SANITÀ CALABRIA, OCCHIUTO ANNUNCIA:
«A BREVE FINISCE IL COMMISSARIAMENTO»

di SANTO STRATI – Sanità in Calabria, fine del commissariamento? Lannuncio lo dà il presidente Roberto Occhiuto durante un incontro/forum alla sede de Il Quotidiano del Sud, promosso dal direttore Massimo Razzi.

È una notizia shock, bellissima, difficile persino da credere. Ma bisogna crederci, visto che sulla Sanità calabrese Occhiuto ci ha messo la faccia e rischia quotidianamente la sua credibilità.

È ottimista Occhiuto, visibilmente provato da un recupero post operatorio che appare troppo lento, e, nella redazione centrale di Castrolibero azzarda che entro qualche settimana la sanità calabrese sarò fuori dal commissariamento. Se lo afferma, non solo ne è convinto, ma evidentemente ha ricevuto le dovute rassicurazioni dal Governo che siamo davvero al traguardo.

Una buona notizia per la Calabria e per i calabresi che dal 2009 sono sotto commissariamento e ne hanno viste di cotte e di crude, tra annunci, incapacità gestionali, promesse e, soprattutto, chiusure di ospedali. Uscire dal commissariamento quantomeno significa poter ricominciare a investire per garantire la salute ai calabresi, che continuano a regalare” milioni (340 secondo lultima stima) ogni anno alle altre regioni, dove vanno a farsi curare in ospedali più “avanzati” e dove, loro malgrado, trovano ottimi medici calabresi.

Si parla dialetto calabrese a Roma, Milano, Pavia, Padova e in gran parte delle strutture sanitarie del Nord: è il risultato degli esodi (molti controvoglia) di ottimi specialisti che hanno dovuto lasciare la propria terra e che nessuno riesce a far tornare (mancano soprattutto le possibilità economiche).

La fine di questorrendo bavaglio alla sanità pubblica potrebbe significare un nuovo slancio tutto a respiro regionale nella gestione della sanità pubblica il cui patatrac – non dimentichiamolo – è stato anche provocato da commissari di Governo inviati dallo Stato, che, però, continua a non volersi assumere alcuna colpa pur avendo gestito, per indiretta persona, lo scandalo di fatture pagate più volte, di ospedali chiusi, di reparti mai aperti, di attrezzature lasciate a morire nella loro obsolescenza senza venire utilizzate alla bisogna.

La storia della sanità calabrese è drammaticamente insopportabile e insostenibile sotto tutti i punti di vista e i rimedi, ad oggi, sono stati troppo blandi se non forieri di ulteriori spese.

Certo, va considerato che la fine del commissariamento non significa che viene annullato il piano di rientro, a cui prima o poi bisognerà venirne fuori, ma è decisamente un grosso passo in avanti per riorganizzare, con responsabilità unicamente regionale, tutto lapparato, mettendo ordine nelle tantissime, troppe, criticità.

Al direttore Razzi – cui bisogna dare atto di avere promosso una intelligente e coraggiosa campagna giornalistica attraverso il Quotidiano del Sud per la sanità calabrese – il presidente Occhiuto risponde mostrando sicurezza: «Sono assolutamente convinto che il commissariamento non sia una buona cosa per il governo della sanità in Calabria, lo ha anche detto la Corte costituzionale due volte. Ho lavorato nei mesi passati per ottenere dai Ministeri affiancanti la possibilità di poter uscire dal commissariamento. Io ho maturato un’esperienza nei palazzi della politica romana e spesso faccio cose che vengono interpretate come strappi. Un esempio sono gli emendamenti».

«Volevo un’assunzione di responsabilità dei Ministeri – ha spiegato – che ci dessero i dati sul punteggio Lea e si esprimessero sulla chiusura dei bilanci e la loro certificazione. Gli emendamenti sono serviti a questo. Li farò ritirare perché ho avuto la rassicurazione da parte del governo che la sanità calabrese uscirà, da qui a qualche settimana, dal commissariamento. E io vorrei che uscisse non per una norma ma per una delibera del Consiglio dei ministri proposta dal Mef e dal Ministero della Salute».

Secondo il Presidente Occhiuto, «Avendo finalmente il governo dei conti e i Lea in crescita, il commissariamento non ha più senso di esistere. Chiaramente rimarremo in piano di rientro, ma il mio obiettivo di medio periodo e quello di uscire anche da questo. Utilizzeremo parte della fiscalità aggiuntiva per colmare il deficit».

«Se noi riuscissimo con i Lea del 2024 ad essere verdi su tutti e tre gli aggregati (ospedaliero, prevenzione e distrettuale) potremmo chiedere l’uscita dal piano di rientro – ha detto –. Altra cosa: ho chiesto al governo di darmi una mano per concludere i tre grandi ospedali. Sibari procede e sarà completato prima della fine della legislatura, a Vibo c’è stato un incontro con il concessionario e aggiorneremo il piano finanziario per accelerare i lavori. Sulla Piana il concessionario ha chiesto 190 milioni in più, noi siamo disponibili ad un aggiornamento del Pef».

«Mi sto assumendo tantissime responsabilità – ha ricordato – e rischio di essere rincorso dalla Corte dei Conti per i prossimi decenni. Però l’ho fatto perché altrimenti non l’avremmo finito. Ho chiesto al governo poteri di Protezione Civile per procedere più velocemente con gli adempimenti previsti. E questo per i tre ospedali più il Policlinico universitario di Cosenza e una parte dell’ospedale di Reggio. Ho fiducia».

Lo scetticismo dei calabresi è duro da scalfire, nonostante liniezione di fiducia e ottimismo del Presidente Occhiuto. Il percorso non è libero da ostacoli e, probabilmente, lAzienda Zero non ha ancora le capacità operative (tipo bacchetta magica…) per sistemare conti e aziende e, soprattutto, poter garantire ai calabresi che vivono in regione e hanno diritto di curarsi adeguatamente vicino ai loro affetti e alle loro case, il livello di prestazioni sanitarie degne di questo nome. È un impegno, non soltanto una promessa, quanto affermato da Occhiuto. (s)

TERZO MANDATO, MA È DAVVERO UTILE?
UNA DISCUSSIONE SIMILE ALL’ARIA FRITTA

di PINO APRILE – La questione del Terzo mandato ai presidenti di Regione (la possibilità di candidarsi dopo essere stati già eletti due volte) potrebbe dare l’incrinatura che fa franare il castello-Italia; ed è comunque un fenomeno della stessa natura dell’Autonomia differenziata, della Questione meridionale.

Se il sistema di potere nazionale, ferocemente nord-centrico, non riuscisse a disinnescare questa mina a tempo (ci sono sei mesi per farlo), il processo di frammentazione del Paese avrebbe una accelerazione forse decisiva, irreversibile.

E in tale scenario, diventerebbe più fattibile, probabile, la secessione del Sud (ove non fosse resa impossibile da una disgregazione in pezzi sempre più piccoli e “mangiabili”).

Ovvio che sarebbe meglio avere un Paese più grande e solido, per reggere le sfide enormi della globalizzazione e di oligarchie planetarie che ne sono al tempo stesso madri e figlie. Ma un Paese è tale solo se equo, una casa in cui conviene stare per tutti quelli che ci abitano; se figli e figliastri, Nord e Sud, chi tutto e chi niente, allora meglio soli.

Lo scontro fra le segreterie nazionali dei partiti e i potentati regionali ripropone, a livello molto più alto, quanto una trentina di anni fa si ebbe con quello che fu chiamato “Il partito dei sindaci”. La legge del 1993 rese diretta l’elezione del primo cittadino, prima dominata dai dirigenti di partito. Sorsero, così, e acquisirono dimensione politica che debordò dagli stessi confini locali, figure di sindaci che (pur se proposti dagli stessi partiti) conquistarono consensi e visibilità personali: Massimo Cacciari a Venezia, Enzo Bianco a Catania, Riccardo Illy a Trieste, Antonio Bassolino a Napoli, Leoluca Orlando a Palermo…

Finirono per contare più loro, e non solo nella propria città, che i partiti o le coalizioni di origine, al punto che potevano candidarsi contro quelli e sconfiggerli, in caso di contrasti. E si vide il rischio reale di una rete-alleanza fra quei potentissimi sindaci, per dare indicazioni alle segreterie nazionali e non ricevere; e magari saltarne la mediazione per proporsi ai governi quali interlocutori diretti.

La mina fu disinnescata ostacolando politicamente in loco i sindaci che si allargavano troppo, blandendone altri e lasciandoli poi sospesi, rimuovendone altri ancora (con uso di promozione: chi al parlamento, al governo)… Tangentopoli fece il resto.

Questa volta, la faccenda è persino più seria, perché la dimensione territoriale e politica non è quella cittadina, ma regionale. E i potentati locali sono tali da poter reggere da soli e da ridurre i partiti nazionali a poca cosa: provate a immaginare cosa resterebbe della Lega se il Veneto virasse su una creatura politica di Luca Zaia e la sua rete di potere, costruita nel corso di tre mandati da presidente (la legge che li limita a due fu emessa dopo la sua prima presidenza). Tanto che ha già pronto un suo movimento.

E le cose non andrebbero diversamente in Campania, per il Pd: la rete di potere di Vincenzo De Luca non è del partito, ma sua. E anche lui ha pronto un movimento per concorrere alla rielezione “in proprio”.

Il problema, quindi, ce l’hanno sia la destra che la sinistra. Né va dimenticato che la sciagurata legge elettorale che rende i parlamentari tutti dei “nominati” dalle segreterie nazionali, fu varata di concerto fra i partiti, al di là di quanto viene poi dichiarato o di chi l’abbia materialmente firmata.

Se, dalla Meloni alla Schlein (Salvini si nasconde dietro Giorgia, dovendo fingere di essere dalla parte di Zaia), le dirigenze nazionali dei partiti tengono il punto e non rimuovono il vincolo del terzo mandato, alle prossime elezioni potrebbe esserci il terremoto.

Né il tentativo di “promuovere e rimuovere” Zaia e De Luca può avere serie possibilità di andare a segno: i due non sono dei Nello Musumeci cui basta dare la patacca di ministro all’Acqua salata, per fargli svendere la Sicilia già disastrata dalla sua presidenza. Zaia era ministro all’Agricoltura e lasciò la scena nazionale, per fare il presidente della sua Regione. Lui e De Luca sanno benissimo che il loro potentato locale vale molto di più di un ministero.

La differenza fra essere sindaco e ministro si vedeva e seduceva; con le Regioni, il vantaggio è al contrario. In più, ed è la cosa più importante, il presidente di Regione viene “nominato” dal popolo che lo vota e del cui consenso sa di poter disporre persino contro il suo partito; mentre il ministro è tenuto per le… spalle dal capo del governo e dal gioco di correnti del partito, che capitalizza il consenso territoriale, sottraendolo al singolo ministro. Insomma: non c’è lotta.

In Veneto, la Lega è scesa dal 49,9 per cento al 13 circa; mentre Fratelli d’Italia è salito al 33 e vuole, giustamente, un suo candidato. Se Zaia, scartato, si presentasse con il suo movimento, la più probabile ipotesi sarebbe la sconfitta di una destra scomposta in troppi pezzetti (della Lega non rimarrebbe quasi nulla) e il Veneto potrebbe passare al centrosinistra (se non si frantumasse ancora più della destra). Una perdita di posizione clamorosa per la maggioranza di governo.

In Campania, a ruoli invertiti, se il movimento di De Luca spezzasse ulteriormente il centrosinistra, la presidenza potrebbe tornare alla destra.

Ma gli scenari sono talmente incerti, confusi, mutevoli, che può accadere di tutto. Di sicuro, il potere delle segreterie nazionali dei partiti ne risulterebbe irrimediabilmente indebolito.

Ancora di più, però, lo sarebbe se cedessero alle richieste degli ingombranti esponenti locali candidati presidenti a vita, perché questo ne consoliderebbe il potere e segnerebbe un vero e proprio passaggio del testimone dal centro alla periferia.

Esattamente quello che si cerca di fare con l’Autonomia differenziata.

In tal modo, si rafforzano le identità e gli interessi locali contro quelli nazionali, si alimentano gli egoismi di campanile e si coinvolgono non soltanto le élite, ma le popolazioni al seguito e a servizio di quelle. E basterà poco, poi, per recidere l’ultimo filo.

Non ci si dovrebbe sorprendere se la linea delle fratture riproponesse quelle dei confini fra gli stati preunitari, che vennero messi insieme con la forza e referendum farlocchi che fecero gridare allo scandalo, persino gli osservatori della superpotenza imperiale (all’epoca: la Gran Bretagna) che pianificò e condusse l’unificazione dell’Italia.

Erano sette, con il Lombardo-Veneto occupato dagli austriaci. Il più antico e grande, nei suoi confini, era il Regno delle Due Sicilie, con l’isola che tendeva (e tende) a essere unica, solitaria.

In un’Italia che andasse in pezzi, quello stato (ovviamente non rimettendo le dinastie sui loro troni) potrebbe rinascere, perché stufi di essere trattati da colonia e cittadini di serie B, i meridionali hanno tutto il diritto e l’interesse di dire: «Se non possiamo stare alla pari, allora meglio soli».

Hanno finto di unificare l’Italia; l’hanno disegnata con una colonia interna da cui estrarre risorse, anche umane, per alimentare il benessere di poche regioni. Ma dalle e dalle, arriva il momento in cui si vuole sempre di più da una parte e si capisce sempre di più dall’altra. E la corda si spezza.

Obiezione: eh, ma ‘sto po’-po’ di disastro, solo perché Zaia e De Luca vogliono il terzo mandato? Il fatto è che tutte queste tensioni, gli strappi, vanno nella stessa direzione: la periferia si emancipa dal centro, perché il centro non ha saputo (“voluto”, sarebbe il termine giusto; e più corretto ancora: “potuto”, pur se avesse voluto) unificare davvero il Paese. Era diviso, è stato mantenuto diviso negli stessi confini, e può facilmente tornare diviso, magari per saziare gli appetiti dei caimani di poteri finanziari e politici internazionali che vogliono “un po’ di Italia”: è così bella, a me niente?

Uno strappo dopo l’altro, fra un po’ si strappa. Poi daranno la colpa all’ultimo che tira. (pa)

PER LA SANITÀ CALABRESE NON BASTANO
I FONDI PER POTER GARANTIRE LEA E LEP

di GIACINTO NANCIIl dott. Rubens Curia, portavoce di Comunità Competente, nonché autorevole, da molto tempo, operatore anche in ambito sanitario nella regione Calabria ci esorta a smetterla di chiedere solo i giusti finanziamenti per la sanità calabrese negati da trenta anni (per non corretta applicazione della legge 662 del 1996) e di operare comunque per il suo miglioramento indicandoci numerosissime e valide iniziative.

Intanto il sottofinanziamento non è cosa secondaria per come segnalato dallo stesso dott. Curia, quando scrive che la spesa pro capite per un calabrese è più di dieci volte inferiore alla spesa pro capite della regione che riceve più fondi e se si calcola che ciò dura da circa 30 anni si capisce bene che l’ammontare del sottofinanziamento non è di milioni di euro ma di miliardi di euro.

E, comunque, la sua esortazione non dovrebbe essere fatta ai calabresi e ai suoi amministratori ma direttamente al Governo perché, come tutti sappiamo, la Calabria ha la sua sanità commissariata dal 2011 e ha commissariate dal 2019 anche tutte e cinque le sue Asp e i suoi tre maggiori ospedali regionali (gli altri 18 ospedali minori sono stati chiusi in nome del risparmio.) E se dopo tutti questi anni di omni commissariamento (ricordiamo che il commissariamento per definizione è una istituzione di breve durata come per la grande opera della ricostruzione del ponte di Genova fatta in un anno) nel 2023 abbiamo superato perfino i 300 milioni di euro per le spese dei calabresi fuori regione, anche un bambino capirebbe che ci sono problemi al di la della cattiva gestione (sempre dei commissari) non credendo che tutti i commissari inviati in Calabria sono stati degli incompetenti.

A meno che nel loro mandato non ci sia stata solo l’attenzione al risparmio delle spese sanitarie anche perché ogni decreto commissariale, che quindi tratta di problemi sanitari, per poter essere pubblicato non va al ministero della Salute ma va prima a quello dell’Economia che deve valutarne la spesa ed è poi questo Ministero che lo trasferisce a quello della Salute. Della serie l’obiettivo principale è il rientro del presunto deficit sanitario non la salute dei calabresi?

Intanto noi calabresi stiamo pagando un prestito oneroso fattoci dal governo all’inizio del piano di rientro (2009) di 30 milioni l’anno fino al 2040 di cui 20 solo per interessi e 10 di capitale, praticamente usura statale. Nelle indicazioni fatte dal dott. Curia c’è il potenziamento della medicina territoriale ed io, che sono stato un medico di famiglia, ne so qualcosa e vi cito un solo dato: il dott. Battaglia Annibale, medico dell’associazione medici di famiglia Mediass, prima di morire di Covid, in una giornata ha fatto ben 185 accessi (quanti accessi ha in media un pronto soccorso?) cioè ha curato ben 185 dei suoi assistiti (dato verificabile perché il dott. Battaglia era medico ricercatore Health Search e questi dati sono depositati), per cui una riorganizzazione della medicina territoriale andrebbe prima di tutto beneficio dei medici di famiglia oltre che degli assistiti.

Ma la richiesta del giusto finanziamento della sanità calabrese è giustificato da un altro decisivo elemento, e cioè la assoluta maggiore prevalenza delle malattie croniche presenti in Calabria rispetto al resto d’Italia. Per certificare quanto appena detto cito il Dca n. 103 del lontano 30/09/2015 firmato dall’allora commissario al piano di rientro ing. Scura che alla pg. 33 dell’allegato n. 1 così recitava “si segnala maggiore presenza in Calabria di almeno il 10% di patologie croniche rispetto al resto d’Italia”.

Visto che il decreto, vidimato dal ministero dell’Economia e da quello della Salute (della serie tutti sanno), è fornito di specifiche tabelle si è potuto calcolare il maggior numero dei malati cronici presenti in Calabria rispetto al resto d’Italia che era allora di 287.000 e riteniamo che oggi siano di più perché i calabresi sono anche in testa alla classifica per le mancate cure. Ma il Dca aveva anche una specifica tabella sulla comorbilità nella quale noi calabresi siamo purtroppo sempre in testa alla classifica. Comorbilità è quando in una stessa persona ci sono due o più malattie croniche, il che comporta una maggiore spesa sanitaria del caso in cui le due malattie sono in due persone diverse.

Il decreto n. 662 del 1996 prevedeva anche il finanziamento in base alla epidemiologia e alla comorbilità ma non è stato mai applicato prova ne è il fatto che la regione Campania nel 2022 ha fatto ricorso al Tar proprio contro gli ingiusti criteri di riparto dei fondi sanitari alle regioni fatta dalla Conferenza Stato-Regioni. Significativo è anche il fatto che subito dopo questo ricorso al Tar il governo, prevedendo l’accettazione dello stesso, ha modificato lievissimamente i criteri di riparto basandoli, ma solo lontanamente, sul criterio citato dal dott. Curia della “deprivazione”. Concetto questo che già era stato applicato nel 2016 quando l’allora presidente della Conferenza Stato-Regioni on. Bonaccini lo ha annunciato ma in modo (è parola sua) “parzialissimo”.

Ebbene nel 2017 in base a questa “parzialissima” applicazione del concetto di deprivazione alla Calabria sono arrivati 29 milioni di euro e a tutto il sud ben 482 milioni in più. Basterebbe moltiplicare questo dato per quattro e poi per i 30 anni in cui non è stato fatto per capire l’enorme (molti miliardi) sottofinanziamento della sanità calabrese e meridionale. Ovviamente, la modifica non è stata né ampliata né riproposta. Ma c’è un ultimo elemento da tenere in considerazione, ed è il fatto che noi calabresi paghiamo più tasse degli altri italiani proprio a causa del piano di rientro.

Per risanare il presunto deficit sanitario calabrese un lavoratore calabrese con un imponibile lordo di 20.000 euro paga 480 euro di Irpef in più di un altro lavoratore italiano e un imprenditore calabrese con un imponibile lordo di un milione di euro paga ben 10.000 euro di Irap in più di qualsiasi altro imprenditore italiano. Inoltre, noi calabresi paghiamo un’accisa maggiorata sulla benzina sempre a causa del piano di rientro. Della serie il piano di rientro danneggia, oltre alla sanità, anche l’economia calabrese.

Infine una segnalazione circa l’arroganza vera e propria con cui i rappresentanti delle regioni come il Veneto, Lombardia, Piemonte, Toscana Emilia gestiscono i lavori della Conferenza Stato-Regioni, per come riferito a me personalmente da chi ci andava per la Calabria dieci anni fa. I rappresentanti di queste regioni non ammettevano contestazioni alla “loro” ripartizione e minacciavano chi avesse richiesto un giusto riparto dei fondi sanitari alle regioni vere e proprie ritorsioni.

In conclusione ottime sono le indicazioni delle cose da fare indicate dal dott. Curia ma, se dopo 15 anni di omnicommissariamento siamo a questo punto, il cambiamento si potrà avere se 1) si chiude il piano di rientro, 2) si condona l’ingiusto debito che stiamo pagando, 3) si finanziano le sanità regionali in base alla numerosità delle malattie e delle comorbilità nelle diverse regioni e 4) si revocano le ingiuste tasse aggiuntive ai calabresi.

E bisogna far presto perché alla luce dell’autonomia regionale, ai Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) dopo tanti anni di commissariamento mai migliorati, si aggiungerà la mancata applicazione dei Lep (livelli essenziali delle Prestazioni) negli altri campi non sanitari.

Fatto questo, si possono anche lasciare i commissariamenti proprio per dimostrare che la vera causa del disastro della sanità calabrese è stato il miliardario inveterato sottofinanziamento della nostra sanità. (gn)

[Giacinto Nanci è medico di famiglia in pensione dell’Associazione Medici di famiglia]

BISOGNA SPENDERE DAVVERO LE RISORSE
DISPONIBILI PER INFRASTRUTTURE AL SUD

di ERCOLE INCALZA – Pochi quotidiani hanno riportato una serie di notizie che, a mio avviso, aprono una nuova fase nei rapporti tra organo centrale ed organo locale, tra Stato e Regioni. La prima notizia è sfuggita anche agli schieramenti che oggi caratterizzano la attuale opposizione al Governo, mi riferisco in particolare alla assenza, nel Disegno di Legge di Stabilità 2025, di risorse in conto capitale per l’avvio di opere infrastrutturali ed il ricorso ad un articolo, in particolare l’articolo 120, sempre del Disegno di Legge, che riporto di seguito, in cui si precisa:

Nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze è istituito un fondo da ripartire a favore delle Amministrazioni centrali dello Stato, per assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese, con una dotazione complessiva di 24.000 milioni di euro, di cui 3.500 milioni di euro per l’anno 2027, 2.000 milioni di euro per l’anno 2028, 1.000 milioni di euro per l’anno 2029 e 2.500 milioni di euro annui per ciascuno degli anni dal 2030 al 2036.

Il fondo di cui al comma 1 è destinato a interventi, anche già finanziati parzialmente, che presentino un cronoprogramma procedurale compatibile con il rispetto dei saldi di finanza pubblica, nei limiti delle risorse previste per ciascuna amministrazione dal suddetto allegato. I predetti decreti sono comunicati alle Commissioni parlamentari competenti e alla Corte dei conti. I decreti prevedono le modalità di monitoraggio sui sistemi informativi del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato degli interventi e il relativo Cup, nonché la disciplina della revoca in caso di mancato rispetto del cronoprogramma.

In questo articolo, ripeto, si assegna una dotazione complessiva di 24.000 milioni di euro, disponibile però a partire dal 2027 di cui 3.500 milioni di euro per l’anno 2027. Una norma che tra l’altro contrasta con il Decreto Legislativo 93/2016, sempre in vigore, che all’articolo 2, comma 2, precisa: Le amministrazioni centrali dello Stato possono assumere impegni nei limiti dell’intera somma indicata dalle leggi di cui al comma 1. I relativi pagamenti devono, comunque, essere contenuti nei limiti delle autorizzazioni annuali di bilancio.

Quindi questa forzatura non notata neppure, come detto prima, dalla forze di opposizione denuncia chiaramente la limitata disponibilità di risorse e la corretta azione del Ministro Giorgetti di non gravare ulteriormente sul debito pubblico.

Ma proprio questa emergenza che, insisto, forse ancora non capita, ha portato il Ministero dell’Economia e delle Finanze a modificare, in modo sostanziale, il rapporto con le singole Regioni, in modo particolare con le Regioni del Mezzogiorno che utilizzano, per una quota dell’80%, le risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione. Risorse che hanno visto, proprio in queste ultime settimane, la sottoscrizione, tra la Presidente del Consiglio e i Presidenti delle Regioni, degli atti con cui verranno assegnate le relative risorse.

L’Accordo siglato con la Campania porta a compimento il percorso di assegnazione delle risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione 2021-2027 pari a 6,5 miliardi di euro, quello con la Puglia porta ad un ammontare di 4,6 miliardi di euro, ecc.

In realtà sono le uniche risorse vere che garantiranno trasferimenti da parte dello Stato verso le varie realtà territoriali e questa ormai obbligata presa di coscienza ci porta purtroppo a constatare lo stato di avanzamento della spesa, proprio da parte delle varie Regioni, di tale Fondo.

Ebbene la Ragioneria Generale dello Stato, nel bollettino bimestrale sul monitoraggio delle politiche di coesione, ha comunicato la percentuale di pagamenti sul valore dei programmi: la percentuale è pari al 2,8% cioè 2,1 miliardi di euro su un totale di 75 miliardi.

Ricordo che il Programma è partito nel 2021, cioè quasi quattro anni fa e restano solo tre anni alla fine dell’arco temporale garantito dal Fondo. Cioè non abbiamo per niente letto attentamente la triste esperienza dell’utilizzo dei Fondi di Sviluppo e Coesione del periodo 2014 – 2020. Ancora oggi dopo la scadenza di tale Fondo nel 2022 (il Fondo scadeva nel 2020 ma prevedeva una proroga fino al 2020) siamo riusciti a spendere appena 33 miliardi di euro su 84,4 miliardi di euro.

Ebbene, la ormai misurabile carenza di risorse e la contestuale incapacità della spesa da parte delle Regioni ha portato il Ministero dell’Economia e delle Finanze a dare vita ad una sorta di organismo di vigilanza. Fino ad oggi ai vari Presidenti delle Regioni bastava rispettare il pareggio di bilancio, dall’anno prossimo nella gestione della loro spesa dovranno rispondere ad una Commissione nata con un duplice obiettivo; Evitare gli sprechi, monitorare costantemente le politiche finanziarie delle Regioni per evitare che una loro cattiva gestione, una loro incapacità della spesa incrini la soglia dell’1,3 % di crescita della spesa primaria, soglia concordata dal Ministro Giorgetti con la Unione Europea ed inserita nel Piano Strutturale di Bilancio.

Concludo precisando che la ormai presa d’atto di una assenza di risorse senza dubbio ha portato il Governo ad invocare una norma che contrasta con provvedimenti già assunti in passato e, al tempo stesso, anche priva di adeguata concretezza, tuttavia questa apprezzabile coscienza ha portato, contestualmente, ad una lettura responsabile delle uniche risorse disponibili, cioè quelle del Fondo di Sviluppo e Coesione, e alla esigenza di imporre un codice comportamentale nuovo nei rapporti tra Stato e Regioni legato proprio alla capacità della spesa.

Bisogna dare atto alla Regione Campania ed alla Regione Calabria, già prima delle sottoscrizioni degli accordi tra Stato e Regioni sull’utilizzo di tali fondi, di avere, in modo organico e capillare, attivato le procedure necessarie per consentire un concreto e misurabile utilizzo delle risorse stesse.

Insisto: l’utilizzo delle risorse del Pnrr, anche con una possibile proroga, non assicurano una rilevante copertura delle esigenze avanzate dalle Regioni e quindi l’unico vero riferimento finanziario rimane il Fondo di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027, un Fondo che ci dà un respiro finanziario certo nel prossimo biennio di 29,3 miliardi di euro; evitiamo di ripetere la triste esperienza vissuta nell’utilizzo del Fondo 2014 – 2020. (ei)

ALTA VELOCITÀ, LE RISORSE NON MANCANO
È NECESSARIA CHIAREZZA SUL TRACCIATO

di NINO MALLAMACILa Calabria, per la collocazione geografica e la peculiare morfologia del suo territorio, è più un’isola che una penisola, caratterizzata perciò da una marginalità che solo vie di comunicazione moderne e veloci possono abbattere. Iritardi nella progettazione sono non di rado causa di slittamenti dei finanziamenti e quindi della realizzazione delle opere.

Francesco Russo, professore ordinario di ingegneria dei trasporti presso l’Università Mediterranea, da noi interpellato, allarga il discorso alla politica – di qualsiasi schieramento, precisa – che dimostra scarso interesse alla pianificazione e quindi alla progettazione. Secondo lui, inoltre, si dovrebbe rivedere tutto il piano per l’alta velocità e le linee ferroviarie calabresi in generale.Mancano i progetti. La soluzione potrebbe venire dalla Regione, che dovrebbe supportare la loro redazione. Dirò una cosa che può apparire strana: l’unica cosa che non manca in Italia sono i fondi, principalmente per investimenti e infrastrutture, perché arrivano dall’Europa e dallo Stato.

– Quindi, nonostante il ponte sullo Stretto dreni molte risorse ci sarebbero i fondi per fare altro?

«Ne sono convinto, quello che manca sono i progetti».

– Come si risolve questo problema? Dovrebbe entrare in campo la Regione?

«La Regione deve prendere in mano la partita, così come è stato fatto, ad esempio, nel 2017, quando bisognava realizzare le banchine lato est nel porto diGioia Tauro, i cui lavori sono stati completati quest’estate. La questione da affrontare è quella della progettazione. Se non si hanno i progetti completi non si fa niente».

– Ma perché non ci sono i progetti?Supponiamo che per un progetto per l’alta velocità occorrano 1, 2 o 3 anni; per reperire le risorse altri 3; per realizzare l’opera ulteriori 10. In sostanza, l’opera programmata sarà pronta, se tutto va bene, in 15 anni. Oggi la politica, senza distinzione di schieramenti, è fatta purtroppo di informazioni fast food, di cose da portare all’incasso subito in termini di pubblicità, immagine. Uninfrastruttura che richiede 15 anni non porta lustro a nessuno. Su questa impostazione la società civile, i giornali, i cittadini si devono impegnare per fare presente che è cruciale, ad esempio, fare un’alta velocità che vada fino a Metaponto e poi a Sibari, perché è l’unico modo per salvare la Calabria. Giornali, Università, scuole, circoli culturali dovrebbero pretendere un‘azione politica con una lettura strategica: oltre al fast food dell’oggi va guardata la prospettiva, il futuro».

– Torniamo all’alta velocità in Calabria. Un problema è quello del tracciato.

«L’attuale proposta di tracciato presenta un problema enorme che io definisco “di doppio curvone”. La linea da Salerno punta verso est fino a Romagnano e poi torna a Praia a Mare. Il tragitto deve invece essere dritto, da Battipaglia a Praia a Mare».

Perché è stata operata questa scelta?

«La Battipaglia – Romagnano è sulla linea Battipaglia Cosenza, ed è giusto, così com’è giusto che venga realizzata la Potenza – Metaponto perché la Basilicata ela Puglia lato jonico devono essere collegate. Ma, come ho più volte detto, la Battipaglia Romagnano Potenza Metaponto non basta: va collegata anche la piana di Sibari. così la linea jonica dell’alta velocità sarebbe Battipaglia – Romagnano Potenza – Metaponto Sibari. La tirrenica, invece, andrebbe da Battipaglia direttamente a Praia a Mare, per poi proseguire per Lamezia, Vibo e Reggio, non virare verso Romagnano per poi tornare sulla costa tirrenica».

– Si allunga anche il percorso invece di accorciarlo!

«Pensiamo semplicemente al teorema di Pitagora: ci sono i 2 cateti, uno Battipaglia Romagnano e l’altro Romagnano Praia.L’ipotenusa è sempre più corta, quindi va realizzato il percorso dritto Battipaglia – Praia a Mare, non tutto il gran giro cui hanno pensato. Tutto ha un senso se alpercorso tirrenico si affianca l’alta velocità fino a Sibari. A questo punto avremmo Sibari testata alta velocità ionica, Reggio con Villa testata alta velocità tirrenica.Ora è stato ripreso un progetto che avevamo (giunta Oliverio, con Russo assessore ai trasporti, n.d.r.) posto in campo nel 2017 per l’elettrificazione della ferrovia jonica. Con l’elettrificazione della jonica e l’alta velocità fino a Sibari si può partire con frecciargento da Crotone…».

–… e una volta a Sibari si passo dall’altra parte, sulla tirrenica, e si arriva a Roma.

Esatto: Sibari Metaponto Potenza Salerno Napoli Roma, in 3 ore. Inoltre, per il 2030 è previsto il completamento della nuova galleria Santomarco (Paola Cosenza)che sbuca 3 km a nord dell’Università di Arcavacata. Siccome da Cosenza a Sibari la linea ferroviaria è nuovissima si collega rapidamente Paola con Sibari. Da Cosenza si può andare a Sibari oppure a Paola, quindi Cosenza si trova al centro di tutta la partita. Andando giù, si sta sistemando la Catanzaro Lido Lamezia. Quindi avremmo un sistema che per i prossimi 100 anni porterebbe in Calabria sviluppo lavoro occupazione.

– Importantissimo questo collegamento, perché per la nostra regione uno dei problemi di sempre è stato quello dell’attraversamento da una costa all’altra, dal Tirreno allo Jonio e viceversa.

«Però se, in questo momento, si passa da Lamezia a Catanzaro Lido, ci si trova il nulla. Se invece si avesse tutta la linea jonica elettrificata, si arriverebbe a Crotone rapidamente e, se fosse accettata l’idea di fare arrivare l’Av fino a Sibari, in 3 ore a Roma».

– Quale sarebbe l’impatto dell’Av sull’economia?

«L‘Italia del nord ha un sistema poderoso di alta velocità. Lì ha prodotto un incremento differenziale di Pil dell’1 %. La Calabria negli ultimi 10 anni ha viaggiato in media con un incremento annuo dello 0,6/0,7 di PIL. Significa quindi più del raddoppio del Pil della Calabria, il che cambierebbe la storia della regione, il modo di percepirla in Europa e nel mondo. Penso ai piccoli artigiani e commercianti, ai professionisti, ai piccoli industriali, a tutta l’economia importante e di qualità che abbiamo. Si rende conto che significa arrivare in Calabria, arrivare a Sibari da Roma in meno di 3 ore?».

– Significa proprio abbattere la marginalità della Calabria.

«Penso a Sibari perché è una delle aree produttive più importanti della Calabria per l’agricoltura, l’industria, il meccanico leggero. Non a caso Baker Hughes ha pensato a Corigliano. C’è tutto un territorio di piccole imprese meccaniche e metalmeccaniche di grandissima qualità. A parte la storia, la cultura, l’archeologia. Quella zona può esplodere e diventare locomotiva per tutta la Calabria. Per questo, come ho sempre difeso la linea Av tirrenica, allo stesso modo dico facciamo la linea ionica…».

– Perché sarebbe fondamentale per collegare tutta quella zona con le aree produttive del Paese.

«Dobbiamo tutelare gli interessi di tutta la Calabria: della piana di Lamezia, della Locride, costruendo modelli di accessibilità per garantire un futuro non legato all’assistenza. Il futuro lo cambiamo con l’inserimento nei grandi sistemi economici nazionali. Se da Sibari a Roma ci si impiega meno di 3 ore si cambia la storia della Calabria. Allo stato insomma il collegamento non esiste proprio. L‘unica cosa poco più decente che abbiamo è il treno (una scelta della giunta Oliverio) che parte da Sibari e va a Bolzano. Ma sempre via Cosenza e Paola.Se invece si fa arrivare l’A.V. a Sibari, in meno di 3 ore si arriva a Roma. Così facendo, inoltre, con i due tratti che, partendo da Metaponto, vanno a Sibari e a Taranto, si integrano i porti di Corigliano e Taranto».

– Lei ci ha detto che il padre di tutti i problemi è la carenza nella progettazione. Ma noi abbiamo anche fior di università che sfornano professionalità che poi vanno a operare altrove. Daremmo quindi anche un’occasione di lavoro gratificante e di qualità a questi calabresi.

«La Calabria ha la possibilità di fare tutto quello che vuole, ha qualità formidabili. Pensi che ci sono ragazzi calabresi professori ordinari di Trasporti nelle più importanti università fuori regione. A Roma Tor Vergata, per esempio, sono tutti ragazzi calabresi che hanno vinto i concorsi più difficili».

Insomma, ancora una volta, grazie in questo caso al professore Russo, abbiamo l’opportunità di saggiare le potenzialità di questa nostra regione. Quando giungerà il tempo in cui la Calabria sarà capace di tradurle in realtà? Una domanda che fluttua nell’aria e rimane senza risposta. (nm)

LEGGE DI BILANCIO 2025, C’È UN GRANDE
ASSSENTE: NON SI PARLA DI MEZZOGIORNO

di ERCOLE INCALZA – Leggendo il Disegno di Legge di Stabilità 2025 nasce spontaneo un interrogativo: e il Mezzogiorno? Cioè quali siano o quali possano essere le risorse che il Governo intenda assegnare, sotto varie forme (in conto esercizio e in conto capitale) alla infrastrutturazione del Sud?

Io, in modo forse ripetitivo, ricordo sempre che la legge 27 febbraio 2017, n. 18, dispone che la quota delle risorse ordinarie delle spese in conto capitale a favore delle otto regioni del Mezzogiorno non sia inferiore al 34% del totale nazionale. Quest’ultimo valore non è casuale, in quanto è analogo al peso che la popolazione del Meridione ha sull’intero aggregato nazionale. Inoltre nella legge Finanziaria del 2005, era stato precisato che le Amministrazioni centrali si dovevano conformare all’obiettivo di destinare al Mezzogiorno almeno il 30% della spesa ordinaria in conto capitale.

Ma dal 2018 al 2022, se andiamo a leggere le dichiarazioni di Ministri del Mezzogiorno come Barbara Lezzi o Giuseppe Provenzano o Mara Carfagna e di Ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti come Danilo Toninelli o Paola De Micheli o Enrico Giovannini, scopriamo che era davvero scandaloso assegnare solo il 34%; una percentuale ridicola che non avrebbe mai incrinato il gap tra Sud e resto del Paese; almeno bisognava assegnare il 50% e il Ministro Giovannini dichiarò, addirittura, la soglia del 60%.

Appare evidente che allo stato attuale le risorse assegnate per interventi infrastrutturali rilevanti, sì per le cosiddette “opere strategiche”, nel Mezzogiorno dal 2015 ad oggi non superano, come preciserò dopo, il 6,5% del valore globale degli interventi infrastrutturali del Paese.

Ritengo opportuno precisare che in tale analisi non ho ritenuto opportuno inserire le risorse destinate al Ponte sullo Stretto di Messina perché non ho, in tale indagine, inserito gli interventi relativi al nuovo valico Torino – Lione, al Terzo Valico dei Giovi ed al Brennero; infatti ho sempre ritenuto questi quattro interventi come scelte mirate a realizzare i quattro anelli mancanti in grado di integrare il nostro impianto trasportistico con l’intero impianto comunitario.

Per questo motivo le opere infrastrutturali ubicate nel Mezzogiorno per le quali ci sono apposite risorse e sono in corso iniziative progettuali e realizzative sono: Un primo lotto dell’asse ferroviario ad alta velocità – alta capacità Salerno – Reggio Calabria per un importo di circa 2,2 miliardi di euro; Il collegamento ad alta velocità – alta capacità Napoli – Bari per un importo di circa 5,8 miliardi di euro; Alcuni lotti funzionali degli assi ad alta velocità – alta capacità Palermo – Messina e Messina – Catania per un valore globale di circa 3,8 miliardi di euro; Alcuni lotti (uno in costruzione altri in fase di appalto) della Strada Statale 106 Jonica che collega Taranto con Reggio Calabria per un valore globale di 4,3 miliardi di euro; Alcuni lotti dell’asse viario Palermo – Agrigento – Caltanissetta per un valore globale di circa 700 milioni di euro; Asse ferroviario ad alta velocità Taranto – Potenza – Battipaglia per un valore di circa 500 milioni di euro; Reti metropolitane e ferroviarie urbane di Napoli, Palermo e Catania per un valore globale di circa 900 milioni di euro.

Il valore globale di queste assegnazioni si attesta su un valore di 18,2 miliardi di euro e tutte sono opere previste nel Programma delle Infrastrutture Strategiche della Legge Obiettivo, opere che fino al 2022, escluso l’asse ad alta velocità Napoli – Bari, erano praticamente rimaste bloccate per scelta dei Governi Renzi, Gentiloni, Conte 1 e 2 e Draghi. Il valore del Programma della Legge Obiettivo era pari a circa 277 miliardi di euro (valore questo che non tiene conto, come detto prima, del valore dei valichi e del Ponte sullo Stretto) per cui i 18,3 miliardi di euro rappresentano appena il 6,5%.

Ma questa mia denuncia è davvero ridicola perché basata sulla logica delle risorse assegnate al Sud, una logica che, purtroppo, dopo molto tempo, ho capito che è solo un atto mediatico utile per testimoniare la esistenza di una volontà che si è trasformata in atti concreti solo con la Legge Obiettivo, dopo, invece, è rimasta solo una dichiarazione di buone intenzioni.

Pochi mesi fa ho fatto presente, in alcune mie note, che forse l’attuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) possono essere invece una prima misurabile occasione per uscire da questo equivoco e, soprattutto, un simile approccio ci farebbe scoprire che sarebbe necessario disporre per azioni infrastrutturali e servizi al Sud pari ad un valore di circa 14 miliardi di euro all’anno per un arco temporale di almeno dieci anni.

In realtà, quindi, la misura di un vero cambiamento dell’azione del  Governo nei confronti del Mezzogiorno non dovremmo più misurarla solo con queste percentuali inutili sul valore globale degli investimenti ma dovremmo convincerci, una volta per tutte, che l’unico modo per tentare di abbattere il gap del Sud nei confronti del Centro Nord, l’unico modo per evitare che il reddito pro capite medio si attesti sempre su un valore di 21 mila euro contro i 40 mila del Nord, l’unico modo per riconoscere al Mezzogiorno il suo ruolo chiave nel contesto nazionale e comunitario, l’unico modo per non rimanere, all’interno della Unione Europea, insieme alla Germania dell’Est la realtà economica incapace di crescere, l’unico modo è solo legato ad una azione organica nella omogenizzazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni.

Una azione che deve essere caratterizzata da iniziative non solo infrastrutturali ma anche in interventi capillari sulla miriade di servizi offerti: da quelli sul trasporto pubblico locale a quelli relativi alla offerta dei servizi sanitari e scolastici, ecc.

Ed allora, non avendo trovato risorse in conto capitale nel Disegno di Legge di Stabilità 2025 ho cercato quante risorse fossero state previste per l’attuazione dei Lep e non ho trovato alcuna risorsa e questa dimenticanza mi ha davvero preoccupato.

Addirittura ho pensato che il Governo speri, il prossimo 12 novembre, in una bocciatura, da parte della Consulta, della Legge n.86 del 26 giugno 2024 relativa all’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione. Sì è l’unico modo per evitare che una norma aggravi ulteriormente le sorti del Sud soprattutto perché, non disponendo il Governo di risorse, provocherebbe solo un rischioso conflitto non solo tra le Regioni del Sud e quelle del resto del Paese ma, addirittura, tra le stesse Regioni del Mezzogiorno. Mi spiace ma questo è uno dei primi passi falsi dell’attuale Governo. (ei)

INFRASTRUTTURE, CALABRIA LA REGIONE
CON PIÙ OPERE STRATEGICHE DA FARE

di ERCOLE INCALZA – Ho fatto un’attenta e capillare analisi su tutti gli interventi di natura infrastrutturale che vanno realizzati nelle varie Regioni del Paese nell’arco del prossimo quinquennio o, al massimo, decennio ed ho trovato che la Regione in cui è previsto il massimo numero di interventi, con la contestuale rilevante esigenza di risorse, è la Regione Calabria.

Vanno, infatti, realizzati i seguenti interventi: Il completamento e la messa in esercizio delle dighe presenti nella Regione (in Calabria ci sono 24 grandi dighe ma alcune non sono completate altre non sono adeguatamente utilizzate); La realizzazione dell’asse ferroviario ad alta velocità – alta capacità Battipaglia – Reggio Calabria; La riqualificazione funzionale dell’asse ferroviario jonico per renderlo omogeneo alla rete nazionale (le caratteristiche attuali sono davvero pessime); La realizzazione del Ponte sullo Stretto; La realizzazione del completamento integrale della strada statale 106 Jonica; La realizzazione di un impianto retroportuale del porto di Gioia Tauro; La realizzazione di un sistema integrato di impianti interportuali con nodi chiave a Corigliano e Castrovillari; La riqualificazione funzionale degli aeroporti e dei relativi accessi di Crotone, Lamezia e Reggio Calabria; La rivisitazione, di intesa con la Regione Basilicata, delle via di accesso e degli impianti interni al Parco nazionale del Pollino.

Di questo rilevante elenco di esigenze allo stato sono disponibili solo le risorse destinate alla realizzazione del Ponte sullo Stretto, una quota di 2,2 miliardi per un tratto, non in Calabria, della Battipaglia – Reggio (la tratta Battipaglia – Romagnano) e 3 miliardi per un ulteriore tratto della Strada Statale 106 Jonica. Invece, effettuando un’analisi dettagliata delle reali esigenze legate ai nove atti strategici prima riportati scopriamo che il valore globale si attesta su un importo di circa 62 miliardi di euro; occorrono, ripeto, 62 miliardi di euro altrimenti continuiamo ad inseguire disegni teorici che, al massimo, arricchiranno i programmi dell’attuale e delle prossime Legislature. Continueranno questi elenchi a far parte di quegli interventi che assicurano, da sempre, sistematicamente il rispetto teorico (ripeto teorico) della soglia del 30% della quota nazionale da assegnare ad interventi nel Mezzogiorno, (una quota che soprattutto nell’ultimo decennio non ha mai superato il 7% – 8%).

La prossima Legge di Stabilità, a differenza delle precedenti, avrà un arco programmatico non limitato a tre anni ma a cinque anni e, quindi, a mio avviso deve essere leggibile sin dal prossimo anno cosa concretamente sia possibile inserire nel quadro programmatico degli interventi da realizzare in Calabria.

Senza dubbio nel 2025 la Legge non potrà prevedere risorse sostanziali perché, purtroppo, in partenza già appesantita da due voci esose come il mantenimento del cuneo fiscale (15 miliardi di euro) e il contenimento del debito pubblico (12 miliardi di euro); cioè in partenza è una Legge di Stabilità praticamente difficilmente utilizzabile per altre finalità; tuttavia dovremmo poter leggere in tale strumento già tre cose: Quali possano essere le reali assegnazioni alla Regione Calabria per il prossimo quinquennio; Quali quote sia possibile ancora garantire, sempre alla Regione, attraverso l’utilizzo di Fondi comunitari; Quali risorse sia possibile attrarre ricorrendo a forme innovative di Partenariato Pubblico Privato

Il Presidente Occhiuto sin dal suo insediamento ha rivendicato, in modo trasparente, la esigenza di concretezza delle azioni dell’organo centrale nei confronti della Calabria, lo ha fatto confrontandosi sistematicamente con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e con Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, lo ha fatto con l’Anas e con le Ferrovie dello Stato e non posso non riconoscere ad Occhiuto la richiesta formale al Governo di destinare davvero risorse per il Ponte, di destinare davvero risorse per dare continuità alla Strada Statale 106 Jonica, ecc.

Oggi però siamo di fronte ad uno che definisco “anno cerniera” tra un biennio dell’attuale Governo legato al PNRR e che ha lasciato poco alla Regione Calabria ed un prossimo triennio, quello di fine Legislatura, in cui definire, in modo chiaro, un misurabile assetto programmatico.

La Regione Calabria dei nove punti da me riportati in precedenza dispone (almeno lo spero), in modo dettagliato, delle azioni, delle esigenze finanziare e dei empi necessari per dare ad ognuno di loro i crismi della concretezza; in realtà la Regione è in grado di produrre dettagliati Piani Economici Finanziari di ogni intervento utili per poter dare vita a forme di Partenariato Pubblico Privato.

Speriamo che questo “anno cerniera” diventi, lo ripeto fino alla noia, concreto. La Regione Calabria lo merita. (ei)

IL LAVORO IN CALABRIA E AL MEZZOGIORNO
COSTERÀ DI PIÙ PER I TAGLI A FINANZIARIA

di PABLO PETRASSO – Il lavoro in Calabria costerà di più: la manovra del governo stoppa – su input dell’Unione europea – la decontribuzione Sud. Un bel risparmio che il Mezzogiorno rischia di pagare in termini di occupazione.

Non si tratta solo di una revisione della spesa. Oltre ai tagli lineari ai ministeri e ai definanziamenti come quello che colpisce il fondo per l’automotive, il disegno di legge di Bilancio per il 2025 recupera risorse anche eliminando la decontribuzione Sud, l’esonero contributivo del 30% introdotto durante la pandemia per i datori di lavoro situati in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Questo aiuto era valido non solo per le nuove assunzioni ma anche per i lavoratori già in forza.

L’agevolazione, che Giorgia Meloni aveva dichiarato di voler rendere “strutturale”, sarà abolita dal 2025 perché Bruxelles non ha rinnovato l’autorizzazione al maxi aiuto di Stato. Il ministro Raffaele Fitto aveva promesso che Roma avrebbe introdotto “misure analoghe”, ma la nuova agevolazione prevista nella manovra ha un costo molto inferiore.

Indipendentemente dall’efficacia di quell’incentivo, discutibile dato che più della metà degli sgravi è stata utilizzata per incentivare assunzioni a termine e stagionali, spesso part-time, si tratta di un’operazione di taglio mascherato che – secondo le letture più critiche – il governo avrebbe fatto passare sotto silenzio. Anche perché la conferenza stampa di Giorgia Meloni per illustrare la finanziaria e rispondere alle domande dei giornalisti, annunciata da Giancarlo Giorgetti per il 21 ottobre, non si è mai tenuta, senza che Palazzo Chigi abbia fornito spiegazioni.

Il taglio emerge chiaramente dalla memoria depositata alla Camera dall’Ufficio parlamentare di bilancio durante l’audizione sul disegno di legge. «Le spese si riducono soprattutto per effetto del definanziamento della cosiddetta decontribuzione Sud, pur tenendo conto della contestuale istituzione di un fondo per interventi volti a mitigare il divario nell’occupazione e nello sviluppo dell’attività imprenditoriale nelle aree svantaggiate del Paese e della proroga per il 2025 del credito di imposta Zes», scrive l’organismo indipendente commentando le misure dedicate alle imprese.

All’agevolazione nata nel 2020 erano destinati, ricorda l’Upb, 5,9 miliardi nel 2025, 3 miliardi nel 2026 e 4,4 miliardi nel 2027, per un totale di 13,3 miliardi nel prossimo triennio. Il nuovo Fondo destinato a finanziare politiche per il Mezzogiorno, che potrà concedere agevolazioni per l’acquisizione di beni strumentali da parte delle aziende del Sud, avrà invece “solo” 2,45 miliardi per l’anno prossimo, 1 miliardo nel 2026 e 3,4 miliardi nel 2027: in totale 6,85 miliardi, poco più della metà. Sommando gli 1,6 miliardi del credito di imposta per la Zona economica speciale per il Mezzogiorno si arriva a 8,45 miliardi: quasi 5 miliardi in meno rispetto alla dotazione della Decontribuzione. Questi fondi vengono utilizzati per coprire altre spese previste nella manovra.

A bocciare questo approccio è il capogruppo del M5S in decima commissione Senato Orfeo Mazzella: «Questa decisione, che penalizza le regioni del Mezzogiorno, rappresenta un grave passo indietro per lo sviluppo economico delle aree già fragili. Pertanto, reputo fondamentale che il Governo ripristini misure adeguate di sostegno al Meridione: voltarsi dall’altra parte vuol dire continuare a incrementare il gap Nord-Sud». (pp)

[Courtesy LaCNews24]

ASILI NIDO, IL SUD PENALIZZATO DI NUOVO
SOLO AL 15% SARÀ GARANTITO UN DIRITTO

di MASSIMO MASTRUZZOEra il 2001 quando la Commissione Bicamerale sul federalismo fiscale, con un trucco contabile, approvava tabelle che assegnavano zero agli asili nido nei Comuni del Mezzogiorno.

Invece di calcolare le esigenze della popolazione, i tecnici della Sose (società del ministero del Tesoro) e quelli della Copaff (Commissione paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale), fecero valere il principio della spesa storica e non quello dei fabbisogni standard, sottraendo di fatto 700 milioni di euro ogni anno ai Municipi del Sud, per distribuirli a quelli del Centro-Nord.

Un trucco contabile che permetteva di assegnare più servizi a chi in passato godeva già di maggiori risorse dallo Stato; viceversa assegnava meno a chi già meno aveva, dal momento che non si era calcolato il numero dei bambini residenti, ma il numero di asili nido, che si dà il caso in città come Catanzaro, Giugliano, Pozzuoli, Casoria, Portici, San Giorgio a Cremano ed Ercolano, non erano sono mai esistiti.

Negli ultimi 23 anni (e tralascio la recente vicenda dei vaccini per la cura della bronchiolite, prima negati e poi gentilmente concessi anche ai bambini di Puglia, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia) i presidenti del consiglio hanno perso il pelo ma non il vizio di arredare futilmente le corde vocali con frasi piene di cifre e di investimenti per il Sud: Prodi, 2007 “Piano straordinario per il Sud…”; Berlusconi, 2010″Piano straordinario per il Sud…”; Renzi, 2015″Piano straordinario per il Sud…”.

Il Sud è sempre stato oggetto e mai soggetto delle politiche nazionali, altra spiegazione non la trovo rispetto allo status quo e a quanto invece previsto dalle politiche di coesione economica, sociale e territoriale che avrebbero dovuto ridurre le disparità, oltre che promuovere in generale uno sviluppo territoriale più equilibrato e sostenibile.

Non a caso, giusto per non smentire oltre un secolo di politiche che hanno di fatto contribuito puntualmente ad allargare la forbice della disomogeneità territoriale, il governo Meloni ha appena preso una decisione che segna uno spartiacque nella gestione delle politiche sociali per la prima infanzia scegliendo di abbassare i livelli essenziali di prestazione (Lep) per l’accesso agli asili nido.

Fino a oggi l’obiettivo fissato dall’Unione Europea e dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) era chiaro: garantire un posto in asilo nido ad almeno il 33% dei bambini sotto i tre anni, il nuovo Piano Strutturale di Bilancio di medio termine 2025-2029, il Governo ha stabilito che a livello regionale sarà sufficiente raggiungere una soglia del 15% dei posti disponibili per i bambini sotto i tre anni. La discrepanza è evidente: mentre a livello nazionale rimane valido l’obiettivo del 33%, nelle regioni del Sud, dove il gap di offerta è già drammaticamente evidente, il governo riduce ulteriormente le aspettative. Il diritto di accesso ai servizi per l’infanzia, anziché essere una conquista per tutti, diventa una questione geografica. Chi nasce al Sud, quindi, dovrà accontentarsi di molto meno. In barba all’articolo 3 della costituzione, si tratta di un vero e proprio abbandono di un principio di uguaglianza sociale che, onde evitare inutili illusioni, nel Mezzogiorno si inizia a far praticare fin dalla tenera età. 

Queste sottrazioni di diritti costituzionali fatte passare, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, come sfumature ininfluenti, rappresentano in realtà il vergognoso apostrofo grigio tra il Nord e il Sud di questo Paese. Gli zero asili nido al Sud, il mancato tempo pieno nelle scuole del Sud, il diritto alla mobilità negato da infrastrutture e trasporti non adeguati agli standard nazionale ed europei, l’ininterrotta emigrazione, i Lep, questa benedetta autonomia che rappresenta il capriccio delle regioni più ricche, seppur si voglia far passare l’idea di un’opportunità per il Sud, dovrebbero rappresentare il nucleo centrale del dibattito politico con l’obiettivo del bene comune nazionale ed invece rimangono sotto il tappeto dell’ipocrisia che ancora oggi si chiama Questione Meridionale. 

Viceversa osserviamo un modello di sviluppo nazionale che oggi vede la Lombardia con 10 milioni di abitanti e con Milano che entro 2030 rischia di essere tra le città più inquinate d’Europa e al contempo la Calabria a rischio desertificazione umana e industriale. 

L’Italia, dove all’interno dei suoi confini nazionali persistono realtà di disomogeneità territoriali uniche nella Ue, sembra ormai il plastico di quel accentramento di ricchezza che rappresenta la deformazione morale del capitalismo mondiale. 

Tutto questo non è più politicamente concepibile, il resto sono chiacchiere e tabaccheri di ligno. (mm)

[Massimo Mastruzzo è del direttivo nazionale Met – Movimento Equità Territoriale]

BENVENUTI AL NORD: LAVORO, IL GOVERNO
PREMIA E INCENTIVA CHI SE NE VA DAL SUD

di SANTO STRATI – Benvenuti al Nord! L’ultima genialata del Governo Meloni, all’interno della Finanziaria, è un fringe benefit (un’incentivazione, diciamo meglio) per i nuovi assunti nel 2025 che trasferiranno, per lavorare, la propria residenza “oltre il raggio di 100 km da quella di origine”.

Detto in soldoni, è un premio a chi emigra (riguarda tutti, senza limiti di età, se il reddito non supera i 35mila euro), ovvero un invito bello netto a lasciare il Sud. Ma come? Si sono spesi fiumi d’inchiostro per scrivere e parlare di “fuga di cervelli” e questo Governo anziché incrementare le opportunità di occupazione nel Mezzogiorno, contribuisce (da 100 “incredibile” bonus (da 1000 a 5000 euro) servirà a convincere anche i più riluttanti a fare le valigie e andare al Nord (dove sennò?).

Questo Governo – nonostante le belle parole, le promesse e le migliori intenzioni – non ama il Sud, non ama il Mezzogiorno, pur continuando a essere tutto il Sud un serbatoio formidabile di voti.

Non ama il Mezzogiorno perché con la politica di tagli alle risorse è evidente che va a colpire le regioni più svantaggiate e più esposte alla crisi economica che mangia il valore di acquisto dei salari scarsi e inadeguati che caratterizzano l’occupazione meridionale.

Tutta la finanziaria – lacrime e sangue, checché ne dica il buon Giorgetti – non fa che esasperare il divario esistente tra le opportunità di crescita (sempre di meno) per tutto il Mezzogiorno e la “ripresina” al Nord. E la postilla ingegnata per iincentivare a fare le valigie non è che l’ultima beffa ai nostri giovani laureati che continuano a emigrare, portandosi spesso, a seguire, i familiari, unica chance per sopravvivere e pensare di poter costruire una famiglia: chi terrebbe i bambini? I genitori o i nonni che vengono dal Sud, ovvio. Già i costi degli affitti sono improponibili, figurarsi poi se si deve pagare una baby sitter…

Ai nostri giovani – l’ho scritto, ahimè, molte volte – abbiamo rubato il futuro e la nuova classe politica e dirigente (stendiamo qui un velo pietoso) sta concludendo l’opera.

Negli ultimi vent’anni sono andati via dal Sud oltre un milione di residenti (1.100.000 per l’esattezza, ci dice la Svimez). Ed è facile immaginare l’età di chi è andato via (uno su due – secondo la Svimez è laureato). Il motivo della fuga dei cervelli è fin troppo evidente: le famiglie calabresi – tanto per puntualizzare meglio il problema – spendono per la formazione e l’istruzione universitaria dei propri ragazzi in Atenei nella Regione che ormai si avviano a sfiorare molto frequentemente l’eccellenza.

I dati ci dicono che in Calabria ci sono magnifiche Università che preparano adeguatamente i nostri laureati, ma poi vengono a mancare le opportunità di occupazione, di formazione e crescita professionale. Così, i furbastri industriali del Nord (ma anche del resto del mondo) si prendono “a gratis” i laureati che faranno la fortuna delle proprie aziende.

Non a caso, parlando nelle scuole calabresi, con i ragazzi delle ultime classi, a proposito dell’evidente sconforto sul futuro, ho toccato con mano una incontrovertibile logica: “vado a studiare fuori, così prim’ancora della laurea trovo opportunità di lavoro. Perché dovrei studiare in Calabria se poi me ne devo andare a Milano, a Torino, o in qualsiasi altro posto dove valorizzano i giovani e curano il loro perfezionamento nella formazione?”.

Non fa una piega, ma – evidentemente – in Regione dove pure si stanno attuando nuove politiche sul lavoro, non si pensa di creare opportunità di impiego favorendo aziende che creano occupazione. E i bandi che già sono attivi, sono il trionfo della burocrazia più ottusa, visto che non tengono in minima considerazione la qualità dell’idea da realizzare  (il cosiddetto autoimpiego) nè guardano alle prospettive della crescita futura. Tanto per restare in tema, ci sono centinaia di progetti di giovani aspiranti imprenditori (quasi tutti con laurea e tanto entusiasmo) che vengono bocciati perché mancano le cosiddette “garanzie” finanziarie. Quelle che dovrebbero coprire questo vuoto non piacciono alle banche e il giro – dopo mesi di esasperante attesa – finisce in un nulla di fatto.

Andrebbero valutati prima di tutti gli effetti occupazionali di un’idea di impresa (nel caso dei progetti) oppure prevedere premialità importanti per le aziende che assumono.

Il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, calabrese di Pazzano, aveva lanciato qualche tempo fa un principio basilare per il rilancio dell’economia del Sud: la decontribuzione per le aziende, ovvero l’abbattimento degli oneri sociali per chi favorisce e crea occupazione. La manovra di Governo addirittura conferma il taglio della decontribuzione al Sud (già in vigore dallo scorso giugno).

Per quale ragione un’azienda dovrebbe incrementare l’occupazione (e magari attuare percorsi formativi di specializzazione) se non viene motivata adeguatamente?

C’è evidentemente un corto circuito tra paese legale e paese reale: i nostri governanti vivono probabilmente un’altra dimensione e – pur capendo che non ci sono i soldi (che si potrebbero recuperare da una seria lotta all’evasione) – non si rendono conto di quanto sia diventato arduo affrontare la giornata per qualsiasi famiglia del ceto medio. Ecco, la finanziaria – che non piace a nessuno, non soltanto ai calabresi – ha cancellato il ceto medio, distribuendo elemosine a professionisti (17 euro di aumento ai medici, 7 agli infermieri) e mortificando ulteriormente i poveri (nel senso vero della parola) titolari di pensioni sociali minime: un bell’aumento di 10 centesimi (ripeto 10 centesimi) al giorno  e torna l’allegria…

Ci sarà lotta, sicuro, in Parlamento ma è l’impianto generale della manovra che non funziona. Da un lato il nuovo presidente di Confindustria Emanuele Orsini, la scorsa settimana a Cosenza, rilancia sul ruolo del Mezzogiorno per il traino dell’economia, dall’altra il Governo si inventa gli incentivi all’emigrazione dei cervelli (ormai gli operai e la manodopera non emigrano più).

Eppure ci sarebbe una strada praticabile per ridare il sorriso ai ragazzi calabresi (ma anche a tutti quelli che vivono al Sud) incentivando le aziende del Nord (escluse ovviamente quelle manifatturiere che hanno bisogno della presenza fisica del lavoratore) ad attuare programmi di south smartworking: i giovani lavorerebbero da casa (e non è vero che il lavoro da remoto è poco produttivo, tutt’altro), continuando a vivere in famiglia e mantenendo gli affetti, avrebbero un’occupazione stabile e posizioni che possono crescere.

Qualcuno ha detto che al Sud i giovani stanno al mare e in remoto lavorano poco: un’eresia che puzza di razzismo. Lo stesso che ancora incontrano – per fortuna sempre di meno – i nostri ragazzi che tentano la fortuna al Nord, sfidando pregiudizi e preconcetti e mostrando, in breve tempo, talento e capacità che farebbero la fortuna della nostra Calabria. (s)