SVIMEZ, INCERTEZZA POLITICA E GUERRA
AMPLIERANNO IL DIVARIO TRA NORD-SUD

dalla REDAZIONE ROMANA – Quello tra il Nord e il Sud sembra essere un divario che è destinato ad ampliarsi sempre di più, piuttosto che ridursi, a causa dell’incertezza che indebolisce la ripresa a livello nazionale. È quanto è emerso dalle anticipazioni del Rapporto Svimez sull’economia e la società.

La Svimez, infatti, parla di «storiche fragilità strutturali» tra Nord e Sud che non solo non si riescono a risanare, ma che aumenteranno a causa delle conseguenze della guerra in ucraina e i rischi di instabilità politica, nonostante «il Sud abbia partecipato alla ripresa nazionale del 2021»: in quell’anno, infatti, il Mezzogiorno ha visto il Pil crescere del 5,9%, a fronte di una crescita nazionale del 6,6%.

Un riscatto del Mezzogiorno inaspettato reso possibile grazie «all’intonazione insolitamente espansiva delle politiche a sostegno dei redditi delle famiglie e della liquidità delle imprese» scrive la Svimez, ma che, con lo shock della guerra in Ucraina, ha completamente cambiato le carte in tavola, rovesciando quella ripresa che il Sud si è conquistata con tanta fatica.

Aumento del costo dell’energia e delle materie prime; comparsa di nuove emergenze sociali; nuovi rischi di continuità economiche per le imprese; indeterminatezza delle conseguenze di medio termine dei due “cigni neri” della pandemia e della guerra, la cui comparsa a distanza così ravvicinata, sono solo alcune delle conseguenze di questa guerra, che al Mezzogiorno è costato caro: l’inflazione è cresciuta dell’8,4% contro il 7,8% del Centro Nord; la ripresa è ancora più lenta.

Ma, forse, il dato peggiore sono le previsioni dell’Associazione: nel 2023-2024 al Sud crolleranno i consumi, così come ci sarà un rallentamento degli investimenti, mentre nel 2022 si è registrato il +12,2%, un dato più alto del Nord, che registra il 10,1%.

Mentre è stimata una crescita del Pil al +3,4% nel 2022, «a rallentare la crescita nazionale – quasi un punto sotto le previsioni pre-shock Ucraina – è soprattutto la frenata di consumi e investimenti – spiega la Svimez – in entrambi i casi con effetti di composizione sfavorevoli al Mezzogiorno tali da determinare la riapertura della forbice Nord-Sud nel ritmo di crescita (+2,8% nel Mezzogiorno, +3,6% nel Centro Nord) che prima del nuovo shock sembrava potesse rimarginarsi. Il Mezzogiorno, comunque, recupera nel biennio 2021-2022 i livelli di PIL pre-pandemia».

Nelle previsioni della Svimez, in Calabria il Pil crescerà dello 0,1% nel 2023, mentre dello 0,4% nel 2024. Dati allarmanti, considerando che, nel prossimo biennio, il Pil calabrese è quello che crescerà di meno a livello italiano. Ma non è solo la nostra regione a trovarsi in difficoltà: «il Mezzogiorno – ha rilevato la Svimez – fa segnare tassi di variazione del Pil inferiori al resto del Paese, nonostante il significativo contributo alla crescita del PNRR. Nel 2023, il Pil dovrebbe segnare un incremento dell’1,7% nelle regioni centrosettentrionali, e dello 0,9% in quelle del Sud. Nel 2024, si manterrebbe un divario di crescita a sfavore del Sud di circa 6 decimi di punto: +1,9% al nord contro il +1,3% del Sud».

La Svimez, poi ha denunciato come «con l’instabilità politica potrebbero tornare le tensioni sui mercati finanziari, con effetti depressivi maggiori sull’economia meridionale»: per l’Associazione, infatti, «una prolungata situazione di tensione nei mercati finanziari possa determinare una perdita di Pil, nel biennio 2022-2023, di circa sette decimi di punto percentuale a livello nazionale. Nel Sud, la perdita di Pil arriverebbe al punto percentuale, mentre nel resto del Paese risulterebbe più contenuta arrestandosi a sei decimi di punto».

L’Associazione, poi, ha rilevato che «le imprese nel Mezzogiorno sono quelle più esposte allo shock Ucraina», in quanto l’aumento dei costi dell’energia incide maggiormente sui bilanci delle aziende del Mezzogiorno perché qui sono più diffuse le imprese di piccola dimensione, caratterizzate da costi di approvvigionamento energetico strutturalmente più elevati sia nell’industria che nei servizi. Inoltre i costi dei trasporti al Sud sono più alti, oltre il doppio rispetto a quelli delle altre aree del paese. Quindi il sistema produttivo meridionale si dimostra più fragile rispetto all’impatto della guerra».

«Si stima, infatti – si legge – che uno shock simmetrico sui prezzi dell’energia elettrica che ne aumenti il costo del 10%, a parità di cose, determini al Sud una contrazione dei margini dell’industria di circa 7 volte superiore a quella osservata nel resto d’Italia, rischiando di compromettere la sostenibilità dei processi produttivi con possibili conseguenze sul mantenimento dei livelli occupazionali».

Per quanto riguarda i dati sull’occupazione al Sud, la Svimez ha rilevato che, nonostante ci sia una crescita (nel I trimestre del 2022 l’occupazione nel Mezzogiorno è tornata ai livelli del primo trimestre del 2020 con ancora 280mila posti di lavoro da recuperare rispetto al primo trimestre 2009), la qualità del lavoro è peggiorata.

«Il recupero dell’occupazione nel 2021 – scrive la Svimez – è però interamente dovuto al Sud ad una crescita dell’occupazione precaria (dipendenti a termine e tempo parziale involontario). Nel Centro-Nord, riprende a crescere anche il tempo indeterminato. Dalla crisi del 2008, il progressivo peggioramento della qualità del lavoro, con la diffusione di lavori precari ha portato ad una forte crescita dei lavoratori a basso reddito, a rischio povertà. Intervenendo in un mercato del lavoro già segnato da una crescita dell’occupazione «senza qualità», la ripresa dell’occupazione del 2021 nel Mezzogiorno si è concentrata sulla crescita del lavoro precario che ha «spiazzato» le forme di impiego più stabile».

Per la Svimez, è importante dare continuità al Pnrr «per colmare i divari sui diritti di cittadinanza: nelle infrastrutture scolastiche e nei ritardi e divergenze nei sistemi produttivi», a partire dall’istruzione.

«Nel Mezzogiorno – è stato rilevato – circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184mila (88%), in Puglia 100mila (65%), in Calabria 60mila (80%). Nel Centro-Nord gli studenti senza mensa sono 700mila, il 46% del totale. Circa 550mila alunni delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano scuole dotate di una palestra».

«Solo la Puglia – si legge – presenta una buona dotazione di palestre mentre registrano un netto ritardo la Campania (170mila allievi senza, 73% del totale), la Sicilia (81%), la Calabria (83%). Nel Centro-Nord gli studenti senza palestra raggiungono il 54%. Il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado. Da segnalare che quasi un minore meridionale su 3 (31,35%) nella fascia tra i 6 e i 17 anni è in sovrappeso, rispetto ad un minore su cinque nel Centro-Nord, in Basilicata il 40% (Svimez-Uisp, 2021)».

Al Sud, poi, è stato rilevato che il tempo medio per alunno nella Scuola Primaria è di quattro ore a settimana in meno rispetto al Centro-Nord, e che solo il 18% degli studenti del Mezzogiorno riesce ad accedere al tempo pieno, rispetto ai loro coetanei del Centro-Nord che sono il 48%.

La Svimez, poi, nel rapporto dedica uno spazio alla sfida dell’attuazione del Pnrr e ai relativi tempi di realizzazione e al ruolo degli Enti locali: «nell’ultimo decennio 2012-2021 emerge che su circa 46.277 opere monitorate e concluse, il 49,6% riguarda Infrastrutture sociali (di cui: infrastrutture scolastiche (40%), abitative (6%), sport e tempo libero (14%), beni culturali (8%), sanitarie (4%), direzionali e amministrative (5%), culto (1,6%) e altre (20%)); al Sud tale quota sale al 53%.Si tratta di un ambito di intervento decisivo per raggiungere gli obiettivi di coesione territoriale previsti dal Pnrr».

«Rispetto al dato nazionale (1.007 giorni) – viene rilevato – i comuni del Mezzogiorno impiegano mediamente circa 450 giorni in più per portare a compimento la realizzazione delle infrastrutture sociali. Considerando le tre fasi progettuali delle opere (progettazione, esecuzione e conclusine dei lavori) il Mezzogiorno presenta in tutte le fasi evidenti ritardi rispetto al Centro e alle aree Settentrionali. Oltre 300 giorni di ritardo si accumulano nella fase di cantierizzazione (esecuzione) se gli enti locali del Mezzogiorno non dovessero invertire il trend e rendere più efficiente la macchina burocratica necessaria all’affidamento dell’appalto, all’apertura del cantiere e alla realizzazione dei lavori, avrebbero dei tempi estremamente stretti per portare a conclusione le opere nel rispetto del termine ultimo di rendicontazione fissato per il 31 agosto 2026 (Regolamento RFF 2021/241)».

Per l’Associazione, «gli investimenti del Pnrr in infrastrutture sociali nel Sud dovrebbero essere avviati al massimo entro fine ottobre 2022 per riuscire a chiudere il cantiere entro la conclusione del Piano (agosto 2026). I tempi per le restanti macro-aree sono un po’ più diluiti: Maggio 2023 per il Centro e l’estate 2024 per le aree settentrionali».

Le difficoltà delle imprese del Sud nel recepire e sfruttare tutto il potenziale delle misure di politica industriale legate al 4.0 previste dal PNRR si scontra con vincoli fisiologici e patologici del sistema produttivo meridionale: «La priorità accordata – si legge – alla coesione economica, sociale e territoriale dal PNRR, in tema di imprese e lavoro, andrebbe declinata nel contrasto alle tendenze divergenti tra strutture produttive regionali, definendo un mix di strumenti di politica industriale bilanciato tra consolidamento dell’esistente nelle aree forti, e ampliamento e riqualificazione della struttura produttiva delle aree in ritardo».

Per la Svimez, «il Pnrr sconta la mancanza di una vera e chiara politica industriale. Interventi come le Zone economiche speciali, i contratti di sviluppo, i fondi per l’internazionalizzazione, gli accordi di innovazione non sono parte integrante di una strategia unitaria di politica industriale attiva. La debolezza degli interventi verticali e di filiera pregiudica anche l’opportunità di beneficiare della domanda aggiuntiva di beni e servizi avanzati incentivata dal Piano, alimentando importazioni piuttosto che un ampliamento dell’offerta nazionale che potrebbe trovare nelle aree del Mezzogiorno una possibile localizzazione strategica».

La soluzione, dunque, sarebbe quella di «potenziare e caratterizzare territorialmente le misure di politica industriale del PNRR, integrandoli in una strategia che ne precisi gli obiettivi (sostenibilità, qualità del lavoro) e le priorità settoriali, supporterebbe la capacità attrattiva del Mezzogiorno. Ne risulterebbe rafforzata la finalità di coesione del PNRR, e valorizzato il ruolo del Mezzogiorno nel riposizionamento del Paese nelle catene del valore che vanno riconfigurandosi dopo il doppio shock della pandemia e dell’invasione russa dell’Ucraina». (rrm)

CONTRO L’AUTONOMIA CHE PIACE AL NORD
IL MEZZOGIORNO DEVE URLARE IL SUO NO

di MASSIMO MASTRUZZOSono diverse le aree del Mezzogiorno d’Italia che sono già sull’orlo del punto di non ritorno, praticamente a rischio concreto di desertificazione umana. Una condizione che con l’autonomia differenziata diverrà irreversibile.

Prendiamo ad esempio la provincia di Vibo Valentia, un territorio che ha vissuto dolorosi disastri idrogeologici: nel 2006 ci furono quelli che sconvolsero Longobardi, Vibo Marina, Bivona e Portosalvo. Nel 2010 toccò a Maierato. E poi Drapia, Vazzano, la zona delle Serre, e nel febbraio 2022 a San Calogero dove l’incubo di un paese risucchiato da una frana (che aveva già colpito quella zona nel 2018) ha rischiato di concretizzarsi a causa di uno smottamento che ha fatto scivolare a valle parte dell’arteria di collegamento alla Statale 18, causando di fatto non solo un danno milionario, ma una consequenziale sottrazione di diritti causati dagli effetti negativi che la frana ha avuto sulla mobilità quotidianità, oltre che sulla sicurezza, dei cittadini di San Calogero che si sono ritrovati con la via per la Statale 18 sbarrata.

Statale 18 e territorio comunale di San Calogero che sono già saliti sulla ribalta della cronaca per la vicenda della discarica fornace, discarica che che confina con le province di Vibo Valentia e Reggio Calabria, sulla statale 18 appunto, che dalla vicina Piana di Gioia Tauro porta verso Vibo Valentia, al bivio per la frazione Calimera, ritenuta tra le più pericolose d’Europa in quanto contiene oltre 130mila tonnellate di rifiuti provenienti da centrali termoelettriche a carbone, oggetto prima del processo “Poison”, (con la magistratura che non è riuscita a consegnare alla giustizia i 14 imputati ritenuti responsabili di “avvelenamento colposo” in quanto il reato è andato prescritto), e successivamente teatro della triste vicenda che ha visto l’omicidio di Soumaila Sacko, di 29 anni, maliano, bracciante agricolo ed attivista dell’Unione sindacale di base, ucciso nel giugno del 2018  mentre si trovava nell’ex fornace per recuperare lamiere da utilizzare nella tendopoli di San Ferdinando (Reggio Calabria) allo scopo di adattarle a coperture di alcune baracche che ospitavano migranti.

Quale legame tra gli eventi del territorio del Vibonese, del territorio comunale di San Calogero con l’autonomia differenziata?

I numeri, la realtà dei numeri prodotti dall’agenzia per la Coesione che ripartisce i mille e passa miliardi di spesa pubblica tra le Regioni. La spesa media pro capite del Nord-ovest è pari a 19.291 €, nel Nord-est 17.754 €, al centro 20.365 €, al sud 13.756 € e nelle isole 15.004 € (dati 2019). Facendo qualche conto, nel Mezzogiorno arrivano quasi 5.000 € all’anno in meno rispetto al Centro-nord, che per i 20 milioni di abitanti fanno 100 miliardi all’anno in meno, più della metà di tutto il PNRR.

E la disomogeneità territoriale istituzionalizzata non è finita, con i dati dell’indice di correlazione tra spesa pubblica e Pil regionale si arriva all’assurdo risultato che la spesa per le politiche sociali sia maggiore nelle regioni più ricche. Da notare che rispetto a una iniziativa che rischia di trasformare i diritti dei cittadini in beni disponibili a seconda del reddito, prevedendo il riparto delle risorse in base alla capacità fiscale territoriale nell’ambito di sistemi regionali autonomi, per la scuola come per la sanità, l’ambiente, la sicurezza, i beni culturali, la ricerca, le infrastrutture, nessuno ne parla, nè le istituzioni, né la stragrande maggior parte dei media e nemmeno molte realtà della società civile, che pure ne sono a conoscenza. Così come una sorta di inspiegabile consegna del silenzio, avvolge la mancata applicazione dei LEP, che a prescindere dell’autonomia differenziata, e previsti per legge dal 2009, attendono ancora di essere applicati. La mancata applicazione causa al sud una mancata assegnazione che si traduce in una perdita di 61 miliardi di euro ogni anno. Ogni anno dal 2009.

I LEP, infatti, sono i Livelli Essenziali delle Prestazioni, soldi, che lo stato dovrebbe destinare nella stessa quota di spesa pubblica pro capite in tutte le regioni d’Italia.

Per ogni cittadino ci dovrebbe quindi essere una quota X che viene destinata dalla ripartizione della spesa pubblica (e questa X dovrebbe essere uguale per tutti, in ogni parte d’Italia). Perché non sono ancora stati applicati, e perché la ministra Gelmini vorrebbe che l’autonomia differenziata venisse applicata prima dei LEP? 

Questo lo sa bene Giorgetti.

Nel 2009, quando i leghisti andarono al governo con Berlusconi, fecero passare la legge, nota come legge Calderoli, sul federalismo fiscale, convinti che il “Sud fannullone” derubasse il Nord, “Roma ladrona”, etc…

Analizzando i dati si scoprì che non era così, anzi, le regioni del Nord, nella redistribuzione, ricevevano, e contano a ricevere, molti più soldi pro capite.

Nello specifico fu proprio Giorgetti a scoprirlo, perché dal 2013 al 2018 nel ruolo di presidente della commissione per il Federalismo Fiscale, chiese e ricevette i dati sulla redistribuzione dei fondi dal ministero dell’Economia, ma una volta visionati insabbiò tutto (i dati fornitigli ufficialmente non risultano infatti agli atti), chiedendo anche di fare una seduta segreta come in antimafia, la cosa risulta dagli atti, dando come motivazione che: “i dati sarebbero potuti essere scioccanti”.

E in effetti i dati erano scioccanti, aveva scoperto, analizzando la spesa storica, che ogni anno al Sud arrivano miliardi in meno per la spesa pubblica.

Queste informazioni avvolte da un misterioso silenzio (avete presente il dito nascosto dietro la schiena perché sporco di marmellata?) sono la prova che dietro all’autonomia differenziata c’è del losco, come si suol c’è del marcio in Danimarca, dove la Danimarca altri non sono che le segrete stanze dove si fanno riunioni tra la ministra Mariastella Gelmini e i presidenti delle Regioni del Nord, lontano dagli occhi indiscreti dei presidenti delle Regioni del Sud Italia. Roberto Occhiuto (Calabria), Michele Emiliano (Puglia), Vincenzo De Luca (Campania) messi alla porta in nome delle esigenze economiche del Nord Italia.

Chi volta lo sguardo altrove, chi si arrende senza lottare di fronte a questa incostituzionale iniziativa di sottrazione di diritti, sarà colpevolmente complice, e nascondere il dito dietro la schiena non sarà sufficiente.

Il Movimento per l’Equità Territoriale il 17 dicembre 2021 ha presentato presso la Corte di Cassazione una Proposta di Legge di iniziativa popolare per l’abolizione del terzo comma dell’articolo 116, ovvero la cancellazione dell’autonomia differenziata dalla Carta Costituzionale. (mm)

[Massimo Mastruzzo è della segreteria nazionale M24A-Et – Movimento per l’Equità Territoriale] 

POVERTÀ EDUCATIVA: AI BIMBI CALABRESI
SOLO 149 € PRO-CAPITE, A TRENTO 2.481

di ANTONIETTA MARIA STRATI – C’è tanta, troppa povertà educativa in Calabria. Nella nostra regione, purtroppo, la spesa media pro capite sotto i tre anni è di 149 euro, contro i 2.481 di Trento. È l’allarme lanciato da Save the Children nel corso di Impossibile 2022, uno spazio di confronto per produrre proposte e azioni concrete che possano fare la differenza in positivo per i diritti delle bambine e dei bambini in corso a Roma.

Hanno partecipato alla prima giornata di confronto Tito Boeri, Fabiana Dadone, Mauro Di Roberto, Maria Bianca Farina, Federico Fubini, Paolo Gentiloni (con un messaggio video), Enrico Giovannini, Monica Maggioni, Andrea Orlando, Vanessa Pallucchi, Dario Scannapieco e Gillian Triggs.

Per Save the Children, «la prima sfida per il futuro dei bambini che sembrerebbe impossibile, ma non lo è, riguarda l’utilizzo tempestivo ed efficace delle straordinarie risorse messe in campo oggi dal PNRR, dalla Child Guarantee e da altri fondi di programmazione europea e nazionale, che sono la vera opportunità per invertire il trend di impoverimento materiale e educativo dei bambini amplificato dagli effetti della pandemia, e per fa sì che le risorse pubbliche possano essere un volano anche per attrarre investimenti dal settore privato».

«L’Italia è di fronte a un bivio – ha rilevato Save the Children – perché il potenziale di rigenerazione del paese, che sono i bambini, gli adolescenti e i giovani, è profondamente in crisi. I nuovi nati in un anno sono ormai meno di 400 mila, la povertà assoluta infantile, che colpisce quasi 1,4 milioni di bambini, ha raggiunto il suo massimo assoluto da quando si registra questo dato (2005), la povertà educativa accentua le disuguaglianze, e lo spreco di talenti è tale che in 6 regioni i giovani senza impiego e accesso alla formazione hanno sorpassato i coetanei con un lavoro».

«La corsa ad ostacoli per i bambini inizia appena nati – è stato rilevato – pone barriere più alte nei territori maggiormente svantaggiati e continua durante il percorso di crescita. Solo il 14,7% usufruisce di asili nido o servizi integrativi finanziati dai Comuni, e la spesa media pro capite sotto i 3 anni si ferma a 906 euro, con forti disparità nella forbice che va da Trento (2.481) alla Calabria (149)».

«Quando si passa alla scuola primaria – si legge ancora – si scopre che nel centro-nord il 45% dei bambini può beneficiare del tempo pieno, un’opportunità che manca invece all’85% dei bambini al sud. Se a Milano tempo pieno e mensa scolastica sono un’esperienza ordinaria per il 95% dei bambini, a Palermo è un’eccezione assoluta visto che riguarda solo il 6% dei bambini. La fragilità del rapporto con la scuola fa danni maggiori al sud, dove il 16,3% dei giovani ha lasciato prematuramente gli studi nel 2021, anche se in media, in Italia, la dispersione scolastica raggiunge comunque il 12,7%».

«Mentre il made in Italy “è a caccia” di 244mila talenti secondo i dati Istat, sui posti vacanti elaborati dalla Confcommercio a luglio 2021, 182mila nel settore dei servizi e 62mila in quello dell’industria, il nostro è un motore educativo che in molti aspetti sembra girare al contrario, e che ha prodotto il numero più alto di NEET in Europa, più di 2 milioni di cui il 23,1% nella fascia di età 15-29 anni. In 6 Regioni italiane si è già verificato il sorpasso dei NEET rispetto ai giovani inseriti nel mondo del lavoro. In regioni come Sicilia, Campania, Calabria e Puglia per 2 giovani occupati ce ne sono altri 3 che non lavorano e non studiano, a livello nazionale, tra i giovani occupati e i NEET vi è uno scarto di soli 8 punti percentuali».

Per Save the Children, per uscire da questo scenario si deve «fare ogni sforzo possibile per investire bene, e con una priorità sull’infanzia, le risorse economiche straordinarie disponibili, per agire dove serve di più e colmare concretamente le disuguaglianze che producono queste condizioni».

«Gli errori da evitare – viene evidenziato – sono quelli di investire in prevalenza su territori più “attrezzati” e più pronti a rispondere e gestire i bandi, vanificare l’efficacia delle spese basandole su dati superati e incompleti che non rappresentano gli aspetti cruciali e i reali bisogni dei bambini, programmare “a canne d’organo” senza creare invece alleanze mirate tra soggetti istituzionali, mondo privato e terzo settore. Abbiamo bisogno di un salto di qualità che consenta alla spesa pubblica di essere volano anche per gli investimenti privati e per il pieno coinvolgimento dei saperi e delle energie del terzo settore, attorno ad un obiettivo comune».

«Investire bene, rapidamente e in modo trasparente le risorse disponibili non è un’impresa impossibile – è stato ribadito –. Come è emerso dal confronto oggi, bisogna però partire da dati e analisi puntuali sulle condizioni dei minori, facendo dialogare tra loro le diverse fonti per costruire un quadro reale del Paese e capire così dove investire e su quali priorità, come raggiungere i territori più deprivati, ma bisogna anche predisporre quelli necessari per riuscire a monitorare la spesa e verificare l’impatto concreto su bambini e giovani».

Per Save the Children, infatti, «non ha senso, ad esempio, costruire nuovi asili nido se non si investe contemporaneamente per predisporre un numero di educatori sufficienti al loro funzionamento» e «sbaglia chi considera il protagonismo delle comunità un aspetto secondario, o buono solo per le anime belle. Le esperienze nazionali e internazionali dimostrano che la spinta civica che accompagna le scelte di investimento è una delle fondamentali garanzie di sostenibilità e di efficacia».

«Una priorità cruciale della strategia di impiego delle risorse – è stato ancora evidenziato – è lo sviluppo dei talenti, delle capacità, delle intelligenze delle bambine, dei bambini e degli adolescenti, superando anche gli stereotipi di genere che accentuano il numero di ragazze tra i NEET e ostacolano i loro percorsi di studio scientifici e tecnologici. Per colmare il mismatch tra le aspettative del mondo del lavoro e l’offerta educativa, ci vuole una strategia integrata che agisca a partire dalla scuola per sviluppare le cosiddette soft skills, le abilità personali necessarie allo sviluppo della persona, e metta in gioco e responsabilizzi le agenzie formative, le aziende e il mondo del lavoro».

«Dobbiamo porci – conclude Save the Children – l’obiettivo di dimezzare il numero dei NEET nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni e raggiungere così la media europea, con misure straordinarie per reinserire nel mondo della formazione e del lavoro almeno un milione di giovani entro il 2026, e investire nel frattempo nelle scuole sulla prevenzione del fenomeno, attraverso la didattica dell’orientamento sin dalle scuole secondarie di primo grado». (ams)

È QUELL’INSOSTENIBILE DIVARIO NORD-SUD
LA ROVINA DI CALABRIA E DEI CALABRESI

di FRANCESCO RAO – Quella del Meridione è una questione più aperta che mai. Se storicamente vi è stata una costante attenzione, sorretta dal protratto dibattito politico e culturale, il risultato complessivo, posto sotto i nostri occhi, è alquanto insufficiente sia alle aspettative di quanti hanno creduto alle varie opportunità offerte al Meridione dalle ingenti quantità di finanziamenti per superare il divario Nord-Sud, sia nel registrare il rapporto tra sviluppo e dinamicità dei tempi. Ma perché appare tutto così difficile nella realtà e durante il susseguirsi delle campagne Elettorali i Meridionali vengono di volta in volta corteggiati, conquistati e poi abbandonati? Al momento, direi che le due grandi personalità che hanno saputo guardare alle criticità del Meridione con l’intento di poterlo affrancare da una certa debolezza strutturale sono stati l’on. Giacomo Mancini e Silvio Berlusconi. Il primo cosentino doc, esponente storico del PSI, eletto per ben dieci volte alla Camera dei deputati e nominato quale Ministro dei Lavori Pubblici e successivamente Ministro della Sanità. Di Silvio Berlusconi, a partire da quel 27 marzo del 1994, è stato scritto e detto di tutto. Nel profondo rispetto nutrito nei confronti dei numerosissimi delatori, devo constatare che l’on. Giacomo Mancini ha reso possibile la valorizzazione della Calabria mediante la costruzione dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria. L’on. Silvio Berlusconi, ricorrendo all’utilizzo di una Legge Obiettivo, reso la Salerno-Reggio Calabria, oggi Autostrada del Mediterraneo, l’arteria stradale italiana tra le più moderne e sicure d’Europa. Il tempo intercorso tra la realizzazione dell’autostrada e il successivo processo di rivisitazione strutturale, adeguato ai nuovi carichi di transito, è stato di circa 44 anni. Fatta questa breve premessa, l’attenzione posta ai gentilissimi lettori di Calabria.Live, per le questioni afferenti alle criticità infrastrutturale che rendono ancora oggi difficoltosa la mobilità di persone e merci, non può che farci ritornare ancora per una volta al solito dilemma: per il Meridione c’è o non c’è la volontà di affrancarlo da tutte quelle problematiche riportate, sommate e stratificate nel tempo che oggi ne comportano rinnovate e complicate difficoltà alle quali le persone non sono più disposte ad essere esposte per raggiungere una regione che può offrire tanto in termini di qualità della vita, bellezza paesaggistica, ricchezza culturale e culinaria? Per intenderci, in tre ore, da Roma o Milano, si raggiungono le grandi capitali Europee. Oggi, da Milano o Roma, per raggiungere Reggio Calabria, a quale Santo bisognerà essere devoti e soprattutto si può mai accettare l’idea che il prezzo del biglietto, da quantificare per una famiglia, debba essere quasi quasi oggetto di una finanziaria? Non vorrei essere pessimista, ma la logica del libero mercato, contrariamente alla fortuna che hanno saputo cogliere altre regioni, per noi non è stata tale. (fr)

[Francesco Rao è sociologo e presidente della sezione calabrese dell’Associazione nazionale sociologi]

 

L’ASCENSORE SOCIALE SI È FERMATO AL SUD
NEL 2022 CONTA ANCORA DOVE SI NASCE

di FILIPPO VELTRI – L’Italia non è del tutto immobile. O almeno, non lo è una parte d’Italia. A dirlo è uno studio condotto da tre economisti italianiPaolo Acciari, Alberto Polo e Gianluca Violante – che hanno dimostrato come nel nostro Paese l’ascensore sociale non è bloccato. Anzi, nel Nord Est le possibilità che hanno i figli di guadagnare più di padri e madri superano addirittura anche i più virtuosi Paesi scandinavi e molte città americane. Diverso è invece il caso del Sud Italia, dove lo status familiare resta determinante per il futuro dei figli. A meno che non si decida di emigrare altrove.   

Il World Economic Forum, nell’ultimo report sulla mobilità sociale aveva piazzato l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi industrializzati sul fronte del social mobility index. La novità della ricerca italiana – pubblicata sull’American Economic Journal: Applied – sono i dati utilizzati: non più le rilevazioni della Banca d’Italia, ma le dichiarazioni dei redditi di genitori e figli di circa 2 milioni di famiglie italiane, di cui sono state osservate le variazioni nel tempo.

Confrontando i 730 dei figli a 35 anni, è venuto fuori che la mobilità intergenerazionale verso l’alto esiste anche da noi. Dipende (anche) da dove nasci. Certo, chi nasce da genitori ricchi ha il 33% di possibilità di mantenere lo status sociale di famiglia. Mentre un figlio nato da genitori nella fascia reddituale più bassa ha solo l’11% di probabilità di arrivare da adulto nella fascia più alta. Ma questa percentuale varia, e non di poco, anzitutto in base alla provincia e regione di nascita. «I tassi di mobilità verso l’alto sono molto più elevati nel Nord Italia, dove incidono la presenza di scuole di maggiore qualità, famiglie più stabili e condizioni del mercato del lavoro più favorevoli», ha spiegato a Linkiesta Gianluca Violante, professore di economia a Princeton. Ma anche nel Settentrione ci sono differenze: il Nord Est è più mobile rispetto al Nord Ovest.

Nello studio, si trova anche una classifica delle province italiane dove l’ascensore sociale funziona meglio. In cima alla ci sono Bolzano, Monza-Brianza e Bergamo. Le peggiori, nella parte più bassa della classifica, sono invece Catania, Palermo e, per ultima, Cosenza. «La scarsa mobilità del Sud viene alterata nel momento in cui i figli si muovono dal Sud al Nord», spiega Violante. «In questo caso si hanno tassi di mobilità verso l’alto molto alti». 

A essere determinante è anche il genere. Dai dati dello studio, emerge che la mobilità verso l’alto è maggiore per i figli maschi: un risultato dovuto alla scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro nel nostro Paese. Conta poi anche la professione dei genitori: chi è figlio di imprenditori e lavoratori autonomi ha maggiore possibilità di risalire la scala sociale. Ma il fattore decisivo, più delle condizioni del mercato del lavoro e della stabilità delle famiglie, resta la qualità del sistema scolastico.

La scuola è quella che più determina il futuro dei giovani in termini di posizioni professionali e guadagni futuri. In particolare, sottolinea Violante, «sono decisive le scuole materne e le elementari, ancora più delle scuole superiori. I primi anni di formazione del bambino nella fascia 0-7 hanno effetti permanenti su quanto guadagnerà in futuro».

Secondo Uniocamere e Anpal, con il Recovery Plan nei prossimi cinque anni l’occupazione potrebbe crescere fra 1,3 e 1,7 milioni di unità. Si tratta di un incremento medio annuo, tra il 2022 e il 2026, stimato tra 260mila e 340mila posizioni. Mentre il ministro Renato Brunetta annuncia 100mila assunzioni di dipendenti pubblici nel 2022. La Commissione Ue ha intanto rivisto al ribasso la crescita del Pil italiano dal 4,3% al 4,1% a causa dell’inflazione. Mentre il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sottolineato che la ripresa dell’economia è stata decisiva per interrompere l’aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil, che potrebbe scendere al 150%.

Visco ha chiesto di proseguire sulla strada del miglioramento dei conti pubblici e di evitare gli aiuti generalizzati all’economia. Infine lOsservatorio sui conti pubblici italiani ha realizzato un’analisi su come l’invecchiamento della popolazione stia cominciando a pesare anche sull’occupazione. «È evidente che non è più possibile prescindere dalla demografia per analizzare i cambiamenti del mercato del lavoro». (fv)

Foto di Jill Wellington / Pixabay

BEN RITROVATO PRESIDENTE MATTARELLA
VIGILI PERCHÈ CI SIA «PIÚ STATO» AL SUD

di MIMMO NUNNARI – Eletto (rieletto) il capo dello Stato, il galantuomo siciliano, il politico d’altri tempi, il cattolico Sergio Mattarella, e in vista, auspicabilmente, di profonde riforme istituzionali, capaci di ridisegnare il sistema istituzionale, l’occasione è buona per parlare di Stato, di Stato al Sud.

Lo Stato padre/madre, come dev’essere nelle democrazie, dovrebbe comportarsi con tutti i suoi cittadini alla stessa maniera:  riconoscendo i diritti di ognuno e pretendendo rispetto delle regole e dei doveri.

Ma è proprio così?

In Italia, paese dall’unità malcerta, piena di vizi d’origine che hanno penalizzato il Mezzogiorno, viviamo certamente in una democrazia, ma  non tutti i cittadini sono garantiti alla stessa maniera.

Facciamo appunto l’esempio del Meridione.

Al Sud, particolarmente in Calabria, che è sud del Sud, l’ultima regione d’Europa e allo stesso tempo la casa madre della mafia più violenta e potente de mondo, la Ndrangheta, lo Stato c’è e non c’è. È una presenza intermittente, una presenza incerta, figlia del dualismo, della frattura Nord Sud; di quelle anomalie  diventate nel tempo normalità in barba alle leggi, alla Costituzione, alle regole etiche e ai principi democratici.

Non a caso si parla, fin dai tempi di Giustino Fortunato, di “due Italie”, distanti, lacerate, e conflittuali.

È questo il nodo istituzionale non sciolto che si può sciogliere – ripete da sempre il meridionalista Sergio Zoppi – solo riportando la Calabria nel cuore dello Stato e il senso dello Stato nel cuore dei cittadini della Calabria.

L’affermazione, con lo stile elegante che contraddistingue Zoppi, storico cresciuto alla scuola di Spadolini, sottintende che la Calabria non è, e non è mai stata, nel cuore dello Stato, e che il senso dello Stato manca nella coscienza dei cittadini calabresi, o almeno in buona parte di essi.

Manca, il senso dello Stato, in Calabria, a torto o a ragione; per colpa dei calabresi, oppure perché i calabresi sono stati spinti alla disaffezione verso le istituzioni proprio dallo Stato.

L’auspicio di Zoppi è che le due “indifferenze”: centrali (dello Stato), locali (della regione), scompaiano con un’assunzione di responsabilità dello Stato verso il Sud,  e con una nuova consapevolezza di cittadini che fanno parte di un consorzio nazionale nei calabresi.

Sembra semplice, ma non è semplice, tutt’altro, tant’è che – in più di un secolo e mezzo dall’unità – l’operazione di “rammendo”, nei rapporti Stato Mezzogiorno, Calabria, che è ultima della classe, in particolare, non è stata mai fatta.

Una situazione di disparità territoriale del genere, sotto uno stesso manto costituzionale, non esiste da nessun’altra parte, in Europa e nell’Occidente.

Ed è una disparità che provoca disuguaglianze non solo in campo economico, civile e sociale, ma anche in quello sanitario, che è disuguaglianza più insopportabile, posto che da una buona o cattiva sanità dipende se la vita del cittadino è più lunga o meno lunga. Abbiamo continui esempi tragici di questa sanità di secondo livello in Calabria. È in queste disuguaglianze, racchiuse nei vizi d’origine del Paese, che si riscontra quel dislivello di “statalità” che continua a separare, in una continuità discriminatoria, Il Sud dal Nord. Quando, perciò, diciamo che al Sud lo Stato non c’è, o c’è poco, nessuno si senta vilipeso nei palazzi delle istituzioni.

Poiché,  se per presenza dello Stato, interpretiamo l’agire di un Governo che permette a tutti i suoi cittadini, indistintamente, di cambiare le condizioni sfavorevoli in cui sono nati e vissuti, lo Stato al Sud non c’è. Oppure c’è, nel ritornello stantio di ministri che quando accadono crimini feroci, che sbatacchiano le scrivanie dei palazzi romani, si affrettano a dire: “lo Stato c’è”.

Ma tutti, cittadini, amministratori locali, sindaci, movimenti civili, associazioni sanno che è una caritatevole oppure ipocrita bugia.  Li Stato, nei territori aggrediti dalla violenza mafiosa, non c’è; o se c’è, c’è poco; è lontano e distratto.

Fa il guardiano (è occhiuto, ma non governante, diceva un grande vescovo calabrese come Giuseppe Agostino) mentre le consorterie mafiose gli  sottraggono sovranità e tentano di sostituirlo.

Il film dello “Stato c’è”, in Calabria, e nel Sud, lo conosciamo bene: è un remake, e neppure dei migliori, poiché se per Stato c’è intendiamo uno Stato che delega esclusivamente a magistratura e forze dell’ordine la sua presenza, possiamo dire che si, un poco c’è, ma non è lo Stato che serve, intero, c’è uno Stato dimezzato. Manca la parte di Stato governante.

È solo uno Stato che affida (in realtà li abbandona al loro pericoloso destino) a magistrati e forze dell’ordine una battaglia difficile da vincere con la sola repressione: lo dicono anche i magistrati, che sono i più esposti sul fronte della lotta.

Più Stato al Sud e più senso dello Stato da parte dei cittadini, questo serve, ma oggi, non domani, quando sarà troppo tardi. Serve lo Stato che, nel rispetto della Costituzione, offra pari opportunità in tutti i campi e che non ceda alle cornacchie che gracchiano: “Al Sud, non vale la pena di fare niente, perché c’è la mafia”.

Tuttavia, benché la Calabria sia sempre stata tendenzialmente governata con una specie di spocchia coloniale, non sarebbe onesto attribuire solo a “nemici esterni” le colpe di un malessere che esiste anche per colpa grave degli stessi calabresi, per la inadeguatezza della classe dirigente regionale, per l’inconsistenza, salvo rare eccezioni, della classe politica e parlamentare.

Sarebbe un’imprudente semplificazione; un gioco che non fa altro che incrementare le patologia. Ciò non toglie che sono tanti gli interrogativi davanti a noi, ai quali occorre dare risposte.

Non è retorico chiedersi come chiudere l’annosa questione meridionale, passata, negli ultimi decenni, da questione nazionale, cioè di tutti, a questione criminale, che riguarderebbe, cioè, solo alcuni territori e una parte di cittadini del Paese.

Svanito il sogno dei profeti meridionalisti, di eliminare le disparità tra le due Italie, l’addio al Sud è diventato ideologico e politico, oltre che culturale, mentre l’economia “dualistica” si è sviluppata in un circolo conflittuale vizioso analogamente a quanto avvenuto sulla scia del colonialismo in altre parti del mondo.

Solo col completamento del percorso unitario, sarà possibile affrontare la questione delle “due Italie”. Ma bisogna fare presto: se una parte d’Italia (il Sud) s’inabissa, l’altra, il Nord, corre il rischio di ridursi al vecchio destino preunitario di nazione solo espressione geografica, col risultato che le regioni del Sud saranno sempre più esiliate, nella loro spaventosa condizione di deficit civile e di arretratezza economica, e le regioni del Nord continueranno a inseguire gli scenari di un separatismo impossibile,  dal punto di vista istituzionale, mascherato da una specie di secessione passiva (autonomie differenziate) che mina l’unità nazionale.

La nazione diventerebbe, così, definitivamente matrigna, per alcuni cittadini, e inquieta, senza identità, nonostante il benessere, per altri. Sarebbe il fallimento definitivo della nazione. (mn)

[courtesy Il Quotidiano del Sud]

 

PNRR: SE IL NORD PREPARA IL SUO FUTURO
IL SUD E LA CALABRIA STANNO A GUARDARE

di  PINO APRILE – Ma parli sempre di Pnrr, il Piano nazionale per la ripresa (nel senso che prima prendevano i soldi del Sud e li giravano al Nord: 870 miliardi in 17 anni, fonte Eurispes; mentre ora se li “riprendono”) e la resilienza? E mentre la casa brucia (ci stanno portando via il futuro), di cosa dovremmo parlare: del colore della tappezzeria? E forse poteva venirmi in mente un esempio meno pericoloso. Chi ama gli aforismi di Oscar Wilde (e poi dicono che i terroni sono ignoranti…) sa che le sue ultime parole, dedicate alla tappezzeria dell’alberghetto parigino in cui finì i suoi giorni, furono: «O se ne va quella carta da parati, o me ne vado io» e rese l’anima a Dio o a qualche altro (per la cronaca, dopo la sua morte, cambiarono la carta da parati).

A Sud (e solo a Sud) con sgomento e appelli a vuoto alle istituzioni nazionali, si parla della difficoltà degli enti meridionali di partorire, a tambur battente, progetti di grandi opere capaci di assorbire le risorse europee del Recovery Fund, perché mancano le strutture, gli uffici tecnici, le competenze per amministrare tutti quei miliardi (troppi Comuni del Mezzogiorno non possono permettersele, hanno organici ridotti, con età media più alta, più contratti precari e compensi più bassi); da Nord, ogni tanto si parla pure di questa difficoltà dei nostri Comuni, ma per preparare l’atto di accusa: i soldi per voi c’erano, ma non siete capaci di usarli (colpa vostra) e, con l’accusa, si giustifica la conseguenza: per non perderli, il governo è costretto a spostare quei soldi su progetti che sono al Nord; o preferireste che li rimandassimo indietro?

Peccato che i governi italiani, di qualsiasi colore e da sempre (alcuni tanto di più, altri poco di meno) abbiano sempre investito al Nord quasi tutte le risorse pubbliche (ovvero i soldi di tutti gli italiani) e al Sud ancora aspettano il treno per Matera e in tutte le regioni meridionali messe insieme circolano meno treni che nella sola Lombardia. Le Ferrovie sono di Stato e Trenitalia è una finta società privata che ha come socio unico il popolo italiano, ma opera solo a beneficio di una parte, agli ordini di governi succubi del Pun, il Partito unico del Nord.

Una parte rilevantissima dei soldi del Recovery Fund dovrà essere spesa dai Comuni. E quelli del Sud, nonostante le loro difficoltà, hanno dato prova di iniziativa e coesione che, se fosse stata altrove, la vedremmo lodata su ogni foglio nazionale un giorno sì e l’altro pure: si sono associati, in più di cinquecento, indifferenti agli schieramenti politici delle giunte, per difendere insieme il loro diritto alla “ripresa e resilienza”, come da titolo del Pnrr. E, accortisi delle orecchie da mercante dei governi, prima il Conte2, poi Draghi, hanno raccolto in un corposo e dettagliato “Libro Bianco” progetti, suggerimenti, Comune per Comune, o per aree che interessano il territorio di più Comuni. Una base preziosissima per un governo davvero intenzionato a investire nel Mezzogiorno, per ridurre il divario (dallo Stato stesso costruito) fra Nord e Sud. Invece, come fosse carta straccia.

Scusate se sono costretto a ripetermi, avendolo scritto tante volte: “Sud è mettere qualcuno in condizione di non poter fare e non poter essere, e poi rimproverarlo per non fare e non essere”.

Non c’entra la difficoltà di progettare e spendere dei meridionali se l’ente che deve fare le ferrovie le fa solo per alcuni e altri no. Se le regioni del Nord hanno 65 chilometri di strada ferrata ogni mille chilometri quadrati di superficie, come l’Austria, il Regno Unito, la Danimarca, eccetera e quelle del Sud sono solo 45, a livello di Romania, Serbia (ma sopra il Kenia, consoliamoci). Se disonesti e razzisti al governo non avessero imposto di progettare grandi opere solo a Nord, a spese di tutti (e quello che si dice per le ferrovie vale in ogni altro campo, dagli asili ai porti), oggi il Sud non avrebbe il problema di “dove poggiare i miliardi per fare cosa”. Orrenda, ma azzeccatissima la previsione di Ercole Incalza, già massimo dirigente di ministeri tecnici (Lavori pubblici, Trasporti): quando l’Italia avrà speso i soldi del Recovery Fund (sempre che da Bruxelles non arrivi uno stop per lo schifo che si sta combinando), fra dieci anni, il Nord si troverà tante altre infrastrutture che lo porranno a livello delle più attrezzate regioni europee (e già adesso…): con la Torino-Lione, il terzo valico Genova-Milano-Rotterdam, il tunnel del Brennero, il “corridoio“ Baltico-Adriatico via Tarvisio e l’asse Torino-Milano-Venezia ad alta velocità. Insomma, la parte del Paese che già ha tanto, avrà tantissimo, a spese di quella che ha già pochissimo e fra dieci anni vedrà accresciuta, non accorciata, la distanza con il resto del Paese e d’Europa (e magari, anche il Kenia, avendo la fortuna di non dipendere da Trenitalia, avrà superato il Mezzogiorno per qualità e quantità di rete ferroviaria).

Sono indegni i trucchi con cui vengono sottratti i soldi destinati al Sud, da quelli per gli asili ai trasporti, all’economia verde, al punto che gli investimenti per l’idrogenizzazione (il passaggio della produzione di energia al gas meno inquinante), nel Pnrr varato dal governo Conte 2, erano in buona parte nel Mezzogiorno e giustamente: la sub-regione a minor emissione di anidride carbonica è in Puglia, la Capitanata (grosso modo il Foggiano), tanto che è oggi a “CO2 negativa”, nel senso che ne elimina più di quanta ne produce. Nel Pnrr di Draghi, quegli investimenti previsti dal Pnrr Conte2 sono scomparsi e sono stati spostati al Nord, tanto che nemmeno un euro sarà speso al di sotto della Val Padana.

Ma, a chiacchiere, il governo e la ministra al (contro il?) Mezzogiorno, Mara Carfagna, dicono che al Sud sarà speso il 40 per cento dell’intera somma del Pnrr, 82 miliardi (capirai che favore, di fronte al 70 per cento che avrebbe dovuto essere). Un sito specializzato, Will-media, ha fatto un conticino da terza media: il Pnrr vale 222,1 miliardi; il 40 per centro di 222,1 è 89, non 82. Mancano 7 miliardi, ovvero: quanto costerebbe il Ponte sullo Stretto di Messina. Quindi, il 40 chiacchierato è, di fatto, 36.

Ora, di ufficiale non c’è nulla (ci mancherebbe: il male ama il buio!), ma già cominciano a circolare le previsioni pessimistiche, secondo cui sino al 95 per cento dei soldi del Pnrr finirebbe al Nord, altro che 70 al Sud, no, 40, no, 36, no…

Esagerano? Qualcuno ricorderà che il professor Gianfranco Viesti, docente di Economia applicata all’università di Bari ripercorse le pagine del Pnrr e dei progetti ministeriali, trovando per il Sud, dichiarati, solo 22 miliardi, non 82. Quindi, il 10 per cento, non il 40 (in realtà 36). Ma per l’interconnessione economica Nord-Sud, il 41 per cento di quanto si spende a Sud va al Nord per l’acquisto di materiali e competenze, quindi quel 10 per cento diventa, effettivo, appena 6 (70, 40, 36… bla, bla, bla).

Dobbiamo preoccuparci? Sì, e tanto. Ma sembra che la cosa non ci riguardi, a giudicare dal “non allarme” dei maggiori dirigenti meridionali, dai presidenti di Regione ai parlamentari agli stessi imprenditori. Qualcosa sembra smuoversi, lodevoli tentativi si registrano, il numero di esperti e politici sempre più impegnati nel grido di allarme, cresce. Ma si rischia sia troppo poco, troppo tardi. Quei soldi, il Recovery Fund, con cui l’Europa mira a far rinascere il Sud, potrebbero essere il prezzo del biglietto del definitivo funerale, se non obbligheremo il governo, la comunità nazionale a rispettare le ragioni e gli scopi di questa grande impresa europea.

Se no, per tornare a Oscar Wilde…: prossimo alla fine, senza più mezzi, ordinò una bottiglia del più costoso champagne per accomiatarsi dal mondo: “Presumo che mi toccherà morire al di sopra delle mie possibilità”.
Wilde (irlandese) aveva qualcosa di meridionale. (pap)

È BASSA LA SCOLARIZZAZIONE IN CALABRIA
E NEGLI OCCUPATI IL DIVARIO PESA MOLTO

di FRANCESCO AIELLO – Scolarizzazione degli occupati: bassa nel Mezzogiorno, alta nel Centro Nord. Tre importanti risultati possono essere ottenuti analizzando i livelli di scolarizzazione degli occupati in Italia. Innanzitutto si osserva come nel corso del tempo si sia assistito ad un generalizzato aumento della scolarizzazione degli occupati: è diminuita la presenza degli occupati con bassa scolarizzazione (al massimo la licenza media) e parallelamente è aumentata quella degli occupati con alta scolarizzazione (laurea).

La sintesi è che la scolarizzazione media degli occupati italiani è passata da 11,4 anni nel 2005 a 12.6 anni nel 2019 (+10%). Una seconda indicazione riguarda la persistenza di divari territoriali dell’educazione degli occupati: il ritardo del Mezzogiorno è di circa 3-4 punti percentuali rispetto alla media del paese (-7% rispetto al Centro che è l’area più virtuosa). Infine, la scolarizzazione degli occupati è fortemente e positivamente correlata con la produttività del lavoro: regioni con mercati del lavoro in grado di occupare lavoratori più scolarizzati sono regioni con elevati livelli di produttività del lavoro. Si tratta di elementi che aiutano a spiegare il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia e della Calabria.

Gli occupati per titolo di studio. In Italia, la quota di occupati con bassi livelli di scolarizzazione – al massimo la licenza elementare – era dell’8,6% nel 2005 ed è diminuita al 2,8% nel 2019 (figura 1). Occupati debolmente scolarizzati sono più presenti nel Mezzogiorno d’Italia (11,7% nel 2005 e 4,6% nel 2019) rispetto alle altre aree del paese (nel 2019 2% nelle regioni settentrionali e 2,5% in quelle centrali). A livello di singole regioni, la Calabria registra nel 2019 la quota più elevata (6,5%) di occupati con nessun titolo di studio o con la licenza elementare (che è circa 4 volte maggiore del dato (1,7%) del Friuli Venezia Giulia).

 

Lo scenario non cambia quando si considerano i dati relativi alla licenza media: in Italia, dal 2005 al 2019 si registra una riduzione di 5 punti percentuali degli occupati in possesso della licenza media (dal 32% del 2005 al 27% del 2019). Nel 2019, la presenza di occupati con licenza media è più marcata nel Mezzogiorno (un occupato su tre) e oscilla tra il 24,5% del Centro e il 28% del nord est. In Calabria, nel 2019 il 27% degli occupati possiede la licenza media (erano il 31% nel 2005). Tra le singole regioni italiane, i valori estremi nel 2019 si hanno in Umbria (20%) e in Sardegna (36%).

La sintesi è che in tutte le regioni si è osservata una riduzione della quota di occupati in possesso di bassa scolarizzazione (almeno la licenza media). Essi comunque sono ancora più presenti nelle regioni meridionali.

Il contrario si è verificato con i livelli più alti di scolarizzazione: la percentuale di occupati con il diploma di maturità o la laurea è aumentata in tutto il paese, ma in modo non omogeneo. Nel corso degli ultimi 15 anni, in Italia la quota di occupati laureati è aumentata di 8,7 punti percentuali, passando dal 14,7% del 2005 al 23,4% del 2019. La variazione massima (+9,6%) si è avuta nel Centro (dal 17,3% del 2005 al 26,9% del 2019), cui segue il Nord (+9%) e il Mezzogiorno (+7%). In Calabria, gli occupati con laurea erano il 15% degli occupati totali nel 2005 e il 22% nel 2019.

I dati rilevano come sia cambiata nel corso del tempo la presenza relativa di laureati nelle diverse aree del paese: nel 2005 nel Mezzogiorno d’Italia la quota di laureati (14,3%) è simile alla media nazionale (14,7%), maggiore del valore del nord ovest (13,6%) e minore del Centro (17,3%). Di interesse è rilevare il dato della Calabria, in cui il 15,5% degli occupati nel 2005 era in possesso della laurea (maggiore del dato di quello registrato in tutte le circoscrizioni del paese, figura 1).

Una conclusione che può essere ricavata da questi dati è che ovunque si è assistito ad un aumento della capacità del mercato del lavoro di occupare profili con elevata scolarizzazione. Queste variazioni sono state però a diversa intensità a livello territoriale: la crescita è stata bassa nel Mezzogiorno e alta altrove.

La scolarizzazione in media. Al fine di ottenere un indicatore di sintesi dei dati disaggregati per titolo di studio è utile considerare la media ponderata degli anni di scolarizzazione degli occupati.[1]

Nel 2019, la scolarizzazione è pari in media a 12,6 anni in Italia, registrando un incremento del 9,9% rispetto al valore (11,4 anni) del 2005 (figura 2). Nel Mezzogiorno, la scolarizzazione degli occupati è uguale a 12,2 anni nel 2019 (-3% rispetto alla media nazionale e -7% rispetto al centro), mentre era pari a poco più di 11 anni nel 2005. L’incremento nel tempo è stato, quindi, del 10,3% (figura 3). In Calabria, gli occupati del 2019 hanno trascorso a scuola/università 12,2 anni (-2% della media nazionale, ma -9% e -7% rispetto al Lazio e all’Umbria, rispettivamente). Rispetto al 2005, gli occupati calabresi nel 2019 sono più scolarizzati (+8,8%), ma gli incrementi della scolarizzazione che si sono registrati in regione sono minori non solo rispetto al dato nazionale, ma anche di quelli osservati nelle altre regioni meridionali (ad eccezione dell’Abruzzo) (figura 3).

Legame con i divari di produttività.  Poiché è ampiamente dimostrato come la crescita economica sia trainata dalla qualità del capitale umano (di cui la scolarizzazione è un’importante componente), è interessante capire la relazione esistente tra produttività e scolarizzazione tra le regioni italiane. La figura 4 conferma la presenza di un’elevata correlazione positiva tra la produttività del lavoro e gli anni di scolarizzazione degli occupati delle regioni italiane nel 2005 e nel 2019: all’aumentare degli anni di scolarizzazione aumenta in media la produttività del lavoro.

Le regioni con livelli di scolarizzazione e di produttività maggiori alla media nazionale sono collocate in alto a destra della figura 4. Si tratta di alcune regioni del centro nord. Al contrario, in basso a sinistra si collocano   le regioni con livelli di scolarizzazione e di produttività minori della media nazionale: si tratta di tutte le regioni meridionali. Rispetto alla media nazionale, il mezzogiorno registra un ritardo della scolarizzazione degli occupati di circa 4 punti percentuali e una distanza di circa 15 punti percentuali dalla media nazionale. A fronte di un ritardo di 3 punti percentuali della scolarizzazione degli occupati, la Calabria sconta un gap di produttività di circa 20 punti percentuali. (fa)

[1] Si tratta della media ponderata degli anni di scolarizzazione necessari per ottenere un determinato titolo scolastico/universitario (5 anni per la licenza elementare; 8 per la licenza media; 13 per il diploma di maturità; 18 per la laurea). I pesi sono rappresentati dalla quota di occupati con quel titolo scolastico rispetto agli occupati totali.

[Francesco Aiello è professore ordinario di Politica Economica presso l’Università della Calabria. Attualmente insegna “Politica Economica” al corso di Laurea in Economia ed “Economia Internazionale” al corso di Laurea Magistrale in Economia e Commercio]

[Courtesy OpenCalabria.com]

I GIOVANI CALABRESI E IL DISAGIO SOCIALE
NO, GIOVANI E BASTA, CUI OFFRIRE FUTURO

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – No, non parlate di giovani “calabresi”, come a voler intendere, giovani “con il marchio fisso”, quando raccontate di pistole e risse violente.

L’audience sale, è ovvio, l’etichetta calabra ha un certo appeal, ma vi prego, non girate maniacalmente il coltello nella piega e a scopo strettamente commerciale, o per motivi di tornaconto. Tanto vale targarli alla nascita, questi figli, e sulla loro culla scrivere: disgraziati, figli di puttana, mafiosi. 

Aiutate invece a recuperare il tessuto sociale mancante che li disgrega. Contribuite, ognuno con le proprie competenze, a rimarginare le ferite che li fanno soffrire. A curarle. Generalizzare, come se la testa di cazzo di pochi, fosse quella di tutti, non è giusto. È bastardo e irregolare. I giovani calabresi, quelli responsabili, sono ben altro e ben altri. E sono il meglio. All’Unical se ne potrebbe rintracciare buona parte. Quelli a cui invece si fa marcato riferimento, l’aborto della Calabria. 

Generalizzare un sistema, è criminale. Peggio delle malefatte che il crimine stesso commette. 

Il sistema va studiato, e in tutte le sue parti. Con raffinata concentrazione, partendo dai covi in cui questo si genera, e dai gruppi in cui prolifica. Famiglia, scuola, società civile. Riformando, se serve, le coscienze di quell’asse umano, in cui il pensiero che riaffiora è disordinato. Debole o già praticamente corrotto.

Ci sono analisi di carattere sociale che, al fine di una società sana, richiedono necessariamente indagini accurate, basate sulla scomposizione degli elementi che questa include. E in virtù di ciò, non ammettono ipotesi. L’analisi del quadro giovanile nella società contemporanea, va organizzata prima e strutturata poi, in base alle sofferenze che la deprimono. E che nell’indifferenza generale, generano giovani che nel contesto più ampio, si impongono come diversamente giovani. I figli ‘incoscienti’ del piccolo crimine sociale.

È certamente triste la questione giovanile nel mondo. Quella che si consuma nelle periferie ancora di più. 

Risse, pistole, schiaffi, pugni…

Cosenza, Vibo, Reggio come il far west. Cinema d’azione all’aperto. immagini da sconcerto. Non di meno, nel resto d’Italia e in Europa. In tutto il mondo. Il conto è troppo grande, generale e globalizzato.

È attiva una frammentazione sociale stravolgente. Dove il disagio è una mancanza esagerata che non coinvolge esclusivamente l’assenza di valori fondanti, ma la scarsa offerta di esempi. 

La famiglia è debole, e la scuola da sola non basta più. Non è più efficace, in quanto singola istituzione. Serve uno schieramento maggiore di forze, in cui il soggetto educatore abbia non il compito, ma il dovere assoluto di formare generazioni pensanti, non uniformi al pensiero delle masse, in grado di intendere e di volere. 

Serve un fondo – umano – di cultura (senza fondo), a perdere, volto a finanziare, le aspettative sociali di milioni giovani in tutto il mondo. Ma che non sia un piano di addestramento formale, ma una forma strategica di incentivo, volto alla formazione e alla crescita umana, sociale, culturale, politica e morale dei figli.

Ve lo ricordate l’Antonello di Corrado Alvaro, in Gente in Aspromonte? Quanto tempo dovette attendere il ragazzo prima di incontrare la giustizia e raccontarle il fatto suo?

Il disagio sociale del giovane pastore si ripete ancora oggi, e addirittura si amplia.  

Troppa poca e troppa scarsa formazione, poco Stato, e soprattutto pochissima giustizia sociale. E troppi, troppissimi ominicchi e mezzi uomini. 

La mancanza di certezze, punti fermi, riferimenti e guide, tormenta le nuove generazioni. Le inabissa. E mentre la terra gira su sé stessa, essi gravitano disordinatamente intorno alla terra. E si allontanano, poi si riavvicinano… Non hanno pace. C’è un’inquietudine di fondo che li disturba. Ed è per questo che, anche silenziosamente, con il loro modo di essere giovani, chiedono ai grandi, di poter scrivere al presente, una storia che al futuro non funziona più. La loro storia. Quella reale.

Chi non si sente responsabile del male di vivere che grava su giovani e adolescenti, scagli pure la prima pietra. Ma chi invece si sente in dovere di recuperare, faccia pure il suo nome, e prima che quello del proprio figlio venga cancellato per sempre dalla storia del mondo. Piangere sarà peggio che morire. (gsc)

C’È CHI PENSA ALLA SECESSIONE DEL NORD
IN TAL CASO NE GUADAGNEREBBE IL SUD

di PINO APRILE – Resisterà unita l’Italia al saccheggio delle risorse del Recovery Fund da parte delle prenditrici orde ferroviarie della “locomotiva” padana? Accadono cose che dovrebbero suonare non come un campanello, ma come campane a stormo d’allarme per il sistema di potere che regge il nostro Paese, incluso il fatto che l’entità dei furti di fondi pubblici subita dal Sud con la complicità dello Stato è tale che ci si potrebbe salvare solo con la fuga; e qualcuno fa i conti e scopre che sarebbe un affare, per il Mezzogiorno: avremmo i conti a posto con l’Europa e debito zero!

Bruxelles è preoccupata dello squilibrio del PNRR, il Piano italiano per la ripresa con i soldi i soldi dell’Unione Europea, tanto che vuole indagare per capire se saranno davvero usati per ridurre il divario Nord-Sud, come chiede, o per aumentarlo, come ormai appare evidente; il presidente della Campania, Vincenzo De Luca non usa mezzi termini: «Questo Pnrr è una truffa»; in Senato cresce in pochi giorni la quasi inesistente pattuglia di difensori del Sud e in 26 votano contro una mossa pro-Nord del governo collegata al Pnrr; la politica ha fiutato il vento e nelle regioni meridionali si assiste a ricoloriture in tinta terrona di vecchi navigatori di mille partiti e all’apparentamento in corsa con movimenti, partitini, gruppi che possano dare un “passato meridionalista” a chi magari sino a ieri li accusava di “voler dividere l’Italia”; giornali che non degnavano di un rigo i temi della Questione meridionale, ora fanno titoloni sparati in prima pagina, sviluppando gli argomenti in quelle interne, per due-tre pagine.

La vera portata di quanto sta accadendo sfugge ai più, perché le dimensioni del fenomeno sono ancora minoritarie, rispetto al panorama politico nazionale, ma la velocità con cui questi fermenti si stanno imponendo è sorprendente. Forse, tutto questo ci sembra comunque scarso, ma sarebbe parso incredibile se, appena due-tre anni fa, ci avessero detto che sarebbe accaduto. Per fatto personale, ricordo che undici anni fa, del mio “Terroni”, inaspettatamente divenuto un best seller (e chi se lo aspettava, parlando di Sud!), si disse che aveva “riaperto la Questione meridionale ormai chiusa da decenni”. Ma avrei dato del pazzo a chi avesse preconizzato quanto stiamo vedendo oggi: sui diritti negati al Sud, di cui si prende coscienza, si sta costruendo un sistema di potere.

Ora l’Italia con la puzzetta antimeridionale sotto il naso ha di che essere inquieta.

La furia predatoria delle Regioni più ricche ed egoiste (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) che tentano di svuotare la cassa comune, trattenendo le tasse statali con l’Autonomia differenziata, porterebbe alla “Secessione dei ricchi”, secondo l’appello di centinaia di docenti universitari al presidente della Repubblica e firmato da 60mila cittadini. Ma cosa succederebbe se il Sud decidesse di separarsi e tornare uno Stato indipendente, come prima dell’Unità?

Abbiamo avuto una forza politica barbarica e razzista (terun de merda, porci, topi… Vesuvio, Etna, colera ammazzateli tutti, eccetera) che per anni ha minacciato la secessione, persino con uso di non so più quanti milioni di fucili (quello delle baionette era un altro). Tutta scena, ma serviva per accampare il diritto di togliere altri soldi al Sud (ladri, mafiosi, incapaci…) e spenderli al Nord (locomotiva che traina il resto del Paese, favoletta che non regge più: Milano e Lombardia, secondo uno lo studio più recente, ci sono costati 18 miliardi per una Expo che ha reso 400 milioni, per dirne una). Al contrario, al Sud la secessione converrebbe davvero, e basterebbero pochi esempi: l’Italia è sia un Paese ricco (il Nord, che assorbe praticamente tutti gli investimenti pubblici per le grandi opere), che un Paese povero (il Sud dove lo Stato non spende per treni, strade, porti, lavoro…).

Questo comporta che arrivino per il Sud tanti soldi dall’Unione europea, perché si aggiungano a quelli che deve spendervi l’Italia, per colmare il divario fra le due parti del Paese. Invece, i governi di ogni colore sottraggono al Mezzogiorno gli investimenti nazionali e li dirottano al Nord, lasciando che del Sud se ne occupi l’Europa, se vuole. Così, il mezzo Paese ricco guadagna a spese del mezzo Paese povero (perché impoverito dal sistema economico italiano).

E così la Questione meridionale, invece di essere sanata, si aggrava. Poi arriva il Recovery Fund e l’Italia, per la presenza della più vasta area europea con la più alta disoccupazione e i più bassi redditi, il Sud, “guadagna” circa 200 miliardi. Senza il Sud, sarebbero stati la metà. Applicando i criteri di ripartizione europei, il Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale, il parlamentare europeo Piernicola Pedicini, gli esperti della Regione Campania e quelli del Comune di Messina hanno scoperto (nell’ordine) che al Sud spetterebbero dal 66 al 70 per cento del totale, ovvero da poco meno a poco più di 140 miliardi. Mentre il governo ne promette 82 (finti) e, certificati, nel Pnrr ce ne sono soltanto 22, forse 35.

Se il Mezzogiorno fosse un Paese autonomo, quei soldi resterebbero tutti al Sud e non sarebbero rubati per regalarli alle Regioni più ricche. Ma se ci si dovesse separare, ci sarebbe la questione del debito pubblico, che è di circa 2.500 miliardi e che andrebbe diviso fra gli italiani, pro-capite. I meridionali sono venti milioni, il 34 per cento della popolazione, quindi dovrebbero pagare il 34 per cento di 2500 miliardi, che fa 850 miliardi (ha fatto i conti, ancora una volta, l’onorevole Pedicini, che al parlamento di Strasburgo rappresenta il M24A-ET, di cui è vice presidente): è più di quanto, con il Recovery Fund, l’Europa distribuisca ai 27 Paesi dell’Unione. Ce li ha il Sud tutti quei soldi? No, perché glieli hanno rubati. Chi? Lo Stato italiano, per darli al Nord. E chi lo dice? L’ente di Stato che certifica che fine fanno i soldi pubblici (Conti pubblici territoriali). E quanto è stato rubato, al Mezzogiorno dallo Stato e si dovrebbe restituirgli, in caso di secessione? In 17 anni, 850 miliardi circa, senza contare il prima. Quindi, il Sud potrebbe uscirsene senza pagare un euro ed entrerebbe nell’Unione europea con zero euro di debiti, il che consentirebbe di attingere prestiti di malamorte dalle casse europee. Sulla carta, come dati economici, staremmo meglio della Germania!

Che dite, la tentazione viene? In più, sempre per iniziativa del M24A-ET, della Rete dei 500 sindaci del Mezzogiorno sorta per tutelare i loro diritti alle risorse europee, e di Pedicini, è stata presentata a Bruxelles una petizione illustrata in una seduta pubblica che LaCNews24) e il suo sito web trasmisero (unici in Italia). Giorni fa, al sindaco di Acquaviva delle Fonti, Davide Carlucci, portavoce dei 500 (mentre le firme furono raccolte dal M24A-ET) è giunta la risposta della presidente della Commissione per le petizioni, l’europarlamentare Dolors Montserrat, da cui si apprende che i timori dei sindaci meridionali di vedersi privati di quanto loro spetta sono fondati, perché la Commissione ha deciso “di condurre una indagine preliminare” sul rischio che “l’uso delle risorse del Next Generation Eu”, con la ripartizione “del Pnrr italiano”, invece di ridurre il divario Nord-Sud, come chiede Bruxelles, accresca la “divaricazione economica, sociale e territoriale ai danni del Mezzogiorno d’Italia”.

Aggiungete che al Sud c’è il più ampio bacino di voti in libera uscita, per il crollo dei votatissimi cinquestelle, nel 2018, il fallimento del tentativo della Lega di accaparrarsi quegli elettori e la mancata crescita (anzi!) dei partiti tradizionali. Così, alcuni giorni fa, i 26 senatori, dei quali, salvi un paio, appena una mezza dozzina, a voler essere generosi, erano sospetti di meridionalismo e persino di fresco conio, votano contro l’Autonomia differenziata che ha fatto capolino nel Pnrr (e sarebbero stati di più, senza i tanti assenti giustificati). Un segnale forte per il governo, ma soprattutto del fatto che “puzzare di terronico” politicamente ora conviene: già nelle regionali calabresi avevamo visto l’ex presidente Mario Oliverio allearsi a Identità calabrese, l’ex sindaco di Napoli, comunemente (e non a torto) ritenuto più giacobino che “lazzaro”, scivolare a sorpresa, nel racconto di alcuni suoi elettori, verso il revisionismo storico meridionale, mentre dalla Sicilia (un recente incontro a Taormina) alla Puglia (dove pare si stia riattivando l’ex ministra Poli Bortone, che già condusse un tentativo alcuni anni fa), alla Campania, anche politici senza base elettorale si offrono a terroni organizzati in… schiere di quattro-cinque elementi o di migliaia di iscritti “a voce” (senza chiedersi come mai quelle moltitudini non abbiano mai espresso, finora, manco un capo condomino in elezioni fra parenti. Ma “tiemp ‘e tempest, ogne pertuso è porto”, dicono a Napoli).

E nei gruppi già esistenti e di un certo corpo, si accendono ambizioni che portano a ideare nuove “fusioni”, “federazioni” per domani, ma che cominciano con nuove divisioni oggi. Il caos? Ma è dal caos che nasce l’ordine di un diverso futuro.
Come direbbe Mao: grande confusione sotto il cielo, dunque la situazione è eccellente: ma è un cielo meridionale che si sta alzando sull’orizzonte. (pap)

[Pino Aprile, giornalista e apprezzatissimo scrittore di  problemi del Mezzogiorno, è direttore de LaC24News]

[courtesy LaC24News]