di PASQUALE AMATO – La “Giornata Nazionale dei Dialetti e delle Lingue locali”, la cui nona edizione si svolge oggi, domenica 17 gennaio, è una lodevole iniziativa che ha il merito di focalizzare l’attenzione su un tema che il processo di globalizzazione ha reso di grande attualità. Per un paradosso della storia il rapporto tra lingue nazionali ufficiali e lingue locali è stato capovolto a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale. Ancora negli Anni Cinquanta nel processo di formazione scolastica il tema dominante era stato quello di imporre la lingua nazionale sia attraverso la scuola che mediante tanti corsi serali contro l’analfabetismo (inteso come recupero della non conoscenza della lingua ufficiale rispetto alla prevalenza, specialmente nelle periferie dell’uso dei dialetti e delle Lingue locali).
L’avvento della televisione fu determinante per la diffusione della lingua ufficiale nazionale e l’abbandono graduale, soprattutto da parte delle nuove generazioni, dell’uso dei dialetti e delle lingue minoritarie. L’affermazione del processo di globalizzazione dell’economia, di pari passo con la rivoluzione informatica, ha generato una società del pensiero unico ma anche della lingua unica. Motivo per cui si è verificata una veloce emarginazione che ha toccato per prime le fasce più deboli, con il conseguente fenomeno dell’isolamento delle comunità che da sempre avevano vissuto utilizzando lingue e dialetti in aree ristrette. Ne è conseguita l’estinzione graduale in primo luogo delle lingue non scritte.
Delle crescenti preoccupazioni della perdita definitiva di questo patrimonio storico e culturale dell’umanità si è fatta interprete l’Unesco, che ha dato vita a diverse iniziative per fermare questo fenomeno che ha gli stessi effetti devastanti dell’ecosostenibilità ambientale.
«Le lingue madri, in un approccio multilinguistico, sono fattori essenziali per la qualità dell’istruzione, che è alla base dell’emancipazione di donne e uomini e delle società in cui vivono… Ogni aspirazione ad una vita migliore, ogni aspirazione allo sviluppo si esprime in una lingua, con parole precise per farla vivere e trasmetterla. Le lingue sono ciò che noi siamo, proteggerle significa proteggere noi stessi», ha dichiarato Irina Bokova, Direttore Generale dell’Unesco.
Secondo una ricerca internazionale condotta da un’equipe di studiosi sotto l’egida dell’Unesco, ogni 14 giorni muore nel mondo una lingua. Verso la metà di questo secolo la metà delle 7.000 lingue parlate oggi potrebbero scomparire.
Le lingue sono il prodotto di millenni di osservazione e di organizzazione delle informazioni. Ogni lingua ha infinite possibilità espressive e ha un bagaglio di conoscenze straordinarie. Essendo la maggioranza delle lingue non scritte, per ogni lingua che si estingue si cancellano tutte le idee, i pensieri e le tecnologie che contengono. Pertanto ogni lingua estinta non rappresenta soltanto una perdita per le persone che la parlavano. Diviene una privazione per l’intera umanità. Perché si perde per sempre una parte del più grande giacimento di conoscenza umana mai esistito.
La pressione della globalizzazione negativa tende a imporre ovunque un pensiero unico e l’uso di una lingua unica, riducendo così la grande varietà di tanti universi di pensiero. Occorre contrapporre a questa tendenza dominante iniziative che salvaguardino l’uso dei dialetti e delle lingue minoritarie non in contrapposizione ma puntando sul bilinguismo Lingua nazionale-lingua locale di cui recenti studi hanno dimostrato effetti di notevole arricchimento intellettivo.
Il Premio Mondiale di Poesia Nosside – dalla sua fondazione nel 1983 a Reggio Calabria sino alla XXXV Edizione appena conclusa – ha cercato di dare un suo modesto contributo alla difesa delle Lingue Locali e minoritarie e per la loro salvaguardia dal rischio di estinzione. Un contributo indirizzato verso il bilinguismo di cui parlavo e indirizzato a superare le stesse barriere che spesso le comunità minoritarie erigono, isolandosi ciascuna nel proprio ambito e rendendo ancora più debole la loro voglia di sopravvivenza
Pertanto è in sintonia con l’Onu e con l’Unesco su questo difficile fronte che in Italia da nove anni prevede il 17 gennaio come “Giornata dei Dialetti e delle Lingue locali”.
La stessa ispirazione iniziale del Progetto intitolato alla poetessa magnogreca Nosside di Locri è nata dallo stesso territorio delle Calabrie, dove permangono tre Minoranze Linguistiche (quella grecanica nella Città Metropolitana di Reggio, quella arbëreshë tra Sila e Pollino e quella occitanica di Guardia piemontese nell ‘alto Tirreno) e una miriade di Dialetti differenti sino alla Lingua reggina che con quella messinese csi somigliano sulle rive dello Stretto di Scilla e Cariddi.
Da quell’iniziale apertura il Nosside esteso i suoi confini dapprima alle Lingue locali e minoritari e d’Italia, poi d’Europa e infine del mondo. È arrivato così, nel giro di pochi anni, ad assumere l’identità che lo caratterizza tuttora come unico Premio per poesia inedita Globale, senza confini di Lingue e Dialetti e di modi di comunicazione (scritta, in musica e in video). Non è stato quindi un caso che abbia ottenuto il riconoscinento dell’Unesco per aver premiato e valorizzato opere poetiche che vanno dall’Aspromonte alle Ande e all’Himalaya, dal Mediterraneo ai Caraibi, da tante lingue tribali dell’Africa a quelle degli aborigeni di Australia e Nuova Zelanda, dai Mapuche del Cile alle steppe della Mongolia. La storia di 35 Edizioni del Nosside ha raggiunto e valorizzato le voci poetiche di 100 Stati del mondo in quasi 140 lingue, dalle più diffuse a quelle a rischio di estinzione.
Il Progetto Nosside sin dai suoi primi passi ha fatto della salvaguardia della pluralità linguistica del pianeta la sua principale idea-forza. Ha testimoniato con coerenza e perseveranza e con la sua sempre più ampia propagazione quanto sia intelligente e positivo l’incontro alla pari tra le diverse lingue e quanto le lingue più diffuse devono agli universi concettuali delle lingue meno diffuse. Grandi lingue che si sono imposte quasi sempre per effetto di conquiste molto sanguinose.
Il Nosside non ha escluso dal suo seno le lingue più diffuse riconoscendo anche ad esse il diritto di partecipazione. Ha deciso piuttosto di usarle come cavalli di Troia per consentire alle lingue dei popoli nativi e alle minoranze di uscire dalla ghettizzazione per globalizzare la conoscenza dei tesori di cultura e comunicazione che rappresentano. Il Nosside ha insomma messo in pratica una globalizzazione alternativa a quella del pensiero unico e della lingua unica. Una globalizzazione positiva che tende a esaltare, salvaguardare e valorizzare la diversità linguistica nel pianeta Terra. ′
*Storico e Docentente Universitario
Presidente e Fondatore del Premio Mondiale di Poesia Nosside
CENTINAIA DI IDIOMI LOCALI DA TUTELARE
di CARLO GIACOBBE – Oggi, come ogni 17 di gennaio, in tutta Italia si celebra la “Giornata del dialetto e delle lingue locali”, istituita nove anni fa dall’UNPLI, l’Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia, con una iniziativa che definire benemerita è un pallido riconoscimento dei suoi meriti. Forse nessuna nazione al mondo possiede, come la nostra, una gamma di lingue, lingue regionali, dialetti, parlate, sistemi comunicativi o comunque si vogliano definire le centinaia di idiomi che tuttora si sentono, talvolta si leggono e (per fortuna) oggi molto si studiano, e che vanno dalle più sperdute comunità montane del Nord alle ultime propaggini insulari della Sicilia meridionale.
Le regioni che formano il nostro Meridione, è cosa nota, costituiscono l’unicum linguistico più ricco di tutti per varietà di lingue e dialetti, molti dei quali testimoniano della presenza di gruppi umani che possono non superare il centinaio di persone, ma che non di meno resistono e, spesso, riescono persino ad espandersi. Nel Sud una delle regioni più rappresentative per numero di dialetti e, nell’ambito di ognuno di essi, di varianti significative tra comunità anche vicine tra di loro, è proprio la Calabria. Nella quale si riconoscono tre aree linguistiche principali, oltre a tre lingue “straniere” che sono la parlata materna in diverse comunità sparse nella regione e anche fuori di essa: il greco, l’albanese e l’occitano. Il calabrese, poi, non è soltanto conservato in casa, giacché è stato esportato in diversi paesi un tempo meta di consistente immigrazione: Canada, Stati Uniti, Brasile, Argentina e varie nazioni europee. Ma parlare dei dialetti è argomento che ci porterebbe molto fuori dallo scopo di questo articolo. Forse, in un prossimo intervento su questo giornale, proverò a trattare questo argomento con un minimo più di distensione.
Dall’unificazione d’Italia, 150 anni fa, ad oggi, molto si è parlato della perdita e addirittura della scomparsa dei dialetti. L’osmosi tra zone settentrionali e meridionali (le seconde per forza di cose in rapporto di subalternità rispetto al nordovest sabaudo e al centro – amministrativamente e “culturalmente” egemone lungo l’asse Roma-Firenze – hanno fatto sì che in effetti alcuni dialetti, o almeno “varianti” ultra minoritarie di essi, si siano prima contaminati e poi del tutto estinti. Con un salto di parecchi decenni, poi, per “colpa” delle campagne di scolarizzazione, dell’espansione della rete stradale e ferroviaria, del fenomeno dell’emigrazione (interna, dal sud verso il nord) e con l’avvento in misura non particolarmente rilevante della radio ma enormemente più incisiva della televisione, sembrava addirittura che i dialetti, come le “ultime generazioni” di persone che li parlavano, fossero inesorabilmente incolonnati in una mesta fila che conduce al camposanto.
Ma così non è stato. Come nella famosa canzone risorgimentale nota come Inno a Garibaldi, “Si scopron le tombe, si levano i morti” i dialetti nostri, che evidentemente non avevano la vocazione dei “martiri” e possedevano ciascuno la biblica vitalità di settanta gatti (settanta volte sette) sono risorti. O forse non sono affatto risorti perché non erano proprio defunti. Versavano semmai in uno stato un po’ letargico, in attesa che qualcosa li risvegliasse dal lungo sonno. Questo qualcosa (e qualcuno, perché dietro le cose ci sono sempre le persone) ha avuto certamente molti nomi e non tutti noti e individuabili. Forse il merito maggiore va riconosciuto alla musica, quella che anche negli anni più letargici era la meno morta, anzi, la più viva, di tutti. Grazie ad essa si sono riscoperte lontane radici, vecchi modismi, e oltre alle note si è tolta la polvere che ricopriva vetusti repertori scritti da benemeriti etnografi ottocenteschi, che spaziavano dalla musica, appunto, alle arti e mestieri, alla onomastica, alla paremiologia, lo studio dei proverbi e dei modi di dire, che sono un serbatoio inesauribile di parole ed espressioni vernacolari.
Tutte miniere che oggi, al posto di affrettati e inutilmente jettatorî de profundis, sappiamo ricca di filoni inesauribili come le teste dell’Idra di Lerna. Teste che però invece di sputare fuoco sono dotate ognuna di una lingua ben articolata, in grado di ammaliare e affabulare l’inclito e il bifolco, come si diceva un tempo. Il bracciante che “parla come mangia” e lo studioso che dei dialetti conosce fenomeni e teorie e che prova a mangiare come l’altro parla, perché sa che i contadini oggi, se vogliono, parlano l’italiano, ma raramente mangiano fuori casa. E a casa, oltre a parlare il dialetto, mangiano bene come parlano; con intrecci di suoni insieme melodiosi, gutturali, onomatopeici, persino borborigmatici, ma sempre meravigliosamente e autenticamente espressivi. (cg)
L’autore, giornalista professionista, è stato corrispondente e inviato dell’Agenzia Ansa negli Stati Uniti, in Canada, in Egitto, Israele, Portogallo e Messico.
Esperto di lingue, ha da poco pubblicato un libro in romanesco, 100 Sonétti ‘n po’ scorètti (Media&Books)