di SERGIO DRAGONE – La morte spezza i sogni, la morte crea le leggende. Se non fossero morti giovani, sarebbero diventati altrettante leggende Jim Morrison, James Dean, Janis Joplin, Kurt Kobain, Amy Winehouse ? E Rino? Rino che oggi avrebbe 71 anni e probabilmente sarebbe solo un artista bravo, molto bravo, avviato sul viale del tramonto. Quel tragico schianto di quarant’anni fa, sulla Nomentana, se da un lato ha spezzato una giovane vita e un talento incredibile, ha consegnato all’eternità artistica il genio di una personalità irripetibile.
Rino Gaetano sapeva di essere incompreso. Una sera, sulla spiaggia di Capocotta, durante un concerto fece una predizione. “Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni… capiranno e apriranno gli occhi anziché averli pieni di sale”.
Predizione avverata visto che, a quarant’anni e più dalla sua morte, i suoi brani corrono sulla bocca di tutti, compresi i millennians, e i suoi versi diventati una sorta di cult.
Ci sarà pure un motivo se Il cielo è sempre più blu sia stato il motivo più cantato dai balconi italiani durante il primo, durissimo lockdown della primavera del 2020.
Rino sapeva di essere considerato un “giullare” irriverente, un tipo un po’ bizzarro con strane idee per la testa, un cantautore diverso che usava un linguaggio mai sentito prima e scriveva versi surreali e senza senso.
E invece il senso ce l’avevano. E come. Rino è stato il meno allineato dei cantautori “poco allineati”. Non dico che Guccini, Fossati, De Gregori, Venditti – per non parlare dell’immenso De Andrè – non abbiano fustigato costumi e vizi della società italiana. Ma nessuno lo ha fatto come Rino, mettendoci la faccia fino in fondo, sapendo che solo con l’irriverenza più sfacciata si poteva scalfire il Potere.
È stato, senza volerlo, il più “politico” degli artisti italiani. La cosa incredibile è che lo è stato senza piegarsi ai ricatti dei partiti, senza prendere una comoda tessera da tenere in tasca da utilizzare per ottenere presenze televisive. Diciamo la verità, anche alcuni dei grandi che ho citato prima non hanno disdegnato un’occhiata benevola ai partiti dominanti dell’epoca, facendosi trovare pronti per le grandi “feste nazionali”.
Rino non ha avuto bisogno di tessere e ammiccamenti. Il suo manifesto politico è contenuto in una delle sue canzoni più celebri, Mio fratello è figlio unico, quando dice ironicamente che “è convinto che esistano ancora gli sfruttati, malpagati e frustrati”. Quel fratello “deriso, frustrato, picchiato, derubato, dimagrito, declassato, sottomesso, disgregato” esisteva ed esiste.
Più comunista dei comunisti, più socialista dei socialisti, più anarchico degli anarchici. Rino ha cantato l’Italia degli scandali, della disuguaglianza sociale, della mala giustizia. Ha sbeffeggiato il Pentapartito e il PCI, ha sbeffeggiato gli Agnelli e il loro impero economico, ha sbeffeggiato i miti della moda e della comunicazione.
È riuscito a condensare in una sola canzone, Aida, settant’anni di storia italiana, dal colonialismo al fascismo, dalla Resistenza alla Costituente, dall’illusione della democrazia agli scandali come Antelope Cobbler.
Persino nelle sue ballate più commerciali Rino ha dato fiato alla sua ironia, alla sua sottile intelligenza, alla sua poesia controcorrente, alla sua cultura. Riprendendo l’antico detto popolare “E’ finito il tempo in cui Berta filava”, ha confezionato una delle più esilaranti caricature di un uomo molto potente come Aldo Moro. Eravamo nel 1976 e il “grande tessitore” della DC cuciva l’alleanza storica con il PCI che evidentemente a Rino appariva come un compromesso al ribasso.
Nel 1978 partecipa a Sanremo con Gianna, incuriosendo tutti per l’apparizione sul palcoscenico con tanto frac, medaglie e cilindro. Dietro questo nome di donna c’è la classe dominante in Italia, sensibile solo alle bustarelle, disponibile a tutto pur di perpetuare il proprio potere (“Gianna sosteneva tesi e illusioni, Gianna prometteva pareti e fiumi”).
Ecco, se c’è un comune denominatore di tutta l’opera di Rino Gaetano, quello è il profondo disprezzo per il potere. Sotto qualsiasi forma.
Lo schianto di quaranta anni fa sulla Nomentana ha generato una leggenda. L’ironia, l’apparente non sense, la struggente malinconia, hanno lasciato l’immagine di un misterioso e imperscrutabile futuro: “Ma la notte, la festa è finita, evviva la vita. La gente si sveste, comincia un mondo, un mondo diverso, ma fatto di sesso, chi vivrà vedrà”. Si, vero. Chi vivrà vedrà. (sd)