Dal racconto di Natale di Saverio Strati

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI Per un ragazzo del nord il Natale corrisponde certamente a vetrine illuminate e zeppe di giocattoli e di robe di ogni genere, all’albero dove sono appesi dei regali; e forse non avverte la preoccupa¬zione dei genitori per la mancanza di soldi o di lavoro o addirittura del pane quotidiano. Per un ragazzo del sud, al contrario, il Natale prende un altro aspetto, gli si presenta con altra faccia. C’è il presepe, che ripete pari pari la storia della nascita del figlio di Dio. Ma il presepe in casa è segno di ricchezza: cioè vien fatto nelle case dei ricchi. Nelle case dei contadini o degli operai e artigiani non si fa il presepe. Lo si prepara in chiesa. Ed è opera popolare, costruito, messo su dall’abilità e spesso dalla genialità dei più bravi ragazzi; e concesso al godimento dei poveri attraverso la Chiesa, sempre mediatrice tra Dio e popolo. Certo anche Gesù Bambino sarà andato a piedi nudi per le vie del suo paese, e anche lui avrà avuto i calzoni a brandelli, visto che anche lui era figlio di gente povera. Suo padre era un povero falegname. Cosa poteva guadagnare? Ma certo Gesù era scalzo perché voleva”. (Saverio Strati)

Se i tempi cambiano inseguendo le mode, la letteratura, che conserva l’identità delle cose, potrebbe essere il giusto mezzo per rintracciare i tempi passati. Recuperarli e forse, perchè no, rimetterli in uso. Rivalorizzandone l’importanza, scoprendone la necessità. La letteratura di Saverio Strati fa un lavoro di ricognizione sulle tradizioni e di fermo immagine sul passato, dal valore inestimabile. Così accade nel Il Natale in Calabria, un racconto dedicato alla natività del Bambino, e con cui lo scrittore rappresentata la tradizione identitaria, e il vivere della civiltà contadina meridionale.

Il racconto sul Natale, diventa uno stato d’animo che vive nell’uomo. Nulla, infatti, egli esterna se non lo prova. 

Nell’illustrazione del Natale, Strati, conservandone la magia, esterna i vissuti non come ricordi, ma perfetta quotidianità. E lo fa tracciando una precisa mappa dei luoghi in cui celebra la festa. Saverio Strati, tra gli autori più importanti del ‘900 letterario italiano, pur dimorando in Toscana, vive il suo natale in Calabria. E proiettandosi nella realtà da cui proviene, non tralascia niente. Offre invece al lettore, i profumi, i sapori, i sentimenti e i valori. L’aria croccante della sera della vigilia, quella pungente del giorno di Natale. E poi la casa, la famiglia, la tavola, il torrone e il fuoco. 

Strati, ne Il Natale di Calabria, racconta con la genialità dello scrittore e il valore dell’uomo, un Natale che forse non c’è più, ma che basta cercare dentro ognuno di noi per ritornare a vivere. Un tempo che non è vero che passa, ma semplicemente, come uomini distratti, non riusciamo più a vivere appieno.

Il Natale in Calabria, pubblicato da Strati nel 2006, è un piccolo libro, con illustrazioni, di pochissime pagine. Un’opera letteraria dal valore inestimabile che, per ridare considerazione alla festa, bisognerebbe ritornare a leggere. In Calabria e in capo al mondo. Potrebbe tornare a essere ogni giorno Natale. 

[…] Natale era veramente la festa del focolare, dell’unione della famiglia, della rinascita, della speranza e della vita che è eterna nella successione delle generazioni. Era una festa amata, desiderata: pareva che la natura vi partecipasse per la luce e un senso di tepore e di pace che si manifestavano nel cielo in quei giorni generalmente luminosi e sereni.

Allora più che oggi le feste natalizie erano più autentiche nel Sud che nel Nord: erano più vicine al racconto evangelico. L’albero, per esempio, che è di origine nordica e che non ha nulla da vedere col racconto evangelico, ossia con la nascita di Gesù, era quasi totalmente ignorato. C’era il presepe che ripeteva pari pari la storia della nascita del figlio di Dio: Ma il presepe era un segno di ricchezza: veniva allestito nella casa dei pochi ricchi.

Nella casa dei contadini, degli artigiani, dei lavoratori non c’era il presepe. Lo si preparava in chiesa ed era popolare, costruito e messo su dall’abilità e spesso genialità dei più bravi ragazzi, e concesso al godimento di tutti attraverso la chiesa che è mediatrice fra Dio e popolo. […]

La chiesa per via della gente e delle lumiere in qualche modo si riscaldava e cominciava la celebrazione della messa e nel bel mezzo da fuori cominciavano ad arrivare grida festose. Erano le grida dei giovani che erano andati in cerca di fasci di rami e di legna e avevano acceso il fuoco, un gran fuoco che lingueggiava allegramente e illuminava la piazza e la facciata della chiesa.[…]

Le fiamme si alzavano vigorose e lingueggianti al cielo e destavano in tutti i presenti una gioia irrefrenabile, tanto che molti si mettevano a ballare come se fossero eccitati dalla forza del fuoco, che è simbolo di vita. […]

E rubare fasci di rami o ceppi non era vergognoso, non era reato, anche se la donna derubata qualche volta arrivava strillando e minacciando di denunciare i ladri ai carabinieri.

La messa finiva, il fuoco si spegneva e i contadini partivano per i campi lontani. Spuntava il giorno e con esso i ragazzi si riversavano per le strade e giocavano pazzamente alle noccioline, pensando alla mattina della veglia di Natale quando la mamma si alzava dopo la mezzanotte, per preparare «cose fritte»: zeppole e nacatole. […]

Generalmente ci si riuniva, anzi ci si riunisce ancora oggi, nella casa dei nonni che vogliono avere la «consolazione» di stare, forse per l’ultimo Natale, tra i loro figli: Vogliono averli lì in quella casa dove son nati e cresciuti, dove hanno avuto tante preoccupazioni in comune che ora rievocano ed è come se leggessero un libro scritto da tutti loro. Peccato che qualche figlio è assente: Vincenzo si trova in Australia, il marito di Maria in Brasile.

– Ma sono con noi in spirito –, dice con antica saggezza il nonno. – Beviamo alla loro salute. […]” (S.S.)  (gsc)

Saverio Strati, la genialità postuma di uno scrittore straordinario

TUTTA UNA VITA: IL LIBRO INEDITO DELLO SCRITTORE CALABRESE, EDITO DA RUBBETTINO

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il percorso che intrapresi parecchi anni fa sulla letteratura calabrese, porta un nome ben distinto e preciso: Saverio Strati.

Ero ragazza quando lo incontrai a scuola. Facevo più o meno la quinta elementare. Un nuovo maestro, ci disse la maestra. Statura bassa, capelli bianchi, scarpe di suola e un paltò del colore della sabbia del mare. E sotto braccio un borsello di pelle. Fu da lì che estrasse Fiabe Calabresi e Lucane, che io e i miei compagni avevamo già letto in classe, e di cui l’autore era lui, insieme al professore, nostro compaesano, Luigi Maria Lombardi Satriani.

Da allora non lo rividi mai più. Anzi ne persi completamente le tracce. Ma solo fino a quando il caso decide di trasformarsi in destino, e Saverio Strati lo ritrovo, e proprio quando non me lo aspetto più. In libreria, in uno scaffale carico di libri, in mezzo ad altri autori. Lo ritrovo con uno dei suoi più grandi capolavori, Tibi e Tascia. Un caso sì, proprio un caso aver posato gli occhi su quel libro, e sicuramente un destino averlo fatto in quel preciso momento. Non passò moltissimo tempo infatti, e di Strati, dopo anni di lungo e assordante silenzio, incominciai a sentir parlare i giornali locali. Lo scrittore calabrese, che da quasi cinquant’anni abitava a Scandicci, in Toscana, vicino Firenze, balzava agli onori della cronaca letteraria per lo stato di indigenza in cui si trovava costretto a vivere.

Ma come era possibile tutto questo?

Mi ero documentata. Saverio Strati era stato uno dei più grandi autori del neorealismo italiano; aveva scritto una quantità eccezionale di libri; era stato letto e tradotto in tutto il mondo; aveva vinto il Campiello nel 1977 con Il Selvaggio di Santa Venere; era stato lui, ancora prima di Sciascia, il primo autore dell’Italia novecentesca, a parlare apertamente di mafia. Ma nel 1991, Mondadori, la casa editrice con cui aveva esordito e si era affermato, rifiutava il suo racconto Melina, e il romanzo Tutta una vita.

Un’uscita di scena ‘imposta’ che impatta bruscamente sullo scrittore, ma soprattutto annienta l’uomo. 

Entrambi provati moralmente, e col tempo anche economicamente. Strati, che vive con il mestiere di scrittore, attinge ai risparmi finché gli è possibile, ma quando anche questi saranno finiti, è ben altro quello a cui le necessità fisiologiche dell’uomo lo costringono. In una lunga e accorata lettera, il piccolo muratore calabrese, diventato grande scrittore nel mondo, si vede costretto, per poter vivere degnamente insieme alla moglie svizzera, Hildegard Fleig, gli ultimi anni della sua vita, a chiedere il sussidio previsto dallo Stato per gli artisti italiani, grazie alla legge Bacchelli.

Alle lettura di questa triste notizia, custode delle forti emozioni del giorno in cui Strati lo avevo visto e ascoltato, toccato con mano, ebbi al cuore uno stretta che ricordo ancora. E fu dolente.

Il mio interesse verso la letteratura calabrese era stato sempre forte, ma da quel momento ebbe, non una ragione in più, ma una precisa ragione. Saverio Strati aveva dovuto, schivo e introverso com’era, superare ogni genere di vergogna, per poter scrivere quelle righe. Sottomettere la sua dignità di uomo. Mettersi a nudo a quel modo non era stato certo facile. Non lo sarebbe stato per nessuno. In fondo, uno come lui, non avrebbe voluto altro se non che si leggessero i suoi libri. Questo infatti chiedeva. Non soldi, ma la pubblicazione delle sue opere. 

La Calabria, contrariamente a quanto aveva fatto prima, ignorando spesso la genialità di Strati, si mobilita a suo favore, e affinché almeno all’uomo fosse concesso di arrivare dignitosamente al tramonto della vita. E fu. Vi furono campagne di sensibilizzazione davvero importanti. E se anche alla fine i libri di Strati non vennero pubblicati, la Bacchelli gli fu praticamente concessa.

Non mi diedi comunque pace, e neppure per vinta, la struttura che era stata messa in piedi attorno a Saverio Strati, non era minimamente sufficiente se misurata sulla base della sua grandezza. Salvato l’uomo, ora bisognava salvare lo scrittore. 

Saverio Strati aveva dato alla letteratura italiana un grande impulso, e la mancata riconoscenza ch’essa le riservava, destinandolo all’oblio, la trovai davvero discutibile. Se Strati doveva pagare un prezzo, per non essere stato avvezzo ai salotti letterari dell’Italia del ‘900 come l’epoca richiedeva, ed essere stato comunque uno scrittore di successo, libero e indipendente, il conto che gli veniva presentato era decisamente troppo alto e ingiusto. 

Dovevo fare qualcosa, non potevo rimanere con le mani in mano. Dovevo almeno provarci. Provare a recuperare. Per il maestro, per la Calabria e per la letteratura italiana.

Scrissi a Saverio Strati – con la mano tremante e una miscellanea di emozioni che pur generandosi nello stomaco arrivavano fin dentro la gola per soffocarmi – almeno un paio di volte, ma non ebbi mai alcuna risposta.

È inutile insistere mi consigliò qualcheduno, datti pace. Il maestro non esiste più, non risponde più a nessuno. Né al citofono né al telefono. Tantomeno alle lettere. Il martirio a cui è stato condannato, non lo ha sopportato. E lo ha distrutto, ucciso prima ancora di morire davvero. Era il 2009.

Il 9 aprile 2014, quando mi giunse la nuova che il maestro era fisicamente morto, persi improvvisamente una parte importante di me. La voce, le parole. Impiegai diverso tempo a metabolizzare quel lutto. Strati moriva lontano, moriva da solo, ai margini della sua terra, e soprattutto, e io lo sapevo, moriva portando la gente di Calabria dentro di sé come il cuore nel petto dell’uomo. Con la sua morte, l’Italia perdeva uno dei suoi più grandi geni letterari, la Calabria uno dei suoi figli più illustri, io il mio grande maestro.

Avevo recuperato tutti i suoi libri, uno ad uno. Li avevo letti tutti, uno ad uno. Ero stata a Sant’Agata del Bianco, suo paese natale; nella sua casa, sulla collinetta di Cola, nella piazzetta di Tibi e Tascia; ad Africo, nella sua Terrarossa, dove da mastro muratore, Strati, aveva contribuito a edificare le scuole elementari volute da Umberto Zanotti Bianco, e lì avevo imparato cosa fosse una teda. E adesso toccava a me. Questo era il mio turno. La preparazione c’era, il coraggio e la grinta pure. Se la Calabria, che era la terra della quale con Strati condividevo il sangue e l’onore, aveva ancora una grande luce da accendere, o anche solo una piccola teda, era sul suo scrittore santagatese che andava puntata. 

Con i libri di Saverio Strati maturai l’esperienza che mi serviva, e mi formai profondamente come donna, come calabrese e come scrittrice. Tra il 2015 e il 2016, scrissi due saggi brevi (Saverio Strati – non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla / Saverio Strati – due racconti), entrambi  a lui dedicati. Lo scrittore dimenticato doveva riapprodare al più presto nella sua Itaca. E la Calabria lo era. Li destinai alle scuole. V’erano dentro la vita, il pensiero, le opere, e anche due racconti inediti. Di uno posseggo il manoscritto in originale, con le correzioni a penna fatte di suo pugno, le aggiunte, i tagli. 

La mia esperienza diventava quella di molti. Un viaggio a introspezione nella Calabria più vera e più autentica, nell’unica sua originale forma. Ma Strati era anche in un romanzo che doveva poter rivivere, in fondo era questa la forma di scrittura che più amava. 

Nel 2017 gli dedicai La Terra del ritorno, pagine intense e forti di cui altro non aggiungo, per quanto abbastanza possa già parlare il titolo.

Andai di scuola in scuola, di paese in paese. Attraversai la Calabria dall’Aspromonte al Pollino, dal Tirreno allo Ionio, e incontrai ragazzi di ogni età e di ogni estrazione sociale. Tra i banchi di scuola Strati ritornava come aveva desiderato, e ritornava con me, e io ne ero orgogliosa. Saverio Strati diventava il “nostro” scrittore. Affettuosamente nostro. Mio e di tutti i ragazzi, di tutti i maestri e le maestre, i professori e le professoresse che incontravo. Nei suoi libri non c’erano scritti i nostri nomi, no, ma la nostra storia sì. C’era tutta, ed era completa. C’eravamo noi, ognuno di noi. 

Partecipai a incontri, convegni, alcuni davvero emozionanti nel suo paese natìo. Era dalla genesi che bisognava partire. Perché in fondo la consapevolezza di ogni cosa, risiede lì dove la cosa nasce. Programmai finanche un viaggio verso la sua casa fiorentina. Scandicci, via Giotto, aria pregna di libri e di storie. Rapporti serrati con il figlio, i nipoti, e poi, poi come andò e come non andò, non è importante, le fatiche fatte, quando si avverano i sogni, non vanno proclamate, quel che conta è il risultato finale. E oggi, chiunque, recandosi in libreria, Saverio Strati potrà trovarlo, incontrarlo com’è accaduto a me. Gioire della sua ritrovata opera. Perché sì, i suoi libri sono stati ripubblicati. Tibi e Tascia, La Teda, il Selvaggio di Santa Venere. Ma la cosa straordinaria è che il suo romanzo inedito, è stato pubblicato anche quello. Tutta una vita, tanto ha dovuto attendere Strati, affinchè quest’opera vedesse la luce. Per i tipi di Rubbettino, la casa editrice calabrese di Soveria Mannelli, Strati torna sulla scena letteraria italiana e come il più moderno degli scrittori. 

Tutta una Vita è l’opera che forse da Strati non ci si saremmo mai aspettati, specie gli stratiani convinti. E se forse fosse stato pubblicato prima questo romanzo, neppure l’avremmo granché capito, né gradito. Ma se è vero che ogni autore ha una sua opera della maturità, allora ecco che Saverio Strati si presenta con una potenza narrativa davvero straordinaria. Uno scrittore maturo? Di più. La genialità dello scrittore.

Strati dà piena libertà al suo vero genio creativo. Se nei precedenti romanzi il focus dell’autore mira prepotentemente e unicamente a mettere in risalto la staticità della Calabria, dentro cui i calabresi si lasciano naturalmente trascinare, in Tutta Una Vita, l’attenzione assoluta è al movimento dei calabresi dentro cui, la Calabria, aprendosi all’Italia, si muove con loro. Una riforma che ci sono voluti anni affinché avvenisse, ma che era necessaria per l’autore e per il lettore. 

L’ordito viene intelaiato arrovescio; la storia comincia finendo, per finire cominciando. Pino Condello è un architetto che realizza i suoi sogni, tra sacrifici e fatiche, contrariamente ai personaggi narrati da Strati nelle sue precedenti opere. Egli infatti si discosta dalla mentalità meridionale “classica” secondo la quale i figli devono seguire i progetti dei padri. Pino, dalla facoltà di Ingegneria passa ad Architettura, il piglio del padre d’avere un figlio ingegnere da inserire nella ditta di famiglia, s’accorge d’essere un peso troppo grande per lui, davvero troppo da doverselo caricare addosso tutta la vita. 

E così, Strati, ricorda a sé e al lettore, attraverso le evoluzioni intime del protagonista, che i figli spesso hanno sogni che non corrispondono ai sogni dei padri, alle aspettative della famiglia. E il piacere di vivere liberamente la propria vita, è la forza nuova con cui costruisce il suo personaggio, permettendogli di fare esperienze diverse e consapevoli. A Pino è l’arte che lo attrae, la voglia di potersi esprimere che lo coinvolge, il desiderio di libertà che lo assale.

Tutta una vita, non è propriamente un romanzo e basta, esso appare sin dal principio la sintesi di qualcosa di più grande. Strati tratteggia la geografia umana dei personaggi e la storia delle loro condizioni sociali e morali, con un fare filosofico tale, da incominciare il romanzo come una sorta di trattato di filosofia. La storia è scissa precisamente in due parti; quella in cui Pino, martoriato dalla coscienza, al termine delle sue esperienze umane spesso sofferte, ripercorre i fatti e i misfatti, i corsi e i ricorsi di cui è stato protagonista, e dove Strati, oramai maestro di vita, inneggia un filosofare che lo magnifica: – […]A pensarci bene non si è mai del tutto soli. C’è qualcuno che ti controlla, che ti giudica, che ti rampogna: la coscienza. Essa è sempre desta, attenta, pronta e coraggiosa a rimproverarti le tue bassezze, le tue debolezze e falsità e vigliaccherie. […] È la tua Sibilla, la tua Madonna […]– ; e quella in cui, sempre Pino, vive direttamente il suo destino, e Strati torna a essere il narratore di sempre, ritorna insomma a fare il mestiere di tutta una vita.

La potenza della narrazione esplode ovunque, e si avverte soprattutto nei monologhi interiori, in cui Strati è il vero e unico protagonista. Egli non lo palesa, ma spesse volte mette da parte Pino e al suo posto presenta Saverio, il narratore e l’uomo, il calabrese e l’uomo del mondo. E lo fa alternando, con capacità espressiva unica, il discorso diretto a quello indiretto. 

La letteratura italiana, con Saverio Strati, ha avuto un grande maestro di architettura umana, eppure non se n’è mia completamente accorta. Strati si è sempre mostrato aperto alla vita, ma in questo romanzo lo fa in maniera inequivocabile. Si spoglia, o almeno cerca, pur rimanendo fermo sulla condizione umana del’individuo, dei limiti della condizione geografica che insistono invece nelle altre sue opere, e libera i personaggi nella dimensione che più gli è congeniale. A Nord e a Sud. Un percorso italiano in cui la contrapposizione dei due poli del paese non svanisce, ma non è neppure assoluta. L’Italia va cambiando e i personaggi si ambientano al cambiamento, seppur ognuno con una propria visione culturale ed economica. Pino si stacca dal paese, suo cugino Lino no. Pino resta a Milano, Lino no. Pino immagina di potersi esprimere altrove ed esprimersi meglio, Lino no. E non è questione di mentalità retrograda, ma è l’interior di entrambi che cambia. L’umano di cui è fatto Pino rispetto a quello con cui si è formato Lino. Strati presenta un Sud meno povero rispetto al suo solito, ancora non sufficientemente aperto, ma sicuramente più operoso (vedi la famiglia Condello), con ulteriori impulsi rispetto al passato, anche se con certamente ancora tanta strada da fare. Racconta di viaggi che si alternano, e non si sofferma mai particolarmente sulle partenze dal paese natio, quale forma assoluta di dolore e di nostalgia, ma racconta la vita nei suoi movimenti naturali. Traccia itinerari che si delineano sulla base delle prospettive e della ambizioni dei personaggi stessi. Cessa la lamentazione della Calabria, che invece racconta nella sua forma tipica, senza per forza dover mettere in competizione le periferie con la città. Concede a Pino possibilità di futuro e di lavoro tanto al Sud quanto al Nord, e non rimette nelle mani di alcuno i fallimenti o le vittorie dei personaggi, se non di essi stessi. Offre a chiunque la possibilità di scegliere, rendendo consapevoli tutti che una scelta fatta, equivale sempre e comunque a una rinuncia da fare. 

Saverio Strati non si pone mai come uno scrittore autobiografico nei suoi romanzi, più volte egli stesso intese precisare questo aspetto, ma racconta semplicemente storie vissute, che inevitabilmente rimandano il lettore alla vita dell’autore stesso.   

In Tutta una vita accade proprio così. È vivo il richiamo ai luoghi di formazione dello scrittore che in grande parte coincidono con quelli del protagonista: Messina, dove Saverio Strati proprio come Pino Condello approda come studente universitario dopo il diploma liceale a Catanzaro nel 1949, e si forma seguendo le lezioni del professore Giacomo Debenedetti; Firenze, i monumenti, l’arte, la geografia, la storia. Melo, questo nome curioso che appare una volta solo nella storia di Pino, e poi scompare, e che invece nella vita dello scrittore ha un’identità e un ruolo precisi: Carmelo Filocamo, suo compagno di studi, l’amico geniale che se non avesse fatto leggere al professore Debenedetti i racconti di Strati, forse oggi non saremmo qui a parlare di un grande scrittore. Poi, il professore Capaci, che in aula, durante una delle sue lezioni elogia il suo studente Condello, così come Debenedetti fece con Strati. Il passaggio da una facoltà universitaria all’altra, con cui Pino Condello (Ingegneria-Architettura) come Saverio Strati(Medicina-Lettere), si staccano dalle volontà familiari, per dare agio alle proprie. E infine l’amore viscerale per i libri che nasce e prende forma in Pino così come accadde a lui: Alle lezioni di fisica o calcolo, il mio pensiero assorbiva e basta; quando spinto dalla curiosità entravo a Lettere e mi accadeva di ascoltare una buona lezione, la mia fantasia si accendeva, la mia curiosità cresceva e la voglia di leggere libri di critica, di filosofia, romanzi importanti diventava veramente inquieta e avida. Avevo letto tanti libri di cui Lino ignorava autori e contenuti. Lino era come il treno che può camminare soltanto sulle rotaie, mentr’io divagavo e facevo tanti pensieri che erano pensieri sulla vita e sul mondo. Insomma c’è tanto di Saverio in Pino, ma l’uno non è sicuramente l’altro.

Tutta una vita, non lascia dubbi. Saverio Strati è uno scrittore nuovo, moderno, ma soprattutto giovane. Se di altri si leggono i romanzi saltando le pagine, i suoi non lo consentono. Tutta una vita meno che mai. Esso tiene incollato il lettore a lungo anche su una stessa pagina. E chiede di essere assaporato, interiorizzato lentamente. A me è accaduto. Non volevo che finisse mai, speravo che appunto, durasse tutta una vita.

Se Corrado Alvaro ebbe l’ingegno di regalarci Quasi una vita, con Strati, Tutta una vita doveva proprio arrivare. In fondo è lui l’autore che chiude quel ciclo letterario.

In Italia ci sono molti premi importanti in cui vengono premiati e riconosciuti romanzi altrettanto importanti, ma secondo quella certa logica che Strati non ha mai condiviso. Quando vinse il Campiello, nel 1977, notò finanche il pentimento di chi lo aveva votato. Non aveva vinto lo scrittore dei salotti letterari italiani, ma il calabrese; aveva vinto la purezza della letteratura e non il libro più venduto dell’anno. E quando ne ebbe coscienza, fu amara la constatazione. Ma nessuno poteva più tornare indietro.

Non credo vi siano attualmente in Italia premi con cui riconoscere il valore di Tutta una vita. Sulla scia del passato non basterebbe più neppure il Campiello. Strati è di più, molto di più. Ci vorrebbe un premio dei premi. E io che del maestro ho imparato a conoscere profondamente il pensiero, penso di sapere quale potrebbe essere, e credo di sapere bene anche quanto Saverio Strati lo renderebbe felice, ovunque esso sia. Felice assai, quasi quanto i giudizi positivi che riceveva dal suo maestro Giacomo Debenedetti quando leggeva i suoi racconti. Ecco, il premio dei premi a Saverio Strati, per Tutta una vita, sarebbe far studiare l’autore nelle scuole italiane. Un dovere verso di lui, un diritto per tutti gli studenti del paese. 

L’opera postuma di Saverio Strati, è un romanzo che va letto per necessità e con convinzione. E che si somma a quella sua sublime produzione libraria che tanto ha da offrire alla formazione dei giovani italiani. Un fondo di cultura preziosissimo a cui la scuola ha il dovere di attingere e con cui può fornire nuove indicazioni di vita ai propri studenti, placando altresì l’esigenza di conoscenza che questi anni hanno. L’occasione va colta, subito. Non si lasci passare ancora tutta una vita. (gsc)

[La fotografia è di Pino Colosimo]

Saverio Strati (1924-2014): un ricordo nel giorno del compleanno (16 agosto)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – «Voi lo avete visto un giovane muratore, che si mette a studiare e infine diventa un grande scrittore? Ve lo presento io. Si chiama Saverio Strati.[…] Narratori di questa pasta speciale sono rari, come il sole d’inverno. Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi». 

Così scriveva Pasquino Crupi riferendosi a Saverio Strati, uno dei più grandi narratori del ‘900 italiano. Il “Calabrese” come lo stesso Strati si definiva. Perché nonostante il viaggio, la Calabria l’aveva portata sempre con sé. E la gente di Calabria viveva dentro di lui come il cuore nel petto dell’uomo. Lì vi conservava non solo i ricordi, ma i volti della sua gente, le storie degli uomini, i racconti dei contadini. Tutto ciò che serviva per sentirsi ancora vivo in quella parte di mondo da cui non era mai riuscito completamente a distaccarsi.

Insieme a Francesco Perri, è proprio Strati uno dei più grandi cantori dell’emigrazione. Scrisse di gente in viaggio ma anche di viaggi in macchina. Quelli che lo riportavano, spesse volte, alle sue origini, e dove ad attenderlo, vi erano gli studenti delle scuole calabresi, gli insegnanti, i presidi, ma soprattutto la casa e il cuore sempre aperti degli amici. C’era la collinetta di Cola nella sua Sant’Agata, e soprattutto la maestà dello Jonio, quel mare che tutte le volte che da Ponte Vecchio guardava l’Arno, gli tornava alla mente e piangeva.

Strati nasce a Sant’Agata del Bianco il 16 agosto 1924.

Oggi sarebbero stati 97 anni. 97 anni di storia, di metodo, di racconti, di sacrificio, di destino, ma soprattutto di Sud. 97 Meridioni d’Italia, e 97 anni di Calabria intima, intensa, e resistente.

Strati esordisce nella sua carriera di scrittore, con un racconto. E oggi, è proprio con un racconto, animato dai suoi personaggi più amati, che al maestro vanno i miei più affettuosi auguri di buon compleanno. Egli è così che avrebbe voluto essere ricordato dai “suoi” calabresi.

«Quell’aprile, erano già passati sette anni. Sette lunghi anni. Sette esatti dalla morte del maestro.

Eppure sembrava  non importare a nessuno di quel lutto che, sette anni prima, lo aveva deposto, con i piedi innanzi, in una Firenze lontana e bellissima. O forse nessuno ancora si era accorto di quella dipartita silente, per la quale Strati aveva raccomandato silenzio, bandendo ogni forma di chiasso.

– Certo! – disse Cicca – Chi non si accorge della vita di certi uomini, non potrà accorgersi mai della loro morte. E aveva ragione. Cicca aveva proprio ragione. Ella aveva conosciuto il maestro. Da lui aveva imparato che cos’è una “Teda”. E l’aveva accesa per illuminare la notte di Terrarossa. Avevano percorso assieme la via di Africo. A Campusa, aveva visto risorgere l’anima delle case dei poveri cristi accasciate al suolo durante la sibilante tempesta d’acqua del ’51, e proprio nelle parole del maestro. A lui, Cicca, scandagliava spesso la memoria. E imparava. A conoscere il paese, il Sud, sé stessa. Imparava a conoscerlo, Saverio Strati.

– Aveva paura, il maestro, Michele. Paura di non riconoscere il paese tutte le volte che ritornava. Timore assai, di non essere riconosciuto.

– Ma come può un uomo così non essere riconosciuto, eh Cicca?

– Può Michele, eccome se può! Un uomo così, può non essere riconosciuto. Quando un uomo così viene considerato codardo, o quando inopportunamente viene definito ’mpamu, può. Fidati che può. Può non essere riconosciuto.

Cicca mi fece venire la pelle d’oca. Parlava come se il maestro fosse dentro di lei. Le vivesse dentro le carni. Nel ticchettio del cuore.

– Ma non è onesto… – continuando, con gli occhi tanto lucidi e cupi – non è onesto dimenticarsi di certi uomini, né vivi né morti – disse.  

Saverio Strati è dannoso dimenticarlo. Ha scritto la storia del Sud denunciando lo stato crocifisso in cui questo è sempre stato sepolto vivo. Ha parlato degli ultimi condannando i primi. Ha raccontato di uomini e non di numeri. Ha avuto coraggio, il maestro. E il Sud non ha coraggio, Michele. Se un giorno dovesse mancarci la terra sotto i piedi, che faremo noi? Che faremo noi, eh Michele?

– Non lo so che faremo. Dimmelo tu, Cicca. Che faremo?

– Moriremo! Ecco che faremo. Moriremo scoraggiati. Con basti carichi d’ignoranza, moriremo, Michele. Moriremo senza neppure sapere se siamo mai appartenuti a una pagina di storia.

– Quale storia, Cicca? Quale storia?

– La storia che il maestro Saverio ha scritto e noi non abbiamo letto. La storia del Sud, Michele. La stessa del maestro, quella del contadino letterato, del muratore della scuola. Il racconto dell’uomo calabrese, il maestro di Cicca. Sì, il mio maestro. Il mio maestro, Michele, capisci?

E nel giorno della morte, quel preciso giorno, nessuno oserà accenderci neppure una teda. Niente luci quaggiù. E sarà dannata l’anima di chi non ha imparato. Imparato dai libri. Dai suoi libri.

– Cicca, tornerà in paese il maestro, prima o poi?

– Lo sai bene, Michele, che dopo la morte non torna mai nessuno

– Già!, hai ragione, Cicca. Dopo la morte non torna mai nessuno.

– Ti sarebbe piaciuto conoscere il maestro Saverio, eh Michele?

– Sì, Cicca. Mi sarebbe piaciuto molto.

Cicca mi prese per mano, e correndo mi portò fino a Piazza Libertà. Nella ruga grande, erano disposte a file una serie di piccole case. Infilando la chiave nella serratura della porta di quella più giallognola: – accomodati! – mi disse, ed entrammo. Ci venne difronte una scaffalatura in legno carica di libri. Cicca tese la mano, e: – Ecco il maestro, Michele! – continuò. 

Non dissi verbo. In paese non v’erano tanti uomini, per quanti libri mi trovai innanzi.

Ogni libro portava il suo nome: Strati, Saverio Strati, Strati Saverio, o Saverio soltanto.

Cicca era commossa. Accarezzava le copertine di quei libri come fossero visi di bambini.

– Allora, Michele, che te ne pare?- mi chiese.

I suoi occhi brillavano. Una luce immensa li penetrava inesorabilmente.

Aspettava che le dicessi qualcosa. Che parlassi, seppur a modo mio, ma  non ebbi la forza. Era come se a un tratto mi mancasse il coraggio delle mie azioni.

– Allora, Michele?- mi chiese lei. – Che cosa vedi? – insistette, senza mai darsi per vinta. 

Tacqui un’altra volta. E nel mentre che un bacio di Cicca finì per raggiungermi la bocca, finché ero ancora in tempo, affinché non fosse troppo tardi: – Chapeau, maestro! Buon compleanno».

I libri di Saverio Strati, sono tutti una buona opportunità di crescita. Un lampo di genio capace di proiettare a chiunque ne faccia uso, un ottimo futuro. Perché è lì, tra quelle pagine che sedimenta il senso dell’appartenenza. Sono libri e sono villaggi viventi di autentica memoria. Una memoria che ha buone probabilità di diventare collettiva quando, leggendo, una comunità ha voglia e coraggio di sommare un certo numero di memorie individuali. (gsc)

I tre allievi di Giacomo De Benedetti

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se solo la Calabria, tornasse come ai tempi della sua perfetta genesi, a sentirsi “fimmina orgogliosa della sua pancia” quale ventre che accoglie e produce, allora ecco che i calabresi tornerebbero a essere i figli-geni suoi di sempre. 

Nel trattato storico da cui si genera la terra di Calabria, e per mezzo del quale la si riconosce terra abbondantemente magna e grata, è essa stessa protagonista del suo illustre destino. Del quale oggi testimoniano i libri, unico mezzo indiscusso che introduce alla continuità e al proseguo del tempo magnogreco di questa, oggi quasi miserabile, regione. E nulla di tutto ciò è mistero. La sua letteratura, sua di origine, ma di assoluta e indiscussa proprietà del mondo, si pone quale unica vera fonte rivelatrice, delle sue più sottili e a volte quasi impercettibili verità. 

La terra del sole, non è mai stata una terra arida, ha invece prodotto sempre abbondantemente frutto. E lì dove si vedeva dichiarata vinta, si esaltava vincitrice. E lo era.

– Fui io la prima Italia – dice la Calabria. E lo fu. Nel romantico nome “Calabria”, tanti altri nomi vi sono conservati. E tutti in essi riconoscono la grandezza che questi rappresentano. Nel suggestivo nome “Calabria”, tanti volti vi sono ricordati. Ognuno con un paio di occhiali diversi per guardare tutti insieme oltre. Alla storia, alle sue vicissitudini. Al tempo immortale che non passa, e su cui invece si costruisce, generando fondamenta di futuro straordinari e saldi. 

Qui nacque la sapienza, ebbe un’abbondante stirpe, e si caricò di decenza e di ingegno. Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella, Telesio, Pitagora. E poi tanti altri che le diedero moralità ed onore.

Se il processo di riqualifica culturale di questa regione, avviato ormai da tempo, è sulla buona strada, lo si saprà sol quando la Calabria, darà convintamente agio alle ‘lettere’ di farsi mezzo e prova ai suoi ‘maledetti’ processi di morale. Alle accuse infamanti a cui la confina il mondo, facendola passare da MagnaGrecia a terra di ‘ndrangheta.

– Togliete fuori le prove! – dice il giudice. 

– Eccole – risponde l’accusa. – Molte sono antiche, ma altrettante, recentissime. Diverse nascono semplice prove, ma alla dimostrazione dell’innocenza dell’imputata, guardi, signor giudice, come mirabilmente diventano storie. Quella del trittico delle lettere, per esempio, è una prova lampante che niente è perduto, tutto è recuperabile. La Calabria può avere colpe, ma non tragiche accuse. E questa prova, cari signori della corte, signor giudice, conferma non soltanto l’innocenza,  ma le attribuisce una lodevole riconoscenza. Per questo è giusto che qui, in quest’aula, oggi, io vi faccia i nomi degli illustri.

Filocamo, Strati e Pedullà 

Tre calabresi e tutti e tre compagni di studi all’Università di Messina. 

Carmelo Filocamo, Saverio Strati e Walter Pedullà, i tre allievi del maestro Giacomo Debenedetti. Gli allievi di spicco. I prediletti. I futuri scrittori. I meridionali non meridionalisti, ma intellettuali italiani.

Cattedra tra le più eccellenti di tutto l’ateneo, quella del professore torinese. Figura di rilievo della “Messina” d’autore. Critico di grande originalità, professore di un trio di studenti prodigiosi, e provenienti tutti da un’unica vena geografica: la Locride. 

«Anni magici per l’Università di Messina – dice Carmelo Filocamo. – Oltre a Debenedetti insegnavano Santo Mazzarino, il filosofo Galvano Della Volpe, lo storico Giorgio Spini, il geografo Lucio Gambi e Salvatore Pugliatti, il Rettore dell’Università, giurista di fama internazionale ed eccellente musicologo  che aveva la cattedra di Storia della musica».

Quelle di Debenedetti, non erano classiche lezioni universitarie, così come accadeva nelle varie facoltà dello stesso ateneo o in quelle viciniore con gli altri professori, ma tanta era l’intensità con cui il Debenedetti le presentava, che venivano considerate particolari momenti di attrazione. Studenti di altre facoltà, medicina e giurisprudenza, si recavano nella sua aula, per assistere alle sue lezioni, come fossero rappresentazioni narrative. Una simpatia e una stima quella verso il professore, che però non fu da tutti prontamente e neppure pienamente condivisa. Senza precise considerazioni infatti, e neppure senza necessari quanto valevoli preavvisi, gli verrà inaspettatamente soppressa la cattedra. Motivi interni. Politici. Ragioni che il “suo” trittico delle lettere non riuscirà mai pienamente a comprendere. I togati universitari infatti, i bacchettoni e filistei, così come vennero definiti da Giuseppe Neri, giudicarono Debenedetti non idoneo a ricoprire il ruolo di docente universitario. 

Una notizia folgorante, che destabilizzò molti. Tra i primi Saverio Strati che in una corsa contro il tempo, subito comunicò l’accaduto all’amico Pedullà con una lettera: “Carissimo Walter, ieri sono stato col professore. È successo l’inaspettato. Hanno soppresso la cattedra di letteratura moderna. Quindi il professore non verrà più a Messina. Era molto abbattuto, e molto preoccupato per noi, specialmente per te e Carmelo.[…] Scrivi al professore; dillo anche a Carmelo.[…]”

Rabbia, indignazione, sdegno per certi versi. E poi anche inquietudine, che colse in pieno Filocamo e Pedullà che, appurata da Strati l’inattesa nuova, scrissero immediatamente a Debenedetti: […]“ Sulle cause del provvedimento avremo occasione di discutere al nostro prossimo incontro. Hanno collaborato in egual misura l’anticomunismo di tutti i membri del Consiglio di facoltà; l’invidia di queste mezze figure della cultura, che non possono perdonarle di aver fatto capire agli studenti quanto poco degnamente essi occupano una cattedra universitaria.”[…]

Ma il genio di Debenedetti non poteva finire soppresso come la sua cattedra di Messina. Ai primi degli anni cinquanta infatti, il professore, vien chiamato dal Senato Accademico, presso la facoltà di Magistero, affidandogli  la cattedra di Letteratura Francese. Quella che Debenedetti meritava e che  gli fu concessa grazie anche alla pressione degli amici Pugliatti e Della Volpe. 

Una gioia che fu lo stesso professore a comunicare a Carmelo Filocamo con una lettera, esattamente il  10 giugno del ’58 . 

“[…]Non so se qualcuno ti abbia già detto che la facoltà di Roma mi ha affidato l’insegnamento della Lett. Moderna e contemporanea. È il posto che Ungaretti lascia quest’anno per limiti di età. […] E adesso speriamo che riesca ancora a farcela io; che si possa ricostruire la “nostra” scuola. Ti abbraccio. Tuo Giacomo Debenedetti.” 

Debenedetti non dimentichò mai, neppure a Roma, i suoi tre più grandi allievi. Non fu un trasferimento di cattedra a modificare il rapporto tra il professore e i suoi studenti. Avrebbe infatti voluto al suo fianco, come assistente Carmelo, Filocamo, che per dovere etico, forse, decise di non accettare e rimanere in Calabria. 

Già ai tempi di Messina, Debenedetti, aveva capito quanto grandi fossero i suoi tre allievi. Iniziando una delle sue lezioni, con l’aula piena, riferendosi a Saverio Strati non si era riuscito a trattenere: “Avevamo tra noi uno scrittore e non lo sapevamo”.

 “Il suo giudizio positivo – scrisse Strati –  è stato importante per varie ragioni. Prima di tutto mi ha fatto prendere coscienza che sono un narratore[…]. Il giudizio, positivo ed autorevolissimo, mi era venuto isperatamente, inatteso, dal maggiore critico letterario di questo secolo.”

Una traccia, un raccordo, un’identità, un riferimento preciso Giacomo Debenedetti, per il trittico meridionale per eccellenza.

Carmelo Filocamo, raccontava di Debenedetti come “un professore che raccontava la letteratura come un narratore racconta la vita”. 

Ma è ne “Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti”, che i ricordi di Walter Pedullà, completeranno il rapporto tra il professore e gli allievi calabresi: “Ho visto per la prima volta Debenedetti nel gennaio del 1951. Ventenne, ero con un coetaneo, Carmelo Filocamo- più tardi noto come enigmista con lo pseudonimo di Fra Diavolo, con cui lo segnalò Italo Calvino – e con Saverio Strati, che  aveva “ scoperto “ il professore torinese. Da allora fummo inseparabili come amici e come allievi di Debenedetti, che , cosciente delle nostre non floride condizioni, ci invitò più  di una volta a pranzo o a cena.[…].”

Una storia che narra di incontri casuali voluti dal destino. Un destino preciso di uomini del Sud, pronto a segnare quello universale della letteratura. Una staffetta di lettere e letterati che racconta chiaramente  quanto corta possa essere la distanza tra il Nord e il Sud del paese quando è la cultura a governarne i rapporti. Come accade con il professore Debenedetti e il suo amato trittico delle lettere.

Una sorta riappacificazione che avviene in maniera naturale, che non si assoggetta a contaminazioni, esula da stereotipi e pregiudizi, e nella sua integrità morale, riordina ma soprattutto ricongiunge eventuali e dolorose frammentazioni. 

È questa la forza della letteratura. E se lo chiedessimo al professore Walter Pedullà, unico testimone vivente del famoso trittico, quasi certamente ci darebbe ragione.

La strada delle lettere, che è l’unica che precede e che segue quella della vita dell’uomo, non ha coordinate geografiche che ne segnano i confini. È sconfinata. Difatti è letteratura e non cartografia. 

P.S. il mio ringraziamento particolare per aver potuto scrivere questo pezzo va alla cara Iolanda Filocamo, sorella di Carmelo, scomparsa qualche anno fa, e che mi fece avere i carteggi tra il professore Debenedetti e i suoi allievi, custoditi gelosamente nella biblioteca del fratello.

Sette anni fa ci lasciava Saverio Strati: un ricordo del grande scrittore

Il 9 aprile del 2014 ci lasciava il grande scrittore calabrese Saverio Strati, un autore che ancora dev’essere valorizzato come meriterebbe non solo in Calabria ma nel mondo della letteratura contemporanea. La scrittrice Giusy Staropoli Calafati è una profonda conoscitrice dell’opera dello scrittore di Sant’Agata del Bianco, nato in Calabria nel 1924, morto a Scandicci, dove si era ritirato a vivere da moltissimi anni.

Questo il suo ricordo: «“Gli scrittori calabresi, non sono scrittori periferici, ma solo scrittori nati in Calabria nelle cui opere c’è qualcosa difficile da spiegare, che fa parte del mondo degli uomini.” Con questo concetto, completa la sua visione di “periferia” diceva Saverio Strati, in un’intervista del 1984. E Pasquino Crupi ne aveva tracciato un brevissimo ma preciso profilo: «Voi lo avete visto un giovane muratore, che si mette a studiare e infine diventa un grande scrittore? Ve lo presento io. Si chiama Saverio Strati.[…] Narratori di questa pasta speciale sono rari, come il sole d’inverno. Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi».

Poeta contadino, scrittore della gente. Due cuori nel petto: uno che dice va. E l’altro: che vai a fare?
Pubblica, nel ’54, il racconto La Regalia. Storia di uomini e di zappe. Zappe e pane. Racconto forte, immediato, in cui pare essere egli stesso il protagonista, tanto che in una lettera all’amico Carmelo Filocamo, il 25 marzo 1954, Saverio Strati, scrive:«Carmelo, vent’anni passati con la zappa nelle mani, la cazzuola e la falce, e le sofferenze, non si can­cellano così. E non sarà Firenze a cancellarle, né Roma né Messina. La nostra Calabria, i nostri contadini, i no­stri lavoratori, tutti gli uomini, di ogni grado, di ogni condizione, sono dentro di me. E parlo con essi per del­le ore, per delle settimane e me li porto dentro per anni e poi escono, con un parto doloroso… E quanti massari e massaie e pastori e pastore, e muratori e calzolai e ra­gazzi e ragazze scalzi e nudi sono dentro di me. E non li vado scovando con la zappetta, ma vengono essi e si offrono e mi dicono: – ed ora tocca a me. A me –. A momenti temo che finisca prima che possa dire tutto. Ma se vivrò ancora vent’anni, vedrai che cosa saprà fare lo zappatore della Regalìa».
Nel 1956, edita da Mondadori, la sua prima raccolta di racconti con il titolo La Marchesina. A seguire: Premio Vaillon con il romanzo Tibi e Tascia nel 1960; premio Sila con Il Nodo e Gente in viaggio, nel 1966; Premio Napoli con Noi lazzaroni, nel 1972; Premio Campiello nel ’77 con Il Selvaggio di Santa Venere.
Un’opera letteraria crescente e vasta, fino al 1991, quando a Strati viene gratuitamente dato il diritto all’oblio. L’editore di sempre (Mondadori), si rifiuta di pubblicare Melina. Raccolta di racconti che pubblicherà poi con Piero Manni nel 2015.
La carriera di Saverio Strati incomincia una terribile discesa, fino a quando lasciato solo, senza neppure i libri, è costretto a chiedere il vitalizio riservato agli artisti per poter trascorrere dignitosamente gli ulti anni della sua vita, insieme alla moglie Hildegard Fleig.
Questa la sua drammatica richiesta di aiuto: «Io, Saverio Strati sono nato a Sant’Agata del Bianco il 16 agosto 1924. Finite le scuole elementari, avrei voluto continuare gli studi ma era impossibile, perché la famiglia era povera. Mio padre, muratore, non aveva un lavoro fisso e per sopravvivere coltivava la quota presa in affitto. Io mi dovetti piegare a lavorare da contadino e a seguire mio padre tutte le volte che aveva lavoro del suo mestiere. Piano piano imparai a la­vorare da muratore. A 18 anni lavoravo da mastro mu­ratore e percepivo quanto mio padre ma la passione di leggere e di sapere era forte. Nel 1945, a 21 anni, mi ri­volsi a mio zio d’America, fratello di mia madre, per un aiuto. Mi mandò subito dei soldi e la promessa di un aiuto mensile. Potei così andare a Catanzaro a preparar­mi da esterno, prendendo lezioni da bravi professori, alla maturità classica. Fui promosso nel 1949, dopo quattro anni di studio massacrante. Mi iscrissi all’uni­versità di Messina alla facoltà di Lettere e Filosofia. Leggere e scrivere era per me vivere. Nel ’50-’51 co­minciai a scrivere come un impazzito. Ho avuto la for­tuna di seguire le lezioni su Verga del grande critico let­terario Giacomo Debenedetti. Dopo due anni circa di conoscenza, gli diedi da leggere, con poca speranza di un giudizio positivo, i racconti de La Marchesina. Con mia sorpresa e gioia il professore ne fu affascinato. Tanto che egli stesso portò il dattiloscritto ad Alberto Mondadori della cui Casa Editrice curava Il Saggiatore. Il libro La Marchesina ebbe il premio opera prima Villa San Giovanni. Alla Marchesina seguì il primo romanzo La Teda, 1957; alla Teda seguì il romanzo Tibi e Tascia che ricevette a Losanna il premio internazionale Vail­lon, 1960. Ho sposato una ragazza svizzera e ho vissuto in quel paese per sei anni. Da questa esperienza è nato il romanzo Noi lazzaroni che affronta il grave tema del­l’emigrazione. Il romanzo vinse il Premio Napoli. Nel 1972 tornato in Italia la voglia di scrivere è aumentata. Ho scritto Il nodo, ho messo in ordine racconti, apparsi col titolo Gente in viaggio con i quali vinsi il premio Sila. Negli anni 1975-76 scrissi Il Selvaggio di Santa Venere per il quale vinsi il Supercampiello, nel 1977. A questo libro assai complesso seguirono altri romanzi e altri premi. Il romanzo I cari parenti ricevette il premio Città di Enna; La conca degli aranci vinse il premio Cirò; L’uomo in fondo al pozzo ebbe il premio città di Catanzaro e il premio città di Caserta. Nel 1991 la Mondadori rifiutò, non so perché, di pubblicare Melina già in bozza e respinse l’ultimo mio romanzo Tutta una vita che è rimasto inedito. Con i premi di cui ho detto e la vendita dei libri avevo risparmiato del denaro che ho usato in questi anni di silenzio e di isolamento. Ora quel denaro è finito e io, insieme a mia moglie mi trovo in una grave situazione economica. Perciò chiedo che mi sia dato un aiuto tramite il Bacchelli, come è stato dato a tanti altri. Sono vecchio e stanco per il tanto la­voro. Sono sotto cura, per via della pressione alta. Esco raramente per via che le gambe a momenti mi danno se­gni di cedere. Nonostante questi guai porto avanti il mio diario cominciato nel 1956. Ho inediti, fra racconti e diario, per circa 5000 pagine. La mia residenza è a Scandicci.

Saverio Strati
Post Scriptum: Devo aggiungere che avendo editore alle spalle e libri da pubblicare e da ristampare, non mi sono preoccupato a organizzarmi per avere una pensio­ne, un’assistenza nella vecchiaia. Non ho, da anni, una collaborazione a giornali o a riviste. Perciò non ho nes­sun reddito e quindi è da tre anni che non faccio la di­chiarazione dei redditi. Faccio inoltre presente che alcu­ni dei miei romanzi sono tradotti in francese, in inglese, in tedesco, in bulgaro, e in slovacco e in spagnolo (Ar­gentina). Miei racconti sono apparsi in riviste cinesi e in antologie dedicate alla narrativa contemporanea italiana: in Germania, in Olanda, in Cecoslovacchia e in Cina».
Scrissi a Saverio Strati più volte. Mai nessuna risposta. Ero arrivata tardi. La solitudine in cui l’avevano costretto i salotti letterari italiani e la sua stessa Calabria, l’aveva annullato dal resto del mondo. Reso diversamente uomo. Stranamente scrittore. Neppure più Saverio.
Lo considerai come un martire tra gli scrittori. Troppi abbandoni che non meritava. Troppa umiliazione subita. Fino a che lessi, con profonda commozione, la disperazione di un uomo diventato scrittore di nome Saverio Strati, in quell’accorata lettera perché gli concedessero la Bacchelli, affinché gli fossero lievi gli ultimi anni della sua vita. (gsc)

Saverio Strati, il grande scrittore meridionale che la Calabria non si meriterebbe

Era – è – uno dei maggiori scrittori calabresi, anzi meridionali: Saverio Strati è stato a lungo dimenticato, trascurato, a volte persino ignorato dalla sua terra, complice anche una politica culturale della Regione che non valorizzava i propri figli, quasi si vergognasse delle loro origini. Ed è stato un altro grande calabrese, il prof. Nuccio Ordine, a intervenire a suo favore spingendo perché gli venisse concesso il beneficio della legge Bacchelli. La Calabria dimentica i suoi miti letterari: Corrado Alvaro, Mario La Cava, Leonida Repaci, Fortunato Seminara, Lorenzo Calogero e tanti altri che meriterebbero una decisa azione di recupero e di rilancio, soprattutto tra i giovani, perché la loro memoria non vada dispersa, perché la qualità letterari del loro lavoro abbia il giusto riconoscimento e trovi adeguata evidenza nelle scuole, in un processo di valorizzazione culturale che non si fermi al Sud, ma sia universale, anche al di fuori dell’Italia.

Di Saverio Strati ricorreva ieri l’anniversario della nascita. In una sua lettera ha detto di avere cinquemila manoscritti inediti, ma la Regione non ha ancora preso – a cinque anni dalla sua scomparsa – alcuna iniziativa. C’è solo che indignarsi e invitare chi ci governa a vergognarsi di questa incredibile indifferenza. Ma Saverio Strati, per fortuna, grazie ad alcuni intellettuali del Sud, sta rivivendo una nuova stagione, che non cancellerà il passato ma potrà indicare il percorso per la giusta valorizzazione di un uomo, di uno scrittore non “meridionale” ma che, come leggerete più avanti nel bellissimo testo della scrittice calabrese, Giusy Staropoli Calafati è il “Meridione”.

La scrittrice ha tracciato su FB un magnifico ricordo, una memoria vivida ed appassionata che Calabria.Live è onorata e orgogliosa di condividere con i suoi lettori. (s)

Saverio Strati

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il 16 agosto 1924, a Sant’Agata del Bianco, nasceva Saverio Strati. Oggi avrebbe compiuto 95 anni.
Strati è stato un grande uomo e un immenso scrittore. Ha raccontato Calabria e calabresi. Scritto capolavori, vinto il Campiello, e anche pianto. Contadino e muratore. Calabrese affetto dal demone della narrazione, emigrante.
Di lui ho scritto e raccontato. Su di lui ho riacceso i riflettori rinnegando l’oblio a cui gratuitamente l’Italia e la Calabria l’ avevano condannato, riportandolo nella sua terra, dedicandogli premi e soprattutto libri. L’ho presentato ai giovani della sua (nostra) Calabria, con i suoi libri, nelle scuole, e forse l’ho reso anche felice.
Buon compleanno maestro mio.

IL CALABRESE SCRITTORE
“Gli scrittori calabresi, non sono scrittori periferici, ma solo scrittori nati in Calabria nelle cui opere c’è qualcosa difficile da spiegare, che fa parte del mondo degli uomini.” Con questo concetto, completa la sua visione di “periferia” Saverio Strati, in un’intervista del 1984.
Ma chi era (è) Saverio Strati?
«Voi lo avete visto un giovane muratore, che si mette a studiare e infine diventa un grande scrittore? Ve lo presento io. Si chiama Saverio Strati.[…] Narratori di questa pasta speciale sono rari, come il sole d’inverno. Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi». (Pasquino Crupi)
Saverio Strati nasce a Sant’Agata del Bianco, in Calabria, il 16 agosto 1924. Muore invece a Scandicci, in Toscana, il 9 aprile 2014. Oggi sono cinque anni di assenza e di mancanza.
Poeta contadino, scrittore della gente. Due cuori nel petto: uno che dice va. E l’altro: che vai a fare?
Pubblica, nel ’54, il racconto La Regalia. Storia di uomini e di zappe. Zappe e pane. Racconto forte, immediato, in cui pare essere egli stesso il protagonista, tanto che in una lettera all’amico Carmelo Filocamo, il 25 marzo 1954, Saverio Strati, scrive: «Carmelo, vent’anni passati con la zappa nelle mani, la cazzuola e la falce, e le sofferenze, non si can­cellano così. E non sarà Firenze a cancellarle, né Roma né Messina. La nostra Calabria, i nostri contadini, i no­stri lavoratori, tutti gli uomini, di ogni grado, di ogni condizione, sono dentro di me. E parlo con essi per del­le ore, per delle settimane e me li porto dentro per anni e poi escono, con un parto doloroso… E quanti massari e massaie e pastori e pastore, e muratori e calzolai e ra­gazzi e ragazze scalzi e nudi sono dentro di me. E non li vado scovando con la zappetta, ma vengono essi e si offrono e mi dicono: – ed ora tocca a me. A me –. A momenti temo che finisca prima che possa dire tutto. Ma se vivrò ancora vent’anni, vedrai che cosa saprà fare lo zappatore della Regalìa».
Nel 1956, edita da Mondadori, la sua prima raccolta di racconti con il titolo La Marchesina. A seguire: Premio Veillon con il romanzo Tibi e Tascia nel 1960; premio Sila con Il Nodo e Gente in viaggio, nel 1966; Premio Napoli con Noi Lazzaroni, nel 1972; Premio Campiello nel ’77 con Il Selvaggio di Santa Venere.
Un’opera letteraria crescente e vasta, fino al 1991, quando a Strati viene gratuitamente dato il diritto all’oblio. L’editore di sempre (Mondadori), si rifiuta di pubblicare Melina. Raccolta di racconti che pubblicherà poi con Piero Manni nel 2015.
La carriera di Saverio Strati incomincia una terribile discesa, fino a quando lasciato solo, senza neppure i libri, è costretto a chiedere il vitalizio riservato agli artisti per poter trascorrere dignitosamente gli ulti anni della sua vita, insieme alla oglie Hildegard Fleig.
Anagrammando il nome SAVERIO STRATI, che già in sé sembra avere tanto di romantico e suggestivo, il risultato che si ottiene è qualcosa di più romantico e trascendentale. “STAI RISERVATO”. Questo l’anagramma che Fra Diavolo (Carmelo Filocamo), compagno di studi e amico dello scrittore, coniò dall’analisi del suo nome. Ciò che Strati è sempre stato e consigliava di essere.
All’interno del saggio SAVERIO STRATI non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla, invece, uscito per i tipi Disoblio edizioni nel mese di agosto 2015, rimetto, con specifico intento, come risultato dell’anagramma, un più semplice e ridotto “STAI SERIO”.
Una forzatura voluta l’eliminazione di alcune lettere, per poter così ricalcare l’importanza del trattare SERIAMENTE la questione Strati. La SERIETA’ dei suoi scritti, riconducendoli alle(nelle) scuole, tra i più giovani. Il SERIO concetto espresso finanche dal professore Pasquino Crupi, secondo il quale, «Narratori di questa pasta speciale […].Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi».
Ho avuto la fortuna di conoscere Saverio Strati da ragazza. Venne a tenere una lezione nella mia scuola quando frequentavo ancora le elementari. Era la volta di Fiabe Calabresi e Lucane, scritte a quattro mani con il nostro comune amico, il prof. Luigi M. Lombardi satriani. Un incontro veloce. Uno appunto. Ché non si è mai più ripetuto. Un incontro tale a una passata di stagione, avrebbe detto mia madre. Abbondantemente madre, all’età di circa 30 anni, cercando tra gli scaffali di una libreria un buon libro da regalare a mio padre, ritrovo lo scrittore calabrese con il titolo di Tibi e Tascia. Un sussulto. Un lampo che mi coglie d’improvviso. Un ritrovamento spettacolare. Non avevo mai rimosso il nostro incontro, e in quel momento, più che mai, mi ritornava alla mente. Chiaro, nitido, come fosse la prima volta. Lessi poi, di Saverio Strati, in alcuni articoli di giornale, causa la condizione di indigenza in cui, quel grande scrittore, era costretto a vivere l’editore per il quale Strati scriveva, si era rifiutato di pubblicare i suoi scritti.
«Io, Saverio Strati sono nato a Sant’Agata del Bianco il 16 agosto 1924. Finite le scuole elementari, avrei voluto continuare gli studi ma era impossibile, perché la famiglia era povera. Mio padre, muratore, non aveva un lavoro fisso e per sopravvivere coltivava la quota presa in affitto. Io mi dovetti piegare a lavorare da contadino e a seguire mio padre tutte le volte che aveva lavoro del suo mestiere. Piano piano imparai a la­vorare da muratore. A 18 anni lavoravo da mastro mu­ratore e percepivo quanto mio padre ma la passione di leggere e di sapere era forte. Nel 1945, a 21 anni, mi ri­volsi a mio zio d’America, fratello di mia madre, per un aiuto. Mi mandò subito dei soldi e la promessa di un aiuto mensile. Potei così andare a Catanzaro a preparar­mi da esterno, prendendo lezioni da bravi professori, alla maturità classica. Fui promosso nel 1949, dopo quattro anni di studio massacrante. Mi iscrissi all’uni­versità di Messina alla facoltà di Lettere e Filosofia. Leggere e scrivere era per me vivere. Nel ’50-’51 co­minciai a scrivere come un impazzito. Ho avuto la for­tuna di seguire le lezioni su Verga del grande critico let­terario Giacomo Debenedetti. Dopo due anni circa di conoscenza, gli diedi da leggere, con poca speranza di un giudizio positivo, i racconti de La Marchesina. Con mia sorpresa e gioia il professore ne fu affascinato. Tanto che egli stesso portò il dattiloscritto ad Alberto Mondadori della cui Casa Editrice curava Il Saggiatore. Il libro La Marchesina ebbe il premio opera prima Villa San Giovanni. Alla Marchesina seguì il primo romanzo La Teda, 1957; alla Teda seguì il romanzo Tibi e Tascia che ricevette a Losanna il premio internazionale Vail­lon, 1960. Ho sposato una ragazza svizzera e ho vissuto in quel paese per sei anni. Da questa esperienza è nato il romanzo Noi lazzaroni che affronta il grave tema del­l’emigrazione. Il romanzo vinse il Premio Napoli. Nel 1972 tornato in Italia la voglia di scrivere è aumentata. Ho scritto Il nodo, ho messo in ordine racconti, apparsi col titolo Gente in viaggio con i quali vinsi il premio Sila. Negli anni 1975-76 scrissi Il Selvaggio di Santa Venere per il quale vinsi il Supercampiello, nel 1977. A questo libro assai complesso seguirono altri romanzi e altri premi. Il romanzo I cari parenti ricevette il premio Città di Enna; La conca degli aranci vinse il premio Cirò; L’uomo in fondo al pozzo ebbe il premio città di Catanzaro e il premio città di Caserta. Nel 1991 la Mondadori rifiutò, non so perché, di pubblicare Melina già in bozza e respinse l’ultimo mio romanzo Tutta una vita che è rimasto inedito. Con i premi di cui ho detto e la vendita dei libri avevo risparmiato del denaro che ho usato in questi anni di silenzio e di isolamento. Ora quel denaro è finito e io, insieme a mia moglie mi trovo in una grave situazione economica. Perciò chiedo che mi sia dato un aiuto tramite il Bacchelli, come è stato dato a tanti altri. Sono vecchio e stanco per il tanto la­voro. Sono sotto cura, per via della pressione alta. Esco raramente per via che le gambe a momenti mi danno se­gni di cedere. Nonostante questi guai porto avanti il mio diario cominciato nel 1956. Ho inediti, fra racconti e diario, per circa 5000 pagine. La mia residenza è a Scandicci.
Saverio Strati
Post Scriptum: Devo aggiungere che avendo editore alle spalle e libri da pubblicare e da ristampare, non mi sono preoccupato a organizzarmi per avere una pensio­ne, un’assistenza nella vecchiaia. Non ho, da anni, una collaborazione a giornali o a riviste. Perciò non ho nes­sun reddito e quindi è da tre anni che non faccio la di­chiarazione dei redditi. Faccio inoltre presente che alcu­ni dei miei romanzi sono tradotti in francese, in inglese, in tedesco, in bulgaro, e in slovacco e in spagnolo (Ar­gentina). Miei racconti sono apparsi in riviste cinesi e in antologie dedicate alla narrativa contemporanea italiana: in Germania, in Olanda, in Cecoslovacchia e in Cina».
Scrissi a Saverio Strati più volte. Mai nessuna risposta. Ero arrivata tardi. La solitudine in cui l’avevano costretto i salotti letterari italiani e la sua stessa Calabria, l’aveva annullato dal resto del mondo. Reso diversamente uomo. Stranamente scrittore. Neppure più Saverio.
Lo considerai come un martire tra gli scrittori. Troppi abbandoni che non meritava. Troppa umiliazione subita. Fino a che lessi, con profonda commozione, la disperazione di un uomo diventato scrittore di nome Saverio Strati, in quell’accorata lettera perché gli concedessero la Bacchelli, affinché gli fossero lievi gli ultimi anni della sua vita.
Ma uno scrittore non lo si può far morire così. Non d’abbandono.
Da autodidatta incominciai un’approfondita ricerca su Strati. L’identità. L’appartenenza. Le opere. I luoghi, le persone, le cose, il paese… Lessi i suoi libri con la stessa attenzione che da bambina riservavo alle favole. Intraprendendo un profondo studio sulla sua narrativa.
Saverio Strati era l’ultimo autore vivente del 900 italiano. Mi innamorai di lui, tale e quale a una figlia che si innamora del padre; una nipote che si innamora del nonno. Le sue storie non erano fantasie. Le sue donne non erano solo storie. I suoi racconti non erano invenzioni. E le sue realtà erano racconti. La sua vita, le sue idee, i suoi libri mi hanno rapita. Si son presi il cuore. Di donna, di madre e pure di scrittrice. Smuovendo, con impeto e seduzione, la mia coscienza (di calabrese), facendo vivere e rivivere in me il senso vero dell’appartenenza che sempre mi aveva legata alla terra di mio padre. A Strati devo ridare una memoria. Me lo sono promessa. E nel cuore l’ho promesso anche a lui. Glielo deve la Calabria, della quale spesso e volentieri, con coraggio, mi faccio voce. Glielo deve la Toscana, dove ha vissuto oltre 50 anni di libri e di vita. L’Italia glielo deve, per averla raccontata in tante lingue del mondo. E l’editoria più di tanti altri, glielo deve. Se solo qualcuno mi avesse insegnato a conoscerlo nei modi e nei tempi adeguati come era giusto che fosse, Saverio Strati, il mio interesse per l’epopea stratiana, sono certa, sarebbe incominciato molto prima.
Saverio Strati non è stato un meridionalista. Strati non ha difeso a spada tratta il Meridione quale luogo di appartenenza e provenienza. Non lo ha mai fatto per prese di coscienza, o partito preso. Saverio Strati in tutta la sua opera, si fa Meridione e come tale racconta i luoghi, le persone le cose, raccontandosi. La voce narrante che predomina nei suoi libri non è quella di un uomo cresciuto in Calabria; non è quella dello scrittore con vissuti e spaccati meridionali. La voce narrante nei libri di Saverio Strati è la voce del Meridione in persona. È la voce della gente reale, vissuta a Meridione, che chiede di essere ascoltata e raccontata. Gente che con il lavoro delle braccia, i sacrifici, i pianti, le partenze, gli stenti ossessi e anche la morte, ha sempre dato vita a un Meridione fatto di popoli umani. Una terra che ogni qualvolta ha voglia di essere raccontata, chiama. E Saverio Strati ha risposto sempre a tutte le chiamate della terra, facendosi egli stesso Meridione. E non per definizione. Egli, Meridione lo era. La sua opera letteraria lo è. La sua poetica contadina, lo è. I suoi libri non narrano di favole ghettizzate a Sud, ma bensì divengono custodie di storie vere in continuo viaggio verso i Sud del mondo.
Un premio Campiello piovuto sul Sud come le stelle in una notte d’inverno.
«So bene che il mio successo ha dato fastidio a molti letterati di potere». – dice Strati in una sua intervista del settembre del 1977 concessa a Stefano Lanuzza – «Una vera beffa che, tramite il loro premio borghese, io abbia avuto il modo di farmi conoscere dal grande pubblico. I giudici del Campiello non avevano immaginato che il mio libro potesse vincere il premio: altrimenti non lo avrebbero ammesso nemmeno nella cinquina finalista. Ho visto il disappunto e la contrarietà dipingersi sul viso di tanti notabili del mondo letterario. Questo come puntuale conseguenza del paternalismo imbarazzato che può accompagnare il non poter fare a meno di met­tere nella rosa finale l’opera d’uno scrittore proletario del Sud, pubblicato da un grosso editore. Nessuno dei signori suddetti si è degnato, dopo l’assegnazione del premio, non dico di complimentarsi con me, ma anche solo di dichiarare la propria adesione al mio libro. Con divertimento, ho assistito al ridicolo mimetismo di gen­te che evitava di salutarmi per non compromettersi…»
Strati ha sempre amato senza mezze misure, la sua terra.
«La Calabria la porto dentro di me da sempre e fino a quando le forze me lo hanno consen­tito sono ritornato a vederla, a goderla. La Calabria dei suoi mari, del cielo che è sempre sopra di me, delle montagne. La Calabria degli emigranti come io sono stato, di tutti i lavoratori […]».
Un amore incondizionato. Viscerale. Troppo inquieto ed esigente. In Calabria Strati ci è nato, e presuntuosamente, seppure è deceduto a Scandicci, in Calabria dico che Strati ci è anche morto. Non serve un luogo fisico, geograficamente stabilito in un certo angolo del mondo, per dire che si muore dove si nasce. Saverio Strati è morto altrove è vero, ma con la Calabria dentro al cuore. Risulta essere lui, uno di quei calabresi che pur andando via, dalla Calabria non è mia partito. Il rapporto che la Calabria stringe con Strati però, è un’altra cosa. È un rapporto difficile quello che la terra ha vissuto con lo scrittore. Riservato, schivo. Taciturno. Vicino e lontano insieme, presente e assente. Un rapporto di odio e di amore. Quasi selvaggio, che descrive Saverio Strati nei suoi viaggi di ritorno in Calabria, come il figlio non riconosciuto. Colui che assume sulle sue carni il volto dell’emigrante dimenticato.
La Calabria infatti, non ha mai esultato per l’opera stratiana. Né mai gioito per i successi dello scrittore, non comprendendo che quelli vissuti da Strati erano invece i successi della Calabria stessa. Il riscatto di una terra che partiva dalla cultura, questo incarnava Saverio Strati. Ma l’oblio a cui è stato condannato, lo ha condotto a vivere la più alta soglia di solitudine che possa spettare a un uomo, di più a uno scrittore. Prima di morire, in piene facoltà mentali, Saverio Strati espresse fermamente la volontà di essere cremato e solo dopo diffondere la notizia della sua morte. Si condannava, Saverio Strati. Tanto da voler lasciare la terra in silenzio. Forse con lo stesso silenzio che aveva lasciato la Calabria, tanti anni addietro. Il silenzio della morte. L’eterno silenzio.
Questa terra, oggi, credo abbia un profondo debito nei confronti dello scrittore santagatese. Riconosciamo almeno le sue opere. Riaccendiamo i riflettori sulla sua produzione letteraria. Quei libri che narrano niente altro che la nostra storia. Quella reale. La stessa che Strati ha vissuto sulla sua pelle e ha scritto con coraggio e sapienza, perché non venisse mai dimenticata. Ricordando al mondo che c’è gente che vive al Sud. E noi viviamo.
C’è una Calabria ancora oggi, che è madre di tanti Tibi e di tante Tascia. Per ogni Tascia che resta c’è un Tibi che parte. Per ogni Tibi che parte, una Tascia resta. La dualità tra il restare a Sud pur avendo desiderio di partire e il partire dal Sud, pur avendo voglia di restare.
C’è un’Italia che ha bisogno di ricondursi alle origini. E i libri di Saverio Strati sono una buona opportunità di rinascita. L’opportunità giusta per ricominciare a riprendersi se stessi partendo dall’appartenenza.
A un giovanissimo italiano, che volesse iniziare a innamorarsi di Saverio Strati, e dell’abbondanza della sua opera, quale fonte di conoscenza e scrigno di memoria, consiglierei, prima, di soddisfare qualche piccola curiosità sullo scrittore, informandosi su quella che è stata la sua vita di uomo calabrese e calabrese emigrato.
Ad un ragazzo delle scuole elementari consiglierei di leggere Il Natale in Calabria. Breve, conciso, definito. Per quanta dolcezza e tenera affettuosità contiene il Natale nella vita delle famiglie del Sud, così come viene narrato da Saverio Strati. Consiglierei invece a quest’età di farsi leggere da un padre o una madre, Tibi e Tascia. Per le conclusione, che giunti all’ultima pagina, entrambi trarrebbero allo stesso modo.
Ad uno studente delle scuole medie, consiglierei I Cari Parenti. Un libro dove diviene protagonista nel bene, nel male e nella satira quotidiana, l’essenzialità della famiglia, quale luogo di vita e di memoria. Unica fonte di appartenenza alla quale attingere per continuare la vita che da questa stessa famiglia parte.
Ad un giovane delle scuole superiori invece, suggerirei II Selvaggio di Santa Venere. Un libro forte, un premio Campiello, un eccesso di verità che Strati racconta con una saggezza e una tempra uniche. Un’opera scritta nel ’77 ma che oggi, nel 2015, risulta essere ancora il prodotto di una realtà tangibile ed esistente. Attuale. Una terra che inibisce. Una società che vuole adeguarsi a un sistema che però rende fragili soprattutto i giovani, irriconoscibili di fronte a se stessi, i quali avvertono l’esigenza di un riscatto visto esclusivamente nella fuga da una terra che opprime. Una terra che però assieme ai padri, aspetta e spera. E ancora consiglierei La Teda, qualora si avesse desiderio di ascoltare, leggendo, i rumori dell’acqua, della fame e della miseria, che colpiscono un paese estremo come Terrarossa. Tutti libri che riportano con saggia semplicità alla quotidianità della vita vissuta. Una vita raccontata ieri che risulta essere pari e patti a quella di oggi.
A tutti i giovani calabresi invece, un consiglio di vita, come scrittrice e come madre: “pretendete di conoscere voi stessi. La vostra storia. Valorizzate il senso dell’appartenenza. Difendete Il Sud. Il Nord. Il paese, difendete. E che questo non sia solo luogo ma stato d’animo. Fatevi lasciare dagli altri un futuro migliore e non date mai in prestito il vostro perché questi se ne servano tragicamente. Pretendete che vi si insegni tutto di voi. Che vi si faccia conoscere le vostre origini. I fatti e i misfatti delle vostra terra. Gli uomini e le donne. I luoghi. I libri. Gli scrittori. Saverio Strati.
«La lettura – diceva il maestro Michele – è un atto di coraggio. – Ricordate che leggendo sarete sempre un passo avanti agli altri – diceva. – I miei genitori non sanno leggere. Nessuno gli ha insegnato a leggere. Mio padre dice che la sua scuola è stata la terra. Non servono parole nella terra. Braccia servono. E duro lavoro. La lettura – dice – ti farà pure scienziato figliolo. Ma solo la terra ti renderà forte. Impara a lavorarla e capirai -. E io la lavoro la terra, signor maestro. Ma non mi accorgo di nulla. Ogni giorno dato alla terra, è una pagina di libro in meno. Un giorno senza storie è un giorno morto. Morto, capisce!? – La terra custodisce tesori quanto i libri, Leo. Continua a leggere. Insegna a tuo padre, nella terra, ciò che impari dai libri. Faglieli conoscere, i libri. Un giorno, vedrai, anche lui si accorgerà che i libri nascono tutti dalla terra. La stessa che lui omaggia e lavora. E quel giorno sarà orgoglioso di te, Leo. Di te che la sua terra, hai imparato come custodirla». (gsc)

Cinque anni fa ci lasciava il grande Saverio Strati, lo scrittore di Calabria

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il calabrese scrittore. “Gli scrittori calabresi, non sono scrittori periferici, ma solo scrittori nati in Calabria nelle cui opere c’è qualcosa difficile da spiegare, che fa parte del mondo degli uomini.” Con questo concetto, completa la sua visione di “periferia” Saverio Strati, in un’intervista del 1984.

Ma chi era (è) Saverio Strati?
«Voi lo avete visto un giovane muratore, che si mette a studiare e infine diventa un grande scrittore? Ve lo presento io. Si chiama Saverio Strati.[…] Narratori di questa pasta speciale sono rari, come il sole d’inverno. Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi». ( Pasquino Crupi)
Saverio Strati nasce a Sant’Agata del Bianco, in Calabria, il 16 agosto 1924. Muore invece a Scandicci, in Toscana, il 9 aprile 2014. Oggi sono cinque anni di assenza e di mancanza.
Poeta contadino, scrittore della gente. Due cuori nel petto: uno che dice va. E l’altro: che vai a fare?
Pubblica, nel ’54, il racconto La Regalia. Storia di uomini e di zappe. Zappe e pane. Racconto forte, immediato, in cui pare essere egli stesso il protagonista, tanto che in una lettera all’amico Carmelo Filocamo, il 25 marzo 1954, Saverio Strati, scrive:«Carmelo, vent’anni passati con la zappa nelle mani, la cazzuola e la falce, e le sofferenze, non si can­cellano così. E non sarà Firenze a cancellarle, né Roma né Messina. La nostra Calabria, i nostri contadini, i no­stri lavoratori, tutti gli uomini, di ogni grado, di ogni condizione, sono dentro di me. E parlo con essi per del­le ore, per delle settimane e me li porto dentro per anni e poi escono, con un parto doloroso… E quanti massari e massaie e pastori e pastore, e muratori e calzolai e ra­gazzi e ragazze scalzi e nudi sono dentro di me. E non li vado scovando con la zappetta, ma vengono essi e si offrono e mi dicono: – ed ora tocca a me. A me –. A momenti temo che finisca prima che possa dire tutto. Ma se vivrò ancora vent’anni, vedrai che cosa saprà fare lo zappatore della Regalìa».
Nel 1956, edita da Mondadori, la sua prima raccolta di racconti con il titolo La Marchesina. A seguire: Premio Vaillon con il romanzo Tibi e Tascia nel 1960; premio Sila con Il Nodo e Gente in viaggio, nel 1966; Premio Napoli con Noi lazzaroni, nel 1972; Premio Campiello nel ’77 con Il Selvaggio di Santa Venere.
Un’opera letteraria crescente e vasta, fino al 1991, quando a Strati viene gratuitamente dato il diritto all’oblio. L’editore di sempre (Mondadori), si rifiuta di pubblicare Melina. Raccolta di racconti che pubblicherà poi con Piero Manni nel 2015.
La carriera di Saverio Strati incomincia una terribile discesa, fino a quando lasciato solo, senza neppure i libri, è costretto a chiedere il vitalizio riservato agli artisti per poter trascorrere dignitosamente gli ulti anni della sua vita, insieme alla moglie Hildegard Fleig.
Anagrammando il nome SAVERIO STRATI, che già in sé sembra avere tanto di romantico e suggestivo, il risultato che si ottiene è qualcosa di più romantico e trascendentale. “STAI RISERVATO”. Questo l’anagramma che Fra Diavolo (Carmelo Filocamo), compagno di studi e amico dello scrittore, coniò dall’analisi del suo nome. Ciò che Strati è sempre stato e consigliava di essere.
All’interno del saggio SAVERIO STRATI non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla, invece, uscito per i tipi Disoblio edizioni nel mese di agosto 2015, rimetto, con specifico intento, come risultato dell’anagramma, un più semplice e ridotto “STAI SERIO”.
Una forzatura voluta l’eliminazione di alcune lettere, per poter così ricalcare l’importanza del trattare SERIAMENTE la questione Strati. La SERIETA’ dei suoi scritti, riconducendoli alle(nelle) scuole, tra i più giovani. Il SERIO concetto espresso finanche dal professore Pasquino Crupi, secondo il quale, “Narratori di questa pasta speciale […] Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi.”
Ho avuto la fortuna di conoscere Saverio Strati da ragazza. Venne a tenere una lezione nella mia scuola quando frequentavo ancora le elementari. Era la volta di Fiabe Calabresi e Lucane, scritte a quattro mani con il nostro comune amico, il prof. Luigi M. Lombardi Satriani. Un incontro veloce. Uno appunto. Ché non si è mai più ripetuto. Un incontro tale a una passata di stagione, avrebbe detto mia madre. Abbondantemente madre, all’età di circa 30 anni, cercando tra gli scaffali di una libreria un buon libro da regalare a mio padre, ritrovo lo scrittore calabrese con il titolo di Tibi e Tascia. Un sussulto. Un lampo che mi coglie d’improvviso. Un ritrovamento spettacolare. Non avevo mai rimosso il nostro incontro, e in quel momento, più che mai, mi ritornava alla mente. Chiaro, nitido, come fosse la prima volta. Lessi poi, di Saverio Strati, in alcuni articoli di giornale, causa la condizione di indigenza in cui, quel grande scrittore, era costretto a vivere l’editore per il quale Strati scriveva, si era rifiutato di pubblicare i suoi scritti.
«Io, Saverio Strati sono nato a Sant’Agata del Bianco il 16 agosto 1924. Finite le scuole elementari, avrei voluto continuare gli studi ma era impossibile, perché la famiglia era povera. Mio padre, muratore, non aveva un lavoro fisso e per sopravvivere coltivava la quota presa in affitto. Io mi dovetti piegare a lavorare da contadino e a seguire mio padre tutte le volte che aveva lavoro del suo mestiere. Piano piano imparai a la­vorare da muratore. A 18 anni lavoravo da mastro mu­ratore e percepivo quanto mio padre ma la passione di leggere e di sapere era forte. Nel 1945, a 21 anni, mi ri­volsi a mio zio d’America, fratello di mia madre, per un aiuto. Mi mandò subito dei soldi e la promessa di un aiuto mensile. Potei così andare a Catanzaro a preparar­mi da esterno, prendendo lezioni da bravi professori, alla maturità classica. Fui promosso nel 1949, dopo quattro anni di studio massacrante. Mi iscrissi all’uni­versità di Messina alla facoltà di Lettere e Filosofia. Leggere e scrivere era per me vivere. Nel ’50-’51 co­minciai a scrivere come un impazzito. Ho avuto la for­tuna di seguire le lezioni su Verga del grande critico let­terario Giacomo Debenedetti. Dopo due anni circa di conoscenza, gli diedi da leggere, con poca speranza di un giudizio positivo, i racconti de La Marchesina. Con mia sorpresa e gioia il professore ne fu affascinato. Tanto che egli stesso portò il dattiloscritto ad Alberto Mondadori della cui Casa Editrice curava Il Saggiatore. Il libro La Marchesina ebbe il premio opera prima Villa San Giovanni. Alla Marchesina seguì il primo romanzo La Teda, 1957; alla Teda seguì il romanzo Tibi e Tascia che ricevette a Losanna il premio internazionale Vail­lon, 1960. Ho sposato una ragazza svizzera e ho vissuto in quel paese per sei anni. Da questa esperienza è nato il romanzo Noi lazzaroni che affronta il grave tema del­l’emigrazione. Il romanzo vinse il Premio Napoli. Nel 1972 tornato in Italia la voglia di scrivere è aumentata. Ho scritto Il nodo, ho messo in ordine racconti, apparsi col titolo Gente in viaggio con i quali vinsi il premio Sila. Negli anni 1975-76 scrissi Il Selvaggio di Santa Venere per il quale vinsi il Supercampiello, nel 1977. A questo libro assai complesso seguirono altri romanzi e altri premi. Il romanzo I cari parenti ricevette il premio Città di Enna; La conca degli aranci vinse il premio Cirò; L’uomo in fondo al pozzo ebbe il premio città di Catanzaro e il premio città di Caserta. Nel 1991 la Mondadori rifiutò, non so perché, di pubblicare Melina già in bozza e respinse l’ultimo mio romanzo Tutta una vita che è rimasto inedito. Con i premi di cui ho detto e la vendita dei libri avevo risparmiato del denaro che ho usato in questi anni di silenzio e di isolamento. Ora quel denaro è finito e io, insieme a mia moglie mi trovo in una grave situazione economica. Perciò chiedo che mi sia dato un aiuto tramite il Bacchelli, come è stato dato a tanti altri. Sono vecchio e stanco per il tanto la­voro. Sono sotto cura, per via della pressione alta. Esco raramente per via che le gambe a momenti mi danno se­gni di cedere. Nonostante questi guai porto avanti il mio diario cominciato nel 1956. Ho inediti, fra racconti e diario, per circa 5000 pagine. La mia residenza è a Scandicci.
Saverio Strati
Post Scriptum: Devo aggiungere che avendo editore alle spalle e libri da pubblicare e da ristampare, non mi sono preoccupato a organizzarmi per avere una pensio­ne, un’assistenza nella vecchiaia. Non ho, da anni, una collaborazione a giornali o a riviste. Perciò non ho nes­sun reddito e quindi è da tre anni che non faccio la di­chiarazione dei redditi. Faccio inoltre presente che alcu­ni dei miei romanzi sono tradotti in francese, in inglese, in tedesco, in bulgaro, e in slovacco e in spagnolo (Ar­gentina). Miei racconti sono apparsi in riviste cinesi e in antologie dedicate alla narrativa contemporanea italiana: in Germania, in Olanda, in Cecoslovacchia e in Cina».
Saverio Strati (1924-2014)
Saverio Strati (1924-2014)
Scrissi a Saverio Strati più volte. Mai nessuna risposta. Ero arrivata tardi. La solitudine in cui l’avevano costretto i salotti letterari italiani e la sua stessa Calabria, l’aveva annullato dal resto del mondo. Reso diversamente uomo. Stranamente scrittore. Neppure più Saverio.
Lo considerai come un martire tra gli scrittori. Troppi abbandoni che non meritava. Troppa umiliazione subita. Fino a che lessi, con profonda commozione, la disperazione di un uomo diventato scrittore di nome Saverio Strati, in quell’accorata lettera perché gli concedessero la Bacchelli, affinché gli fossero lievi gli ultimi anni della sua vita.
Ma uno scrittore non lo si può far morire così. Non d’abbandono.
Da autodidatta incominciai un’approfondita ricerca su Strati. L’identità. L’appartenenza. Le opere. I luoghi, le persone, le cose, il paese… Lessi i suoi libri con la stessa attenzione che da bambina riservavo alle favole. Intraprendendo un profondo studio sulla sua narrativa.
Saverio Strati era l’ultimo autore vivente del 900 italiano. Mi innamorai di lui, tale e quale a una figlia che si innamora del padre; una nipote che si innamora del nonno. Le sue storie non erano fantasie. Le sue donne non erano solo storie. I suoi racconti non erano invenzioni. E le sue realtà erano racconti. La sua vita, le sue idee, i suoi libri mi hanno rapita. Si son presi il cuore. Di donna, di madre e pure di scrittrice. Smuovendo, con impeto e seduzione, la mia coscienza (di calabrese), facendo vivere e rivivere in me il senso vero dell’appartenenza che sempre mi aveva legata alla terra di mio padre. A Strati devo ridare una memoria. Me lo sono promessa. E nel cuore l’ho promesso anche a lui. Glielo deve la Calabria, della quale spesso e volentieri, con coraggio, mi faccio voce. Glielo deve la Toscana, dove ha vissuto oltre 50 anni di libri e di vita. L’Italia glielo deve, per averla raccontata in tante lingue del mondo. E l’editoria più di tanti altri, glielo deve. Se solo qualcuno mi avesse insegnato a conoscerlo nei modi e nei tempi adeguati come era giusto che fosse, Saverio Strati, il mio interesse per l’epopea stratiana, sono certa, sarebbe incominciato molto prima.
Saverio Strati non è stato un meridionalista. Strati non ha difeso a spada tratta il Meridione quale luogo di appartenenza e provenienza. Non lo ha mai fatto per prese di coscienza, o partito preso. Saverio Strati in tutta la sua opera, si fa Meridione e come tale racconta i luoghi, le persone le cose, raccontandosi. La voce narrante che predomina nei suoi libri non è quella di un uomo cresciuto in Calabria; non è quella dello scrittore con vissuti e spaccati meridionali. La voce narrante nei libri di Saverio Strati è la voce del Meridione in persona. È la voce della gente reale, vissuta a Meridione, che chiede di essere ascoltata e raccontata. Gente che con il lavoro delle braccia, i sacrifici, i pianti, le partenze, gli stenti ossessi e anche la morte, ha sempre dato vita a un Meridione fatto di popoli umani. Una terra che ogni qualvolta ha voglia di essere raccontata, chiama. E Saverio Strati ha risposto sempre a tutte le chiamate della terra, facendosi egli stesso Meridione. E non per definizione. Egli, Meridione lo era. La sua opera letteraria lo è. La sua poetica contadina, lo è. I suoi libri non narrano di favole ghettizzate a Sud, ma bensì divengono custodie di storie vere in continuo viaggio verso i Sud del mondo.
Un premio Campiello piovuto sul Sud come le stelle in una notte d’inverno.
“So bene che il mio successo ha dato fastidio a molti letterati di potere.” – dice Strati in una sua intervista del settembre del 1977 concessa a Stefano Lanuzza – “Una vera beffa che, tramite il loro premio borghese, io abbia avuto il modo di farmi conoscere dal grande pubblico. I giudici del Campiello non avevano immaginato che il mio libro potesse vincere il premio: altrimenti non lo avrebbero ammesso nemmeno nella cinquina finalista. Ho visto il disappunto e la contrarietà dipingersi sul viso di tanti notabili del mondo letterario. Questo come puntuale conseguenza del paternalismo imbarazzato che può accompagnare il non poter fare a meno di met­tere nella rosa finale l’opera d’uno scrittore proletario del Sud, pubblicato da un grosso editore. Nessuno dei signori suddetti si è degnato, dopo l’assegnazione del premio, non dico di complimentarsi con me, ma anche solo di dichiarare la propria adesione al mio libro. Con divertimento, ho assistito al ridicolo mimetismo di gen­te che evitava di salutarmi per non compromettersi…”
Strati ha sempre amato senza mezze misure, la sua terra.
«La Calabria la porto dentro di me da sempre e fino a quando le forze me lo hanno consen­tito sono ritornato a vederla, a goderla. La Calabria dei suoi mari, del cielo che è sempre sopra di me, delle montagne. La Calabria degli emigranti come io sono stato, di tutti i lavoratori […]».
Un amore incondizionato. Viscerale. Troppo inquieto ed esigente. In Calabria Strati ci è nato, e presuntuosamente, seppure è deceduto a Scandicci, in Calabria dico che Strati ci è anche morto. Non serve un luogo fisico, geograficamente stabilito in un certo angolo del mondo, per dire che si muore dove si nasce. Saverio Strati è morto altrove è vero, ma con la Calabria dentro al cuore. Risulta essere lui, uno di quei calabresi che pur andando via, dalla Calabria non è mia partito. Il rapporto che la Calabria stringe con Strati però, è un’altra cosa. È un rapporto difficile quello che la terra ha vissuto con lo scrittore. Riservato, schivo. Taciturno. Vicino e lontano insieme, presente e assente. Un rapporto di odio e di amore. Quasi selvaggio, che descrive Saverio Strati nei suoi viaggi di ritorno in Calabria, come il figlio non riconosciuto. Colui che assume sulle sue carni il volto dell’emigrante dimenticato.
La Calabria infatti, non ha mai esultato per l’opera stratiana. Né mai gioito per i successi dello scrittore, non comprendendo che quelli vissuti da Strati erano invece i successi della Calabria stessa. Il riscatto di una terra che partiva dalla cultura, questo incarnava Saverio Strati. Ma l’oblio a cui è stato condannato, lo ha condotto a vivere la più alta soglia di solitudine che possa spettare a un uomo, di più a uno scrittore. Prima di morire, in piene facoltà mentali, Saverio Strati espresse fermamente la volontà di essere cremato e solo dopo diffondere la notizia della sua morte. Si condannava, Saverio Strati. Tanto da voler lasciare la terra in silenzio. Forse con lo stesso silenzio che aveva lasciato la Calabria, tanti anni addietro. Il silenzio della morte. L’eterno silenzio.
Questa terra, oggi, credo abbia un profondo debito nei confronti dello scrittore santagatese. Riconosciamo almeno le sue opere. Riaccendiamo i riflettori sulla sua produzione letteraria. Quei libri che narrano niente altro che la nostra storia. Quella reale. La stessa che Strati ha vissuto sulla sua pelle e ha scritto con coraggio e sapienza, perché non venisse mai dimenticata. Ricordando al mondo che c’è gente che vive al Sud. E noi viviamo.
C’è una Calabria ancora oggi, che è madre di tanti Tibi e di tante Tascia. Per ogni Tascia che resta c’è un Tibi che parte. Per ogni Tibi che parte, una Tascia resta. La dualità tra il restare a Sud pur avendo desiderio di partire e il partire dal Sud, pur avendo voglia di restare.
C’è un’Italia che ha bisogno di ricondursi alle origini. E i libri di Saverio Strati sono una buona opportunità di rinascita. L’opportunità giusta per ricominciare a riprendersi se stessi partendo dall’appartenenza.
A un giovanissimo italiano, che volesse iniziare a innamorarsi di Saverio Strati, e dell’abbondanza della sua opera, quale fonte di conoscenza e scrigno di memoria, consiglierei, prima, di soddisfare qualche piccola curiosità sullo scrittore, informandosi su quella che è stata la sua vita di uomo calabrese e calabrese emigrato.
Ad un ragazzo delle scuole elementari consiglierei di leggere Il Natale in Calabria. Breve, conciso, definito. Per quanta dolcezza e tenera affettuosità contiene il Natale nella vita delle famiglie del Sud, così come viene narrato da Saverio Strati. Consiglierei invece a quest’età di farsi leggere da un padre o una madre, Tibi e Tascia. Per le conclusione, che giunti all’ultima pagina, entrambi trarrebbero allo stesso modo.
Ad uno studente delle scuole medie, consiglierei I cari parenti. Un libro dove diviene protagonista nel bene, nel male e nella satira quotidiana, l’essenzialità della famiglia, quale luogo di vita e di memoria. Unica fonte di appartenenza alla quale attingere per continuare la vita che da questa stessa famiglia parte.
Ad un giovane delle scuole superiori invece, suggerirei II Selvaggio di Santa Venere. Un libro forte, un premio Campiello, un eccesso di verità che Strati racconta con una saggezza e una tempra uniche. Un’opera scritta nel ’77 ma che oggi, nel 2015, risulta essere ancora il prodotto di una realtà tangibile ed esistente. Attuale. Una terra che inibisce. Una società che vuole adeguarsi a un sistema che però rende fragili soprattutto i giovani, irriconoscibili di fronte a se stessi, i quali avvertono l’esigenza di un riscatto visto esclusivamente nella fuga da una terra che opprime. Una terra che però assieme ai padri, aspetta e spera. E ancora consiglierei La Teda, qualora si avesse desiderio di ascoltare, leggendo, i rumori dell’acqua, della fame e della miseria, che colpiscono un paese estremo come Terrarossa. Tutti libri che riportano con saggia semplicità alla quotidianità della vita vissuta. Una vita raccontata ieri che risulta essere pari e patti a quella di oggi.
A tutti i giovani calabresi invece, un consiglio di vita, come scrittrice e come madre: “pretendete di conoscere voi stessi. La vostra storia. Valorizzate il senso dell’appartenenza. Difendete Il Sud. Il Nord. Il paese, difendete. E che questo non sia solo luogo ma stato d’animo. Fatevi lasciare dagli altri un futuro migliore e non date mai in prestito il vostro perché questi se ne servano tragicamente. Pretendete che vi si insegni tutto di voi. Che vi si faccia conoscere le vostre origini. I fatti e i misfatti delle vostra terra. Gli uomini e le donne. I luoghi. I libri. Gli scrittori. Saverio Strati.
“- La lettura – diceva il maestro Michele – è un atto di coraggio. – Ricordate che leggendo sarete sempre un passo avanti agli altri – diceva. – I miei genitori non sanno leggere. Nessuno gli ha insegnato a leggere. Mio padre dice che la sua scuola è stata la terra. Non servono parole nella terra. Braccia servono. E duro lavoro. La lettura – dice – ti farà pure scienziato olefigliolo. Ma solo la terra ti renderà forte. Impara a lavorarla e capirai -. E io la lavoro la terra, signor maestro. Ma non mi accorgo di nulla. Ogni giorno dato alla terra, è una pagina di libro in meno. Un giorno senza storie è un giorno morto. Morto, capisce!? – La terra custodisce tesori quanto i libri, Leo. Continua a leggere. Insegna a tuo padre, nella terra, ciò che impari dai libri. Faglieli conoscere, i libri. Un giorno, vedrai, anche lui si accorgerà che i libri nascono tutti dalla terra. La stessa che lui omaggia e lavora. E quel giorno sarà orgoglioso di te, Leo. Di te che la sua terra, hai imparato come custodirla.” (gsc)
Giusy Staropoli Calafati è un’apprezzata scrittrice calabrese. Nata a Vibo, vive a Briatico.  Grande studiosa di Saverio Strati e delle sue opere, ha pubblicato numerosi romanzi, tutti con grande successo, tra cui ricordiamo e segnaliamo Il viaggio delle nuvole (Laruffa Editore), La terra del ritorno (Pellegrini Editore), Natuzza Evolo (EBS Print).

BIANCO: OGGI IL CONVEGNO SULLO SCRITTORE SAVERIO STRATI

31 luglio – Si svolge oggi, a Bianco, alle 19.00, presso Piazza Cinque Martiri, il convegno “Paesaggi e percorsi dell’anima dell’opera di Saverio Strati”.
Si parte con i saluti di Aldo Canturi, sindaco di Bianco, di Maria Francesco Corigliano, Assessore Regionale alla Cultura, di Raffaele Perrelli, direttore Dipartimento Studi Umanistici Unical, di Mario Bozzo, presidente Fondazione Carical, e di Domenico Stranieri, sindaco del Comune di Sant’Agata del Bianco.
Introduce e modera Enzo Romeo, giornalista del Tg2.
Relazionano la scrittrice Palma Comandè sul tema “Percorso umano e letterario di Saverio Strati”, Vincenzo Stranieri, cultore della materia in Antropologia Culturale, Domenico Talia, docente di Ingegneria Informatica dell’Università della Calabria su “Strati tra passato e futuro, conoscenze e memoria in una prospettiva digitale”, e lo scrittore e antropologo Vito Teti su “Tutta una vita, un romanzo inedito di Saverio Strati”.
Nel corso del convegno, inoltre, saranno letti dei brani tratti dalle opere di Saverio Strati a cura di Pietro Bontempo. (rrc)