regioni limitrofe (in particolare in Lombardia, regione che conta 34 impianti)», mentre le aree penalizzate rimangono quelle insulari (sopratutto la Sardegna) e quelle calabresi, dove le possibilità di raggiungere pianti di trattamento della frazione organica dei rifiuti differenziati decrescono, fino a essere particolarmente bassi nelle isole.

Un gap, che è stato segnalato anche dall’ultimo Green Book di Utilitalia, dove è stata rilevata «una situazione di sovracapacità impiantistica delle regioni settentrionali, che si caratterizzano per quantità di rifiuti urbani trattati superiori a quelli raccolti in loco sia relativamente alla frazione secca residua sia a quella organica; al contrario gli impianti presenti nelle regioni centrali e soprattutto in quelle meridionali non sono sufficienti a trattare tutti i quantitativi raccolti localmente».

Secondo il report, infatti, «tenendo conto sia della componente ordinaria che di quella aggiuntiva dell’attività di investimento dell’operatore pubblico, alle regioni meridionali e insulari dovrebbe essere destinata una quota di spesa almeno pari al 45 per cento e in ogni caso sensibilmente più elevata rispetto alla quota della popolazione residente».

«Alcune elaborazioni basate sui dati dei Conti pubblici territoriali (CPT) mostrano tuttavia che nell’arco dell’ultimo decennio l’incidenza delle regioni meridionali e insulari sul complesso delle risorse destinate all’accumulazione di capitale pubblico (spesa pubblica per investimenti e per contributi agli investimenti delle imprese) è oscillata intorno al 30 per cento (con un picco nel 2015 in corrispondenza della chiusura del ciclo di programmazione dei fondi comunitari; a fronte di una popolazione residente pari in media al 34,4 per cento di quella nazionale40. In termini pro capite, nella media dell’ultimo decennio l’entità di tali risorse è stata all’incirca pari a circa 780 euro per le regioni meridionali e insulari, contro gli oltre 940 delle regioni centrosettentrionali».

«Il divario – si legge ancora – è legato alla distribuzione delle risorse sul territorio ma possono avervi contribuito anche fattori istituzionali, quali le capacità tecniche delle Amministrazioni locali di selezionare i progetti e di portare a termine i lavori nei tempi programmati; questi fattori sembrano essere particolarmente critici per le regioni meridionali, che si caratterizzano per ritardi nella esecuzione delle opere relativamente elevati rispetto al resto del Paese». (rrm)

INVALSI CONFERMA IL DIVARIO FORMATIVO
ALLA SCUOLA SERVIRÀ UNA “RIVOLUZIONE”

di FRANCESCO RAO – Dovremmo abituarci all’idea che oltre al peso, alla velocità ed all’altezza anche i fenomeni sociali sono misurabili. A fronte del singolo risultato è bene non fermarsi all’evidenza del dato finale, occorre anche iniziare ad individuare nella singola specificità il rapporto che ne determinerà il valore della misura.

La scuola, nel suo insieme, da circa 20 anni a questa parte, sembrerebbe aver messo da parte uno dei pilastri che i padri costituenti hanno materializzato nella Costituzione italiana: mi riferisco all’azione di crescita culturale e, di conseguenza, alla partecipazione quotidiana in una vita sociale nella quale la politica possa rappresentare, oltre al risultato della crescita culturale di una Comunità e dell’intera nazione, anche la sintesi di un processo di sviluppo complessivo.

Ricordo a me stesso che la Costituzione è stata anche l’occasione per codificare un compromesso tra le varie anime politiche e le diverse ideologie rappresentate dai componenti dell’Assemblea Costituente. Prima di proseguire, è doveroso precisare che la storia ci ha consegnato compromessi al ribasso e compromessi al rialzo. Ebbene, la Costituzione Italiana rappresenta uno dei pochissimi casi di compromesso al rialzo consegnatoci dalla storia delle istituzioni politiche mondiali. Studiando con attenzione il diritto costituzionale italiano e comparato si potrà sicuramente notare la profonda lungimiranza attuata dai Costituenti i quali, soffermandosi sull’importanza e sul ruolo dell’istruzione, avevano ben intuito che l’Italia, per crescere e superare le criticità socioeconomiche rilevate nel secondo dopoguerra, oltre a dover superare lo Statuto Albertino si è trovata a scegliere una nuova forma di governo ed in esso vi è stato un nuovo punto di partenza. Sappiamo tutti cosa accadde il 2 giugno del 1946 e sappiamo benissimo l’importanza che rappresentò per l’Italia il processo di scolarizzazione avviato dal 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione Italiana.

La premessa storica era indispensabile perché continuo a pensare che ognuno di noi deve ricordare sempre il passato per poter guardare con maggiore lungimiranza al futuro. Intanto, sappiamo benissimo che non può e non deve passare inosservato il divario Nord-Sud.  Ieri veniva individuato come Questione Meridionale e oggi potremmo indicarlo come “emergenza Meridionale”. In tale cornice, da qualche anno a questa parte, prima i dati Ocse e successivamente le ricerche condotte dall’Invalsi, hanno costantemente certificato una regressione crescente delle competenze degli studenti Meridionali.

Recentemente, a causa della pandemia ancora in atto, tale processo si è acuito non soltanto al Sud, ma ha registrato flessioni anche nel Centro Nord. Qualche anno addietro, per l’esattezza luglio 2019, in un comunicato stampa dell’Anief, Associazione Sindacale Professionale, veniva affrontato il tema di cui ci stiamo occupando in questa sede e le parole del Presidente erano: «è assodato che al Sud, dove di sicuro uno studente su tre iscritto al primo anno delle superiori non arriverà mai alla maturità, il ritardo sia notevole: c’è un abisso. In terza media, per esempio, il 35% degli alunni non è in grado di comprendere un testo in italiano, ma in Calabria la percentuale sale al 50%. In inglese la quota di studenti che non arriva al livello prescritto (A2) è del 30% nel Nord Ovest, del 25% nel Nord Est, del 35% nel Centro, del 54% nel Sud e del 61% nel Sud e Isole. Nelle superiori se gli alunni deboli in italiano sono il 30% in media, in Calabria e Sardegna raggiungono il 45%. In Matematica il quadro peggiora».

Vi è da aggiungere che il gap delle competenze tra gli studenti Nord-Sud, a seguito dell’autonomia delle scuole, non lo ha ridotto come era stato preventivamente immaginato nella norma che ne ha istituito tale funzione. Volendo essere cinici nell’affrontare la discussione, dovremmo iniziare a ragionare sugli effetti di tale riforma, da una parte riconducibili al risultato fortemente preoccupante dei dati Invalsi e dall’altro ad un voluto “tradimento” di quella volontà consegnataci dai padri costituenti. Quando don Milani affermava che la scuola somiglia ad un ospedale che cura le persone sane e rifiuta gli ammalati, non era di sicuro il 2021. Non vi erano state le riforme che oggi sono vigenti.

Non esistevano i moderni mezzi di comunicazione ed approfondimento. Per i calcoli non si ricorreva a calcolatrici o tablet, ma veniva utilizzata carta e penna ed i più bravi riuscivano anche a farne a meno. Il problema da affrontare, ieri come oggi era l’analfabetismo. Ieri non si sapeva leggere e scrivere. Oggi, pur sapendo leggere e scrivere siamo di fronte ad un dilagante analfabetismo funzionale certificato dalle ricerche come mancanza di competenze. Di anno in anno, l’Invalsi ha promosso in tal senso molte discussioni e tanti confronti.

Annualmente vengono pubblicati studi, grafici, indicatori, dati e proposte per poi ritrovarci l’anno successivo, con gli indicatori analizzati nel precedente Anno Scolastico, peggiorati. Ed allora, se la scuola ha messo da parte l’idea di istruire e formare le future generazioni, ponendosi come un’azienda che non guarda ai profitti ma alla popolazione scolastica per poter avere maggiori finanziamenti e contare di più sullo scacchiere del territorio nel quale insiste l’edificio scolastico, è lecito chiedersi per quale motivo il Ministero competente non abbia preso di petto la questione, invitando l’Invalsi a continuare nella propria mission ed inserendo nei processi di misurabilità i Dirigenti scolastici, i docenti ed i tecnici di laboratorio?

Mi sembra scontato doverlo ricordare, ma vista la circostanza non posso esimermi di sottolineare che i processi di formazione continua, rivolti ai docenti ed ai dirigenti, estesi a tutto il personale scolastico, oltre ed essere citati dal Ccnl del comparto Scuola, rappresentano una continua occasione per aggiornarsi, formarsi ed entrare in sintonia con i moderni metodi d’insegnamento e con le nuove generazioni che da un punto di vista formativo richiedono sistemi simmetrici rispetto all’asimmetria spesso registrata in moltissime realtà scolastiche.

Detto ciò, non è mia intenzione sminuire la preparazione e la dedizione dei docenti che amano il loro lavoro; vi è la ferma convinzione che ognuno di noi, in mancanza di aggiornamento e privato di specifiche competenze, non può essere utile per tutte le stagioni. Tutta la platea del mondo scolastico italiano – circa otto milioni di giovani – afferisce alla generazione dei nativi digitali. Loro, contrariamente a noi nati nel Secolo scorso, hanno preso in mano un tablet a meno di due anni ed hanno immediatamente imparato a guardare i cartoni.

Per queste generazioni, va pensato un modello formativo declinato sugli indicatori che il sistema industria 4.0 ci sta chiedendo, senza continuare a propinare modelli superati e spesso noiosi. In classe si legge per i primi anni di scuola primaria. Poi, chi verifica la qualità della lettura? Qualcuno si è chiesto perché i nostri giovani hanno così profonde lacune in italiano, matematica, chimica, fisica e inglese?

Chi non riesce a leggere e comprendere cosa ha letto, comprendendone poi i contenuti per applicarli alle rispettive azioni, come potrà  svolgere degli esercizi di matematica, inglese, fisica e chimica senza l’applicazione della regola per la singola disciplina? Chi memorizza tutto, perché non è stato debitamente formato ad un processo di apprendimento deduttivo, ed essendosi trovato ad interagire con un metodo induttivo nel quale la logica è stata sostituita dalle schede da colorare o completare, con quale coraggio oggi può essere giudicato… male?

Forse vi è una verità che in molti non intendono pronunciare e la società deve essere livellata verso il basso così, privata dal sapere e dalla conoscenza critica, sarà controllabile più facilmente? In questo disegno c’è stato un piccolo imprevisto: i social ed il loro potere pervasivo accessibile a tutti. Umberto Eco aveva visto molto lontano nel dare una certa definizione a tale strumento.

La realtà non trova più spazio sotto il tappeto, perciò, nel levare la polvere accumulata da anni, bisognerà anche immaginare con una certa determinazione la risposta a tale circostanza.

La questione centrale non è più il solo divario culturale Nord-Sud e la mediocrità delle competenze, ma è la mancata qualità strutturale di una società Meridionale che non avrà politici capaci di potersi confrontare non più entro il perimetro di un piccolo comune ma dovrà confrontarsi a livello europeo. Tutto ciò spero possa far riflettere qualcuno. (fr)

[Francesco Rao è un sociologo calabrese, vive a Cittanova]

COM’È INGIUSTO IL PAESE CON LA CALABRIA
E CRESCONO DISUGUAGLIANZA E DIVARIO

di SANTO STRATI – Il nuovo libro di Pino Aprile, il più strenuo difensore del Meridione e della sua gente, è un pugno allo stomaco e offre lo spunto per notare quanta disuguaglianza c’è ancora tra i due poli del Paese: il Nord cresce e corre, il Sud arretra e, inesorabilmente, ferma i sogni di migliaia di giovani, donne, laureati. Il divario è anche e soprattutto qui: nella palese sperequazione che si perpetra ogni giorno in qualunque campo, nonostante gli allarmi – appassionati – della Svimez, la eccellente associazione creata ai primi di dicembre del 1946 da un gruppo di personalità del mondo industriale ed economico. L’ultimo Rapporto Svimez – presentato qualche giorno fa e di cui parleremo nei prossimi giorni – lo dice chiaramente: il Nord riparte, il Sud fa fatica non solo a riprendersi dalla pandemia ma anche a programmare il suo futuro, nonostante il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Il ragionamento che suggerisce Aprile (Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese, edizioni Pienogiorno), in realtà, non è che la diretta conseguenza delle tante pagine che il giornalista-saggista – oggi alla Direzione della tv calabrese LaC24 – ha dedicato al “furto” continuo e costante. Uno scippo urlato molto frequentemente con grande coraggio e onestà intellettuale anche da Roberto Napoletano sulla prima pagina del Quotidiano del Sud-L’altravoce dell’Italia: un esproprio legale e legalizzato dalla ricche regioni del Nord ai danni del Mezzogiorno.

Quando il gruppo di illuminati economisti e industriali, tra cui figuravano Pasquale Saraceno, Rodolfo Morandi, Donato Menichella e altri, nell’immediato dopoguerra diede vita all’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), non immaginava di anticipare di molti decenni l’idea che senza il Sud l’Italia avrebbe sempre marciato col freno a mano alzato. Erano industriali anche del Nord che si erano resi conto che occorreva immaginare progetti e sviluppare programmi di crescita reale per l’area più depressa del Paese, con l’obiettivo (pura illusione!) di realizzare l’unificazione anche economica dell’Italia.

Il problema è di crescita della ricchezza – per pochi – e la perdita di valore – per moltissimi. E il Covid si è rivelato un ottimo affare per i “ricchi” che sono diventati più ricchi, ma una disgrazia anche economica per i poveri che si sono ritrovati più poveri di prima. Ecco la disuguaglianza che emerge amaramente dalle pagine del libro di Pino Aprile: «la tutela sociale – scrive citando il prof. Viesti – è stata ed è in Italia più forte dove il benessere è maggiore». L’Italia era già molto disuguale da prima e il rapporto Oxfam 2020 rivela che i tre italiani più ricchi hanno quanto i sei milioni più poveri messi insieme. Il 20 per cento più ricco possiede il 70 per cento dei quasi 9300 miliardi del patrimonio nazionale; il successivo 20 per cento ha circa il 17 per cento di quei 9300 milairdi e al restante 60 per cento degli italiani rimane il 13 per cento della ricchezza. Aprile fa un esempio concreto: se fossimo una famiglia numerosa di dieci fratelli e avessimo 1000 euro, a due fratelli andrebbero 700 euro (350 a testa) ad altri due 85 a testa e ai rimanenti sei fratelli 21,60 euro a testa. Banalmente viene da pensare che forse è persino ottimistica come considerazione. Già, perché, soprattutto in Calabria, il divario, la sperequazione intollerabile, ha raggiunto livelli che dovrebbero far vergognare l’intera classe politica. E non solo quella del Mezzogiorno. Anzi è l’intera classe politica del Paese che dovrebbe fare un serio esame di coscienza sulle mancate promesse che, ad ogni elezione, vengono riproposte, salvo a rimangiarsi tutto, con la colpevole indifferenza dei parlamentari eletti al Sud.

Avevano provato con l’autonomia differenziata Emilia, Piemonte e Veneto a legittimare lo scippo con il pretesto della “spesa storica” (altra truffa ai danni delle regioni povere) secondo cui chi spende di più prende di più, chi è in difficoltà può restare a guardare. Il colpaccio dell’autonomia differenziata non è passato, anche a causa della pandemia, che ha accentuato, per altri versi, la dicotomia costante tra nord e sud, ma il divario non si è ridotto, anzi cresce, cresce continuamente e i numeri sono sconsolanti. Prendiamo i nostri giovani: «pur essendo la generazione più colta di sempre – fa notare Aprile – sono anche la prima, dall’Unità a oggi, a stare peggio dei loro genitori». È un problema di opportunità e di visione strategica.

Abbiamo quasi una generazione di inoccupati, ovvero di ragazzi che non hanno la più pallida idea di cosa sia il lavoro: con una scolarizzazione decisamente alta (abbiamo tre atenei che sfiorano l’eccellenza) la Calabria è la più grande esportatrice di cervelli. Prepara, forma i suoi ragazzi, ne fa laureati di altissimo valore, poi non offre loro alcuna occasione per esercitare una professione o un’attività di ricerca o di specializzazione. Li costringe a prendere il trolley verso le regioni intelligenti che non vedono l’ora di “utilizzare” le loro competenze, verso Paesi che fanno del merito una questione essenziale per la crescita e lo sviluppo e selezionano, per valorizzare, le capacità e le competenze che non hanno avuto costi di formazione. Dodici milioni di giovani – dice Aprile – corrono l’alto rischio di diventare i nuovi poveri, già oggi, persino se lavorano, perché è il crescita il fenomeno mondiale dei poor workers, quelli che, pur avendo un’occupazione e un reddito, non riescono a uscire dallo stato di bisogno.

Ci ha abituati all’indignazione Pino Aprile con i suoi libri, ma stavolta si supera ogni ragionevole rassegnazione: il quadro che, in modo ineccepibile, riesce a tracciare sulla disuguaglianza è terribile e amarissimo. I nostri ragazzi che vanno in Emilia, in Lombardia, in Piemonte “sopravvivono” grazie alle rimesse di genitori e nonni, mentre la Regione Calabria che spende e spande in cavolate varie non è riuscita dalla sua costituzione (era il 1970, non dimentichiamolo) a creare un percorso di sviluppo per i giovani, che metta in primo piano il problema lavoro. L’occupazione significa benessere non solo economico, ma possibilità di immaginare e costruire un futuro: ai nostri ragazzi abbiamo – tutti quanti – rubato il futuro e non ci sono scusanti. Quanti giovani calabresi vorrebbero restare nella propria terra, in famiglia, tra amici, nella sicurezza della casa dei genitori o dei nonni e devono, invece, guardare ai mercati che offrono loro opportunità di crescita. Il South Smartworking (ovvero, il lavoro da casa, fatto al Sud, nella casa di famiglia) è stato una boccata di ossigeno per molti giovani occupati che, causa pandemia, hanno lasciato momentaneamente le sedi di lavoro (chiuse) di Milano, Torino, Trieste, etc. E non vogliono, giustamente, ritornare al Nord perché hanno toccato con mano una qualità della vita che è ben differente da antipatiche routine quotidiane consumate nel ristretto di camere ammobiliate e sistemazioni di fortuna. È a loro che bisogna pensare, bisogna permettere alle nuove generazioni di disegnare il proprio futuro, immaginare una famiglia, poter crescere dei figli. Ma nel nostro Paese – grida giustamente Aprile – quello che manca è l’equilibrio: e chi più ha più trae per sé sottraendo a chi meno può.

In quest’ottica un buon utilizzo delle risorse che arrivano dall’Europa, il PNRR, potrebbe essere fondamentale per modificare almeno lo status sociale che ci sbatte in faccia l’ignobile differenza tra nord e sud: ai bambini in difficoltà, in Calabria – fa notare Aprile per chi l’avesse dimenticato – si spende undici volte meno che per quelli dell’Emilia Romagna. È desolante per non dire agghiacciante: la carenza di servizi riduce ulteriormente il potere di acquisto di chi vive al Sud. Dove – è bene rimarcarlo – non servono sussidi ma opportunità di lavoro, stabile e con un compenso dignitoso e adeguato. Ne sanno qualcosa le migliaia di precari utilizzati nella catena del commercio, sfruttati in virtù del bisogno, sottopagati e trattati come simil-schiavi che devono dire sempre di sì. È un quadro che emerge nitidamente dalle pagine di Aprile e che muove, inesorabilmente, una semplice domanda: ma quant’è ingiusto il Paese nei confronti dei calabresi? Se lo ricordino, questi ultimi, quando andranno alle urne per non premiare, nuovamente, i dispensatori professionali di speranze, soprattutto quelli ai quali della Calabria non interessa proprio niente. (s)


Stasera alle 21.30 a Reggio al Circolo del Tennis per i Caffè Letterari del Circolo Rhegium Julii Pino Aprile sarà intervistato dal direttore di Calabria.Live Santo Strati. Partecipano Enzo Filardo e Mario Musolino.

PNRR, CALABRIA: ILLUSIONI E PROMESSE
80% AL NORD E SOLO 20% AL MEZZOGIORNO

di SANTO STRATI – A conti fatti, l’«equa» ripartizione delle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vedrà assegnare l’80% al Nord e un misero 20% al Sud. Altro che superamento del divario economico, territoriale, culturale, sanitario, industriale, etc: qui si tratta proprio di sottrazione autorizzata di risorse ai danni delle popolazioni meridionali, con un’evidente ripresa anche dell’emigrazione “povera” verso le regioni ricche. Non solo fuga di cervelli, inevitabile vista la mancanza di opportunità e di occasioni di lavoro per i nostri laureati e ricercatori che si formano a Cosenza, Catanzaro, Reggio (tre Atenei che hanno dimostrato di saper “produrre” eccellenze), ma anche il richiamo di manovalanza dal Sud (muratori, elettricisti, carpentieri, etc) necessaria al Settentrione per realizzare infrastrutture, ospedali, scuole, edifici pubblici, impianti di pubblica utilità etc. Visto che saranno insufficienti le forze lavoro dei migranti che sono già integrati nel processo produttivo e industriale del Nord, secondo alcune stime saranno almeno 500mila i giovani che il Recovery Plan costringerà a lasciare il Sud nei prossimi sei anni (quelli della durata del piano). Ai quali, per la cronaca, è bene sottolineare, andrà aggiunta l’emorragia giovanile dal Sud degli ultimi venti anni: un milione e mezzo. L’equivalente di una città come Milano, due terzi di una regione come la Calabria. Di cosa stiamo ancora a discutere?

Al Sud, se si esclude l’ipotesi Ponte sullo Stretto, per la cui realizzazione (?) al primo anno ci potrebbero essere 25mila nuovi posti di lavoro, non s’intravvedono grandi opportunità di occupazione. Del resto se la ripartizione delle risorse finanziarie rimane quella da più parti messa in evidenza (a partire all’economista pugliese Vincenzo Viesti che per primo ha lanciato l’allarme) c’è poco da illudersi: 175 miliardi andranno al Nord, 35 miliardi al Sud, con buona pace della ministra per il Sud Mara Carfagna che con un emendamento ha fatto portare la quota minima delle risorse destinate alle regioni meridionali dal 34 al 40%. La matematica non è un’opinione: se fosse realmente il 40%, il Sud avrebbe oltre 80 miliardi a disposizione, come si arriva a 35? Ovvero meno della metà? E pensare che, sulla carta, appaiono “appena” 22 dei 35 miliardi stimati.

Qualcosa, evidentemente non torna. L’autonomia differenziata richiesta a gran voce da Lombardia, Veneto ed Emilia, cacciata fuori dalla porta, rientra in maniera furba dalla finestra. E se della Calabria – come, purtroppo, abbiamo scritto fin troppe volte – non interessa niente alla politica romana, diversa è la situazione dell’intero Mezzogiorno, ovvero di un terzo d’Italia che si sente “dimenticato” e trascurato. E ha un bel ripetere l’ex premier Giuseppe Conte che «se non parte il Sud non parte l’Italia»: da buon meridionale, però ormai integrato nel Palazzo, sa bene che le intenzioni e le promesse portano consenso anche se poi non vanno a termine. E così sta accadendo.

Ecco perché la manifestazione di ieri dei tantissimi sindaci della Rete Recovery Sud accorsi in piazza Montecitorio a Roma, pur essendosi rivelata un flop di presenze, assume il tono di un preavviso chiaro al Governo di Mario Draghi. Non ci può essere sviluppo se non vengono attuate le condizioni minime per superare il divario sempre più forte tra Nord e Sud.

Ernesto Magorno con alcuni sindaci alla manifestazione del 21 luglio

Unico parlamentare calabrese presente il sen. Ernesto Magorno che è anche sindaco di Diamante (CS), il quale ha sottolineato a Calabria.Live che è tempo che la rete dei sindaci del Recovery Sud cominci a fare sul serio, facendosi sentire nelle stanze del potere. E gli altri parlamentari calabresi? E i sindaci della Calabria? Scarsa organizzazione per quanto riguarda i sindaci (ricordiamo la folta partecipazione alla manifestazione dell’Anci lo scorso novembre con la delegazione ricevuta da Conte) ma nessuna giustificazione per deputati e senatori della regione che hanno clamorosamente snobbato l’iniziativa, forse perché promossa dal Movimento 24 Agosto – Equità territoriale che fa capo a Pino Aprile.

È bello che a perorare la causa del Sud sia stato il sen. (ora del gruppo Misto) De Falco, il famoso comandante del «torni a bordo, cazzo!» dello sciagurato naufragio della nave Costa ai comandi di Schettino, ma, a quanto pare, anche ai parlamentari calabresi interessa poco della Calabria e del Mezzogiorno, come al resto di Camera e Senato. Se ne ricordino gli elettori quando torneranno alle urne. (s)

LA SCUOLA E IL DIVARIO FORMATIVO A SUD
IL RILANCIO ITALIANO PASSERÀ DAI BANCHI

di FRANCESCO RAO – La scuola, intesa come sistema educativo e formativo della futura classe dirigente, dovrebbe rappresentare uno tra gli indiscussi punti di forza per qualsiasi nazione. Sulla scorta di tale affermazione, dovrebbero essere previsti una serie di azioni tese a verificare costantemente il posizionamento del punto di equilibrio posto lungo la curva dell’offerta formativa praticata dal sistema scolastico italiano.

In tal senso si potrà affrontare con lucidità il recepimento delle costanti sollecitazioni provenienti dal mercato del lavoro in stretta connessione al fabbisogno dei processi di produzione, garantendo così di volta in volta le necessarie rimodulazioni volte a garantire agli studenti di poter frequentare una scuola al passo con i tempi e di conseguire un titolo di studio immediatamente spendibile nel mondo del lavoro. Tutto ciò, oggi più che mai, rappresenta un validissimo modello predittivo finalizzato a conferire vita alla materializzazione delle sfide tecnologiche che costantemente domandano, al mondo della scuola e delle università, nuove competenze.

L’OCSE, con i puntuali rapporti annuali, tesi a monitorare l’apprendimento scolastico, svolge uno straordinario servizio. Purtroppo tale attività non è stata debitamente resa sufficiente e l’azione svolta dal noto istituto francese, volendo essere un tantino critico, ogni anno ha consegnato ai nostri competitor Europei tutte le criticità dei nostri studenti e di conseguenza abbiamo puntualmente fornito al mondo la mappa delle debolezze strutturali presenti e future. Al contempo è mancata una approfondita analisi di natura politica, volta ad avviare nuovi scenari finalizzati a superare definitivamente i trend che hanno iniziato a lanciare segnali di allarme sin dagli anni 90 dello scorso secolo.

Basti pensare che il protrarsi del gap tra studenti del Sud e studenti del Nord nel mancato raggiungimento di lodevoli obiettivi nelle discipline scientifiche e linguistiche ha conferito una rinnovata valenza al concetto antropologico consegnato alla storia da Cesare Lombroso, sotteso ad etichettare il Meridione ed i Meridionali principalmente come soggetti inferiori e criminali. Non è la prima volta che mi occupo di tali problemi. Da molto tempo continuo ad affermare che il Meridione avrà una seconda vita ed offrirà migliori opportunità ai propri giovani quando ci sarà una scuola capace di essere attuale e propensa ad interpretare prontamente i tempi senza doverli inseguire. In tal senso, qualche domanda sorge spontanea: a fronte dell’insufficiente profitto in ambito scientifico e linguistico che nel tempo ha interessato altissime percentuali di studenti Meridionali, richiamando nello specifico un mancato raggiungimento degli obiettivi previsti per la matematica, la chimica, la fisica e le lingue straniere, i vari governi come hanno risposto ai dati forniti annualmente dall’OCSE? Ed inoltre, quale azione è stata attuata per mitigare il crescente rischio della dispersione qualitativa e quantitativa che affligge il Meridione e le aree interne in particolare? Sono stati attuati corsi di aggiornamento obbligatori per i docenti? Sono state attuate azioni di monitoraggio per comprendere in quale preciso segmento formativo ha origine la negatività dei dati? Con buona probabilità, quando la forbice qualitativa si chiudeva si pensava a rincorrere il raggiungimento delle famose percentuali europee nelle quali l’Italia, ieri come oggi, ancora non ha livellato il rapporto con molti degli altri stati per quanto riguarda il numero di diplomati e laureati, trascurando l’idea della meritocrazia per scegliere la strada della quantità. Detto ciò, per quanto mi riguarda, continuo ad intravedere la scuola come l’ascensore sociale per eccellenza che le famiglie e gli studenti dovranno guardare con maggiore interesse e fiducia. Il rilancio dell’Italia passerà dai banchi di scuola e dalla straordinaria capacità messa in atto dalla stragrande percentuale di docenti, innamorati del loro lavoro e perfettamente coscienti del ruolo che lo Stato riconosce loro.

Vi sono però delle criticità che vorrei proporre all’attenzione dei nostri lettori e, puntualizzo sin da subito, che non è mia intenzione dubitare della professionalità dei docenti nell’effettuare la lettura dei recentissimi dati che non promuovono il nostro modello scolastico, credo sia giunto il momento di assumere in merito  una decisa presa di posizione puntualizzando che non basta aver conseguito una laurea ed aver vinto un concorso per poter essere docenti c’è bisogno di tanta passione.  Basta sentirsi con la coscienza pulita dopo aver ripetuto ai propri discenti il capitolo di storia o l’esercizio di matematica, reiterando l’identico modello appreso più di 30 anni addietro. Con buona probabilità quel metodo va rivisitato ed attualizzato in quanto bisogna saper affascinare gli studenti ed incuriosirli continuamente. Occorre rivedere le disposizioni dei banchi in classe introducendo sempre e di più la circolarità; sarebbe opportuno rivedere i modelli formativi nell’insieme, immaginando la programmazione del breve, medio e lungo periodo  soffermandosi spesso sull’idea della coprogettazione delle lezioni e rivedendo dove necessario la sostituzione della tipica lezione frontale con altri modelli formativi tesi a stimolare il lavoro di gruppo e la partecipazione, elemento di indispensabile necessità in quanto siamo proiettati ad essere una società di solisti e non una comunità di persone capaci di confrontarsi e trovare soluzioni condivise. Oggi, seppur l’istruzione sia un diritto garantito a tutti, le sacche di analfabetismo funzionale ed informatico rappresentano l’identica problematica affrontata dai governi nell’immediato secondo dopoguerra, con l’aggravante che oggi ad essere analfabeta funzionale è un laureato e non una persona completamente analfabeta.

Da oltre 30 anni a questa parte, mentre si registrava un crescente impulso innovativo dettato da una galoppante ascesa dell’informatica e della tecnologia, la modernità alimentava la disattenzione sociale rimanendo inglobato nella bolla speculativa materializzatasi nell’ultimo decennio del Secolo scorso. Tale periodo appariva come una fase di benessere destinata a non doversi esaurire mai. L’onda lunga del ’68 aveva ormai generato un’idea tesa a vedere superati i modelli verticistici ed i processi educativi si trasformavano da modelli normativi a modelli affettivi, spingendo i genitori a scegliere la scuola dove non esisteva la bocciatura alla scuola dove la bocciatura era una delle due variabili posta in funzione al profitto del discente. Questa breve premessa, si pone al centro tra la galoppante affermazione della postmodernità ed una delle pochissime ed intuitive azioni compiute dall’allora Ministro Mariastella Gelmini con l’istituzione degli Istituti Tecnici Superiori. Tale scelta, oltre ad interpretare correttamente i tempi, uniformava i cicli formativi italiani ai modelli europei. Tant’è vero che il super diploma, titolo conseguito dopo aver frequentato un percorso biennale a scelta tra uno dei 6 indirizzi, rappresentava il punto di partenza per risolvere la crescente richiesta di tecnici, proveniente dal mercato del lavoro paralizzato anche a causa della crescente  penuria di Risorse Umane altamente qualificate.

L’importazione di questo modello formativo, assunto dal sistema duale tedesco, supera qualitativamente tanti altri processi processi formativi anche afferenti al mondo universitario perché sono state introdotte due azioni innovative: la prima è l’inserimento di una percentuale di docenti provenienti dal mondo delle professioni; la seconda consiste nell’aver previsto durante il processo formativo una fase di Stage da svolgere in azienda, coinvolgendo il discente nei processi lavorativi dopo aver espletato una breve fase di affiancamento. Quest’ultimo elemento, in buona parte è l’elemento che consente all’azienda di formare una o più Risorse Umane su specifiche necessità ed alla fine del percorso poter procedere con l’assunzione.

Tutto ciò rispondeva ai complessi indicatori di cambiamento, provenienti principalmente dagli Stati Uniti d’America, nei quali oltre ad intravedere la necessità di rivedere il modo di fare scuola si avvertiva l’avvio di un divario formativo posto tra le principali cause della disoccupazione giovanile Italiana e soprattutto Meridionale. Questa affermazione, già nel 1995 e con una straordinaria lungimiranza, era stata consegnata al mondo da Jeremy Rifkin con la pubblicazione del suo best seller “la fine del lavoro”.

Oggi, a consolidare la bontà dell’analisi svolta dal noto economista americano vi sono una serie di circostanze. In prima battuta è individuabile la persistente volontà messa in atto dal mondo politico italiano nel protrarre un modello di scuola imbastita sulle abilità e trascurando di fatto le competenze. Questa scelta, in buona parte non ha tenuto in considerazione la dinamicità evolutiva dell’industria decretando nel lungo periodo un notevole ritardo strutturale, tanto nella preparazione dei nostri giovani quanto nell’ambito della ricerca, dell’innovazione tecnologica e della crescita economica dell’Italia.

Ad oggi possiamo vantare il primato di una scuola primaria d’eccellenza ma bisogna urgentemente rivedere l’accesso dei docenti nel più delicato segmento della scuola italiana, ossia la scuola secondaria di primo grado. I tre anni di questo segmento formativo richiedono una fortissima azione pedagogica,  pertanto i docenti impegnati in tale fase, seppur preparatissimi e dotati di buona volontà, dovranno annualmente essere formati per poter essere sempre pronti ad accogliere le nuove sfide educative, offrendo agli studenti l’opportunità di potersi proiettare al segmento di studi successi con una maggiore consapevolezza ed una preparazione più salda, soprattutto in ambito scientifico, linguistico ed informatico. Per le aree Meridionali, sempre più esposte a fenomeni di povertà educativa, deprivazione culturale e dispersione scolastica, per questo segmento formativo, sarebbe opportuno che il Ministero dell’Istruzione valutasse l’idea di istituire il tempo prolungato obbligatorio e la mensa. La delicatezza di questa fase, vissuta dagli studenti in coincidenza con la loro età evolutiva dovrebbe trasformarsi  in una vera e propria opportunità.

Infine, nel ringraziare tutti quei docenti che riescono a mettersi in gioco ogni giorno, superando ogni difficoltà e limite, finanche  dovendo qualche volta acquistare di tasca propria la carta per le fotocopie, mi sento di rivolgere un appello affinchè il governo riveda lo stipendio di quanti sono chiamati a formare la classe dirigente del futuro riconoscendo maggiori opportunità per quanti desiderano studiare, migliorarsi e far migliorare la scuola. Per una volta, proviamo ad immaginare l’asta della cultura come fonte di un benessere diffuso, intravedendo nella qualità il riconoscimento dei meriti. Tutto ciò, non farà bene soltanto ai docenti, farà bene ai nostri studenti ed all’Italia.

Oggi dobbiamo riflettere sulla pagella che in questi giorni ha fatto saltare dalla sedia quanti hanno intravisto da vicino la dimensione del nodo “scuola”, fin troppo grande al prospetto del pettine utilizzato per governare  il futuro di 8 milioni di studenti e la trasversalità complessiva che la scuola potrà arrecare alla crescita ed allo sviluppo della nazione, con un rinnovato e positivo impatto sociale che potrà caratterizzare il Terzo Millennio. (fr)

[Francesco Rao è un sociologo, vive a Cittanova]

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L’appello al Presidente Mattarella per i ragazzi delle scuole calabresi

di FRANCESCO RAO – Sig. Presidente, ogni occasione, ogni ricorrenza, è il momento buono per riflettere sulla condizione giovanile, guardando al passato, al presente ed esprimendo ogni tipo di impegno e buon auspicio per il futuro. Penso di non essere il solo ad aver ascoltato prelati, politici e le più alte cariche istituzionali impegnate verbalmente in tali argomentazioni.

Il trascorrere del tempo, per mille versi, è stato un reiterarsi di impegni posti in essere da soggetti diversi, posizionati temporaneamente nell’identico scenario ed oggi, tutte quelle belle parole vengono tradotte in un dato drammatico per il Paese: rispetto al 2013 c’è un incremento del 41,8% di cervelli in fuga, come riportato nel rapporto sul sistema universitario 2021. Ed allora, partendo dal presupposto che è la somma a fare il totale, la difficilissima realtà sociale, posta sotto i nostri occhi, merita ancora parole oppure necessitano urgentemente fatti concreti, tangibili ed immediati?

Detto ciò non è mia intenzione dubitare sulla bontà delle parole pronunciate dal Sig. Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante l’intervento tenuto a Palermo il 23 maggio 2021 alla cerimonia commemorativa, svolta in occasione dell’anniversario delle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. 

Ascoltando le autorevoli parole, pronunciate con il cuore, sin da subito è rimasta impressa nella mia mente l’affermazione del Presidente Mattarella che rivolgendosi a giovani diceva: «In voi si esprime la voce della società contro condizionamenti illeciti, intrighi, prepotenze, violenza sopraffattrice; la voce dell’Italia che chiede che tutti e ovunque possano sentirsi realmente e pienamente liberi nelle proprie scelte e nelle proprie iniziative. In definitiva, la voce della civiltà e della storia».

Nella stessa giornata del 23 maggio, a Palermo era presente anche il Ministro della Pubblica Istruzione Patrizio Bianchi e rivolgendosi anch’esso ai giovani ha affermato: «La legalità è il diritto di vivere una vita felice insieme. L’anno prossimo torneremo attraversando il mare e arrivando all’alba a Palermo rivedremo i ragazzi intonare l’inno nazionale».

Signor Presidente della Repubblica, Signor Ministro, da umilissimo Cittadino apprezzo le Vostre parole, il Vostro impegno e tutta la dedizione messa in campo per stimolare i giovani ad avere fiducia, ad impegnarsi negli studi e nella vita per contribuire a realizzare un Paese migliore.

La mia modesta esperienza professionale, mi ha portato a lavorare in ambito scolastico e formativo, nelle realtà territoriali complesse della Città Metropolitana di Reggio Calabria che, per comparazione di macro dati, è sovrapponibile alle aree territoriali del Meridione. In oltre 15 anni di attività, ho visto più volte il “nervo scoperto” di un tessuto sociale retto dall’inerzia e non dalla felicità di vivere. 

Ho visto l’avanzata età di giovanissimi genitori, consumati da umilissimi lavori e seppur riconoscenti del ruolo svolto dalla Scuola spesse volte non partecipavano alle varie iniziative perchè la vergogna oggi è la peggiore delle punizioni che la società riserva agli ultimi. Ho visto studenti ritirarsi da Scuola perchè per i loro genitori era prioritario fare la spesa e non acquistare i libri. In moltissimi casi, il sociologo presente a Scuola ha costruito ponti relazionali, è andato a casa di quegli studenti, ha respirato non soltanto l’umiltà ma la rassegnazione di chi non poteva fare di più.

Ho trascorso molti giorni a comprendere perchè gli studenti pendolari arrivavano in ritardo a scuola in coincidenza delle belle giornate. Mentre i docenti asserivano le solite ragioni tese a non alimentare la fiducia, quei discorsi non mi bastavano. Dopo tanto tempo compresi la causa: in caso di pioggia, i pochi euro messi a disposizione dei genitori venivano utilizzati per il biglietto della corriera; quando c’era il bel tempo si raggiungeva la Scuola facendo l’autostop e con quei pochi euro si comprava un panino e qualche volta una ricarica per il telefono, solo per poter alimentare le promozioni e la connessione alla rete internet per non rimanere isolati dal gruppo.

Tanti di questi studenti non hanno ultimato il processo formativo ed oggi non hanno un Diploma, tradotto in parole semplici, non avranno la più minima ed indispensabile opportunità per la vita. Anche il programma “Garanzia Giovani”, rivolgendosi ai giovani tra 18 e 29 anni, richiede un Diploma quale titolo d’accesso ai benefici previsti dalle varie misure di inserimento occupazionale.

La pandemia ha letteralmente amplificato il divario sociale, devastando soprattutto la qualità della vita dei segmenti sociali più umili, rimasti soli e coscienti che la minima istruzione posseduta è il limite invalicabile per poter recuperare quanto è stato perso in termini occupazionali e reddituali. Tra essi, oggi ci sono anche le famiglie ed i figli di un segmento sociale duramente colpito e cioè del mondo delle partite iva.

È ricorrente la preoccupazione del mondo inquirente, tesa ad intravedere in tale debolezza sociale la convenienza della criminalità per reclutare nuove manovalanze ed incrementare i fenomeni devianti. Vogliamo per l’ennesima volta fermarci alle parole ed alle paure? Vogliamo continuare ad assistere alla crescente diffusione di suicidi adolescenziali? Vogliamo continuare ad assistere alla fuga di cervelli? Vogliamo continuare a subire la prepotenza criminale e la condanna o la morte di giovani che in tutta la loro disperazione, hanno intravisto il bene sul sentiero del male?

Il nostro Gianni Morandi, in uno dei suoi successi degli anni ‘80, cantava: “uno su mille”. Oggi, al cospetto di una generazione smarrita da una moltitudine di fattori, la guida al bene è riposta nella bellezza di quel progetto di democrazia che la nostra Carta Costituzionale ha consegnato agli Italiani, ponendo al centro di ogni agire la Persona che è destinataria della custodia e della crescita della nostra Repubblica.

Sig. Presidente, Sig. Ministro, avevo la necessità di condividere queste parole di speranza con Voi. Lo faccio sommessamente ed ufficialmente, scrivendoVi nero su bianco le sensazioni di chi non ha più lacrime per piangere il dispiacere letto negli occhi dei tanti genitori che incontro. Nelle loro umili parole, non intravedo la felicità per il domani dei loro figli ma sofferenze e privazioni. Sarà comprensibile il dolore pronto da una madre ed un padre che, impossibilitati a fare di più si arrendono al destino ma personalmente vorrei pensare che la Repubblica possa ancora rimuovere tali difficoltà. Un Meridione nel quale moltissimi giovani sono senza futuro e tantissimi i genitori non hanno un lavoro dignitoso, quale forza propulsiva potrà dare all’Italia? Se il Sud piange il Nord non potrà più nemmeno ridere.

PorgendoVi i miei più cari e deferenti saluti, chiedo umilmente scusa per questo sfogo. Quando ho giurato davanti alla bandiera ed in presenza del comandante del corpo, ho scelto un modello di vita per sempre che ripone nelle Istituzioni la via maestra.  (fr)

[sociologo e docente]

DPCM E COVID: LA CALABRIA ZONA ROSSA
IL DRAMMA VERO DI INVISIBILI ED ESCLUSI

di SANTO STRATI – Un bollettino ufficiale della Regione corretto di corsa tarda sera, dove – ops! – si scopre che i ricoverati in terapia intensiva sono solo dieci e non 26. Ma come si può tollerare che avvengano errori di questo genere che sconvolgono la valutazione che sta alla base delle decisioni sul lockdown regionale? Di fatto, la Calabria è stata dichiarata ieri sera in diretta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte “zona rossa”: un provvedimento più a titolo cautelativo che dettato dalla situazione dei contagi che sono ancora abbastanza limitati rispetto ad altre parti d’Italia. E in più ogni giorno di più registriamo norme arruffate e confuse, dpcm che si susseguono senza che nessuno cerchi di omogeneizzare le disposizioni con chiarezza per non far cadere nello sconforto gran parte della popolazione. C’è comunque una categoria che nello sconforto vive ormai dal 10 marzo scorso, dall’inizio del primo lockdown: quella dei cosiddetti invisibili e degli esclusi, ovvero tutti coloro che non rientrano tra i provvedimenti di ristoro delle perdite e di aiuto finanziario perché il loro codice Ateco (la classificazione burocratica delle categorie produttive) non figura nei provvedimenti del Governo. E non parliamo di invisibili riferendoci a quanti fanno lavoro in nero (e sono ugualmente tanti e lasciati, anche loro, alla più totale disperazione per cercare vie di sopravvivenza), ma di imprenditori e lavoratori autonomi che pagano le tasse, versano i contributi, occupano dipendenti. Semplicemente, come per gli “esclusi”, poiché il loro codice Ateco non è tra quelli previsti non hanno beccato un centesimo di aiuto e non lo riceveranno neanche adesso, alla vigilia dell’inevitabile (sperando parziale) lockdown. In altre parole, la burocrazia vince ancora una volta sul buon senso e i provvedimenti via via varati rivelano che a compilare i vari dpcm (mica li scrive il premier Conte) siano algidi funzionari che vivono in un’altra realtà, non conoscono le dinamiche dell’economia reale, ignorano totalmente come funziona la filiera produttiva in Italia.

Quando si bloccano, per esempio, i locali per i ricevimenti (abitualmente destinati ai ricevimenti nuziali) non si ferma solo l’attività del gestore del locale che, in ogni caso, ha dipendenti (cuochi, camerieri, lavapiatti, etc) e fornitori da pagare, ma si elimina ogni forma di reddito a chi produce e confeziona bomboniere, a parrucchieri, fotografi, fiorai, tipografi (le partecipazioni), musicisti e via discorrendo. Si chiama filiera, ma i nostri diligenti funzionari di Palazzo Chigi, probabilmente, lo ignorano. E lo stesso discorso vale per il bar, il ristorante, la pasticceria, la pizzeria a taglio: per ognuno di loro c’è un esercito di “invisibili” che non ha alcuna tutela. I menu da stampare, la manutenzione dei registratori di cassa, di frigoriferi e attrezzature, fiorai (per chi fa trovare un apprezzato fiore reciso nel minivaso sul tavolo), le agenzie di pubblicità che producono biglietti e volantini, agenti di commercio, etc.

Insomma, nel momento in cui il Governo decide – come ha fatto nella prima fase della pandemia – di chiudere e fermare le attività lavorative, deve necessariamente provvedere a ristorare, prima di imporre le chiusure, le perdite a tutti coloro che le subiscono. E quando si dice tutti si deve intendere tutti non solo quelli individuati dal codice Ateco. L’esperienza dei mesi marzo/aprile è stata davvero infelice, anzi diciamo meglio, disastrosa. E, purtroppo, il Governo sembra intenzionato a proseguire su questa strada, dimenticando per strada migliaia e migliaia di imprese e di lavoratori. L’esecutivo continua a rassicurare che gli aiuti «arriveranno a tutte le categorie interessate dalle misure restrittive» ma ha stanziato appena 50 milioni come fondo d’emergenza, pur avendo a disposizione 20 miliardi di extradeficit che non sono stati ancora utilizzati. Ebbene, il dl Ristori ha individuato 53 codici Ateco che devono ricevere gli aiuti, dimenticando chi magari, ha più bisogno degli altri: quella massa, appunto, di invisibili ed esclusi che, per intenderci, valgono qualcosa vicina a qualche decina di miliardi di fatturato aggiuntivo. Quindi, oltre al danno della cessazione forzata dell’attività si deve aggiungere la beffa di non poter contare neanche su un centesimo di aiuto. Si sono dimenticati completamente degli ambulanti e dei rappresentanti di commercio che sono rimasti praticamente fermi: niente bancarelle, niente ordini da trattare, ricevere, trasmettere alle aziende fornitrici. Un esercito di gente che lavora sulla propria pelle e che, molto spesso, non ha nemmeno coperture previdenziali e assicurative contro le malattie. Come si può tollerare tutto ciò?

Hanno promesso dal Governo che i soldi questa volta arriveranno “subito” (a partire dal 15 novembre), ma i più smaliziati sono già rassegnati ad aspettarsi il solito balletto di rito, col rimpallo delle responsabilità, senza che nessuno provveda a interrompere lo scempio. Servono soldi veri, non promesse né crediti di imposta (su quali tasse se l’attività non opera?), occorre una seria politica di intervento a favore di tutte le categorie coinvolte nelle chiusure obbligate: lo chiamino lockdown o come diavolo meglio credano, ma i nostro governanti non possono immaginare di ripetere l’insulso copione dei mesi primaverili. La lezione non è servita, non hanno imparato nulla e, anzi, la situazione rischia di diventare esplosiva non soltanto dal punto di vista sanitario, ma soprattutto sul piano sociale. C’è una sorta, perversa, di “induzione alla povertà” nei provvedimenti fin qui varati: si premia chi chiude e manda a casa i dipendenti (prende di più) rispetto a chi, ad ogni costo, tiene duro e cerca di superare la burrasca (prende di meno): è una politica di suicidio assistito delle aziende che non porterà a niente di buono, perché, nel momento in cui, cessano le attività finiscono anche le entrate dello Stato, questo è evidente. Eppure si continua a ipotizzare una distribuzione di “elemosine” a imprenditori coraggiosi che hanno investito nella propria attività, hanno creato ricchezza sul territorio, hanno offerto occupazione e benessere, e pagano tasse e contributi. A questi operatori viene negato ogni aiuto, a partire dal famoso decreto liquidità che le banche hanno utilizzato a proprio piacimento, negando il credito ad aziende che avevano bisogno di superare la crisi o dilatando oltre ogni ragionevole sopportazione i tempi di valutazione ed erogazione. Già perché, nonostante la crisi, in banca si continua a parlare di “valutazione” del rischio, nonostante i prestiti (ricordiamoci che sono prestiti, non sono soldi che non andranno restituiti) siano interamente garantiti dallo Stato. Significherà pure qualcosa che a fronte del tetto massimo di 30 mila euro “subito” l’erogazione media non non ha mai superato i due terzi, ovvero sempre al di sotto dei 20mila, perché i burocratici conteggi in percentuale previsti per accedere al credito non hanno tenuto conto che il 2019 non è stato un anno brillante.

E, invece, l’aiuto previsto a fondo perduto (soldi da non restituire) non basta a mantenere in piedi un’attività che già è stata duramente messa alla prova dai 70 giorni di lockdown primaverile. E, come se non bastasse, ricordiamoci quanto hanno speso i vari ristoratori, esercenti di bar e pasticceria, i negozianti, per dotarsi dei dispositivi di distanziamento imposti dai vari dpcm; per la fortuna delle aziende che lavorano il plexiglas e producono il gel antibatterico o altri dispositivi: divisori trasparenti, separé per dividere i tavoli, adeguamenti igienici e dispensatori di gel. C’è chi ha fatto miracoli di architettura, tagliando posti a sedere, pur di garantire il servizio ai clienti e cercare di tenere in piedi l’attività e, soprattutto, non mandare a casa alcuno dei dipendenti. A questi imprenditori, con una faccia tosta da politico navigato, il presidente Conte, a nome dell’esecutivo che guida ha detto semplicemente «abbiamo scherzato», neanche fosse una partita a poker. Qui si sta giocando, però, col futuro di centinaia di migliaia di persone, da cui dipendono molte altre centinaia vite e famiglie, che improvvisamente si ritrovano senza lavoro e senza reddito. Non basta indignarsi, le Regioni devono battere i pugni sul tavolo, ma la terza Camera dello Stato (la conferenza Stato-regioni è chiaramente schierata contro il Mezzogiorno e la Calabria sconta più di tutti un divario ormai sempre più incolmabile nei servizi, nella sanità, nell’occupazione, nello sviluppo).

Allora c’è solo da immaginare un colpo d’ala, un cambiamento repentino di rotta, dove le valutazioni su chi bisogna aiutare non siano affidati a una ricerca sul database delle attività codificate dall’Ateco, bensì siano frutto della ragionevolezza e del contributo di idee di chi vive ogni giorno le difficoltà del mondo produttivo: Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato possono fornire le cifre reali del disagio di quanti si ritrovano, dalla sera alla mattina, privati della loro dignità di lavoratori e di un reddito sudato giorno dopo giorno. Siamo in guerra con un nemico insidioso e che non solo distrugge vite umane, ma sta minando l’intero impianto della società civile e dei suoi attori principali, i lavoratori, siano essi dipendenti o imprenditori, la barca è in comune per tutti: senza aiuti reali, immediati e concreti, non si va da nessuna parte. E pensare che i soldi ci sono, il Governo è autorizzato sforare il deficit per salvare il Paese. Probabilmente sarebbe utile un “gabinetto di guerra” con la partecipazione di tutti: maggioranza e opposizione per prendere coraggiosi provvedimenti per fermare la nuova povertà che avanza a ritmi spaventosi e salvare il Paese da un disastro che appare comunque evitabile. Ma a Palazzo Chigi e dintorni, nei Palazzi del potere, non si decide, si impone, come se i cittadini fossero improvvisamente diventati. sudditi cui infliggere persino lo stato di “schiavitù” intellettuale: è questo il problema, oggi, del Paese. Non abbiamo governanti, ma dilettanti allo sbaraglio che si muovono per improvvisazione e qualunque cosa facciano producono danni, perché non cercano e soprattutto non ascoltano le competenze e le capacità che sicuramente non mancano in un Paese che sta smarrendo se stesso, irrimediabilmente. (s)

Nella foto di copertina: lo speciale dedicato da Mattino 5 ieri mattina alla situazione della sanità in Calabria. A destra il prof. Raffaele Bruno infettivologo calabrese del San Matteo di Pavia, il prof. Matteo Bassetti del San Martino di Genova e dott. Antonio Talesa responsabile del 118 calabrese durante il collegamento su Canale 5