Allarme del procuratore Gratteri sulle ingerenze della mafia negli aiuti alle imprese

Lancia l’allarme il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri sulle possibili ingerenze della mafia nella gestione degli aiuti a famiglie e imprese. Lo ha fatto collegato in teleconferenza con l’Università La Sapienza di Roma.

Il procuratore indica i rischi del decreto liquidità che potrà portare vantaggi alle mafie che «sono sempre presenti dove c’è da gestire denaro e potere». Vedo – ha detto Gratteri – «la mafia che oggi si muove su due direttrici. Una riguarda il popolo. I capimafia sentono le responsabilità il peso delle persone che vivono nel loro territorio. Il comune è casa loro, tutto ciò che succede li riguarda: il lavoro nero, per  esempio, è sistematico da generazioni. Ci sono famiglie che campano con 30 euro al giorno ed è grasso che cola quando trovano un imprenditore (a volte pagato da loro) che gli firma tot giornate di lavoro agricolo per poi accedere a mesi malattia o disoccupazione. Oggi questa gente non ha più quei 30 euro perché non può andare a lavorare (in nero) nei campi o nei ristoranti che sono chiusi. A loro il capomafia appare come un benefattore, perché magari dà qualche centinaio di euro o distribuisce pacchi di generi alimentari alle famiglie. E questo è il soggetto che è arrivato prima del sindaco, prima della Regione, prima dello Stato: è a lui che si rivolgeranno, è lui l’interlocutore, e la gente si ricorderà di questo “benefattore” quando sarà l’ora di votare, questa gente voterà per il candidato prescelto dal capomafia.

«Quindi, se questi soldi non arriveranno presto ai comuni indietreggeremo di anni sul piano del consenso popolare, sul piano dell’opinione pubblica, nei confronti dello Stato inteso in senso lato, ma attenzione. Per non fare la fine di quello che è accaduto con il reddito di cittadinanza, io ho proposto all’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia: mandate questi elenchi alla prefettura che li divide, li distribuisce a polizia, carabinieri e finanza per fare una selezione, per fare un controllo perché andremmo a premiare gli evasori totali, come è successo col reddito di cittadinanza.

«Abbiamo fatto con l’Anci anche incontri con le prefetture via skype: hanno aderito a questa mia proposta, ma alcuni sindaci no. Perché interagire con il comune sarebbe in violazione con la Costituzione interagire, interferire sul comuni, come se ci fosse una sorta di commissariamento. Io penso che un sindaco perbene e onesto ha tutto l’interesse a che questi soldi, pochi o assai che siano, arrivino nelle mani di persone che hanno veramente bisogno. Poi se vogliamo fare filosofia, se vogliamo fare i soliti discorsi demagogici, facciamoli pure e andiamo avanti con la solita ipocrisia di sempre,

«Poi c’è l’altro aspetto che riguarda l’usura. Secondo le previsioni, le ultime attività che riapriranno e riapriranno in modo parziale e al 50 % sarà la parte che riguarda la ristorazione, alberghi, ristoranti, pizzerie. E quindi in un ristorante di Roma dove prima entravano 60 persone ora ne entreranno trenta, in base al fatto che fino a quando non si troverà il vaccino – si stima tra un anno – dove erano seduti quattro ce ne dovranno stare due. E quindi aumenteranno i costi. Ma siccome si prevede che non prima del 30 maggio si possa cominciare a parlare di una reale, parziale, riapertura, si tratta di tempi lunghi per un’attività commerciale imprenditoriale». Vedere il video:

 

La Ndrangheta nelle ultime elezioni regionali?
Già “condannati” dai media i politici sott’accusa

di SANTO STRATI – Non si è ancora insediato il Consiglio regionale della Calabria e già cominciano le “assenze” forzate: gli arresti domiciliari che la Direzione Distrettuale Antimafia ha disposto per il neoconsigliere regionale Domenico Creazzo, di fatto, impediranno all’ex vicepresidente del Parco d’Aspromonte nonché sindaco (da oggi ex) di Sant’Eufemia d’Aspromonte di entrare a Palazzo Campanella. Entrare fisicamente, ovviamente, perché al momento l’accusa – pesantissima – di associazione mafiosa e scambio elettorale politico-mafioso non annulla il suo status di consigliere regionale. Una situazione che ricorda la dimora coatta inflitta al presidente Mario Oliverio che gli impedì per alcuni mesi di essere presente sia in Consiglio regionale che nel Palazzo della Giunta. Un provvedimento ai limiti della costituzionalità di cui non si parlava più fino ad oggi.

L’operazione coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri ha provocato 65 arresti, di cui 53 in carcere e 12 ai domiciliari, tra capi e gregari e il coinvolgimento di due politici molto conosciuti, con l’obiettivo di decimare la cosca Alvaro di Sinopoli. Un plauso senza riserve, come per tutte le iniziative giudiziarie contro la mafia e il malaffare. Però, l’arresto del neoconsigliere regionale Creazzo (8.033 voti il 26 gennaio scorso) e la clamorosa richiesta avanzata al Senato di autorizzare l’arresto del senatore villese Marco Siclari (eletto nel 2018 con 181.849 voti) per l’ipotesi di reato di scambio elettorale politico-mafioso, hanno reso l’inchiesta ancora più eclatante, con una risposta mediatica straordinaria. Che il pm Bombardieri – persona pacata e non in cerca di visibilità – probabilmente non cercava. I media sono invece alla ricerca della spettacolarizzazione continua, con buona pace della presunzione d’innocenza, e frullano tutto, senza alcun rispetto per le persone coinvolte. È il caso di domandarsi se il progresso dell’informazione (ormai immediata attraverso il web) debba passare per il trionfo dell’inciviltà, se il cinismo della cronaca debba prevalere sulla dignità degli accusati (su cui ancora non c’è un giudizio penale).

Premesso il massimo rispetto dovuto nei confronti di chi combatte tutti i giorni contro la ‘ndrangheta, il cancro più invincibile di questa terra, e che sulla legalità non ci possono essere né se né ma, qualche perplessità risulta, dunque, legittima sulla gogna mediatica cui vengono sottoposti gli indagati, già “condannati” dai magistrati inquirenti prima ancora di comparire davanti a un magistrato giudicante e prim’ancora che sia stata emessa una qualsiasi sentenza. I pm fanno il loro mestiere che è quello di condurre le indagini e sostenere la pubblica accusa, ma la reputazione di una persona perbene – non importa chi essa sia, semplice e anonimo cittadino, o rappresentante delle istituzioni – non può essere calpestata in questo modo dalla stampa e tv che infangano e “condannano” a priori chiunque vada sott’accusa. Non tocca alla stampa giudicare, quello è lavoro per i giudici, ma prima che ci sia una condanna la nostra Costituzione vuole che prevalga la presunzione d’innocenza.

Risulterà vero e dimostrato un ignobile scambio di voti col placet di una cosca mafiosa? Ben venga una condanna pesantissima ed esemplare, ma che ci sia una condanna. I processi non si fanno sui giornali o in tv e allo stesso modo non si presentano gli accusati – fatta salva l’eventuale flagranza del reato – come i “mostri” da sbattere in prima pagina. La storia degli ultimi 50 anni avrebbe dovuto insegnare qualcosa: ricordate il caso Tortora? molti giornali lo condannarono già dalla prima ignobile foto con i ferri ai polsi. Invece continua a crescere un’ansia giustizialista che mal si concilia col dettato costituzionale e i media, spesso, ci sguazzano dentro, pur con qualche eccezione. Basta guardare i titoli di qualche testata nazionale o di molte testate on line dedicati a questa vicenda che assegnano ai politici coinvolti la patente di mafiosità, senza alcuna riserva.

Giornali e tv, in gran parte, dimostrano infatti di cavalcare le motivazioni dei magistrati inquirenti “condannando” nei titoli gli indagati della procura antimafia. Esiste una notizia criminis e c’è un’indagine, ci sono arresti (i reati mafiosi non prevedono l’avviso di garanzia) e ci sono personaggi di conclamata personalità mafiosa. La notizia va data ovviamente con la dovuta evidenza senza nascondere nulla. Calabria.live non si occupa di cronaca nera o giudiziaria, quindi non troverete altri servizi sull’argomento, se non queste note contro il pessimo lavoro di gran parte dei media. Va informato giustamente e adeguatamente il lettore/spettatore/navigatore, però risulta prevalere sempre più di frequente il clamore e il sensazionalismo da sparare in prima pagina e chi se ne frega di mogli, figli, genitori che improvvisamente si ritrovano con la consapevolezza che niente sarà più come prima. Almeno ci fosse una giustizia veloce a condannare se colpevoli o assolvere se non colpevoli, invece ci sono tempi lunghi, lunghissimi e le esigenze di custodia cautelare (spesso legittime, qualche volta immotivate) servono solo a rovinare delle vite, indipendentemente se ci sia stato il reato o meno, se si è colpevoli o non colpevoli, se si è attori protagonisti o inconsapevoli comparse di un meccanismo giudiziario che prima stritola e poi non chiede nemmeno scusa.

La politica, purtroppo, continua non decidere di fare l’opportuna e adeguata operazione di pulizia nelle liste dei candidati, lasciando poi alla magistratura il compito di “stanare” le mele marce. E se poi qualcuno degli indagati, alla fine di un giudizio che non sarà rapido né immediato, dovesse risultare estraneo, ovvero “innocente” (o come recita il verdetto “non colpevole”), chi gli ridarà l’onore per la perduta reputazione? «La politica – ha fatto notare il consigliere regionale Pippo Callipo – deve svegliarsi e arrivare prima della magistratura: liberare le istituzioni dai tentacoli di ‘ndranghetisti e affaristi deve essere la madre di tutte le battaglie. La politica non può continuare a fare finta di niente. Lo abbiamo detto più volte in campagna elettorale: non si può essere disposti a tutto per vincere, è necessario che chi si candida ad amministrare la cosa pubblica faccia pulizia senza aspettare che arrivino le inchieste giudiziarie. Vigilare sulla composizione delle liste è possibile». Si dichiara garantista la neopresidente Jole Santelli: «La magistratura fa il suo lavoro e la politica non può che prenderne atto. Per quanto mi riguarda, sono garantista: ritengo che occorra estrema prudenza e, soprattutto, sia sempre necessario evitare condanne preventive. La lotta alla criminalità organizzata è una priorità nella nostra terra: bisogna evitare di sovrapporre i campi per non incorrere in strumentalizzazioni».

Non entriamo nel merito dell’inchiesta Eyphemos, non è mestiere nostro, ma un’accusa, ancor più infamante come quella di collusioni mafiose, dovrebbe basarsi su dati oggettivi (ci sarebbero molte inquietanti intercettazioni) e prove che, in questo caso, secondo molti giuristi, non nascondono problemi di dubbia costituzionalità: il voto è segreto, come si fa a stabilire che tot elettori hanno eseguito alla lettera l’ordine del mafioso di votare un candidato piuttosto che un altro? Come vengono contati o indicati i voti di scambio espressi in segreto all’interno di una cabina elettorale? Basandosi solo sulle percentuali dei consensi raccolti? La legge nell’accentuare le linee altamente punitive della norma precedente non ha dato risposte in questo senso.

Il reato di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416 ter del Codice penale) è stato sostanzialmente modificato con la legge 21 maggio 2019 n. 43, entrata in vigore l’11 giugno dello scorso anno. Recita la nuova formulazione: «Chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis o mediante le  modalità  di  cui  al  terzo comma  dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa è punito con la pena stabilita nel primo comma dell’articolo 416-bis.

La stessa pena si applica a chi promette, direttamente o a mezzo di intermediari, di procurare voti nei casi di cui al primo comma.

Se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale, si applica la pena prevista dal primo comma dell’articolo 416-bis aumentata della metà. [si arriva a 22 anni, ndr]

In caso di condanna per  i  reati  di  cui  al  presente  articolo consegue sempre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici».

Probabilmente in tanti non conoscevano l’esatta formulazione del reato contestato ai due politici, su uno dei quali l’aula del Senato dovrà valutare l’eventuale fumus persecutionis. Se avete letto i tre commi che abbiamo riportato qualche riga su avrete le idee più chiare. O forse no.  (s)

 

Sull’insegnamento di don Italo Calabrò, una legge tuteli i figli dei mafiosi

Ricordando l’insegnamento dell’indimenticabile don Italo Calabrò che chiedeva ai mafiosi “se non potete uscirne voi, fate almeno in modo che i vostri figli non vi entrino”, Mario Nasone del Centro Agape di Reggio e don Ennio Stamile referente regionale di Libera lanciano un appello perché ci sia l’impegno per una legge nazionale che favorisca il dialogo tra magistratura e associazioni e le carceri di massima sicurezza, per aiutare i detenuti per mafia a una revisione critica della loro vita pensando al futuro dei propri figli. Il progetto Liberi di scegliere lascia ai figli dei mafiosi la possibilità di fare esperienze in contesti sociali diversi sia fuori della Calabria, sia restando nel territorio.

«Vi ringrazio perché vi siete presi cura di mia figlia”: questa frase pronunciata durante l’incontro promosso da un  detenuto ristretto della casa circondariale in regime di 41 bis sintetizza meglio di ogni altera parola il senso del  messaggio “Uscire dalla ndrangheta è possibile” che  Centro Comunitario Agape e associazione Libera hanno voluto portare  attraverso una serie di iniziative realizzate in luoghi simbolo  del territorio reggino, oltre il  carcere di Palmi, il quartiere di Archi, il carcere minorile, quattro scuole della città di Reggio aderenti alla rete delle Alleanze Educative, il Piria, il Volta, il Fermi Boccioni, il Panella. Sono stati circa 600 gli studenti coinvolti, una trentina i minori delle comunità incontrate, un centinaio gli educatori e le famiglie dell’Agesci di Archi carmine.

L’evento realizzato nell’istituto penitenziario era il quarto dopo quelli tenuti lo scorso anno nelle carceri di Reggio, Locri, Vibo  e si è caratterizzato per la presenza di due significativi testimoni, Giosuè D’Agostino seguito negli anni 80 da don Italo Calabrò e da Agape nel percorso di riscatto che lo ha portato dal carcere minorile alla rottura con il clan di ‘ndrangheta a cui apparteneva a vivere una vita diversa nel segno della legalità  Rivolgendosi ai detenuti ha chiesto di abbandonare gli alibi sulle responsabilità dello Stato o di altri e di decidere come ha fatto lui di scegliere una vita che ti dà dignità, che ti evita di passare la vita tra una carcerazione all’altra o addirittura di perderla. Assieme ad esso Vincenzo Chindamo fratello di Maria  sequestrata ed uccisa a Limbadi che ha detto che questa è stata una  occasione per dare voce, davanti ai detenuti dell’alta sicurezza, alle tante vittime della ‘ndrangheta ma anche a chi è riuscito a uscirne facendo scelte coraggiose e a  invertire un destino mafioso che sembrava inevitabile.

I detenuti intervenuti, che si sono preparati all’incontro prendendo visione del film Liberi di scegliere e con l’incontro con Mimmo Nasone,  hanno ascoltato con attenzione e rispetto  loro testimonianze e attraverso i loro interventi hanno dimostrato di essere disponibili ad avviare un dialogo con le istituzioni e con gli altri soggetti della società civile soprattutto per i riflessi che questo può avere sulla loro famiglia e sui figli, hanno dato atto al Tribunale per i minorenni della volontà di tutelare i loro figli,   ma hanno anche chiesto un servizio giustizia e dei processi più veloci  e soprattutto  opportunità concrete per chi ha sincera volontà di cambiare vita e di inserirsi nella società.Per il giudice minorile Sebastiano Finocchiaro, ribadendo l’importanza del programma Liberi di scegliere”,l’incontro  è stata un’occasione di confronto e dialogo con soggetti direttamente coinvolti nelle peculiari vicende attenzionate  dal locale Tribunale dei Minori nell’ambito dei procedimenti civili afferenti la tutela di minori provenienti da contesti familiari di ‘ndrangheta.

Oltre ad un momento di certo arricchimento umano e culturale a suo parere  tali occasioni possono offrire spunti per la personale revisione critica del pregresso operato da parte del condannato anche sotto il profilo del percorso genitoriale nell’ottica del perseguimento della risocializzazione e del proficuo reinserimento nella comunità civile. Anche secondo Vincenzo Chindamo «I detenuti hanno necessità di confronti qualificati, affinché dalle loro esperienze possa nascere la forza di conversione della nostra terra. I detenuti e le loro famiglie sono le prime vittime dei loro errori. È necessario accendere in loro la consapevolezza di chi e di cosa li ha resi prime vittime di un sistema ed illuminare la strada di scelte coraggiose che li riscattino. Uscire dalla criminalità è prestigioso. Fa strada al cammino difficile ma possibile che i nostri territori stanno affrontando donando orgoglio e speranza alla nascita di una nuova Calabria. Una Calabria Libera».

Contributi importanti sono venuti dal provveditore regionale della amministrazione penitenziaria Liberato Guerriero che ritiene fondamentale la funzione educativa che il carcere deve svolgere attraverso anche queste iniziative, Agostino Siviglia Garante regionale dei detenuti si impegnerà anche per favorire esperienze di giustizia riparativa e di incontro con le vittime dei reati, il procuratore aggiunto della Procura di Palmi Giuseppe Casciaro ha chiesto ai detenuti di riflettere sul significato del volere bene ai figli che è diverso dal volere il loro bene ma ha anche espresso rammarico per tutti quei casi in cui la giustizia è lenta o  peggio ancora quando lascia un innocente in carcere anche per un solo giorno. Il Direttore Antonio Galati nelle conclusioni ha evidenziato in particolare la sofferenza che vede quando i bambini entrano in carcere per i colloqui e che interpella le coscienze di tutti, in primis dei loro genitori detenuti che hanno la maggiore responsabilità. Apprezzamenti anche della Dirigente nazionale della Giustizia minorile Isabella Mastropasqua che ha sottolienato la grande valenza educativa di fare ascoltare ai ragazzi delle comunità l’esperienza di chi ce l’ha fatta ad uscire dalla ‘ndrangheta. (rrm)

PERSONE / Antonino De Masi, l’imprenditore che vuol liberare la Calabria

di SANTO STRATI

8 ottobre – È possibile fare impresa in Calabria, senza clientele e senza assistenzialismo? La risposta, concreta, viene da un imprenditore, Antonino De Masi, originario di Rizziconi, che da anni combatte senza esitazioni e convintamente la sua personale guerra contro la mafia e le consorterie mafiose che infestano il suo territorio, quello di Rosarno-Gioia Tauro e non solo. Davanti alla sua azienda, accanto al porto di Gioia Tauro sempre più intristito da un’attività che sembra ormai destinata a morire, stazionano perennemente i militari della scorta. Soldati in assetto di guerra, gli stessi che presidiano il suo ufficio. De Masi è un uomo sul cui capo la ‘ndrangheta ha emesso una sentenza di morte, tanti anni fa, peggio di una fatwa integralista. Colpire l’uomo per distruggere o almeno fermare le sue idee che rischiano di “turbare” i giovani e i meno giovani, troppo spesso tentati da sapide lusinghe della criminalità organizzata, eppure allo stesso modo certamente in grado di cogliere un messaggio che può colpire al cuore, e quindi, a mente fredda, ragionarci su, riflettere, reagire.

Così, nonostante le minacce, i colpi di kalashnikov contro i suoi capannoni, i continui “suggerimenti” alla cautela, De Masi è sempre al suo posto. Dirige un’azienda sana e continua a sfornare idee e progetti per riscattare il territorio, la Calabria, per offrire occasioni e opportunità di occupazione, di formazione, di specializzazione. Una missione da “eroi” – ma io non sono un eroe si schermisce De Masi – o da visionari di olivettiana memoria: De Masi è l’esempio migliore di imprenditore “illuminato”, di cui tanto ha bisogno questa terra. Non accetta però il termine: «non sono un imprenditore illuminato, sono un uomo che ama il lavoro e ama questa terra. Tutti mi suggeriscono di mollare questa non-vita e andare via. Una scelta che non mi può appartenere». Per lui parlano le sue battaglie contro le ‘ndrine, contro le banche, contro il malaffare. Ha vinto, a prezzo di rinunciare a una vita tranquilla, ma la Calabria ha estremo bisogno di personaggi come De Masi per cercare il suo riscatto. Deve essergli grata, anche se la storia calabrese è ricca di indifferenza e solitudine verso i suoi figli migliori. I calabresi, però, devono conoscere ed essere orgogliosi di questo imprenditore che è diventato un esempio da imitare. Un modello contro il malaffare e l’omertà, ma anche contro la rassegnazione. E contro tutti coloro – politici, affaristi, rapaci imprenditori – che ignorano cosa voglia dire bene comune e impediscono, per proprio tornaconto, benessere e sviluppo.
La conversazione con Antonino De Masi rivela, dunque, una figura di imprenditore che potrebbe davvero tracciare il solco su cui innestare i germogli di una crescita sempre vagheggiata ma non impossibile. Certo, prevalgono, allo stato attuale, l’insofferenza e l’amarezza che vengono dalla constatazione che la Calabria ha più problemi “spirituali” che materiali, provocati da una classe politica inetta e da un territorio sempre più scollato dalla realtà.
«Se si va ad analizzare – dice De Masi a Calabria.Live – l’evoluzione culturale o l’involuzione ci si rende conto che il tessuto calabrese ci è scappato dalle mani. Abbiamo perso l’orgoglio di essere calabresi. Questa cosa io la vedo guardandomi intorno e vedo l’assuefarsi alla normalità: normalmente siamo contenti come siamo. Siamo contenti di vedere la spazzatura in mezzo alla strada, siamo contenti di andare all’ospedale e non avere sanità, siamo contenti di avere le strade sgarrupate. Perché questi decenni passati ci hanno normalizzato, il brutto ormai ci appartiene. Non è un brutto solo oggettivo ma un brutto culturale. Questa cosa io non la sopporto. Non sopporto che una minoranza di calabresi abbiano ridotto questa terra a quello che è: una regione puzzolente, la chiamo io. Una terra bella, magnifica, fatta di persone magnifiche».
De Masi si lascia andare ai ricordi per spiegare il senso della sua “mission”. «Quando con mio papà giravamo per le campagne a vendere macchine agricole, andavamo nelle case della gente quando ancora non c’era l’energia elettrica, c’erano i lumi a illuminare le case nelle campagne. Si andava in quelle case dove c’era povertà, dove c’era disperazione, ma in quelle case appena qualcuno bussava a quelle porte trovava la gente che diceva una parola – in dialetto – “favuriti” – fa-vu-ri-ti -, favorite, venite con noi a dividere quello che abbiamo e quello che non abbiamo. Quindi un concetto di accoglienza spinto ai massimi livelli. Dov’è quella accoglienza? Dov’è quel sorriso? Dov’è quella gioia che i nostri concittadini, i nostri antenati, avevano? Ora c’è un “chi t’indi futti”, in maniera indecente e incredibile. Questa cosa a me non va bene, non va bene perché mi domando cosa posso fare io. Posso continuare a lamentarmi con me stesso di come ci siamo ridotti o chiedermi se ho un ruolo in una società civile. In questi anni io vengo descritto come un eroe, una cosa che mi dà fastidio più di tutti, questa cosa mi disturba molto… Non è creando dei miti, non è creando delle figure eccelse che si risolve il problema, il problema va risolto spiegando a tutti che abbiamo un dovere di essere cittadini. Il concetto dell’io, quello che “io” posso fare».
Già cosa possiamo fare, ognuno col proprio piccolo “io”, per cambiare la situazione, trasformare il territorio che “pensa”? «Io come imprenditore – dice De Masi – cosa posso fare? Posso “normalizzarmi” come mi dicono i miei colleghi “ma chi te la fa fare a vivere in queste condizioni, a vivere una vita non-vita”. “Ti conviene? Con quattro soldi risolvi il problema…”. Adeguarmi? Oppure… oppure girarmi le maniche e combattere. Quindi essere da sprone con quello che dico e quello che faccio, certo essere anche da esempio. Per dire “guardate, con tutto ciò che io vivo in queste condizioni, sono ancora qui”. L’importanza di dire “svegliatevi”, svegliamoci. Noi ci siamo assuefatti a una “normalità”, non lo so se è rassegnazione, ma è una brutta cosa».
De Masi imprenditore ha studiato una soluzione da public company con l’idea di coinvolgere e far partecipare i dipendenti. Un’idea di impresa che è un bene comune sul territorio: in questo modo la criminalità non può colpire un’azienda che appartiene anche al popolo. Un’idea che potrebbe essere vincente, soprattutto se abbinata al percorso di formazione che De Masi intende offrire ai giovani. Uno dei suoi brevetti più interessanti l’ha sviluppato un giovane ingegnere catanzarese (un forno industriale per pizza che non produce fumi tossici), tanti altri progetti industriali allo studio provengono da giovani calabresi. È un modo di guardare ai giovani e offrire opportunità, quelle che mancano in questa terra.
«Ho letto un dato recente: 26mila giovani sono andati via dalla Calabria. Quei 26mila ragazzi che hanno lasciato la Calabria io dico che li abbiamo messi noi cittadini come genitori su quei treni, su quegli aerei e spinti ad andar via. Io credo che attorno a quei ragazzi abbiamo fatto terra bruciata per non consentire loro di restare qui. Oggi questo deserto, queste condizioni di non vivibilità su questa terra non ce li ha dati il Padreterno. Questo intorno a noi non era un deserto né materiale né immateriale, eppure noi abbiamo reso arido questo sistema costringendo quei ragazzi ad andar via. Questa terra noi l’abbiamo ammazzata, ammazzata col nostro silenzio, la nostra apatia, io la chiamo omertà. L’ha ammazzata la nostra non-dignità, abbiamo perso la dignità di essere oggi persone libere».
Pessimismo, amarezza? «No – risponde De Masi – se il mio è un ragionamento pessimistico vuol dire che non ci sono 26mila giovani che sono andati via, vuol dire che le strade che ha trovato venendo qui sono belle… Io non sono uno che si piange addosso, io analizzo il fatto per cercare una soluzione. Il fatto è che 26mila ragazzi sono dovuti andare via. Chi li ha mandati via? Il mio comportamento, il nostro comportamento di calabresi. Se dovessimo fare un elenco degli alibi che noi abbiamo ne troviamo duemila per dire che siamo in queste condizioni. Abbiamo l’alibi che non abbiamo strade, non abbiamo infrastrutture, non abbiamo nulla… Ma l’alibi ci giustifica? Ci dà da mangiare? L’alibi dà lavoro ai nostri figli? La storia del nostro Paese si è fatta partendo dalle macerie di una guerra che ha azzerato tutto e da quelle condizioni qualcuno s’è girato le maniche e ha ricostruito il Paese. Io non posso accettare, quando sento le interviste che vengono fatte ai miei concittadini, che lo Stato ci ha abbandonato, che è ora che lo Stato faccia qualcosa per noi. Sto leggendo un libro su don Sturzo che affermava che “i meridionali devono salvare il Meridione”: i calabresi devono salvare la Calabria, altrimenti non c’è storia. Il mio non è pessimismo, è una chiamata alle armi: giratevi le maniche perché i vostri figli siete voi che li avete mandati via, tutti noi siamo responsabili».
Qual è la formula di De Masi per l’occupazione? «Io sto lanciando due cose che sono apparentemente folli… io parlo di un’equa distribuzione della ricchezza. Mi ha chiamato il sindaco di Polistena, Michelangelo Tripodi che è di Rifondazione per dirmi che è attratto dalle mie proposte. Per parlare di equa distribuzione della ricchezza bisogna essere comunisti? Bisogna essere idealisti nel dire che non si può creare ricchezza puntando allo sfruttamento, alla schiavitù? Due passaggi, due estremi che non possono stare insieme. La ricchezza non può essere figlia di una prevaricazione perché, altrimenti, che ricchezza è? Allora, io parto da un altro tipo di ragionamento, che io posso fare ricchezza puntando a un’equa distribuzione e puntando sulla condivisione di un percorso: E allora io sono un comunista, sono un socialista? Sì, se socialismo significa che non c’è lo schiavo e non c’è il padrone. Io non sono illuminato, sono una persona normale che cerca di analizzare con gli occhi di chi ha studiato un poco di economia che il futuro dell’azienda non passa da quel “film”, da quella storia».
C’è qualche rimedio? «Il nostro Paese ha bisogno di un nuovo rinascimento, un rinascimento di dignità, della dignità dei valori… Tempo addietro un professore di Milano, illustre cattedratico, mi suggerì “lasci tutto, venga al Nord”. Gli ho scritto una lettera “La ringrazio, ma sono testardo. Rimango giù”. Il professore non mi ha dato un consiglio sbagliato, mi ha dato un consiglio razionale “vada a fare impresa altrove”. Se io dovessi puntare ai soldi, al business, alla ricchezza materiale, io qui non dovrei starci un minuto di più. Ma io credo nella legalità, un elemento essenziale, senza la quale non si può costruire un futuro, perché si diventa barbari. Allora il cittadino deve cominciare a dire “io devo rispettare le regole”. Il calabrese non deve fare il civile quando va al Nord e fare la raccolta differenziata, che la faccia qui la raccolta differenziata. Che non dia calci alle porte, alle cose e che rispetti le regole del gioco sapendo che rispetta se stesso».
De Masi è il calabrese che sarebbe piaciuto a Corrado Alvaro: usa la testa, il cervello ma non dimentica di ascoltare il cuore, un cuore che batte, orgogliosamente per una terra che può cambiare. A chi manda provocazioni su presunte mire politiche, immaginandolo – per sminuirne l’impegno personale –  prossimo governatore della Calabria, De Masi non esita a rispondere: «Non sono interessato al gioco dei partiti. Ho una sola finalità, che purtroppo la gente ancora non capisce. Io sono uno di quelli, cresciuto illuso che ci siano dei valori per i quali durante la guerra c’è stato chi è andato sulle montagne per preparare la liberazione: io vorrei liberare questo territorio da coloro i quali lo hanno massacrato». (s)

 

IL VESCOVO OLIVA A POLSI: «LA MADONNA È INCONCILIABILE CON LA MAFIA»

3 settembre – «Non è assolutamente conciliabile la fede in Maria con la criminalità mafiosa. Non è fede genuina quella di chi cova nel suo animo propositi di sangue e di vendetta. Portare con sè l’immagine della Vergine e nutrire odio, rancore, vendetta non sono comportamenti conciliabili con la più genuina fede mariana». Non usa mezzi termini il vescovo di Locri-Gerace mons. Francesco Oliva al Santuario di Polsi, per la festa della Madonna, per condannare l’ipocrisia degli uomini di ‘ndrangheta che si dicono devoti della Santa Madre del Divin Pastore. «Non basta dirsi cattolici – ha aggiunto il vescovo – Non basta partecipare ad atti di culto, accompagnare la statua in processione, ricevere i sacramenti, venire in pellegrinaggio”: occorre – dice il presule – voltare pagina e convertirsi a Dio attraverso un’opera di bonifica del cuore. «Dobbiamo conquistarci la libertà di fare il bene, dobbiamo vincere le nostre schiavitù. Schiavo è il mafioso che mette al centro di tutte le sue preoccupazioni gli affari, l’esercizio del potere, l’idolatria del denaro. Schiavi possiamo essere anche noi se agiamo sempre e solo per il nostro tornaconto, se anteponiamo l’interesse personale al bene comune».


Domenica la tradizionale processione con migliaia di pellegrini giunti da ogni parte della Calabria (e non pochi dall’estero): il vescovo ha presieduto la messa concelebrata col rettore del Santuario di Polsi don Tonino Saraco e altri sacerdoti e durante l’omelia ha voluto ammonire i fedeli. «Polsi è un luogo in cui da secoli – ha detto il vescovo Oliva – si manifesta la pietà e la religiosità di un popolo semplice e devoto. È una tradizione di fede che si rinnova e che troppo spesso è stata mortificata da interferenze esterne. Il venire qui non da pellegrini, ma con intenti malvagi e sacrileghi è stata una grandissima offesa alla fede di tutto il popolo mariano». Un popolo – ha rimarcato il presule »la cui fede è stata gravemente profanata, ma è un popolo fiero e coraggioso che non teme sventura alcuna e a Maria affida la propria storia». (rrc)

DE MASI A ROMA PER PARLARE DI ‘NDRANGHETA CON DI MAIO

2 luglio – L’imprenditore calabrese Nino De Masi – che sta preparando per il 6 luglio una manifestazione contro la ‘ndrangheta nella sua azienda a Gioia Tauro – ha incontrato oggi a Roma, il Ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro e vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio. Quest’ultimo ha scritto in un post su FB: «Questa mattina ho incontrato al Ministero del Lavoro Nino De Masi, uno di quegli imprenditori coraggiosi che ha denunciato e combattuto le organizzazioni criminali. Una persona che sta lottando ogni giorno per tenere in piedi la sua impresa al fine di riuscire a tutelare i suoi dipendenti dalla disoccupazione. Un uomo che ha avuto la forza di denunciare tutto quello che succede nel mondo delle banche e negli istituti di credito. Dobbiamo ricominciare a rivendicare e a esigere rispetto dallo Stato, perché se quest’ultimo sarà rispettato, saranno rispettati anche i cittadini».
De Masi per il 6 luglio vuole proporre un incontro pubblico con la popolazione e tutte le forze politiche per presentare le attività di ricerca e sviluppo della sua azienda, ma soprattutto per esporre le sue idee di imprenditore illuminato (pur se continuamente minacciato dalla ‘ndrangheta) per la crescita e lo sviluppo che punti sulla formazione dei giovani. L’idea di De Masi è una public company, un’azienda collettiva di tutti, con azionariato diffuso. «Un’azienda – ha detto – che con i suoi valori possa rappresentare il “riscatto del territorio”. Un’azienda orizzontale in cui tutti partecipano ad un obiettivo: il domani “migliore”».
All’incontro hanno partecipato tutti i deputati e i senatori del M5S eletti in Calabria. (rrm)

Incontro con Nino De Masi

Questa mattina ho incontrato al Ministero del Lavoro Nino De Masi, uno di quegli imprenditori coraggiosi che ha denunciato e combattuto le organizzazioni criminali.Una persona che sta lottando ogni giorno per tenere in piedi la sua impresa al fine di riuscire a tutelare i suoi dipendenti dalla disoccupazione. Un uomo che ha avuto la forza di denunciare tutto quello che succede nel mondo delle banche e negli istituti di credito.Dobbiamo ricominciare a rivendicare e a esigere rispetto dallo Stato, perché se quest'ultimo sarà rispettato, saranno rispettati anche i cittadini.

Pubblicato da Luigi Di Maio su Lunedì 2 luglio 2018