TUTTA UNA VITA: IL LIBRO INEDITO DELLO SCRITTORE CALABRESE, EDITO DA RUBBETTINO
di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il percorso che intrapresi parecchi anni fa sulla letteratura calabrese, porta un nome ben distinto e preciso: Saverio Strati.
Ero ragazza quando lo incontrai a scuola. Facevo più o meno la quinta elementare. Un nuovo maestro, ci disse la maestra. Statura bassa, capelli bianchi, scarpe di suola e un paltò del colore della sabbia del mare. E sotto braccio un borsello di pelle. Fu da lì che estrasse Fiabe Calabresi e Lucane, che io e i miei compagni avevamo già letto in classe, e di cui l’autore era lui, insieme al professore, nostro compaesano, Luigi Maria Lombardi Satriani.
Da allora non lo rividi mai più. Anzi ne persi completamente le tracce. Ma solo fino a quando il caso decide di trasformarsi in destino, e Saverio Strati lo ritrovo, e proprio quando non me lo aspetto più. In libreria, in uno scaffale carico di libri, in mezzo ad altri autori. Lo ritrovo con uno dei suoi più grandi capolavori, Tibi e Tascia. Un caso sì, proprio un caso aver posato gli occhi su quel libro, e sicuramente un destino averlo fatto in quel preciso momento. Non passò moltissimo tempo infatti, e di Strati, dopo anni di lungo e assordante silenzio, incominciai a sentir parlare i giornali locali. Lo scrittore calabrese, che da quasi cinquant’anni abitava a Scandicci, in Toscana, vicino Firenze, balzava agli onori della cronaca letteraria per lo stato di indigenza in cui si trovava costretto a vivere.
Ma come era possibile tutto questo?
Mi ero documentata. Saverio Strati era stato uno dei più grandi autori del neorealismo italiano; aveva scritto una quantità eccezionale di libri; era stato letto e tradotto in tutto il mondo; aveva vinto il Campiello nel 1977 con Il Selvaggio di Santa Venere; era stato lui, ancora prima di Sciascia, il primo autore dell’Italia novecentesca, a parlare apertamente di mafia. Ma nel 1991, Mondadori, la casa editrice con cui aveva esordito e si era affermato, rifiutava il suo racconto Melina, e il romanzo Tutta una vita.
Un’uscita di scena ‘imposta’ che impatta bruscamente sullo scrittore, ma soprattutto annienta l’uomo.
Entrambi provati moralmente, e col tempo anche economicamente. Strati, che vive con il mestiere di scrittore, attinge ai risparmi finché gli è possibile, ma quando anche questi saranno finiti, è ben altro quello a cui le necessità fisiologiche dell’uomo lo costringono. In una lunga e accorata lettera, il piccolo muratore calabrese, diventato grande scrittore nel mondo, si vede costretto, per poter vivere degnamente insieme alla moglie svizzera, Hildegard Fleig, gli ultimi anni della sua vita, a chiedere il sussidio previsto dallo Stato per gli artisti italiani, grazie alla legge Bacchelli.
Alle lettura di questa triste notizia, custode delle forti emozioni del giorno in cui Strati lo avevo visto e ascoltato, toccato con mano, ebbi al cuore uno stretta che ricordo ancora. E fu dolente.
Il mio interesse verso la letteratura calabrese era stato sempre forte, ma da quel momento ebbe, non una ragione in più, ma una precisa ragione. Saverio Strati aveva dovuto, schivo e introverso com’era, superare ogni genere di vergogna, per poter scrivere quelle righe. Sottomettere la sua dignità di uomo. Mettersi a nudo a quel modo non era stato certo facile. Non lo sarebbe stato per nessuno. In fondo, uno come lui, non avrebbe voluto altro se non che si leggessero i suoi libri. Questo infatti chiedeva. Non soldi, ma la pubblicazione delle sue opere.
La Calabria, contrariamente a quanto aveva fatto prima, ignorando spesso la genialità di Strati, si mobilita a suo favore, e affinché almeno all’uomo fosse concesso di arrivare dignitosamente al tramonto della vita. E fu. Vi furono campagne di sensibilizzazione davvero importanti. E se anche alla fine i libri di Strati non vennero pubblicati, la Bacchelli gli fu praticamente concessa.
Non mi diedi comunque pace, e neppure per vinta, la struttura che era stata messa in piedi attorno a Saverio Strati, non era minimamente sufficiente se misurata sulla base della sua grandezza. Salvato l’uomo, ora bisognava salvare lo scrittore.
Saverio Strati aveva dato alla letteratura italiana un grande impulso, e la mancata riconoscenza ch’essa le riservava, destinandolo all’oblio, la trovai davvero discutibile. Se Strati doveva pagare un prezzo, per non essere stato avvezzo ai salotti letterari dell’Italia del ‘900 come l’epoca richiedeva, ed essere stato comunque uno scrittore di successo, libero e indipendente, il conto che gli veniva presentato era decisamente troppo alto e ingiusto.
Dovevo fare qualcosa, non potevo rimanere con le mani in mano. Dovevo almeno provarci. Provare a recuperare. Per il maestro, per la Calabria e per la letteratura italiana.
Scrissi a Saverio Strati – con la mano tremante e una miscellanea di emozioni che pur generandosi nello stomaco arrivavano fin dentro la gola per soffocarmi – almeno un paio di volte, ma non ebbi mai alcuna risposta.
È inutile insistere mi consigliò qualcheduno, datti pace. Il maestro non esiste più, non risponde più a nessuno. Né al citofono né al telefono. Tantomeno alle lettere. Il martirio a cui è stato condannato, non lo ha sopportato. E lo ha distrutto, ucciso prima ancora di morire davvero. Era il 2009.
Il 9 aprile 2014, quando mi giunse la nuova che il maestro era fisicamente morto, persi improvvisamente una parte importante di me. La voce, le parole. Impiegai diverso tempo a metabolizzare quel lutto. Strati moriva lontano, moriva da solo, ai margini della sua terra, e soprattutto, e io lo sapevo, moriva portando la gente di Calabria dentro di sé come il cuore nel petto dell’uomo. Con la sua morte, l’Italia perdeva uno dei suoi più grandi geni letterari, la Calabria uno dei suoi figli più illustri, io il mio grande maestro.
Avevo recuperato tutti i suoi libri, uno ad uno. Li avevo letti tutti, uno ad uno. Ero stata a Sant’Agata del Bianco, suo paese natale; nella sua casa, sulla collinetta di Cola, nella piazzetta di Tibi e Tascia; ad Africo, nella sua Terrarossa, dove da mastro muratore, Strati, aveva contribuito a edificare le scuole elementari volute da Umberto Zanotti Bianco, e lì avevo imparato cosa fosse una teda. E adesso toccava a me. Questo era il mio turno. La preparazione c’era, il coraggio e la grinta pure. Se la Calabria, che era la terra della quale con Strati condividevo il sangue e l’onore, aveva ancora una grande luce da accendere, o anche solo una piccola teda, era sul suo scrittore santagatese che andava puntata.
Con i libri di Saverio Strati maturai l’esperienza che mi serviva, e mi formai profondamente come donna, come calabrese e come scrittrice. Tra il 2015 e il 2016, scrissi due saggi brevi (Saverio Strati – non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla / Saverio Strati – due racconti), entrambi a lui dedicati. Lo scrittore dimenticato doveva riapprodare al più presto nella sua Itaca. E la Calabria lo era. Li destinai alle scuole. V’erano dentro la vita, il pensiero, le opere, e anche due racconti inediti. Di uno posseggo il manoscritto in originale, con le correzioni a penna fatte di suo pugno, le aggiunte, i tagli.
La mia esperienza diventava quella di molti. Un viaggio a introspezione nella Calabria più vera e più autentica, nell’unica sua originale forma. Ma Strati era anche in un romanzo che doveva poter rivivere, in fondo era questa la forma di scrittura che più amava.
Nel 2017 gli dedicai La Terra del ritorno, pagine intense e forti di cui altro non aggiungo, per quanto abbastanza possa già parlare il titolo.
Andai di scuola in scuola, di paese in paese. Attraversai la Calabria dall’Aspromonte al Pollino, dal Tirreno allo Ionio, e incontrai ragazzi di ogni età e di ogni estrazione sociale. Tra i banchi di scuola Strati ritornava come aveva desiderato, e ritornava con me, e io ne ero orgogliosa. Saverio Strati diventava il “nostro” scrittore. Affettuosamente nostro. Mio e di tutti i ragazzi, di tutti i maestri e le maestre, i professori e le professoresse che incontravo. Nei suoi libri non c’erano scritti i nostri nomi, no, ma la nostra storia sì. C’era tutta, ed era completa. C’eravamo noi, ognuno di noi.
Partecipai a incontri, convegni, alcuni davvero emozionanti nel suo paese natìo. Era dalla genesi che bisognava partire. Perché in fondo la consapevolezza di ogni cosa, risiede lì dove la cosa nasce. Programmai finanche un viaggio verso la sua casa fiorentina. Scandicci, via Giotto, aria pregna di libri e di storie. Rapporti serrati con il figlio, i nipoti, e poi, poi come andò e come non andò, non è importante, le fatiche fatte, quando si avverano i sogni, non vanno proclamate, quel che conta è il risultato finale. E oggi, chiunque, recandosi in libreria, Saverio Strati potrà trovarlo, incontrarlo com’è accaduto a me. Gioire della sua ritrovata opera. Perché sì, i suoi libri sono stati ripubblicati. Tibi e Tascia, La Teda, il Selvaggio di Santa Venere. Ma la cosa straordinaria è che il suo romanzo inedito, è stato pubblicato anche quello. Tutta una vita, tanto ha dovuto attendere Strati, affinchè quest’opera vedesse la luce. Per i tipi di Rubbettino, la casa editrice calabrese di Soveria Mannelli, Strati torna sulla scena letteraria italiana e come il più moderno degli scrittori.
Tutta una Vita è l’opera che forse da Strati non ci si saremmo mai aspettati, specie gli stratiani convinti. E se forse fosse stato pubblicato prima questo romanzo, neppure l’avremmo granché capito, né gradito. Ma se è vero che ogni autore ha una sua opera della maturità, allora ecco che Saverio Strati si presenta con una potenza narrativa davvero straordinaria. Uno scrittore maturo? Di più. La genialità dello scrittore.
Strati dà piena libertà al suo vero genio creativo. Se nei precedenti romanzi il focus dell’autore mira prepotentemente e unicamente a mettere in risalto la staticità della Calabria, dentro cui i calabresi si lasciano naturalmente trascinare, in Tutta Una Vita, l’attenzione assoluta è al movimento dei calabresi dentro cui, la Calabria, aprendosi all’Italia, si muove con loro. Una riforma che ci sono voluti anni affinché avvenisse, ma che era necessaria per l’autore e per il lettore.
L’ordito viene intelaiato arrovescio; la storia comincia finendo, per finire cominciando. Pino Condello è un architetto che realizza i suoi sogni, tra sacrifici e fatiche, contrariamente ai personaggi narrati da Strati nelle sue precedenti opere. Egli infatti si discosta dalla mentalità meridionale “classica” secondo la quale i figli devono seguire i progetti dei padri. Pino, dalla facoltà di Ingegneria passa ad Architettura, il piglio del padre d’avere un figlio ingegnere da inserire nella ditta di famiglia, s’accorge d’essere un peso troppo grande per lui, davvero troppo da doverselo caricare addosso tutta la vita.
E così, Strati, ricorda a sé e al lettore, attraverso le evoluzioni intime del protagonista, che i figli spesso hanno sogni che non corrispondono ai sogni dei padri, alle aspettative della famiglia. E il piacere di vivere liberamente la propria vita, è la forza nuova con cui costruisce il suo personaggio, permettendogli di fare esperienze diverse e consapevoli. A Pino è l’arte che lo attrae, la voglia di potersi esprimere che lo coinvolge, il desiderio di libertà che lo assale.
Tutta una vita, non è propriamente un romanzo e basta, esso appare sin dal principio la sintesi di qualcosa di più grande. Strati tratteggia la geografia umana dei personaggi e la storia delle loro condizioni sociali e morali, con un fare filosofico tale, da incominciare il romanzo come una sorta di trattato di filosofia. La storia è scissa precisamente in due parti; quella in cui Pino, martoriato dalla coscienza, al termine delle sue esperienze umane spesso sofferte, ripercorre i fatti e i misfatti, i corsi e i ricorsi di cui è stato protagonista, e dove Strati, oramai maestro di vita, inneggia un filosofare che lo magnifica: – […]A pensarci bene non si è mai del tutto soli. C’è qualcuno che ti controlla, che ti giudica, che ti rampogna: la coscienza. Essa è sempre desta, attenta, pronta e coraggiosa a rimproverarti le tue bassezze, le tue debolezze e falsità e vigliaccherie. […] È la tua Sibilla, la tua Madonna […]– ; e quella in cui, sempre Pino, vive direttamente il suo destino, e Strati torna a essere il narratore di sempre, ritorna insomma a fare il mestiere di tutta una vita.
La potenza della narrazione esplode ovunque, e si avverte soprattutto nei monologhi interiori, in cui Strati è il vero e unico protagonista. Egli non lo palesa, ma spesse volte mette da parte Pino e al suo posto presenta Saverio, il narratore e l’uomo, il calabrese e l’uomo del mondo. E lo fa alternando, con capacità espressiva unica, il discorso diretto a quello indiretto.
La letteratura italiana, con Saverio Strati, ha avuto un grande maestro di architettura umana, eppure non se n’è mia completamente accorta. Strati si è sempre mostrato aperto alla vita, ma in questo romanzo lo fa in maniera inequivocabile. Si spoglia, o almeno cerca, pur rimanendo fermo sulla condizione umana del’individuo, dei limiti della condizione geografica che insistono invece nelle altre sue opere, e libera i personaggi nella dimensione che più gli è congeniale. A Nord e a Sud. Un percorso italiano in cui la contrapposizione dei due poli del paese non svanisce, ma non è neppure assoluta. L’Italia va cambiando e i personaggi si ambientano al cambiamento, seppur ognuno con una propria visione culturale ed economica. Pino si stacca dal paese, suo cugino Lino no. Pino resta a Milano, Lino no. Pino immagina di potersi esprimere altrove ed esprimersi meglio, Lino no. E non è questione di mentalità retrograda, ma è l’interior di entrambi che cambia. L’umano di cui è fatto Pino rispetto a quello con cui si è formato Lino. Strati presenta un Sud meno povero rispetto al suo solito, ancora non sufficientemente aperto, ma sicuramente più operoso (vedi la famiglia Condello), con ulteriori impulsi rispetto al passato, anche se con certamente ancora tanta strada da fare. Racconta di viaggi che si alternano, e non si sofferma mai particolarmente sulle partenze dal paese natio, quale forma assoluta di dolore e di nostalgia, ma racconta la vita nei suoi movimenti naturali. Traccia itinerari che si delineano sulla base delle prospettive e della ambizioni dei personaggi stessi. Cessa la lamentazione della Calabria, che invece racconta nella sua forma tipica, senza per forza dover mettere in competizione le periferie con la città. Concede a Pino possibilità di futuro e di lavoro tanto al Sud quanto al Nord, e non rimette nelle mani di alcuno i fallimenti o le vittorie dei personaggi, se non di essi stessi. Offre a chiunque la possibilità di scegliere, rendendo consapevoli tutti che una scelta fatta, equivale sempre e comunque a una rinuncia da fare.
Saverio Strati non si pone mai come uno scrittore autobiografico nei suoi romanzi, più volte egli stesso intese precisare questo aspetto, ma racconta semplicemente storie vissute, che inevitabilmente rimandano il lettore alla vita dell’autore stesso.
In Tutta una vita accade proprio così. È vivo il richiamo ai luoghi di formazione dello scrittore che in grande parte coincidono con quelli del protagonista: Messina, dove Saverio Strati proprio come Pino Condello approda come studente universitario dopo il diploma liceale a Catanzaro nel 1949, e si forma seguendo le lezioni del professore Giacomo Debenedetti; Firenze, i monumenti, l’arte, la geografia, la storia. Melo, questo nome curioso che appare una volta solo nella storia di Pino, e poi scompare, e che invece nella vita dello scrittore ha un’identità e un ruolo precisi: Carmelo Filocamo, suo compagno di studi, l’amico geniale che se non avesse fatto leggere al professore Debenedetti i racconti di Strati, forse oggi non saremmo qui a parlare di un grande scrittore. Poi, il professore Capaci, che in aula, durante una delle sue lezioni elogia il suo studente Condello, così come Debenedetti fece con Strati. Il passaggio da una facoltà universitaria all’altra, con cui Pino Condello (Ingegneria-Architettura) come Saverio Strati(Medicina-Lettere), si staccano dalle volontà familiari, per dare agio alle proprie. E infine l’amore viscerale per i libri che nasce e prende forma in Pino così come accadde a lui: Alle lezioni di fisica o calcolo, il mio pensiero assorbiva e basta; quando spinto dalla curiosità entravo a Lettere e mi accadeva di ascoltare una buona lezione, la mia fantasia si accendeva, la mia curiosità cresceva e la voglia di leggere libri di critica, di filosofia, romanzi importanti diventava veramente inquieta e avida. Avevo letto tanti libri di cui Lino ignorava autori e contenuti. Lino era come il treno che può camminare soltanto sulle rotaie, mentr’io divagavo e facevo tanti pensieri che erano pensieri sulla vita e sul mondo. Insomma c’è tanto di Saverio in Pino, ma l’uno non è sicuramente l’altro.
Tutta una vita, non lascia dubbi. Saverio Strati è uno scrittore nuovo, moderno, ma soprattutto giovane. Se di altri si leggono i romanzi saltando le pagine, i suoi non lo consentono. Tutta una vita meno che mai. Esso tiene incollato il lettore a lungo anche su una stessa pagina. E chiede di essere assaporato, interiorizzato lentamente. A me è accaduto. Non volevo che finisse mai, speravo che appunto, durasse tutta una vita.
Se Corrado Alvaro ebbe l’ingegno di regalarci Quasi una vita, con Strati, Tutta una vita doveva proprio arrivare. In fondo è lui l’autore che chiude quel ciclo letterario.
In Italia ci sono molti premi importanti in cui vengono premiati e riconosciuti romanzi altrettanto importanti, ma secondo quella certa logica che Strati non ha mai condiviso. Quando vinse il Campiello, nel 1977, notò finanche il pentimento di chi lo aveva votato. Non aveva vinto lo scrittore dei salotti letterari italiani, ma il calabrese; aveva vinto la purezza della letteratura e non il libro più venduto dell’anno. E quando ne ebbe coscienza, fu amara la constatazione. Ma nessuno poteva più tornare indietro.
Non credo vi siano attualmente in Italia premi con cui riconoscere il valore di Tutta una vita. Sulla scia del passato non basterebbe più neppure il Campiello. Strati è di più, molto di più. Ci vorrebbe un premio dei premi. E io che del maestro ho imparato a conoscere profondamente il pensiero, penso di sapere quale potrebbe essere, e credo di sapere bene anche quanto Saverio Strati lo renderebbe felice, ovunque esso sia. Felice assai, quasi quanto i giudizi positivi che riceveva dal suo maestro Giacomo Debenedetti quando leggeva i suoi racconti. Ecco, il premio dei premi a Saverio Strati, per Tutta una vita, sarebbe far studiare l’autore nelle scuole italiane. Un dovere verso di lui, un diritto per tutti gli studenti del paese.
L’opera postuma di Saverio Strati, è un romanzo che va letto per necessità e con convinzione. E che si somma a quella sua sublime produzione libraria che tanto ha da offrire alla formazione dei giovani italiani. Un fondo di cultura preziosissimo a cui la scuola ha il dovere di attingere e con cui può fornire nuove indicazioni di vita ai propri studenti, placando altresì l’esigenza di conoscenza che questi anni hanno. L’occasione va colta, subito. Non si lasci passare ancora tutta una vita. (gsc)
[La fotografia è di Pino Colosimo]