L’INGIUSTIFICATA NECESSITÀ DEL MINISTRO
FITTO DI RIESAMINARE IL PNRR PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «La Commissione Europea ha versato all’Italia la quinta rata del Pnrr, pari a 11 miliardi di euro. Il pagamento segue la valutazione positiva, adottata formalmente lo scorso 2 luglio, connessa al conseguimento di 53 traguardi e obiettivi della quinta rata del Pnrr italiano».

Questa la notizia delle Agenzie che riguarda un fatto estremamente importante, che viene confermato da numeri inoppugnabili: vi è un versamento nelle Casse dello Stato italiano di una cifra considerevole. Parliamo di 11 miliardi che certamente aiutano il bilancio. 

Giancarlo Giorgetti sarà molto soddisfatto e grato nei confronti di Raffaele Fitto, che porta a casa già oltre 100 miliardi. Con l’incasso della quinta rata, infatti l’Italia ha ricevuto ad oggi il 58,4% delle risorse complessive del Pnrr, pari a 113,5 miliardi di euro su un totale di 194,4 miliardi. 

Già il 2 luglio Bruxelles aveva approvato una valutazione preliminare positiva delle 53 tappe e obiettivi richiesti, per sbloccare la rata da 11 miliardi, tra cui l’attuazione di 14 riforme e 22 investimenti, in settori quali il diritto della concorrenza, gli appalti pubblici, la gestione dei rifiuti e dell’acqua, la giustizia, il quadro di revisione della spesa e l’istruzione.

L’Italia ha già richiesto a Bruxelles il pagamento della sesta rata da 8,5 miliardi di euro, ed è al lavoro per la verifica e rendicontazione dei 69 traguardi e obiettivi previsti per la settima rata del Pnrr, equivalenti a 18,2 miliardi di euro.  

I rumors della minoranza che parlano di gioco delle tre carte perché il Pnrr sarebbe solo al «37% del totale del cronoprogramma» non fanno breccia. Né può essere preso sul serio un Angelo Bonelli, leader di Europa Verde, che pensa che il Governo non sia impegnato «a risolvere i problemi reali del Paese». 

Troppa generica l’accusa e l’attivismo della Premier va proprio nel senso opposto, qualcuno addirittura chiederebbe che avesse meno iniziative. E allora tutto bene? Intanto non vi è dubbio che è meglio incassare le risorse che sono state destinate all’Italia provenienti dal debito comune che invece non essere in condizione di esigerle. 

Ma qualche considerazione più ampia deve essere fatta. Le notizie circa il fatto che a livello territoriale le risorse non stanno arrivando nel Mezzogiorno, nella quantità destinatagli dal Paese, che è inferiore a quella che sarebbe toccata se l’algoritmo europeo fosse stato applicato senza alcuna correzione, sono molto frequenti e da fonti diverse. 

 Lo stesso Raffaele Fitto ha parlato della necessità di rivedere il piano per quanto attiene il Sud, con una rimodulazione che rivela alcune difficoltà, peraltro attese, considerato lo stato degli uffici tecnici delle istituzioni locali dopo anni di “dimagrimento”.  

«Dovremo garantire che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud e su questo bisognerà interrogarsi. Ci sarà l’esigenza di valutare qualche altra ulteriore revisione? Forse sì». Cosi il Ministro,  in una recente audizione presso le Commissioni Riunite Bilancio e Affari Europei di Camera e Senato, nella quale non ha escluso un’ulteriore modifica al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. 

Forse siamo andati nel senso delle proposte indecenti di Giuseppe Sala e Luca Zaia, che si offrivano di spendere loro le risorse, visto che avevano progetti esecutivi e capacità di spesa? 

E che dimenticavano entrambi che il primo obiettivo del Pnrr era di diminuire i divari non di aumentarli, e che solo perché esiste il Sud sono arrivate risorse consistenti, senza dimenticare che in parte sono a debito e quindi dovranno essere restituiti da tutti gli italiani, ovviamente in modo progressivo rispetto al reddito prodotto, concetto che alcuni “nordici” non riescono ad accettare e forse capire. E che prevede che a parità di reddito si paghi lo stesso importo di tasse e che, indipendentemente da ciò che si versa, si abbia diritto agli stessi servizi essenziali, quelli che sono stati definiti come Lep (Livelli Essenziali di Prestazioni) e che invece dovrebbero essere Lup (Livelli Uniformi di Prestazioni ). 

Ma se “bisognerà” interrogarsi sulla garanzia che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud allora vuol dire che nel raggiungimento degli obiettivi non è prevista alcuna clausola territoriale.  Se così fosse l’Unione confermerebbe una disattenzione alla quale ormai siamo abituati, e confermerebbe un assenza di governance sull’utilizzo corretto dei fondi strutturali provenienti dall’Europa. 

È accaduto che per anni i fondi strutturali siano stati sostitutivi dei fondi ordinari, che dovevano arrivare nel Mezzogiorno, tanto che il pro-capite che avrebbe dovuto essere superiore nel Sud, per l’utilizzo dei fondi aggiuntivi dell’Europa, sia risultato poi invece, malgrado questi, inferiore, senza che ciò fosse in qualche modo rilevato e sanzionato da parte della Commissione, sempre molto attenta invece  a controllare l’andamento di altri indicatori. 

E non per per una piccola cifra ma per oltre 60 miliardi annui, come è stato ampiamente documentato dal Il Quotidiano del Sud, sulla base dei dati del Dipartimento per le Politiche di Coesione voluto da Carlo Azeglio Ciampi

Bene se il raggiungimento degli obiettivi, che hanno fatto pagare la quinta rata, seguisse la stessa logica, sottovalutando il tema della territorialità, motivo per cui i vari Sala e Zaia non si lamentano più, sarebbe molto grave. 

Perché come al solito avremmo eluso il vero obiettivo che l’Unione si era data, quando per stabilire gli importi da destinare a ciascuno aveva utilizzato tre parametri: il tasso di disoccupazione, il reddito pro capite e la popolazione. 

È chiaro che la Commissione può essere disattenta rispetto ai divari territoriali, considerato che il solo vero Paese duale in Europa,  nel quale coesistono due realtà opposte,  é l’Italia, e che gli altri, che hanno problemi simili, hanno avuto sempre una considerazione estrema, come la Spagna e la Germania, delle loro realtà periferiche. 

Ciò non toglie però che l’Unione pagando le varie rate senza controllare la destinazione territoriale, come sembrerebbe stia facendo,  in realtà diventerebbe  complice del possibile fallimento  dello strumento, che invece di diminuire i divari li aumenterebbe. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud  – L’Altravoce dell’Italia]

L’OPINIONE / Mariaelena Senese: Garantire impegno effettivo a usare fondi del Pnrr per il bene del Sud

di MARIAELENA SENESE – La Uil Calabria desidera esprimere la propria profonda preoccupazione e delusione in merito alle recenti dichiarazioni del Ministro per gli Affari Europei, il Sud, le Politiche di Coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, che ha ammesso i significativi ritardi nella spesa dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinati al Mezzogiorno.

Purtroppo, siamo stati facili profeti in questa materia. Non possiamo non sottolineare, infatti, che la Uil Calabria, insieme alla Uil Fpl Calabria, aveva già lanciato un allarme su questa problematica cruciale attraverso la presentazione di un report dettagliato sulla spesa del Pnrr in Calabria. Tale documento evidenziava, con dati concreti e analisi approfondite, le preoccupanti inefficienze e i ritardi nell’implementazione dei progetti finanziati dal Pnrr nella nostra regione.

È inaccettabile che, nonostante le numerose segnalazioni e l’urgente bisogno di interventi strutturali per rilanciare l’economia e migliorare le condizioni sociali del Mezzogiorno, il governo si trovi ancora ad affrontare tali ritardi. Questo rappresenta non solo un grave danno per la Calabria e per tutto il Sud Italia, ma anche un’occasione persa per sfruttare al meglio le risorse messe a disposizione dall’Unione Europea per superare le conseguenze economiche e sociali della pandemia.

La Uil Calabria ribadisce la necessità di una gestione più efficiente e trasparente dei fondi del Pnrr, che devono essere utilizzati in modo tempestivo e mirato per realizzare interventi infrastrutturali, potenziare i servizi pubblici e promuovere lo sviluppo economico e occupazionale del nostro territorio.

Chiediamo al Ministro Fitto e all’intero governo, e lo stesso facciamo nei confronti della giunta regionale della Calabria per quanto di sua competenza, un impegno concreto e immediato per recuperare il tempo perso e garantire che i fondi del Pnrr siano effettivamente utilizzati per il bene del Mezzogiorno. La Calabria non può più aspettare: è ora che le promesse si traducano in azioni concrete e tangibili.

[Mariaelena Senese è segretaria generale Uil Calabria]

LA CALABRIA È IN RITARDO CON IL PNRR
DEI 10.919 PROGETTI, VALIDATI SOLO 4.454

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quella del Pnrr è una sfida che la Calabria non può perdere. Ma come può farlo, se ci sono 10.919 progetti e, di questi, solo 4.454 risultano validati? Per la nostra regione, infatti, sono disponibili 9 miliardi e 900 milioni, distribuiti in questo modo: 1,8 mld per la Provincia di Cosenza, 701,2 mln nella Provincia di Crotone, 1,6 mld nella Provincia di Catanzaro, 823,7 milioni nella Provincia di Vibo e 1,7 mld per la Provincia di Reggio Calabria. Da sottolineare che, di questi 9 miliardi, 7 mld e 500 mln sono risorse del Pnrr, mentre 2 mld e 400 mln sono collocabili nella voce “altre risorse”.

Scendendo nel particolare dei progetti, quello che emerge è l’eccessiva parcellizzazione delle risorse indirizzate alla Calabria se confrontate con le altre regioni italiane, rispetto alle quali risulta di molto superiore. Sono, infatti, 10.175 i progetti che prevedono un importo uguale o inferiore a 1 milione di euro; 3300 quelli con importo uguale o inferiore a 20 mila euro; 4050 quelli che prevedono un importo uguale o inferiore a 30 mila euro (considerati anche quelli con importo riferito ai 20 mila euro); 5700 con importo uguale o inferiore a 50 mila euro (considerati anche quelli con importo riferito ai 30 mila euro) e 2050 quelli con importo uguale o inferiore a 10 mila euro. Controllando la piattaforma OpenPnrr, si evince che sono 4.454 i progetti non validati. Scendendo al dato provinciale possiamo evidenziare questi dati: Cosenza: 3977 progetti; Crotone: 950; progetti Catanzaro: 2054 progetti; Vibo Valentia: 1205 progetti e Reggio Calabria: 2729 progetti.

Sono questi i dati preoccupanti emersi nel report sullo Stato di attuazione del Pnrr in Calabria curato dalla Uil Calabria dalla Uil Fpl Calabria «che attesta – ha spiegato la segretaria generale della Uil Calabria, Mariaelena Senese – i notevoli ritardi nell’attuazione del Pnrr, delle incertezze nella pianificazione e mettiamo insieme appunto, questo binomio, quindi i ritardi che registriamo, che continuiamo a registrare, perché oggi siamo al 40,85 nell’attuazione del Pnrr rispetto ad un preventivo pari al 64%, è una Calabria che continua ad arretrare, dove la povertà continua a farla da padrone proprio in virtù dello spopolamento, di un’emigrazione continua e che non è più un’emigrazione solo di quantità, ma un’emigrazione di qualità».

«Mazzini diceva che l’Italia sarà quel che sarà il Mezzogiorno – ha aggiunto – noi diciamo che all’interno del Mezzogiorno esiste un Mezzogiorno qual è la Calabria, che è un mondo estremo dove si continua ad arrancare dove i diritti che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti ai cittadini calabresi ma non lo sono».

Serve, dunque, verificare lo stato di attuazione del Pnrr in Calabria, cercando di mettere a fuoco tappe, strategie, messa a terra delle risorse finanziarie autorizzate. Quello che emerge è un quadro preoccupante per certi versi, che evidenzia criticità in termini di risposta da parte dei soggetti attuatori – non solo dell’amministrazione pubblica calabrese, con autorizzazioni lente e pagamenti in ritardo».

«La Calabria – dice il sindacato – ha spostato molti obiettivi nei prossimi anni: il rischio è che, dovendo realizzare troppi interventi entro il 2026, le attività si ingolfino e non riesca più a rispettare le scadenze stabilite da Bruxelles».

Il Pnrr, infatti, «rappresenta un’opportunità storica per la Calabria e per tutto il Mezzogiorno – si legge – finalizzata a superare le annose criticità strutturali e a promuovere uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Il Pnrr, con un investimento complessivo di 221,1 miliardi di euro a livello nazionale, è stato elaborato in risposta alla crisi generata dalla pandemia di Covid-19, con l’obiettivo di rilanciare l’economia italiana e promuovere una trasformazione verde e digitale del Paese».

Infatti, se «passiamo a fare un controllo del dato generale sul sito della Regione Calabria – si legge – che si basa come fonte sul Regis e risulta aggiornato a febbraio del 2024, quello che balza subito agli occhi è la differenza dei numeri sugli investimenti e dei progetti. Per il sito della Regione Calabria, infatti, sarebbero stati previsti investimenti per 11 miliardi e 309 milioni di euro e 12.142 progetti, di cui 777 risulterebbero chiusi».

Nello specifico, per la digitalizzazione sono stati stanziati 1 mld e 100 milioni di euro, per la scuola circa 954 milioni, imprese e lavoro circa 295 mln, cultura e turismo circa 117 milioni, per l’inclusione sociale circa 482 mln, per le infrastrutture 5 mld e 200 milioni, per la transizione ecologica 1 mld e 100 milioni, per la salute circa 598 mln. Per quest’ultima, in particolare, la Uil ha lanciato una provocazione: «se solo si pensasse di destinare una parte dei fondi indirizzati a Rfi e Tim, che ricevono altri fondi dall’Fsc e, quindi, evidenziano una sorta di ipercapitalizzazione, all’interno del Pnrr alla sanità si potrebbero risolvere diversi dei problemi presenti nel settore».

Il finanziamento in infrastrutture (53% circa del totale) è indirizzato a grandi player del settore delle costruzioni e si riferisce, quasi interamente, ai lavori di potenziamento e realizzazione dell’Alta velocità nel tratto campano-calabrese. Un terzo dei finanziamenti complessivi del Pnrr è destinato alla copertura di circa 10 progetti nel settore infrastrutturale che vengono destinati in gestione a holding internazionali. Questi finanziamenti servono a colmare il divario infrastrutturale (reti materiali ed immateriali) che segna il futuro della Calabria ma, per noi, rappresentano l’ennesima sconfitta di uno Stato che, in questi anni, non è riuscito a colmare le distanze che allontanano, sempre di più, il Sud dal resto del Paese che queste infrastrutture (viarie, ferroviarie e tecnologiche) le possiede già. Desolante il fatto che, proprio sulla missione 3, che riguarda le infrastrutture, si 14 progetti, nessuno è stato concluso. Stesso discorso per istruzione e ricerca: su 2.687 finanziati, nessuno di questi è stato chiuso.

Per quanto la digitalizzazione, ai dati di febbraio 2024, attualmente sono 3 i progetti chiusi su 3.114; per la transizione ecologica su 4934 progetti finanziati solo 756 vengono segnalati come chiusi; per la salute, su 498 progetti solo 14 sono stati chiusi.

I fondi Pnrr per la Calabria comprendono, anche, interventi mirati all’efficienza delle reti idriche di distribuzione per 21 comuni, con una popolazione complessiva di circa 164.000 abitanti. Questi interventi sono cruciali per migliorare la gestione delle risorse idriche in un territorio caratterizzato da frequenti criticità nel settore. Inoltre, il Pnrr prevede finanziamenti per la sanità calabrese, volti a modernizzare le strutture ospedaliere e a potenziare le strutture di prossimità, con l’obiettivo di garantire una migliore qualità dei servizi sanitari. La rigenerazione urbana è un altro ambito di intervento rilevante, con progetti che puntano a rivitalizzare i piccoli borghi storici e a promuovere iniziative culturali e sociali. Tuttavia, la Calabria deve affrontare sfide significative nell’implementazione dei progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La Corte dei Conti ha segnalato lentezze nella spesa pubblica e difficoltà nel rispettare i tempi previsti per l’attuazione delle misure. La recente rimodulazione delle risorse ha comportato uno spostamento di fondi da progetti infrastrutturali verso sussidi alle imprese, evidenziando la necessità di un rafforzamento delle capacità amministrative a livello locale.

Una lentezza dovuta anche alla carenza di personale specializzato presente negli enti locali per seguire l’iter progettuale, di realizzazione delle opere e di rendicontazione degli investimenti finisce per rallentare ancora di più questo processo.

«Il rischio concreto è quello di dover restituire il prestito all’Europa, indebitando la regione per diversi anni, senza riuscire a realizzare i progetti previsti e, quindi, trasformare la Calabria», ha denunciato la Uil, ribadendo la necessità di provvedimenti concreti per accelerare la messa a terra dei progetti, attraverso un piano di efficientamento della Pubblica Amministrazione, con assunzioni di qualità e piani di riqualificazione per il personale già in servizio. servono assunzioni a tempo indeterminato nella Pubblica Amministrazione centrale e locale; occorre rivedere le deroghe sulle assunzioni.

«Vi è la necessità – continua il sindacato – di un cambio di paradigma per il coinvolgimento delle parti sociali solco del dialogo sociale rafforzato per l’attuazione, monitoraggio e valutazione del Pnrr; investire circa il 3% delle risorse previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza riferito alla Calabria. Stiamo parlando di 300 milioni circa e di 30 milioni su base annua, per dare corso ad un nuovo piano occupazionale potrebbe, in parte, attenuare questi ritardi».

«Si tratterebbe – si legge – di coprire, per 10 anni, il costo di circa 850/900 impiegati fra istruttori (geometri e ragionieri) e funzionari di elevata qualificazione (ingegneri, architetti, avvocati, economisti). Naturalmente questo prevede, a monte, la previsione di una norma legislativa di carattere nazionale che consenta la deroga al tetto di spesa per le assunzioni».

Lo stato di avanzamento dei singoli interventi del Pnrr e la spesa effettivamente sostenuta per migliaia di progetti approvati è ancora scarsamente accessibile – ha denunciato il sindacato –. Nonostante le rassicurazioni pubblicate dal governo ad oggi queste informazioni non sono ancora pubbliche e accessibili a tutti. I dati del Pnrr restano carenti se non del tutto assenti. È necessario da parte del governo uno slancio decisivo di trasparenza su un programma di investimenti così importante per il Paese».

 

Calabria prima regione a investire risorse del Pnrr per ammodernare i frantoi

La Calabria è la prima regione d’Italia ad aver utilizzato le risorse del Pnrr per ammodernare i frantoi. È stata pubblicata, infatti, la graduatoria definitiva del bando (pubblicato a fine 2023) finalizzato a sostenere la filiera olivicola, che per vocazione identitaria e valenza economica ed ambientale è da sempre essenziale per la crescita della regione: l’olivicoltura calabrese, caratterizzata dalla presenza di più di 100 differenti varietà coltivate su oltre il 24% della superficie agricola complessivamente utilizzata, costituisce un tesoro di biodiversità, arricchito da Dop e una Igp, con 70.000 ettari di coltivazioni bio ed una produzione che fa della Calabria la seconda regione più produttiva del Paese, grazie ai circa 700 frantoi operanti sul territorio.

«Nella nostra terra – ha sottolineato l’assessore regionale all’agricoltura, Gianluca Gallo – l’olivicoltura rappresenta un pezzo di storia, ma anche un motore di sviluppo economico, ambientale e culturale da sostenere ed anzi potenziare, per favorire qualità e competitività attraverso misure che consentano la salvaguardia e l’espansione del settore».

Da qui la scelta di utilizzare anche le risorse messe a disposizione dal Pnrr, pari a 16.567.725,31 euro, per accrescere la sostenibilità del processo produttivo con l’introduzione di macchinari e tecnologie capaci di migliorare le performance ambientali dell’attività di estrazione dell’olio extravergine di oliva, oltre che di ridurre la generazione di rifiuti e favorirne il riutilizzo a fini energetici. Da segnalare anche l’obbligo di seguire percorsi di formazione in tema di produzione e degustazione degli oli Evo.

A seguito della definizione delle graduatorie, rende noto il Dipartimento Agricoltura, ha già avuto inizio – pure in questo caso, in netto anticipo rispetto alle altre regioni – la procedura di notifica ai beneficiari, relativamente ai progetti ammessi e finanziati. Per garantire il finanziamento anche delle istanze giudicate meritevoli ma prive – al momento – di copertura, la Regione si è attivata per intercettare risorse aggiuntive.

«Abbiamo già formalmente richiesto altri 5 milioni – ha concluso Gallo – ottenendone subito 1. Per gli altri 4, che consentirebbero la concretizzazione di tutti i progetti positivamente valutati, vi sono concrete possibilità di riuscire a riceverli, per come emerso dalle interlocuzioni ufficiali. Siamo fiduciosi e continueremo a lavorare per la tutela e la crescita dell’olivicoltura calabrese». (rcz)

CALABRIA PRIMA PER CHI SI CURA FUORI
ORA STOP ALLE “MIGRAZIONI SANITARIE”

di GIOVANNI MACCARRONEPrenotare una prestazione sanitaria all’interno del nostro Paese è abbastanza semplice. Una volta ricevuta la prescrizione medica dal proprio medico di base, è possibile contattare telefonicamente il Centro Unico di Prenotazione (Cup) e verificare così la lista d’attesa. 

Per le visite specialistiche e gli esami diagnostici con la lettera D (differibile), gli esami o le visite specialistiche dovrebbero essere fatte tra i 30 e i 60 giorni, mentre per quelle con la lettera U (urgente) gli esami o visite specialistiche dovrebbero essere fatte entro le 72 ore.

Sta di fatto che frequentemente per queste ed altre categorie la lista d’attesa supera di gran lunga questi tempi.

Per cui, il cittadino, per ricevere il servizio con tempi più rapidi, ricorre spesso ai servizi intramoenia (o in regime “intramurario”): l’attività libero-professionale che avviene all’interno delle strutture sanitarie, senza dover pagare il medico come “privato”, corrispondendo solo il ticket.

Altre volte, invece, preferisce utilizzare le strutture private convenzionate che possano offrire lo stesso servizio nei tempi previsti o comunque di qualità superiore a quello fornito da istituzioni pubbliche (Asl, Ao ecc.).

Altre volte ancora si preferisce, invece, andare lontani da casa per curarsi, quasi sempre dal Sud in direzione Nord, nella speranza di ricevere le cure migliori per la propria malattia.

Si stima che i «viaggi della salute» interessino, in un anno, circa un milione di italiani. Nel 2022, solo i ricoveri effettuati fuori Regione sono stati quasi 630 mila (contro i 498 mila nel 2020, anno della pandemia) come rilevano i dati dell’Ufficio statistica e flussi informativi sanitari di Agenas, l’Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali.

Quindi, approssimando i conti, senza voler far delle vere stime, potremmo tranquillamente dire che le spese sanitarie per le famiglie sono annualmente molto elevate.

È vero che, per rispetto del dettato dell’articolo 32 della Costituzione, agli indigenti devono essere comunque in ogni caso garantite le prestazioni sanitarie gratuite, ma è anche vero però che, per quanto detto sopra, costantemente i cittadini sono tenuti ad affrontare ingenti spese per la salute.  

Le famiglie già finanziano il sistema sanitario italiano tramite il fisco e, in particolare, per il 36% dall’Iva e dalle accise sulle benzine, il 28% dall’Irap e dall’addizionale Irpef, il 14% dai pagamenti diretti (prezzi), il 3% dai ticket e un altro 5% da premi di assicurazioni e mutue integrative; il restante 11% da altri tipi di tributi.

Tra l’altro, a seguito della crisi finanziaria in atto e` molto probabile che le famiglie saranno chiamate in futuro a un maggiore sforzo fiscale per finanziare il Ssn, sia sotto forma di aumento dell’addizionale Irpef (prevista fino al 3% dal D. Lgs. 68/11 sul federalismo fiscale), sia di maggiori compartecipazioni alla spesa sanitaria (+2 miliardi di euro, secondo la L. 111/11).

Va poi considerato che, data la consistenza dell’evasione e dell’elusione fiscale che ancora permangono nel nostro sistema tributario, i costi della sanità sono sopportati essenzialmente dal mondo del lavoro, che – come si è appena potuto notare – è quello che fornisce essenzialmente gli utenti della sanità pubblica

Insomma, è come il “cane che si morde la coda”, che è un modo elegante per dire che è un circolo vizioso, una situazione senza via d’uscita.

A questo proposito, bisogna considerare che quasi venti milioni non fanno la denuncia dei redditi. Il 48 % non versa neppure un euro. Quasi il 90% dell’Irpef è pagato da lavoratori dipendenti e pensionati. Dal 2024 la no tax area salirà a 13 mila euro. Sarà un aiuto per i veri poveri ma un paradiso fiscale per i finti poveri. Viene tartassato chi guadagna 50 mila euro lordi (poco più di duemila euro netti), con una tassa del 43% più le varie addizionali comunali e regionali, mentre i ricchi portano all’estero la sede delle aziende e la loro residenza fiscale. Solo 35 mila persone dichiarano più di 300.000 euro all’anno. 

Quindi – stando a quanto sopra – attualmente il Servizio Sanitario Nazionale si regge grazie al finanziamento dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, i quali, tra l’altro, ricevono spesso un salario annuo lordo medio inferiore a 11.000 euro (secondo uno studio condotto dall’Ufficio Economia dell’Area Politiche per lo Sviluppo della Cgil Nazionale, più di 5,7 milioni di lavoratori si trovano in questa situazione).

Con questo salario devono pagare soprattutto tasse, luce e gas, spese di locazione, spese condominiali, spese per mantenere una macchina, spese per la benzina (il prezzo della benzina in Italia come in tutto il mondo ha subito fortissimi rialzi nel 2022 a causa della guerra in Ucraina, arrivando anche a sfondare il tetto dei 2 euro al litro), ecc.

Se a queste spese aggiungiamo anche le spese per curarsi, si capisce il vero motivo per cui frequentemente qualcuno rinuncia alle cure (l’aumento delle spese per la salute riguarda tutte le macro-aree del Paese: al Centro e al Sud si registrano aumenti di oltre 100 euro a famiglia).

Purtroppo, questo fenomeno è molto più frequente nelle Regioni del Mezzogiorno, proprio quelle dove l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza è inadeguata: di conseguenza, l’insufficiente offerta pubblica di servizi sanitari associata alla minore capacità di spesa delle famiglie del Sud condiziona negativamente lo stato di salute e l’aspettativa di vita alla nascita, un indicatore che vede tutte le Regioni del Mezzogiorno al di sotto della media nazionale.

Un indicatore che – come viene solitamente commentato sulla stampa – è il risultato del “monitoraggio Lea”; si tratta di una serie di indicatori (perlopiù di struttura e di processo) volti a cogliere il rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza nelle Regioni italiane (il monitoraggio viene effettuato dal c.d. Comitato Lea, Comitato permanente per l’erogazione dei Lea, istituito presso il Ministero della Salute).

L’indicatore non consente di tornare a vent’anni fa ma, dal 2012 al 2019 (l’anno pre-pandemia), il “punteggio Lea” è sensibilmente migliorato in tutte le Regioni a Statuto Ordinario, ad esclusione della Calabria (che ha avuto un calo da 133 a 125), ed in tutte le Regioni a Statuto Speciale, ad esclusione della Sardegna (per la quale i dati si raccolgono dal 2017 e che ha visto un calo da 140 a 111 in tre anni). 

Sulla base di questo indicatore non sarebbe quindi azzardato concludere che la qualità delle cure sia peggiorato, soprattutto nelle regioni sottoposte a piano di rientro e commissariamento (le procedure di commissariamento riguardano ben quattro regioni, tra cui la Calabria dal luglio 2010).

Ecco perché il 55% delle persone che negli ultimi anni hanno ricevuto una visita specialistica e il 40% di quelle che hanno avuto accesso a un trattamento riabilitativo abbiano coperto completamente a proprie spese il costo della prestazione. 

Questa è una situazione inaccettabile che può essere superata solo ed esclusivamente con una nuova governance delle aziende sanitarie, con maggiori assunzioni di responsabilità economica da parte di amministratori regionali e direttori aziendali e maggiore flessibilità nella sfera operativa. 

Inoltre, maggiori controlli sui manager delle Asl e delle Ao potrebbe in particolare agevolare l’attuazione delle misure di contenimento della spesa assunte ai vertici del governo centrale e regionale.

Senza dimenticare, infine, che il Pnrr ha destinato alla Missione Salute 15,63 miliardi, pari all’8,16% dell’importo totale, per sostenere importanti riforme e investimenti a beneficio del Servizio sanitario nazionale, da realizzare entro il 2026.

Poi “Tutto il resto è noia”, come dice Califano. 

Speriamo bene. (gm)

 

L’OPINIONE / Santo Biondo: Occorrono 1,4 mld per il personale sanitario in Case e Ospedali di Comunità

di SANTO BIONDO – Sulla medicina territoriale, il Governo continua a tenere nascosto il tema delle risorse economiche. In risposta alla pubblicazione, di qualche giorno fa, del nostro report sulla Missione 6 del Pnrr, Agenas ufficializza le linee di indirizzo per l’attuazione del modello organizzativo delle Case di Comunità e Ospedali, omettendo però, ancora una volta, di quantificare le risorse economiche necessarie per le assunzioni di personale sanitario da adibire al funzionamento delle Case e Ospedali di Comunità.

Il nostro lavoro di analisi ha evidenziato che, a tale scopo, occorrono circa 1,4 miliardi da destinare al personale del comparto (infermieri, infermieri di comunità, Oss e personale di supporto) al quale si dovrà aggiungere il finanziamento per i medici. Una somma molto lontana da quanto stanziato dal Governo con legge dello Stato (considerato che il Pnrr non consente di finanziare assunzioni), che si attesta invece a 250 milioni di euro per il 2025 e 250 milioni di euro per il 2026. Una cifra che, se confermata, andrebbe purtroppo a sancire il fallimento della Missione 6 Salute.

Inoltre, la previsione dell’infermiere di famiglia o di comunità ha costituito un’innovazione importante, ma i dati oggi ci dicono che nonostante il DM77 ne richieda 25/30 mila in servizio, in Italia se ne contano a malapena 3000.

Senza alcuna assunzione di nuovo personale, il rischio potrebbe essere quello di creare la figura dell’IFoC attraverso un travaso di personale sanitario dall’area ospedaliera all’area territoriale. Ciò è in totale contrapposizione con l’obiettivo sbandierato dal Governo di voler abbattere le liste d’attesa nella Sanità. Con la recente pubblicazione del report abbiamo già ampiamente rappresentato che la specifica Missione 6 Salute manca di dati e di informazioni circa la sua fase d’attuazione.

Sulla realizzazione della medicina di prossimità, dunque, il Governo continua, ostinatamente, a somministrare una cura che è sbagliata e che, se protratta, andrà a ridimensionare anche i grandi proclami che lo stesso Governo sta facendo in ordine alle riforme sulla disabilità e sulla non autosufficienza. (sb)

[Santo Biondo è segretario confederale Uil]

POLISTENA (RC) – Inaugurato il nuovo plesso dell’Its “Milano”

«È con grande orgoglio che consegnano la prima opera realizzata con i fondi del Pnrr», ha dichiarato il sindaco della Città Metropolitana di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, all’inaugurazione del nuovo plesso dell’Its “Michele Maria Milano” di Polistena.

La struttura, adiacente al corpo principale, è stata realizzata grazie ai fondi del Pnrr con un investimento di 500 mila euro e andrà ad implementare gli spazi, l’offerta ed i servizi dell’Istituto. Oltre a numerosi docenti dell’Istituto ed al personale Ata, al taglio del nastro hanno partecipato la dirigente scolastica Simona Prochilo, il sindaco di Polistena, Michele Tripodi, ed il dirigente del settore Edilizia della Città Metropolitana, Giuseppe Mezzatesta.

Falcomatà ha parlato  di una scuola che «continua a crescere per una qualità ed un’organizzazione in grado di garantire trend estremamente positivi nonostante i problemi legati allo spopolamento delle aree interne ed al calo delle nascite».

«Da oggi – ha spiegato – gli studenti dell’Itis avranno maggiori spazi per vivere la loro esperienza scolastica. Siamo contenti perché riteniamo il diritto allo studio un vero e proprio diritto di cittadinanza e dobbiamo fare di tutto per garantire l’educazione al bello in luoghi sicuri, accoglienti e moderni. La Città Metropolitana continua ad investire nella scuola perché è intorno a questa che cresce una comunità che non si rassegna alle brutture che, spesso, ci circondano».

«Per questo – ha proseguito il primo cittadino – ringrazio il vicesindaco Versace ed il dirigente Mezzatesta, ma soprattutto Polistena e la sua scuola che, grazie al lavoro della dirigente e degli insegnanti, segna un corposo aumento delle iscrizioni. E quando una scuola cresce, è dovere della Città Metropolitana intervenire affinché gli studenti possano partecipare alle lezioni nei migliori ambienti possibili».

Dello stesso tenore l’intervento del vicesindaco Carmelo Versace, sottolineando «il primato della Città Metropolitana nel realizzare, concludere e consegnare un’infrastruttura sfruttando le opportunità dei fondi del Pnrr».

«Probabilmente – ha concluso – siamo i primi a farlo in Italia, sicuramente lo siamo in Calabria. Segno evidente di una regia attenta e trasparente della Città Metropolitana che riesce a distinguersi per efficienza e concretezza. Non ci fermeremo a Polistena, ma nelle prossime settimane inaugureremo nuovi plessi scolastici sul territorio. Andiamo avanti e guardiamo al futuro». (rrc)

LE STRUTTURE DI MEDICINA TERRITORIALE
NON DIVENTINO CATTEDRALI NEL DESERTO

di SANTO BIONDO –  Con la pandemia da Covid 19 sono emerse, in tutta la loro gravità, le carenze strutturali della medicina del territorio.

Questi ritardi stanno provocando, come riflesso immediato e più importante, l’aumento esponenziale dei carichi di lavoro per il personale infermieristico e medico che, dopo anni di grave stress lavorativo, stanno scegliendo di lasciare il Servizio sanitario nazionale per la sanità privata o per trasferirsi all’estero, dove gli stipendi sono più alti e i carichi di lavoro meglio gestiti, determinando così l’ulteriore depotenziamento della sanità pubblica italiana.

Dall’evidenza di tali criticità, è nata la scelta di destinare una quota importante sia di finanziamenti europei, attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza, sia di investimenti pubblici al potenziamento della sanità in Italia e, in particolare, della medicina del territorio. Stiamo parlando di un investimento totale che sfiora i 19 miliardi di euro: risorse, comunque, a debito che graveranno sulle spalle delle italiane e degli italiani.

Il nostro lavoro di analisi e approfondimento, vuole mettere in risalto i rischi che ne deriverebbero per la sanità pubblica, se questo progetto non andasse in porto e se non si potenziasse la medicina del territorio con l’effettivo funzionamento degli ospedali di comunità, delle case di comunità e delle centrali operative.

Il primo elemento di criticità emerge dalle piattaforme online (Regis; Portale Italia Domani; Ministeri competenti per materia; Sigeco; Agenas; OpenPnrr e Regioni) che dovrebbero consentire un’azione di controllo sociale sull’avanzamento del Piano nazionale di ripresa e resilienza nella fattispecie legata alla sanità e, in particolare, alla medicina del territorio. Molte di queste non sono aggiornate costantemente, forniscono pochi e frammentati dati e, in alcuni casi, persino in evidente contrasto tra loro.
Vengono meno così sia il dovere di trasparenza amministrativa sia la possibilità di valutare l’operato delle Istituzioni in materia.

C’è, inoltre, un grande rischio per il futuro delle strutture sanitarie della medicina del territorio. Se anche il piano venisse attuato, dal punto di vista infrastrutturale, gli ospedali di comunità, le case di comunità e le centrali operative territoriali difficilmente potrebbero funzionare, a causa della forte carenza di personale, per il cui pagamento, è bene ricordarlo, le risorse non possono provenire dal Pnrr, ma dai bilanci nazionali.

Incrociando i dati relativi agli standard del personale del Dm77 con il costo unitario medio annuo indicato dal Ministero dell’economia e delle finanze, infatti, si evince che per far funzionare le 1038 Case di comunità, indicate dal piano, servirebbe un investimento in personale stimabile in circa 1 miliardo di euro annui. Mentre per i 307 Ospedali di comunità previsti sarebbero necessari oltre 218 milioni euro. Infine, per coprire le spese per il personale delle 480 Centrali operative territoriali servirebbero 163 milioni di euro.

Il fabbisogno totale stimato, dunque, è pari a 1 miliardo e 366 milioni di euro per circa 30.000 professionisti. Quantità, a nostro avviso, comunque sottostimata per un giusto equilibrio dei carichi di lavoro.

A fronte di questi numeri, invece, l’impegno totale previsto dello Stato è di soli 250 milioni per il 2025 e 250 milioni per il 2026.

Quindi, a meno che non si intenda spostare personale sanitario dagli ospedali, svuotandoli di professionalità necessarie all’erogazione di un servizio sanitario pubblico efficiente e moderno, le strutture della medicina del territorio previste dal Pnrr, una volta costruite o reperite, rischierebbero di diventare delle cattedrali nel deserto.

Il Governo, purtroppo, sta investendo poco in sanità (le stime nazionali parlano del 6% del Pil) e non rimuove il tetto di spesa per l’assunzione di nuovo personale, paralizzando di fatto l’operatività delle strutture dedicate alla medicina del territorio. Se non si realizzasse questo obiettivo, sarebbe il crollo del Servizio sanitario nazionale: non solo il Sud, ma anche il Nord del Paese rischierebbe di arretrare in Europa.

Gli indirizzi da assumere per attuare la Missione 6 prevista dal Pnrr e salvare quindi anche il Sistema Salute del Paese devono essere incastonati all’interno di un SSN che sia effettivamente universale, pubblico e diffuso in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale.

Un Sistema Salute la cui realizzazione passa attraverso una riforma fiscale improntata a principi di equità e progressività, che realizzi una redistribuzione della ricchezza funzionale a costruire uno Stato Sociale a misura della persona. (sb)

[Santo Biondo è segretario confederale della Uil]

LA “CORSA” CONTRO IL TEMPO DEL SUD
PER SPENDERE IN TEMPO LE RISORSE PNRR

di PIETRO MASSIMO BUSETTASi può contemporaneamente invitare a correre dando una scadenza molto precisa per raggiungere l’obiettivo  e poi continuare a mettere ostacoli per evitare il raggiungimento richiesto? Si, se si adotta la massima evangelica che recita che la destra non sappia quello che fa la sinistra. Per cui il ministro dell’economia agisce senza consultarsi con quello del Sud. 

«Il taglio previsto per gli enti locali è di 250 milioni quest’anno, prima tranche di 1 miliardo e 250 milioni fino al 2028, ed è già un duro colpo per tutte le amministrazioni locali – spiega Decaro – ma la cosa più grave è che il Mef vuole ripartire questo taglio colpendo i Comuni in misura direttamente proporzionale ai finanziamenti del Pnrr».

I tagli riguarderanno 6.838 Comuni, 78 province e 13 città metropolitane. Le riflessioni che vengono immediate sono che i tagli sono orizzontali e non mirati. Il che vuol dire che i Comuni del Mezzogiorno, in genere più disastrati, saranno colpiti come quelli che hanno risorse più abbondanti, anzi in misura maggiore se l’assunto che il Pnrr dovrebbe finanziare maggiormente le realtà locali del Mezzogiorno é corretto. 

Ora capisco perfettamente che opporsi ai tagli è l’esercizio più facile, e in particolare per l’opposizione. Ma se il Pnrr si pone l’obiettivo di diminuire i divari esistenti, di avvicinare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep), come potrà avvenire se i tagli sono uguali per chi gli asili nido li ha già in un numero vicino alla percentuale richiesta dall’Unione Europea e chi invece ne è lontanissimo? 

E in ogni caso non sarebbe stato opportuno concordare i tagli con il Ministro Raffaele Fitto, che ha consapevolezza delle problematiche del Piano di Ripresa e Resilienza? Anche il Ministro Giancarlo Giorgetti, come molti in questo nostro Paese, si comporta come se il Paese fosse uno e non, come ogni evidenza statistica dimostra, due. 

Se è vero che come ha dimostrato il Dipartimento per le politiche di Coesione, su sollecitazione di Carlo Azeglio Ciampi, ogni anno una spesa pro capite uguale tra Centro Nord e Mezzogiorno prevederebbe una maggiore dotazione a favore del Sud di 60 miliardi non sarebbe stato il caso di provvedimenti articolati e differenziati per provare progressivamente a diminuire tale divario?

D’altra parte il pensiero dominante é chiaro: altro che diminuire la distanza esistente tra le due parti nei diritti di cittadinanza, la si vuole invece costituzionalizzare con l’autonomia differenziata, trattenendo un residuo fiscale che esiste solo nella mente di Luca Zaia, ma anche di Stefano Bonaccini, e dei loro ricercatori di corte.    

Lo stesso Raffaele Fitto non potrà che piegarsi rispetto alle esigenze di un bilancio che impongono alcuni aggiustamenti.

 Purtroppo la centralità del Mezzogiorno, sempre di più é solo una grida, rinnovata periodicamente ma contraddetta nei fatti. Per cui l’esigenza che le regioni meridionali facciano fronte comune diventa sempre più importante. 

Anche se operativamente diventa estremamente complicato mettere insieme amministrazioni regionali che hanno maggioranze diverse, alcune  allineate rispetto alle decisioni  del Governo.  Fare fronte comune per ricorrere,  se necessario, come ha fatto recentemente Vincenzo De Luca per i Fondi di Sviluppo e Coesione, all’ autorità giudiziaria non sarà facile. E si continuerà con un atteggiamento che sembra corretto, perché mette tutti sullo stesso piano, con tagli lineari, ma che alla fine è profondamente ingiusto, considerato che i punti di partenza di ciascuno sono diversi. 

L’effetto sarà quello di far permanere le distanze esistenti e, considerato che i Comuni del Centro Nord in genere hanno una dotazione  di risorse maggiori, probabilmente aumentarle. 

Il tema di un diverso trattamento necessario diventa sempre più dirimente rispetto agli obiettivi previsti. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

PNRR, LE SCELTE DELL’ALGORITMO HANNO DANNEGGIATO IL SUD: SOTTRATTI 25 MLD

di PIETRO MASSIMO BUSETTASolo un algoritmo! Nessun intervento particolare tanto che molti Paesi hanno avuto risorse maggiori rispetto all’Italia. Gli 800 miliardi di euro di fondi europei del Pnrr furono assegnati “in base a un algoritmo” e «non sono state negoziati dai Capi di  Governo». E anche sul “sacco di soldi” ricevuti «c’è un po’ di retorica italiana».

«L’Italia è il settimo Paese in termini di rapporto tra soldi ricevuti e Pil. Ci sono altri che in termini relativi hanno portato a casa molto di più, dalla Spagna alla Croazia. Sempre grazie all’algoritmo». 

Le dichiarazioni di Paolo Gentiloni innescano una polemica con il Movimento Cinque Stelle, che accusa il Commissario Europeo all’Economia di “riscrivere la storia” e di “manipolare la genesi” del Recovery Fund «provando a minimizzare il ruolo» del Governo guidato all’epoca da Giuseppe Conte

Ma cosi si parlò il Commissario Europeo, con una dichiarazione  tranciante rispetto al racconto dei Cinque Stelle, che attribuivano al loro leader, Giuseppe Conte, il merito di aver avuto risorse importanti per il nostro Paese. 

In realtà “secondo un algoritmo” sembra una cosa talmente complicata da non essere facilmente compresa. Invece è tutto molto semplice: le risorse sono state assegnate ai singoli Paesi in rapporto a tre variabili: il reddito pro capite, l’ampiezza demografica e il tasso di disoccupazione.

Una distribuzione in Europa fatta in base a un algoritmo, quindi senza alcuna possibilità di interferire con i numeri rispetto a contrattazioni o possibili pressioni.

Queste risorse in Italia, invece di essere redistribuite sui territori in funzione dello stesso algoritmo, come sarebbe sembrato logico, si cambia registro e si procede con sistemi differenti che alla fine della fiera portano al Sud un importo inferiore rispetto a quello che sarebbe stato dato con il calcolo effettuato in sede europea. 

Cioè se il Mezzogiorno fosse stato una delle nazioni dell’Europa, con i suoi 20 milioni di abitanti, con il suo tasso di disoccupazione e il suo reddito pro capite,  avrebbe avuto diritto a una percentuale maggiore delle risorse assegnate col Pnrr. 

La distribuzione delle risorse all’interno del Paese è stata distorta a favore della  sedicente locomotiva settentrionale, in una logica che avrebbe previsto importi rilevanti per una parte che, se fosse stata separata dal Sud, ne avrebbe usufruito in modo molto contenuto, come è successo a Germania e Francia.

L’Italia ha avuto 68,88 miliardi di euro a fondo perduto. Doveva averne invece in base alla popolazione 48,95. Vuol dire che ha avuto una differenza di 19,93 miliardi in più per l’esistenza del Mezzogiorno, considerato che gli altri due parametri sono stati il tasso di disoccupazione e il reddito pro-capite.

E allora siccome i fondi teorici erano 48,95 miliardi, il 33%, cioè 16,153, devono essere assegnati al Mezzogiorno in base alla popolazione, la differenza di 19,93 è dovuta al fatto che c’è un Mezzogiorno con i suoi pessimi parametri. Arriviamo a 36,08 su 68,88 assegnati che corrispondono al 53% del totale risorse a fondo perduto. Poiché il nostro Paese ha deciso di assegnare  al Mezzogiorno il 40%, vuol dire che ha sottratto, di ciò che l’Europa aveva destinato, il 13%. Se estendiamo la stessa percentuale anche ai fondi a prestito, su 191,5 miliardi il 13% sottratto corrisponde a 25 miliardi. Una bella cifra.

D’altra parte è la logica che in Italia è stata sempre sottostante alle risorse comunitarie che, invece di essere state aggiuntive rispetto a una distribuzione di risorse equa per la spesa ordinaria, sono andate a sostituire la stessa, ottenendo un risultato inaccettabile che, complessivamente, anche sommando quella che avrebbe dovuto essere la spesa straordinaria, ha portato a una spesa pro capite assolutamente differente tra Nord e Sud, con una prevalenza decisa di quella assegnata al Nord. 

Di tale devianza ha sofferto la distribuzione per anni, che si riassume nel riferimento alla spesa storica. Quindi prima distorsione nell’assegnazione delle risorse, ma sono  consapevole che tale fase  è solo un primo passo rispetto all’effettuazione della spesa. 

Per far sì che le risorse arrivino sui territori sono necessari tanti passaggi, che riguardano progetti adeguati, strutture che riescano ad assegnare, in tempi compatibili con le problematiche da affrontare, le risorse ai progetti che si presentano, e infine un monitoraggio dei lavori, che vengano completati nei tempi previsti.

Tutto questo al Sud non ha funzionato ed è probabile, al netto di interventi dirompenti, che continuerà a non funzionare, in particolare se le risorse vengono assegnate a bando, come nel caso degli asili nido, che solo recentemente hanno avuto una correzione, per cui i Comuni più attrezzati riuscivano ad avere le risorse, indipendentemente dalle effettive esigenze. 

A metà del cammino del Pnrr, mentre l’Europa continua a liquidare le tranche previste, asseverando un corretto funzionamento dello strumento, la sensazione invece è che nemmeno quel 40% previsto alla fine arriverà sui territori meridionali. 

 E se non si approfitta del Pnrr per estendere gli stessi diritti di cittadinanza, quelli che sono misurati dai livelli essenziali delle prestazioni, i cosiddetti Lep, prodromici all’attuazione delle autonomie differenziate chieste dalle regioni del Nord, come potranno livellarsi in futuro? Rimane una domanda senza risposta.

Ma al di là degli importi dovuti all’una e all’altra parte, in ogni caso quel 40% individuato vogliamo che arrivi sui territori?

Compito della struttura del ministro Raffaele Fitto è controllare che almeno questo avvenga. E di intervenire nel caso in cui i ritardi accumulati rischino di far perdere le risorse alla realtà del Sud. 

Mentre è chiaro che non è cosa semplice fare spendere risorse importanti a chi non ha alcuna struttura amministrativa non si può accettare il principio che hanno proposto Giuseppe Sala e Luca Zaia di trasferire i soldi a loro perché sono più bravi a spendere. 

Ma non solo perché sarebbe ingiusto ma perché non conviene al Paese, che oggi deve puntare tutto sulla carta vincente che ha a disposizione. Quel Sud che al di là delle iperboli sul fatto che sia diventato la locomotiva è necessario che venga adeguatamente sviluppato per contribuire allo sviluppo complessivo. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]