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Zampognari a Natale

Dal racconto di Natale di Saverio Strati

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI Per un ragazzo del nord il Natale corrisponde certamente a vetrine illuminate e zeppe di giocattoli e di robe di ogni genere, all’albero dove sono appesi dei regali; e forse non avverte la preoccupa¬zione dei genitori per la mancanza di soldi o di lavoro o addirittura del pane quotidiano. Per un ragazzo del sud, al contrario, il Natale prende un altro aspetto, gli si presenta con altra faccia. C’è il presepe, che ripete pari pari la storia della nascita del figlio di Dio. Ma il presepe in casa è segno di ricchezza: cioè vien fatto nelle case dei ricchi. Nelle case dei contadini o degli operai e artigiani non si fa il presepe. Lo si prepara in chiesa. Ed è opera popolare, costruito, messo su dall’abilità e spesso dalla genialità dei più bravi ragazzi; e concesso al godimento dei poveri attraverso la Chiesa, sempre mediatrice tra Dio e popolo. Certo anche Gesù Bambino sarà andato a piedi nudi per le vie del suo paese, e anche lui avrà avuto i calzoni a brandelli, visto che anche lui era figlio di gente povera. Suo padre era un povero falegname. Cosa poteva guadagnare? Ma certo Gesù era scalzo perché voleva”. (Saverio Strati)

Se i tempi cambiano inseguendo le mode, la letteratura, che conserva l’identità delle cose, potrebbe essere il giusto mezzo per rintracciare i tempi passati. Recuperarli e forse, perchè no, rimetterli in uso. Rivalorizzandone l’importanza, scoprendone la necessità. La letteratura di Saverio Strati fa un lavoro di ricognizione sulle tradizioni e di fermo immagine sul passato, dal valore inestimabile. Così accade nel Il Natale in Calabria, un racconto dedicato alla natività del Bambino, e con cui lo scrittore rappresentata la tradizione identitaria, e il vivere della civiltà contadina meridionale.

Il racconto sul Natale, diventa uno stato d’animo che vive nell’uomo. Nulla, infatti, egli esterna se non lo prova. 

Nell’illustrazione del Natale, Strati, conservandone la magia, esterna i vissuti non come ricordi, ma perfetta quotidianità. E lo fa tracciando una precisa mappa dei luoghi in cui celebra la festa. Saverio Strati, tra gli autori più importanti del ‘900 letterario italiano, pur dimorando in Toscana, vive il suo natale in Calabria. E proiettandosi nella realtà da cui proviene, non tralascia niente. Offre invece al lettore, i profumi, i sapori, i sentimenti e i valori. L’aria croccante della sera della vigilia, quella pungente del giorno di Natale. E poi la casa, la famiglia, la tavola, il torrone e il fuoco. 

Strati, ne Il Natale di Calabria, racconta con la genialità dello scrittore e il valore dell’uomo, un Natale che forse non c’è più, ma che basta cercare dentro ognuno di noi per ritornare a vivere. Un tempo che non è vero che passa, ma semplicemente, come uomini distratti, non riusciamo più a vivere appieno.

Il Natale in Calabria, pubblicato da Strati nel 2006, è un piccolo libro, con illustrazioni, di pochissime pagine. Un’opera letteraria dal valore inestimabile che, per ridare considerazione alla festa, bisognerebbe ritornare a leggere. In Calabria e in capo al mondo. Potrebbe tornare a essere ogni giorno Natale. 

[…] Natale era veramente la festa del focolare, dell’unione della famiglia, della rinascita, della speranza e della vita che è eterna nella successione delle generazioni. Era una festa amata, desiderata: pareva che la natura vi partecipasse per la luce e un senso di tepore e di pace che si manifestavano nel cielo in quei giorni generalmente luminosi e sereni.

Allora più che oggi le feste natalizie erano più autentiche nel Sud che nel Nord: erano più vicine al racconto evangelico. L’albero, per esempio, che è di origine nordica e che non ha nulla da vedere col racconto evangelico, ossia con la nascita di Gesù, era quasi totalmente ignorato. C’era il presepe che ripeteva pari pari la storia della nascita del figlio di Dio: Ma il presepe era un segno di ricchezza: veniva allestito nella casa dei pochi ricchi.

Nella casa dei contadini, degli artigiani, dei lavoratori non c’era il presepe. Lo si preparava in chiesa ed era popolare, costruito e messo su dall’abilità e spesso genialità dei più bravi ragazzi, e concesso al godimento di tutti attraverso la chiesa che è mediatrice fra Dio e popolo. […]

La chiesa per via della gente e delle lumiere in qualche modo si riscaldava e cominciava la celebrazione della messa e nel bel mezzo da fuori cominciavano ad arrivare grida festose. Erano le grida dei giovani che erano andati in cerca di fasci di rami e di legna e avevano acceso il fuoco, un gran fuoco che lingueggiava allegramente e illuminava la piazza e la facciata della chiesa.[…]

Le fiamme si alzavano vigorose e lingueggianti al cielo e destavano in tutti i presenti una gioia irrefrenabile, tanto che molti si mettevano a ballare come se fossero eccitati dalla forza del fuoco, che è simbolo di vita. […]

E rubare fasci di rami o ceppi non era vergognoso, non era reato, anche se la donna derubata qualche volta arrivava strillando e minacciando di denunciare i ladri ai carabinieri.

La messa finiva, il fuoco si spegneva e i contadini partivano per i campi lontani. Spuntava il giorno e con esso i ragazzi si riversavano per le strade e giocavano pazzamente alle noccioline, pensando alla mattina della veglia di Natale quando la mamma si alzava dopo la mezzanotte, per preparare «cose fritte»: zeppole e nacatole. […]

Generalmente ci si riuniva, anzi ci si riunisce ancora oggi, nella casa dei nonni che vogliono avere la «consolazione» di stare, forse per l’ultimo Natale, tra i loro figli: Vogliono averli lì in quella casa dove son nati e cresciuti, dove hanno avuto tante preoccupazioni in comune che ora rievocano ed è come se leggessero un libro scritto da tutti loro. Peccato che qualche figlio è assente: Vincenzo si trova in Australia, il marito di Maria in Brasile.

– Ma sono con noi in spirito –, dice con antica saggezza il nonno. – Beviamo alla loro salute. […]” (S.S.)  (gsc)