La toccante omelia pasquale del vescovo di Lamezia mons. Serafino Parisi

Come credenti siamo chiamati a “metabolizzare” l’annuncio della Resurrezione di Gesù come principio di azione nella nostra vita e nella storia.  Noi credenti agiamo nella storia con la forza della speranza. La speranza non è una strategia, ma è un principio vitale che entra nel nostro sistema, nella vita di noi credenti, nei gangli vitali della comunità cristiana e civile. Il principio della speranza ci rende proattivi, operativi. La speranza è lavoro, impegno, organizzazione, è ciò che spinge fin dall’inizio la nostra vita di credenti”. É uno dei passaggi dell’omelia pronunciata dal vescovo di Lamezia Terme monsignor Serafino Parisi che, in Cattedrale, ha presieduto la Santa Messa del giorno di Pasqua.

“Nel brano del Vangelo di Giovanni che racconta la Resurrezione di Gesù – ha sottolineato il presule – ciò che mi colpisce particolarmente è la corsa dei protagonisti: di Maria, di Pietro, di Giovanni. Sono tutti agitati, tutti corrono.  Ma dove vanno? É la corsa dei “disperati”, di coloro che ancora non avevano capito che il Signore doveva risorgere dai morti. Come anche i discepoli di Emmaus che, allo “sconosciuto” che si affianca a loro nel cammino, dicono “speravamo che Egli avrebbe liberato Israele”. Ma il verbo sperare non si può coniugare al passato. Nel momento in cui questo verbo si coniuga al passato, esprime disperazione. Quante volte, anche noi credenti, rischiamo di guardare la storia con gli occhi rivolti al passato, lasciandoci quindi prendere dall’angoscia, chiudendoci nel circolo asfittico della disperazione che non riesce a vivere il presente guardando verso il futuro. Il verbo sperare, coniugato al passato, impedisce a noi credenti di agire concretamente dentro la storia. Guardare al passato ha un senso importante – perché viviamo dentro una tradizione –  ma non dev’essere uno sguardo al passato nel segno dell’angoscia e della disperazione, ma per poter dire: tutta questa storia serviva per orientare noi a costruire il futuro lavorando nel presente”.

Il vescovo di Lamezia ha richiamato, come aveva fatto in occasione del Venerdì Santo, le tante “tombe della nostra umanità. Quelle che scavano gli altri, quelle che contribuiamo a scavare noi. Interroghiamoci: come possiamo non dare a queste tombe la soddisfazione di fagocitare le nostre vite, le nostre relazioni, il nostro futuro? Con il nostro impegno, siamo chiamati a testimoniare ogni giorno che la morte è vinta, che il Crocifisso Risorto è la nostra speranza”.

Parisi ha parlato della “grande tomba”, rappresentata “dalle guerre piccole e grandi, le guerre vicine e lontane, anche le nostre guerre personali. La follia della guerra produce soltanto vittime da tutte le parti, senza distinzioni.  Anche di fronte alla tragedia della guerra, la Resurrezione ci dice che c’è ancora possibilità di vita ma solo se tu, uomo, riesci a vivere “all’altezza dell’uomo”, se riesci a vivere la tua umanità redenta dal Risorto”. E ancora Parisi ha parlato della “tomba purtroppo non solo metaforica del Mediterraneo, “liquido amniotico” della nostra civiltà.  Siamo chiamati ad aprire il nostro cuore a coloro che, per ragioni diverse, fuggono dalla morte in cerca di speranza. Che cos’è la speranza se non c’è un uomo disposto a rendersi responsabile della vita dell’altro? Dobbiamo dirci anche questo, noi credenti, se vogliamo celebrare la Pasqua”. E ancora “le tombe costruite con le picconate delle mancate opportunità di lavoro e di sviluppo. Non ci hanno solo tarpato le ali, ma ci hanno spezzato la voglia di costruire, di lavorare, la voglia di non scappare da questa nostra terra di Calabria. É morto il desiderio di essere protagonisti del nostro futuro.

Anche di fronte alla tomba delle mancate opportunità, la Resurrezione di Cristo ci dice che è possibile far nascere la vita dalla morte e attraverso la morte. Dipende da noi, se restiamo fermi a guardare al passato oppure se vogliamo correre verso futuro. Questa nostra terra di Calabria deve poter rinascere”. E ancora, richiamando il recente documento dei vescovi calabresi, sul tema dell’autonomia differenziata il richiamo di Parisi a “far prevalere la giustizia e la sussidiarietà di fronte a un progetto di parcellizzazione delle aree depresse, di emarginazione sistematica: i ricchi con i ricchi, i poveri con i poveri. La Resurrezione ci dice che dobbiamo essere responsabili e solidali verso gli altri.  Le nostre esistenze non possono essere calcolate e misurate su basi di ragioneria che mirano a tagliare. C’è il rischio di fagocitare le aree deboli del nostro Paese. Non dev’essere una preoccupazione per noi cristiani? Questa è la Pasqua. Da dire con parole concrete, con la concretezza della storia. I due discepoli che correvano non andavano verso la tomba vuota, ma correvano per andare al di là della loro disperazione, della loro angoscia, del loro “non senso” provocato dall’annuncio della morte di Gesù. Vanno oltre, perché nella Resurrezione di Gesù tutto è possibile”.

“L’augurio – ha concluso il vescovo Parisi – è di fare entrare nella nostra vita il principio della Resurrezione di Gesù, l’azione forte della speranza. Cominciamo concretamente, con il nostro impegno, ad organizzare la speranza perché possiamo riacquistare il desiderio di essere protagonisti della storia che verrà e che dipende da noi”.  (rcz)

PASQUA E LA PACE: UN FORTE MESSAGGIO
NELLE PAROLE DI DON MIMMO BATTAGLIA

di PINO NANO Che Pasqua sarà questa di oggi per un sacerdote? Che cosa dirà il sacerdote di ogni nostro piccolo paese a chi si prepara oggi a vivere la Domenica di Resurrezione?

Per don Mimmo Battaglia, attuale Arcivescovo di Napoli, lui originario di Satriano e figlio più autentico del catanzarese, la giornata di oggi va interamente dedicata al tema della pace. 

La preghiera che ha scritto per la Pasqua di quest’anno, e che è diventata il suo biglietto ufficiale di auguri, rivendica con forza la pace nel mondo, la pace nei cuori, la pace nelle famiglie, la pace del lavoro, la pace del carcere, la pace dei malati, la pace dei disperati, la pace degli illusi, la pace dei senza Dio, la pace del silenzio, la pace di ha perso la fede e il coraggio di vivere, la pace della politica, la pace del disordine e della confusione. 

Solo lui e nessun altro meglio di lui avrebbe potuto scrivere un appello così corale e così diretto al cuore degli uomini. 

Signore della Pace, perdona la nostra pace sazia! 

Perdonaci la pace del ricco, che banchetta sul sopruso del povero. 

Perdonaci la pace del potente, 

che si accampa tra le afflizioni del debole. 

Signore della Pace, perdona la nostra pace armata! 

Perdonaci la pace, che prepara la guerra. 

Perdonaci la pace del dittatore, che imprigiona il dissidente.

Perdonaci la pace dei vecchi, 

che inneggiano alla morte in guerra dei giovani. 

Signore della Pace, perdona la nostra pace sicura! 

Perdonaci la pace del padrone, che sfrutta il lavoratore. 

Perdonaci la pace delle città, che disdegnano il lavoro dei campi. 

Perdonaci la pace della casa, 

che non guarda chi non ha una casa. 

Perdonaci la pace della famiglia, 

che non si fa famiglia per le solitudini altrui. 

Don Mimmo Battaglia è uno di quei sacerdoti che per tutta la sua vita ha inseguito i più poveri per aiutarli e per dare loro conforto, uno di quei sacerdoti che pareva essere destinato a rimanere per sempre soltanto e per tutta un profeta del dolore e della miseria, figlio del Sud, in una regione lontana come la Calabria che è la sua terra di origine e in una città piena di problemi come Catanzaro. E invece, un giorno per uno strano gioco del destino il profeta dei poveri diventa vescovo. Anzi, diventa Arcivescovo di Napoli. 

Signore della Pace, perdonaci la nostra pace prudente! 

Perdonaci la pace per timore della verità. 

Perdonaci la pace del compromesso. 

Perdonaci la pace corrotta. 

Perdonaci la pace che non è pace. 

Signore della Pace, perdonaci questa pace minuscola, 

che è incapace di cogliere la potenza pacificatrice del tuo Vangelo, 

una pace che si nasconde dietro le convenzioni del mondo, 

una pace che tarda a divenire giustizia, 

una pace pigra, 

una pace che non è pace. 

Quella di don Mimmo Battaglia sembra la trasposizione della favola del brutto anatroccolo che diventa cigno bellissimo del grande lago della vita. Se posso paragonare questo sacerdote a qualcosa o a qualcuno vi dico subito che mi riporta con i ricordi indietro nel tempo, quando per la prima volta incontrai Hélder Pessoa Câmara, famosissimo vescovo delle favelas brasiliane.

«Quando io do da mangiare a un povero – raccontava – tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Don Mimmo Battaglia è ancora molto di più di mons. Hélder a Câmara. 

E allora ti preghiamo, Signore della Pace: 

donaci il coraggio della Pace! 

Donaci una Pace scomoda, che tende la mano all’affamato, 

apre la porta cello straniero e libera il prigioniero, 

disarma il potente e sostiene il debole, 

non accetta compromessi e non si lascia corrompere. 

Donaci una Pace maiuscola come la tua Risurrezione, 

la Pace, la tua Pace, che ci liberi dai cenacoli delle nostre paure, 

che irrompa nelle nostre quiete sicurezze. 

La tua Pace, fratello Gesù, la sola che duri per sempre.

Non quella del mondo, ma la tua. 

Fratello Gesù, perdonaci la pace, donaci la Pace!

Don Mimmo è un uomo buono, un pastore alla vecchia maniera, educato all’ascolto e alla pazienza, ma quando scrive è l’infinito. Ho letto decine di suoi scritti, e vi assicuro che è un uomo che scrive col cuore immerso nelle nuvole. Don Mimmo è il simbolo della Chiesa contemporanea, che non conosce il senso della mediazione quando c’è da ricordare al mondo esterno della politica la gente che soffre. E finalmente, per una volta almeno, non si poteva scegliere un pastore migliore di lui per la grande Napoli, e a cui la Domenica delle Palme don Mimmo ha regalato e dedicato una delle sue omelie più intense e più belle. Qui per voi, solo un passaggio.

La Passione di Cristo non è ancora conclusa. Investe il presente. Coinvolge ciascuno di noi. La Passione di Cristo si prolunga nella passione dell’uomo, di milioni di creature. La sua interminabile via crucis ha stazioni obbligate negli ospedali, in tante case, soprattutto dove la vita viene annullata, uccisa, per via di guerre, e in un’infinità di luoghi segreti. E ancora: Nelle sue piaghe, le piaghe di chi non ha lavoro; di chi è tormentato dall’angoscia per il futuro; di chi ha conosciuto il dolore della morte a causa dell’incuria dei nostri territori, per il veleno disseminato nei nostri terreni e nella nostra aria; delle donne vittime di violenza; degli esclusi; di chi soffre a causa della giustizia; dei giovani che non riescono a mettere insieme i pezzi della loro vita. La cosa più importante che possiamo fare è sostare accanto alla santità delle lacrime, presso le infinite croci del mondo dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. E deporre sull’altare di questa liturgia qualcosa di nostro: condivisione, conforto, consolazione, una lacrima. E l’infinita passione per l’esistente. Ma anche schiodare i crocifissi di oggi dalle loro croci.

Ecco che il sacerdote si fa pastore, e il pastore non fa altro che pregare per il suo gregge, che è sempre più sperduto e confuso. Ma questa oggi è la Pasqua di molti di noi. (pn)

Tavernise (M5S): Col caro trasporti penalizzata la Calabria anche a Pasqua

Il consigliere regionale del M5S, Davide Tavernise, ha denunciato come «nel periodo di Pasqua, così come è avvenuto anche a Natale, il prezzo di un biglietto aereo da Milano a Lamezia arrivi a sfiorare 500 euro, quasi quanto un volo intercontinentale. Mentre un Frecciarossa Milano Centrale-Paola sia quotato oltre 300 euro».

«A quanto pare – ha aggiunto – il governo nazionale è inerme e non riesce a mettere un freno al fenomeno del caro-trasporti, strategia spregiudicata delle compagnie che si ripresenta puntualmente nei periodi di festa o delle vacanze. Ma anche il governo regionale sembra non considerare proprio la questione che invece ha ricadute negative anche sul turismo calabrese».

«Il problema da affrontare immediatamente – ha sottolineato – risiede sempre nei famosi algoritmi che fanno salire le tariffe alle stelle e non vi è al momento alcuna possibilità per il consumatore di difendersi da tali pratiche scorrette utili a massimizzare i guadagni delle società. Con queste tariffe viaggiare in aereo o in treno sta diventando sempre più un lusso per soli ricchi e arrivare o tornare in Calabria diventa una vera stangata per lavoratori, studenti e turisti. Una situazione che lede il concetto di continuità territoriale e danneggia non solo i consumatori, costretti e rinunciare alle partenze o a tagliare i giorni di villeggiatura, ma anche le imprese locali, disincentivando il turismo».

«Restiamo in attesa di una presa di posizione forte da parte del governatore Occhiuto – ha concluso – che, con i suoi annunci di nuovi voli per la Calabria, è diventato un ottimo testimonial delle compagnie aeree ma un pessimo difensore del diritto alla mobilità dei calabresi. Dovrebbe invece da subito iniziare a concordare azioni congiunte con il governo nazionale al fine di addivenire a soluzioni che potrebbero essere considerate, tra cui la regolamentazione dei prezzi dei voli durante i periodi di festa, l’aumento della concorrenza tra le compagnie e l’investimento in infrastrutture». (rrc)

A Badolato la Via Crucis più lunga del mondo

di DOMENICO LANCIANO – Si pensa risalga al 1600 il rito della Settimana Santa di Badolato (borgo sull’amena costa jonica calabrese, in provincia di Catanzaro) così come si svolge adesso, sicuramente una delle più intense ed interessanti tra le celebrazioni pasquali che si hanno nel contesto cattolico nei vari continenti. Intanto, esprime la “Via Crucis vivente” più lunga del mondo, nel pomeriggio del Sabato Santo dalle ore 13 alle 20 (spesso fino alle 21). Quindi una Via Crucis lunga anche in termini di tempo (dalle sette alle otto ore).

Si svolge per un percorso misto di circa dieci chilometri, per vie tortuose e scoscese, dal borgo alla valle sottostante e nelle campagne circostanti, fino a salire al Convento francescano degli Angeli, sito sulla collina prospicente. A causa di tale lunghezza e tortuosità, viene cambiato ben tre volte il devoto che impersona il Cristo scalzo sotto la croce. Numerosissimi gli attori e le comparse, che possono raggiungere persino le quattrocento unità tra soldati romani, giudei, flagellanti, addoloratine, appartenenti alle congreghe e gli alabardieri. Dalla Pasqua 1988, su mio input, su queste ultime figure si sta concentrando l’attenzione di alcuni studiosi poiché esse sembrano rappresentare il simbolo dell’androgino, come ho scritto in un primo articolo pubblicato dal settimanale “Il piccolissimo” diretto da Moisé Asta e Vincenzo De Virgilio ed edito da Rubbettino di Soveria Mannelli (Cz).

Infatti, il ruolo degli alabardieri dovrebbe essere riservato unicamente ai fanciulli impuberi. Per tale motivo si pensa che i bambini-alabardieri possano simboleggiare la purezza dell’anima. Pure perché il loro è un abbigliamento misto, femminile e maschile insieme. Vestono sottane, mutandoni lunghi, calze colorate, nastri, pizzi, merletti, guanti bianchi ed hanno al polso il fazzolettino tipico dei cicisbei del Settecento. Il loro elmo è ornato di fiori colorati e non dall’ispido cimiero. Però indossano pure la corazza, il mantello rosso e recano una lancia alabardata come quelle delle guardie svizzere vaticane. La loro presenza sembra essere un’anomalia o una originalità simbolica. I bambini-alabardieri scortano le statue della Madonna addolorata e quella del Cristo morto, mentre i veri e virili soldati romani si occupano del Cristo sotto la croce e dei due ladroni in movimento. Da qualche anno a questa parte, forse per carenza di bambini disposti a fare tanti chilometri per così molte ore, tale ruolo viene assunto ma impropriamente da alcuni adolescenti.
Il percorso (dal borgo al convento francescano sulla collina degli Angeli e ritorno) viene effettuato pure nella processione penitenziale del Venerdì Santo e nella Domenica di Pasqua quando gli stendardi corrono in lungo e in largo per annunciare la Resurrezione del Cristo il quale, a mezzogiorno esatto, in piazza al borgo si incontra con la Madonna che lo cercava per tutto il paese vestita di nero.

Il momento dell’incontro è fortemente emozionante, specialmente quando la statua della Madonna cambia magicamente in festa l’abito alla vista del Cristo. Quindi, le due statue vengono collocate nella vicina chiesa di San Domenico, una delle più grandi della Calabria. Questo incontro qui si chiama “Cunfrunta” o “Cumprunta” mentre in altri paesi calabresi “Affruntata” o in altri modi. A Badolato, per l’esultanza della Resurrezione e dell’Incontro si svolge immediatamente il ballo degli stendardi sui denti dei confratelli più audaci. Altra caratteristica di questa Domenica di Pasqua è la sfida a distanza tra un tamburo e uno stendardo lungo i tanti chilometri del percorso borgo-valle-collina degli Angeli. Se lo stendardo riesce a toccare il tamburo in corsa, gli può rompere la pelle e issarlo in cima allo stendardo come trofeo. Personalmente ho assistito a questa sfida nella Pasqua del 2010 quando il tamburo è stato raggiunto e distrutto proprio davanti ai miei occhi.

Ritengo che le autorità preposte (ma anche i fedeli, la società civile e gli imprenditori locali) dovrebbero impegnarsi di più a propagandare culturalmente e turisticamente la Settima Santa in Calabria e in tutto il Sud Italia, specialmente dove trova massima espressione. Pure i badolatesi dovrebbero impegnarsi di più, dal momento che hanno una Settimana Santa tra le più belle, scenografiche e interessanti al mondo. In particolare, andrebbe studiata meglio la figura dei bambini-alabardieri anche come simbolo dell’androgino, poiché potrebbe essere un raro residuato mitico-filosofico e antropologico della Magna Grecia che qui è stata presente per ben sei secoli, fino a quando la conquista romana (nel 202 a. C.) ha attenuato quella civiltà, poi comunque ripresa nel periodo bizantino per numerosi altri secoli ancora. (dl)

SAN FERDINANDO (RC) – Grande festa per tutti i bambini con la caccia alle uova

Nelle giornate del 4 e 5 aprile 2023 ha preso vita l’iniziativa denominata “Caccia alle uova”, organizzata dai giovani volontari del Servizio civile universale con il supporto dell’amministrazione comunale.

L’attività, una allegra caccia al tesoro che ha coinvolto gli alunni della scuola primaria “Carretta”, si è svolta nel bellissimo giardino della Colonia nunziante e il giorno dopo, causa maltempo, nei locali della nuovissima palestra scolastica.

Soddisfatto il consigliere Antonio Di Tommaso che, interpellato, afferma: “Sono felice per l’ottima riuscita dell’evento e ringrazio vivamente i giovani del Servizio civile che si sono adoperati con scrupolo per l’attenta organizzazione dell’evento e per aver consentito lo svolgimento dell’attività in piena sicurezza”.

“I momenti ludici e di aggregazione sono fondamentali per favorire lo spirito di coesione e la crescita della comunità, soprattutto con riferimento alle giovani generazioni”, riferisce il sindaco Luca Gaetano che, assieme al consigliere Di Tommaso, rivolge “un sentito ringraziamento agli organizzatori e alle famiglie che con la loro partecipazione attiva hanno contribuito alla riuscita di queste due bellissime giornate.”

L’amministrazione comunale di San Ferdinando ha da subito posto, in cima alle priorità di governo, l’attenzione ai giovani e ai giovanissimi, nella convinzione che la cultura della cooperazione e della solidarietà siano valori fondamentali per una crescita sana e sicura dei ragazzi che, a loro volta, potranno contribuire in maniera consapevole ed efficace per lo sviluppo virtuoso della società in cui vivono. (rrc)

Demografia, “Status animarum” e Precetto pasquale nell’Ancien Régime

di GIUSEPPE DE BARTOLO – In Demografia, più che in ogni altra disciplina sociale, le fonti hanno influenzato fortemente le metodologie, le quali si sono viepiù affinate con il miglioramento dello stato delle informazioni. Mentre per il periodo precedente al XVII secolo le notizie riguardanti la popolazione sono molto lacunose e consentono solo valutazioni indirette dei fenomeni demografici, dal XVII secolo una fonte importante è quella dei registri parrocchiali, in cui fin dal Medioevo i parroci annotavano, ma spesso con carattere sporadico e discontinuo, i battesimi, le cresime, i matrimoni e le sepolture dei loro parrocchiani. Ricordiamo che i decreti concernenti l’obbligo della compilazione da parte dei parroci dei registri dei battesimi e dei matrimoni furono emanati soltanto durante il Concilio di Trento (1545-1563), mentre per i registri dei defunti la normativa fu dettata nel 1614 per volontà di papa Paolo V.

Ai volumi citati bisogna aggiungerne un ulteriore, lo Status Animarum della parrocchia. La Chiesa in questo modo aveva costruito un apparato documentale, con funzione anche di controllo dei fedeli che, in ogni caso, per il periodo precedente la nascita della statistica moderna, permette di conoscere il movimento naturale (nascite, morti e matrimoni) e una stima dell’ammontare della popolazione delle singole circoscrizioni ecclesiastiche.

Lo Stato delle Anime, più in particolare, era un elenco delle persone che abitavano nel territorio della parrocchia, elenco che il parroco era tenuto a compilare ogni anno in occasione della benedizione pasquale delle case, con l’intento anche di accertare se i parrocchiani avessero adempiuto all’obbligo del precetto pasquale. A differenza degli altri registri parrocchiali, la compilazione del Registro delle Anime non seguiva uno schema prestabilito e, quando era compilato da un curato attento, conteneva l’indicazione delle singole famiglie, il proprietario dell’abitazione, il nome e il cognome del capofamiglia e via via le informazioni di tutti i componenti del nucleo familiare, con l’indicazione della relazione con il capo famiglia ed altri caratteri che potevano essere ricavati anche indirettamente: per esempio figlia stava a indicare che era nubile, moglie che era sposata, vedova o relicta lo stato di vedovanza. Il parroco annotava con C e con CR rispettivamente coloro che si comunicavano e quelli che erano cresimati. Dalla fine del ‘700 nello Stato delle Anime cominciano ad apparire la professione del capofamiglia e le proprietà, dati essenziali per la determinazione della decima (decima parte della ricchezza) da versare alla parrocchia. Alla fine del registro il parroco annotava il totale della anime: uomini, donne, comunicati, cresimati.

Il precetto di confessarsi e comunicarsi a Pasqua fu introdotto nel Concilio Lateranense da Papa Innocenzo III nel 1215. Nei quindici giorni della Pasqua, ovvero dalla domenica delle Palme a quella in Albis (dominica in albis deponendis o depositis) – così detta perché in quel giorno i fedeli battezzati nella veglia pasquale deponevano l’abito bianco indossato al momento del battesimo – il parroco amministrava la comunione ai fedeli senza interruzione e, mentre poneva in bocca l’ostia, il sacrestano gli consegnava un biglietto, detto biglietto pasquale.

Le cronache riferiscono che, per evitare frodi, dato che sovente le bizzoche andavano a comunicarsi in più parrocchie vendendo poi i biglietti ai fedeli inadempienti che così potevano evitare i castighi, il parroco consegnava biglietti colorati alle donne e biglietti bianchi agli uomini. Dopo la domenica in Albis, il parroco faceva di nuovo il giro dei parrocchiani con in mano l’elenco dello Stato delle Anime per ritirare il biglietto pasquale al fine di riscontrare chi avesse soddisfatto al precetto. A Roma tutti coloro che non avevano ottemperato a tale obbligo, il 27 d’agosto trovavano il loro nome su un cartello affisso su di una colonna all’esterno della Chiesa di S. Bartolomeo all’isola Tiberina.

I trasgressori, chiamati da Gioacchino Belli gli “scommunicati de Pasqua”, oltre a commettere un peccato mortale, incorrevano nella pena dell’Interdetto, cioè la proibizione di entrare in Chiesa e, in caso di morte, la privazione della sepoltura cristiana. Coloro i quali non rispettavano questi obblighi religiosi rischiavano anche pene corporali e persino il carcere, così che molti romani osservavano il precetto più che per reale convincimento per evitare le conseguenze repressive. (gdb)

CROTONE – Il messaggio di Mons. Angelo Panzetta per Pasqua

L’Arcivescovo di Crotone, Mons. Angelo Panzetta, lancia un messaggio per Pasqua ai fedeli.

«Carissimi fratelli e sorelle – si legge – in questa Pasqua, per molti aspetti drammatica e inedita, intendo farmi vicino a tutti voi come un fratello, che condivide le ansie del nostro tempo, ma anche come un padre che intravede un orizzonte di superamento e una luce di speranza in fondo a quel tunnel che con fatica tutti stiamo attraversando».

«Ho scrutato lungamente – prosegue il messaggio – le Scritture alla ricerca di una guida, per leggere il momento che tutto il mondo sta vivendo per l’emergenza sanitaria in corso, e l’ho trovata in una pagina evangelica che ha attirato con forza la mia attenzione: la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20, 19-23)».

«Leggendo e rileggendo con attenzione – prosegue il messaggio – ho capito che avrei potuto assumere questo brano evangelico come chiave per leggere e interpretare ciò che sta accadendo nel nostro mondo e anche come punto di riferimento per il mio messaggio pasquale. Il testo descrive la situazione della comunità dei discepoli di Gesù prima di aver incontrato il Risorto e prima di aver ricevuto il dono dello Spirito: dopo la morte drammatica di colui che aveva riconosciuto come il Messia, la comunità si è rintanata in un bunker, a porte chiuse, in un luogo dove sentirsi protetti dalla paura della morte che si è fatta presente in modo forte nella vicenda terribile di Gesù. Questa situazione di chiusura, per la paura della morte ma anche per l’oblio della speranza, ha trasformato il cenacolo in una tomba, ha ingenerato una situazione che è paradossale: il sepolcro di Gesù è aperto e vuoto, mentre il luogo dove si trovano i discepoli è sprangato e pieno di morte».

«I discepoli – prosegue il messaggio – si trovano in questa situazione perché non hanno accolto l’annuncio pasquale che la Maddalena ha portato loro. Essi, dopo la morte di Gesù, si sono rinchiusi in una sorta di “fossa comune”, perché davanti al Crocifisso anch’essi sono morti e sepolti in preda alla sfiducia e alla disperazione. Questo esito è comprensibile perché l’uomo, quando perde la luce della speranza, muore. Il motivo fondamentale che ha spinto la comunità ad isolarsi è quello della paura: spesso, in preda a questo sentimento, le persone rischiano di chiudersi, accartocciandosi nella ricerca esclusiva della propria sopravvivenza».

«Pur restando lontani da indebite trasposizioni storiche – prosegue il messaggio dell’arcivescovo – penso si possa dire che la situazione che stiamo vivendo, per molti aspetti, somigli non poco a quella raccontata nel brano evangelico. Anche noi ci siamo rinchiusi nei bunker domestici, con le porte ben chiuse, certamente per rispettare le legittime norme emanate dall’autorità, ma anche per la paura di essere travolti dall’onda di morte che sembra passare intorno alle case di tutto il mondo. Certo, ci sono tanti messaggeri di speranza che ci spingono ad andare avanti, come la Maddalena, ma non è facile ascoltarli e accogliere il loro messaggio di fiducia e di speranza. Tutti ci sentiamo vulnerabili, tutti ci siamo aggrappati agli affetti più cari, aiutati dai nuovi strumenti di comunicazione, che oggi ci fanno viaggiare, rimanendo sul nostro divano, in tutte le strade deserte del mondo.
Quello che nel testo giovanneo cambia del tutto la situazione della comunità è l’irruzione del Risorto».

«Non vi sono porte chiuse – prosegue l’arcivescovo Panzetta – che possano tener lontano il Signore della vita: la luce entra nelle tenebre dei discepoli; essi non sono salvati “dalla” morte ma “nella” morte. Gesù, passando attraverso le porte della paura, entra e si colloca nel cuore della comunità: egli sta in piedi perché ha vinto la morte; è nel mezzo e, da quella posizione strategica, si pone come la luce che dissolve le tenebre dei discepoli. Dove regnava la morte ora c’è il Vivente che dona alla comunità la pace, la gioia, lo Spirito e la capacità di perdonare. L’incontro con Gesù vivo porta aria nuova nella comunità cristiana e nel cuore dei discepoli; la venuta del Signore cambia la tristezza dei discepoli in gioia. Una tale sentimento nessuno può rapirlo perché esso è fondato su un amore che ha vinto la morte e che arde come un fuoco che le grandi acque non possono estinguere».

«Io sono convinto che, quanto è accaduto nella comunità dei discepoli – prosegue Mons. Panzetta – possa compiersi anche per noi oggi. Anche per noi questa Pasqua “a porte chiuse” può diventare un momento di risurrezione, perché l’irruzione del Vivente può darci un nuovo sguardo alla realtà, nella consapevolezza che Egli è sempre al nostro fianco e non ci deluderà mai. Questo è il fondamento della speranza, che non è semplice ottimismo ma un dono che nasce dalla relazione con il Signore, dalla consapevolezza che Lui, il Vivente, accompagna il nostro cammino nel presente e verso la direzione del futuro. Nella luce e nella certezza della fede, invito tutti a rimanere a casa ma con le porte del cuore spalancate al Risorto, ai fratelli e al mondo. Apriamo al Signore i nostri sepolcri sigillati perché Gesù entri portando la vita, prendendoci per mano, per trarci fuori dall’angoscia. Il Vivente ci libera dalla terribile trappola dell’essere cristiani senza speranza, dall’essere persone che vivono come se il Signore non fosse risorto, come se non avesse fatto irruzione nella nostra esistenza, come se il centro della vita fossero solo i nostri problemi».

«Carissimi, nella certezza della perenne attualità del Vangelo della Pasqua – prosegue Mons. Panzetta – invito tutte le famiglie a vivere pienamente, in quest’anno del tutto singolare, la dimensione domestica del mistero pasquale. Nella storia della Chiesa, soprattutto nei tempi di persecuzione, la fede in Gesù Risorto è stata custodita nelle case dei credenti, ossia nelle chiese domestiche. La crisi sanitaria, che ci costringe a rimanere a casa, ci porti a riscoprire la nostra fede pasquale nelle nostre case: in esse il Signore vuole entrare per riportare la gioia e la speranza per affrontare le sfide inedite che abbiamo di fronte».

«Purtroppo, le nostre Chiese, durante le celebrazioni – prosegue Mons. Panzetta – resteranno chiuse. Per questo le nostre famiglie dovranno diventare un luogo privilegiato nel quale celebrare, in virtù del sacerdozio battesimale e del ministero coniugale, la memoria della Pasqua di Gesù. Nel santuario domestico, nel quale si officia il culto della vita, si santificherà il tempo pasquale vivendolo nel servizio dell’amore e nella viva presenzialità del Risorto. Per agevolare questa liturgia domestica, ogni famiglia dovrebbe realizzare dei segni che richiamino la fede pasquale (un cero, un crocifisso, la Scrittura intronizzata…) e soprattutto una celebrazione pasquale della Parola che si conclude con una festa, un pranzo condiviso, un momento di gioia insieme. Un segno importante che nelle case non dovrebbe mancare, come parte integrante della liturgia pasquale, è un gesto di carità per i poveri e per chi è solo o per chi è col cuore a pezzi per aver perso legami importanti: anche una parola di vicinanza in questo momento ha un grande valore».

«Perché la liturgia pasquale domestica sia vera – prosegue Mons. Panzetta – dovrà necessariamente essere vissuta conservando un senso di appartenenza alla Chiesa. Un gesto di “sintonia” ecclesiale si può realizzare ascoltando la predicazione del Papa, che ci fa sentire parte di una Chiesa universale; oppure ascoltando la parola del Vescovo, che ci inserisce nella Chiesa particolare di cui siamo parte; o, ancora, ascoltando la riflessione del Parroco, che ci ricorda il legame più prossimo con una concreta comunità di credenti. In questa situazione i presbiteri, che hanno dovuto ridurre al minimo molte loro attività pastorali, sono chiamati a sperimentare quasi una sorta di “ministero dell’assenza”, pur senza sentirsi soli o addirittura inutili, per il fatto che la liturgia della Settimana Santa sarà da loro vissuta nella solitudine delle chiese vuote. Per essi, tale situazione relazionale, non diventerà isolamento nella misura in cui questo tempo sarà vissuto in una grande comunione spirituale col Signore e con la gente».

«Nella vicenda che stiamo vivendo – prosegue Mons. Panzetta – sarà prezioso ricordare un dato, a tutti noto, che si acquisisce già nella prima formazione teologica: ogni azione liturgica, e massimamente l’eucaristia, ha sempre una valenza ecclesiale. Per questo un sacerdote, anche quando celebra nella totale solitudine, è sempre unito a tutto il popolo di Dio: è davanti a Dio per la gente; egli è sempre ministro della Chiesa, opera con la Chiesa e nella Chiesa. Quindi anche di fronte alle navate vuote delle nostre chiese, nella celebrazione, i ministri di Dio saranno sempre in comunione con le chiese domestiche che strutturano le comunità e lo faranno nella convinzione che il loro sacerdozio ministeriale esiste come servizio per quello battesimale dei fedeli. Sono convinto che il nostro presbiterio sia pronto a vivere pienamente questa Pasqua che mi piace definire non “anomala” ma “nuova”, perché con le sue caratteristiche inedite può diventare un’occasione di crescita per un rinnovato servizio ministeriale».

«Per preparare le nostre case, alla liturgia pasquale e ancor più alla visita del Vivente – prosegue Mons. Panzetta – invito le famiglie della nostra diocesi a fare le “pulizie” pasquali, quelle che si rendono necessarie per accogliere debitamente un ospite così illustre: occorre, come dice la Scrittura, gettare via il lievito vecchio che impedisce alla novità della risurrezione di cambiare in profondità il vissuto delle nostre comunità domestiche. A tal fine, è necessario individuare e far sparire i fermenti di peccato che feriscono le nostre famiglie: bisogna cercare con cura ed eliminare i germi di violenza, di accidia, di superbia, di avarizia. Infine, fatta quest’operazione, è indispensabile anche aprirsi a Cristo e diventare una “pasta” nuova, un pane che è lievitato nella luce pasquale del Signore. Io sono certo, nella speranza, che la Pasqua porterà una reale novità salvifica al nostro mondo, alla nostra chiesa, a tutti noi; sono convinto che questo momento di crisi che stiamo attraversando potrà diventare un evento di umanizzazione, di grazia e di salvezza. Per questo, nonostante tutte le prove che siamo vivendo, sento di poter dire con gioia a tutti:
Buona Pasqua!». (rkr)