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Giusy STaropoli Calafati a una mostra dedicata a Saverio Strati

Sette anni fa ci lasciava Saverio Strati: un ricordo del grande scrittore

Il 9 aprile del 2014 ci lasciava il grande scrittore calabrese Saverio Strati, un autore che ancora dev’essere valorizzato come meriterebbe non solo in Calabria ma nel mondo della letteratura contemporanea. La scrittrice Giusy Staropoli Calafati è una profonda conoscitrice dell’opera dello scrittore di Sant’Agata del Bianco, nato in Calabria nel 1924, morto a Scandicci, dove si era ritirato a vivere da moltissimi anni.

Questo il suo ricordo: «“Gli scrittori calabresi, non sono scrittori periferici, ma solo scrittori nati in Calabria nelle cui opere c’è qualcosa difficile da spiegare, che fa parte del mondo degli uomini.” Con questo concetto, completa la sua visione di “periferia” diceva Saverio Strati, in un’intervista del 1984. E Pasquino Crupi ne aveva tracciato un brevissimo ma preciso profilo: «Voi lo avete visto un giovane muratore, che si mette a studiare e infine diventa un grande scrittore? Ve lo presento io. Si chiama Saverio Strati.[…] Narratori di questa pasta speciale sono rari, come il sole d’inverno. Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi».

Poeta contadino, scrittore della gente. Due cuori nel petto: uno che dice va. E l’altro: che vai a fare?
Pubblica, nel ’54, il racconto La Regalia. Storia di uomini e di zappe. Zappe e pane. Racconto forte, immediato, in cui pare essere egli stesso il protagonista, tanto che in una lettera all’amico Carmelo Filocamo, il 25 marzo 1954, Saverio Strati, scrive:«Carmelo, vent’anni passati con la zappa nelle mani, la cazzuola e la falce, e le sofferenze, non si can­cellano così. E non sarà Firenze a cancellarle, né Roma né Messina. La nostra Calabria, i nostri contadini, i no­stri lavoratori, tutti gli uomini, di ogni grado, di ogni condizione, sono dentro di me. E parlo con essi per del­le ore, per delle settimane e me li porto dentro per anni e poi escono, con un parto doloroso… E quanti massari e massaie e pastori e pastore, e muratori e calzolai e ra­gazzi e ragazze scalzi e nudi sono dentro di me. E non li vado scovando con la zappetta, ma vengono essi e si offrono e mi dicono: – ed ora tocca a me. A me –. A momenti temo che finisca prima che possa dire tutto. Ma se vivrò ancora vent’anni, vedrai che cosa saprà fare lo zappatore della Regalìa».
Nel 1956, edita da Mondadori, la sua prima raccolta di racconti con il titolo La Marchesina. A seguire: Premio Vaillon con il romanzo Tibi e Tascia nel 1960; premio Sila con Il Nodo e Gente in viaggio, nel 1966; Premio Napoli con Noi lazzaroni, nel 1972; Premio Campiello nel ’77 con Il Selvaggio di Santa Venere.
Un’opera letteraria crescente e vasta, fino al 1991, quando a Strati viene gratuitamente dato il diritto all’oblio. L’editore di sempre (Mondadori), si rifiuta di pubblicare Melina. Raccolta di racconti che pubblicherà poi con Piero Manni nel 2015.
La carriera di Saverio Strati incomincia una terribile discesa, fino a quando lasciato solo, senza neppure i libri, è costretto a chiedere il vitalizio riservato agli artisti per poter trascorrere dignitosamente gli ulti anni della sua vita, insieme alla moglie Hildegard Fleig.
Questa la sua drammatica richiesta di aiuto: «Io, Saverio Strati sono nato a Sant’Agata del Bianco il 16 agosto 1924. Finite le scuole elementari, avrei voluto continuare gli studi ma era impossibile, perché la famiglia era povera. Mio padre, muratore, non aveva un lavoro fisso e per sopravvivere coltivava la quota presa in affitto. Io mi dovetti piegare a lavorare da contadino e a seguire mio padre tutte le volte che aveva lavoro del suo mestiere. Piano piano imparai a la­vorare da muratore. A 18 anni lavoravo da mastro mu­ratore e percepivo quanto mio padre ma la passione di leggere e di sapere era forte. Nel 1945, a 21 anni, mi ri­volsi a mio zio d’America, fratello di mia madre, per un aiuto. Mi mandò subito dei soldi e la promessa di un aiuto mensile. Potei così andare a Catanzaro a preparar­mi da esterno, prendendo lezioni da bravi professori, alla maturità classica. Fui promosso nel 1949, dopo quattro anni di studio massacrante. Mi iscrissi all’uni­versità di Messina alla facoltà di Lettere e Filosofia. Leggere e scrivere era per me vivere. Nel ’50-’51 co­minciai a scrivere come un impazzito. Ho avuto la for­tuna di seguire le lezioni su Verga del grande critico let­terario Giacomo Debenedetti. Dopo due anni circa di conoscenza, gli diedi da leggere, con poca speranza di un giudizio positivo, i racconti de La Marchesina. Con mia sorpresa e gioia il professore ne fu affascinato. Tanto che egli stesso portò il dattiloscritto ad Alberto Mondadori della cui Casa Editrice curava Il Saggiatore. Il libro La Marchesina ebbe il premio opera prima Villa San Giovanni. Alla Marchesina seguì il primo romanzo La Teda, 1957; alla Teda seguì il romanzo Tibi e Tascia che ricevette a Losanna il premio internazionale Vail­lon, 1960. Ho sposato una ragazza svizzera e ho vissuto in quel paese per sei anni. Da questa esperienza è nato il romanzo Noi lazzaroni che affronta il grave tema del­l’emigrazione. Il romanzo vinse il Premio Napoli. Nel 1972 tornato in Italia la voglia di scrivere è aumentata. Ho scritto Il nodo, ho messo in ordine racconti, apparsi col titolo Gente in viaggio con i quali vinsi il premio Sila. Negli anni 1975-76 scrissi Il Selvaggio di Santa Venere per il quale vinsi il Supercampiello, nel 1977. A questo libro assai complesso seguirono altri romanzi e altri premi. Il romanzo I cari parenti ricevette il premio Città di Enna; La conca degli aranci vinse il premio Cirò; L’uomo in fondo al pozzo ebbe il premio città di Catanzaro e il premio città di Caserta. Nel 1991 la Mondadori rifiutò, non so perché, di pubblicare Melina già in bozza e respinse l’ultimo mio romanzo Tutta una vita che è rimasto inedito. Con i premi di cui ho detto e la vendita dei libri avevo risparmiato del denaro che ho usato in questi anni di silenzio e di isolamento. Ora quel denaro è finito e io, insieme a mia moglie mi trovo in una grave situazione economica. Perciò chiedo che mi sia dato un aiuto tramite il Bacchelli, come è stato dato a tanti altri. Sono vecchio e stanco per il tanto la­voro. Sono sotto cura, per via della pressione alta. Esco raramente per via che le gambe a momenti mi danno se­gni di cedere. Nonostante questi guai porto avanti il mio diario cominciato nel 1956. Ho inediti, fra racconti e diario, per circa 5000 pagine. La mia residenza è a Scandicci.

Saverio Strati
Post Scriptum: Devo aggiungere che avendo editore alle spalle e libri da pubblicare e da ristampare, non mi sono preoccupato a organizzarmi per avere una pensio­ne, un’assistenza nella vecchiaia. Non ho, da anni, una collaborazione a giornali o a riviste. Perciò non ho nes­sun reddito e quindi è da tre anni che non faccio la di­chiarazione dei redditi. Faccio inoltre presente che alcu­ni dei miei romanzi sono tradotti in francese, in inglese, in tedesco, in bulgaro, e in slovacco e in spagnolo (Ar­gentina). Miei racconti sono apparsi in riviste cinesi e in antologie dedicate alla narrativa contemporanea italiana: in Germania, in Olanda, in Cecoslovacchia e in Cina».
Scrissi a Saverio Strati più volte. Mai nessuna risposta. Ero arrivata tardi. La solitudine in cui l’avevano costretto i salotti letterari italiani e la sua stessa Calabria, l’aveva annullato dal resto del mondo. Reso diversamente uomo. Stranamente scrittore. Neppure più Saverio.
Lo considerai come un martire tra gli scrittori. Troppi abbandoni che non meritava. Troppa umiliazione subita. Fino a che lessi, con profonda commozione, la disperazione di un uomo diventato scrittore di nome Saverio Strati, in quell’accorata lettera perché gli concedessero la Bacchelli, affinché gli fossero lievi gli ultimi anni della sua vita. (gsc)