SE PURE LE TASSE FOSSERO DIFFERENZIATE
PER IL SUD CI SAREBBE MAGGIORE EQUITÀ

di PINO APRILE – E se la tassazione fosse inversamente proporzionale alla quantità e qualità di servizi che si riceve dallo Stato? In questo modo, chi viene privato di diritti ad altri riconosciuti, avrebbe, come minimo, più risorse per procurarsi privatamente quanto lo Stato promette a tutti ma dà ad alcuni. Un tale correttivo indurrebbe a gestire le risorse pubbliche con più equità e frenerebbe la desertificazione del Sud e delle altre aree marginali, per la fuga di chi è messo in condizione di cercar altrove quello che gli viene negato soltanto a causa della zona di residenza.

E l’assurdo è che chi non ha la strada, l’ospedale, la scuola, il treno, l’aeroporto debba con le sue tasse e nella stessa misura degli altri, contribuire alla crescita dei benefici pubblici in favore di chi ne è già dotato.

Così, di fatto, si spostano risorse verso chi più ha, da parte di chi meno ha, costretto a finanziare un divario che può solo continuare a crescere e a pesare due volte su chi deve pagare per dare ad alcuni, a spese di tutti, i servizi che lui potrà avere solo a spese proprie. E se non può permetterselo, deve farne a meno: più di due milioni di italiani, per dirne una, hanno smesso di curarsi e l’attesa media di vita, al Sud, è crollata. Detto così, sembra il mondo freddo delle statistiche, in altre parole: è lo stesso diritto alla vita che ne risulta intaccato, indebolito, ridotto.

Un tale iniquo sistema riproduce, all’interno di uno stesso Paese, il rapporto coloniale fra chi sfrutta e chi è derubato di quello che è suo o gli spetta. E magari, ce la raccontano pure al contrario: sapete la storiella del Mezzogiorno popolato di ladri e fannulloni che drena ricchezza prodotta al Nord? Peccato la storiella non spieghi come mai il ladro sia sempre più povero e il derubato sempre più ricco (soprattutto di infrastrutture, allocazione di aziende pubbliche il cui fatturato appare come frutto della laboriosità nordica, eccetera).

Tacendo che mentre i meridionali versano nelle casse statali un quarto delle entrate annue, la spesa pubblica al Sud è inferiore, anche di sei punti percentuali. Una differenza che viene spesa altrove. Quindi: chi finanzia chi? E questo vale non soltanto per il Mezzogiorno, ma pure per le aree interne (si pensi alla Dorsale appenninica) e marginali.In totale è circa il 70 per cento del territorio nazionale, con oltre metà della popolazione.

Così, mentre nelle zone del Paese “di ricezione” si è ormai a investimenti pubblici a perdere, pur di far circolare soldi (e mazzette, visti gli scandali), persino per infrastrutture inutili o dannose, quali certe autostrade che per aver un po’ di traffico premiano gli automobilisti, nelle zone “di estrazione” delle risorse, interi paesi sono svuotati, abbandonati, per assenza di servizi o perché l’unica strada di accesso è franata o impraticabile da anni e non ci sono soldi per riattarla.

Il divario fra le zone del troppo che stroppia e del troppo poco è tale che la tassazione di tutti allo stesso modo si configura come un furto a beneficio di pochi e un rapporto coloniale.

Consideriamo tre italiani che abbiano lo stesso reddito, quindi paghino le stesse tasse, ma vivano uno a Matera, uno a Macerata, uno a Milano. Quello di Matera non ha le autostrade e le ferrovie dello Stato e gli altri sì (pagate da tutti); quelli di Matera e Macerata non hanno l’aeroporto (anzi: gli aeroporti) che l’altro ha, né la stessa disponibilità di ospedali, scuole e università. E non serve continuare l’elenco.

Questo si traduce in un aumento del reddito del milanese, che può usufruire di servizi ottimi a costi moderati o quasi nulli, in un taglio del reddito per il maceratese e una vera e propria mazzata per il materano, considerate le spese che deve sostenere per curarsi, spostarsi, studiare, lavorare.

E ancora peggio stanno gli italiani che vivono nelle zone più isolate e meno raggiungibili e, per questo, desertificate, con una colossale perdita di ricchezza per l’intero Paese (basterebbe anche solo considerare il crollo di valore di case ed edifici bellissimi, storici, architettonicamente pregiati, ma lasciati andare in malora, perché nessuno li vuole più, essendo troppo disagevole e costoso vivere dove non ci sono servizi).

Sulla carta, pur se hanno gli stessi diritti e lo stesso reddito, di fatto, alcuni italiani pagano perché altri abbiano quanto a loro è negato. La parità di reddito, quindi, è solo apparente, ed è ingiusto che paghino le stesse tasse. Che andrebbero calibrate, invece, sull’effettivo godimento dei diritti per i quali quelle tasse vengono richieste. Equità vorrebbe che si definisse un metro per ridurle in proporzione alla ridotta possibilità di accedere a diritti riconosciuti e non goduti. In tal modo, l’apparente parità di reddito diventerebbe un po’ più vicina al vero.

Non hai il treno? Le tue tasse calano di tot. Non hai un ospedale raggiungibile nel tempo ritenuto non superabile dai Lea, livelli essenziali dell’assistenza? Giù di un altro tot. Non hai lo scuolabus o proprio la scuola a distanza accettabile? Ancora meno un tot. C’è possibilità che, togli questo, togli quello, si giunga a pagare tasse zero.

Per le aree peggio messe, estremamente marginali, si potrebbe scendere a “tassazione negativa”: vuol dire che invece di pagare allo Stato per servizi che non si hanno, si riceve dallo Stato una equa integrazione di reddito, per procurarseli diversamente e porsi alla pari con gli altri italiani. Proposte di questo genere già vengono sostenute (per esempio dall’ex dirigente dell’Agenzia delle entrate che si è pre-pensionato per divenire una sorta di difensore civico dei contribuenti, Luciano Dissegna); e, in alcuni casi, ci sono forme di de-tassazione di fatto in paesini in via di estinzione, in cui si offrono incentivi in denaro, alloggi e altri incentivi a giovani coppie disposte a trasferirvisi.

La riprogrammazione delle tasse sulla quantità e qualità dei servizi (diritti) di cui si può davvero godere, da una parte porrebbe alla pari i contribuenti, dall’altra renderebbe conveniente tornare a vivere in borghi belli e scomodi. E se poi arrivassero lo scuolabus, l’ospedale, il treno e le tue tasse salissero in proporzione, di fatto non ci sarebbe una variazione effettiva di reddito.

Ma la tassazione differenziata secondo i diritti effettivamente goduti, se pur assolvesse al dovere di equità da parte dello Stato verso i cittadini, ovunque risiedano, non comporterebbe costi ulteriori per le casse pubbliche? Non è detto: intanto, perché il patrimonio nazionale verrebbe incrementato dalla crescita di valore edilizio di abitati non più in abbandono, ma ben tenuti, appetibili; poi, il moltiplicarsi di economie locali attiverebbe una rete mercantile periferica oggi in estinzione; infine, il territorio reso fragile e improduttivo dalla desertificazione tornerebbe curato e a rendere. E sono solo alcuni dei vantaggi più immediati ed evidenti del recupero di interesse per un modo di abitare tipico del mondo mediterraneo e del nostro Paese in particolare.

Un tale provvedimento sarebbe l’esatto contrario dell’Autonomia differenziata con cui si mira a incrementare la spesa pubblica dove già è massima, a danno delle aree in cui è quasi assente. Mentre l’Autonomia differenziata spacca l’Italia, la tassazione differenziata secondo i diritti ne rimetterebbe insieme i pezzi e la rinsalderebbe. In più mostrerebbe la relazione diretta fra le tasse e la loro ragione di esistere: volendosi illudere, questo potrebbe ridurne anche l’evasione. (pa)

L’OPINIONE / Vincenzo Castellano: Il Sud paga più tasse ma riceve meno servizi

di VINCENZO CASTELLANO –  Il Sud ancora non è riuscito a recuperare il gap che lo separa dal Centro-Nord del Paese. Nonostante le numerose iniziative e riforme politiche adottate dagli anni Cinquanta fino allo straordinario Pnrr, il Mezzogiorno non ha mai registrato lo sviluppo che chi ha governato e governa ha promesso che avrebbe realizzato.

La sfida che ci attende, dopo la pandemia che ha messo in crisi l’intero sistema economico mondiale e una guerra russo-ucraina, ancora in corso, è la grande occasione da non perdere per intraprendere scelte coraggiose per rilanciare il Meridione rendendo sostenibile lo sviluppo futuro dell’intero Paese.

Oggi i cittadini residenti nel Mezzogiorno pagano più tasse rispetto ai loro connazionali che vivono nel Centro-Nord poiché lo Stato, investendovi meno soldi, costringe gli enti locali ad aumentare la pressione fiscale per garantire i servizi che, nonostante ciò, sono minori al sud rispetto che nel resto d’Italia.

La spesa pubblica che lo Stato concede al Meridione è inferiore rispetto a quella che elargisce al Nord. La regola adottata è sempre quella della cosiddetta “spesa storica” che negli anni è stata perpetrata in modo ininterrotto, sistematico e illegale costringendo gli Enti locali del Mezzogiorno ad adottare politiche che hanno visto aumentare progressivamente le imposte nei confronti dei propri cittadini, non riuscendo, tuttavia, a soddisfare tutti i bisogni di servizi necessari.

Questa circostanza provoca un effetto indesiderato che i meridionali, oltre ad usufruire di servizi e benefici di scarsa qualità, e pur avendo in media già redditi decisamente più bassi rispetto ai loro concittadini del Nord, sono costretti a subire un prelievo fiscale molto più oneroso rispetto a questi ultimi. Un esempio emblematico della inadeguatezza della “spesa storica” che ci permetterebbe di comprenderne rapidamente i negativi risvolti pratici è il confronto fra le due Reggio: Reggio Emilia e Reggio Calabria, dove la prima – che è risaputo ha già molti servizi – ha un fabbisogno standard di circa 140 milioni di euro, mentre a Reggio Calabria, con meno servizi, di circa 100 milioni di euro, circa 40 milioni in meno nonostante abbia più abitanti della città emiliana.

Ancora, se si analizza più nel dettaglio la spesa pubblica ci renderemmo conto come per l’istruzione a Reggio Emilia sono riconosciuti circa 30 milioni a Reggio Calabria 9. Per la cultura alla prima sono concessi oltre 20 milioni e alla seconda non si arriva a 5. Riguardo all’edilizia abitativa alla città emiliana sono destinati oltre 50 milioni e alla seconda si arriva a malapena a 10. E si potrebbe continuare ad oltranza. Anche la Corte dei Conti ha più volte rilevato che: «A fronte dei 116 euro medi pro capite di spesa sociale complessiva, si va dai 22 della Calabria ai 517 del Trentino (Bolzano) e a fronte dei 14 euro di spesa pro capite per i soli interventi contro povertà e disagio, si passa dai 3 euro nei Comuni della Calabria agli 83 nei Comuni del Friuli».

È evidente che di fronte a questa situazione che è il risultato di anni di politiche che hanno agevolato sempre di più le regioni del Nord è necessario intervenire con politiche di vantaggio per le regioni del Mezzogiorno. Le recenti iniziative del governo che hanno introdotto la decontribuzione per i lavoratori che vengono assunti al Sud, l’istituzione delle Zes (Zone Economiche Speciali) e delle ZLS (Zone Logistiche Semplificate, sono tutte misure che vanno accolte con favore ma invito il governo ad avere più coraggio. È necessario un intervento strutturale sul piano fiscale ad esclusivo vantaggio per le regioni del Sud e un piano di equità territoriale che preveda la ridistribuzione delle risorse pubbliche.

I cittadini meridionali pagano di più molti servizi rispetto a quanto gli stessi servizi costano al Nord. Le Rc auto, gli interessi bancari, la benzina, le utenze domestiche sono solo alcuni di questi. Ma anche il costo di un biglietto del treno, a parità o addirittura con maggiore distanza, costa di meno per i treni che vanno verso Nord rispetto a quelli che vanno verso Sud. È chiaro, quindi, che un cittadino che vive al Sud sostiene maggiori costi per i servizi e non è equo che paghi le tasse con le stesse modalità con cui le paga un cittadino che vive al Nord. (vc)

[Vincenzo Castellano è segretario Federale Italia del Meridione]

IL GOVERNO ABBATTE IL CARICO FISCALE
MA I CALABRESI PAGANO LE TASSE PIÙ ALTE

di GIACINTO NANCI Da ben 12 anni noi calabresi, in applicazione dell’art.2 comma 86 legge n. 191 del 2009 che quantifica la sopratassa a causa del piano di rientro sanitario calabrese, paghiamo più tasse di tutti gli altri italiani.

Un lavoratore calabrese con un imponibile di 20.000 euro ha pagato ogni anno ben 406 euro in più di Irpef di un lavoratore lombardo o veneto, e un imprenditore calabrese con un imponibile di 1 milione di euro ha pagato ogni anno 10.700 euro in più di un imprenditore piemontese o emiliano.

A questo aumento di Irpef e Irap si aggiunge sia l’aumento delle accise che l’aumento del numero dei ticket per le prestazioni sanitarie. E, come se ciò non bastasse, noi calabresi stiamo pagando un mutuo di 428 milioni di euro che il Governo ci ha fatto nel 2011 per risanare il nostro presunto deficit sanitario e per il quale, ogni anno, fino al 2040 stiamo restituendo 30,7 milioni all’anno per un totale di ben 922 milioni di euro con un interesse del 5,89% che è molto vicino al tasso usuraio che è del 6,3%. Infatti dei trenta milioni che ogni anno restituiamo al Ministero dell’Economia ben 21,5 sono di interessi e solo 10 di capitale, se il tasso fosse quello dell’1%, che normalmente si usa per questi tipi di prestito pagheremmo solo 16 milioni all’anno.

Per cui tra aumento di tasse, di accise e prestito noi calabresi, da almeno 10 anni, ogni anno versiamo al Governo circa 150 milioni. Ma perché tutto questo? Perché la Calabria con un decreto del dicembre 2009 è stata posta in piano di rientro sanitario perché ha speso in sanità più di quanto ha ricevuto e questo salasso economico nei nostri confronti è fatto per risanare quel presunto deficit. Lo definisco “Presunto deficit” perché quello della Calabria non è un vero deficit sanitario, ma è la conseguenza di una errata ripartizione di fondi sanitari alle regioni. Infatti fin dal 1998 da quando è entrata in vigore la nuova modalità di riparto dei fondi sanitari alle regioni basato sul calcolo della popolazione pesata che è un criterio solo demografico cioè più soldi dove ci so no più anziani (Nord) e meno soldi dove ci sono più giovani (Sud), la Calabria, insieme a molte regioni del sud, ha ricevuto pro capite meno fondi per la sua sanità e spesso è stata proprio la regione che ne ha ricevuto di meno in assoluto.

La Calabria ha ricevuto fino a qualche centinaio di euro in meno rispetto alla regione più finanziata e, se si moltiplicano le centinaia di euro ricevute in meno pro capite per i circa due milioni di residenti in Calabria, si comprende bene ci vengono sottratti ogni anno parecchie centinaia di milioni di euro. Ma la cosa grave è che questi fondi insufficienti vengono dati proprio alla regione Calabria, dove ci sono molti più malati cronici e quindi quei pochi soldi non potevano bastare per curare i molti più malati cronici e per forza di cose si è dovuto sforare.

Che c’è la necessità di modificare il criterio di riparto dei fondi sanitari alle regioni lo ha certificato perfino il ministro della salute Fazio che, già nel lontano primo aprile 2011, ha solennemente dichiarato che «entro due anni ripartiremo i fondi sanitari in base al criterio della prevalenza delle malattie e non più rispetto all’età che penalizza regioni con un basso indice di vecchiaia»… (leggi Calabria). Ovviamente la modifica del riparto non è stata mai fatta. Che in Calabria ci sono molti più malati cronici del resto d’Italia lo hanno certificato perfino i Ministeri dell’Economia e della Salute approvando il DCA n. 103 del lontano 30/09/2015 del commissario al piano di rientro Scura nel quale con tanto di tabelle si quantificavano in 287.000 i malati cronici in più nei circa due milioni di calabresi rispetto ad altri due milioni di altri italiani.

Il DCA n. 103 ha anche quantificato un altro fattore di maggiore spessa sanitaria calabrese calcolando in 50.000 i malati cronici calabresi con comorbilità rispetto al resto d’Italia. È stato questo, quindi, il vero motivo per cui si è creato il “presunto deficit”, sono arrivati pochi fondi proprio dove ci sono molti più malati cronici. Ed è anche questo il motivo per cui dopo ben 12 anni delle restrizioni e dei tagli del piano di rientro il deficit sanitario è raddoppiato ed è perfino triplicata la spesa per le cure dei calabresi fuori regione.

Anzi, è stato proprio il piano di rientro a fare ulteriore danno alla sanità calabrese, perché con i suoi tagli e restrizioni ha impedito ai malati calabresi di curarsi e non ci vuole grande scienza per capire che un malato cronico che non si cura, poi per essere curato costa molto di più e si complica a tal punto che poi per curarsi deve recarsi nei costosissimi centri di eccellenza fuori regione aggravando il “presunto deficit”.

Ed è ciò che, anche a causa del piano di rientro, si è puntualmente verificato. Purtroppo in questi dodici anni, anche a causa del piano di rientro, si è verificato anche il fatto che per la prima volta nella storia della Calabria l’aspettativa di vita invece di continuare ad aumentare è diminuita e a parità di patologia, specialmente oncologica, in Calabria si muore prima. È per questo che il neogovernatore Occhiuto sbaglia a farsi nominare commissario, Lui è il quinto, e proprio per quanto appena detto fallirà come gli altri quattro.

Perché le cose cambino per i malati calabresi il neogovernatore deve andare di persona alla Conferenza Stato-Regioni, che è l’organo che ripartisce i fondi sanitari alle regioni, e votare contro ogni riparto dei fondi sanitari alle regioni che non tiene conto della numerosità delle malattie in ogni regione perché essendo i voti della Conferenza Stato-Regioni alla unanimità, anche il suo solo voto contrario bloccherebbe tutto e la costringerebbe a modificare il criterio di riparto che finalmente smetterebbe di penalizzare la Calabria.

Il neogovernatore Occhiuto deve pretendere che dove ci sono molti più malati cronici come la Calabria arrivino i fondi proporzionati perché è il solo modo per dimostrare che il piano di rientro è non solo sbagliato, ma anche dannoso per i malati calabresi.

Riparto dei fondi sanitari proporzionati alla numerosità delle malattie altrimenti il piano di rientro non avrà mai fine e oltre a danneggiare, come sta già facendo, la salute dei calabresi affosserà l’intera economia calabrese con aumento di tasse accise, ticket sanitari e prestiti onerosi. (gn)

(L’autore, Giacinto Nanci, è un medico di Catanzaro)

TROPPE IMPOSTE FRENANO LO SVILUPPO
LA CALABRIA RIPARTE SE CALANO LE TASSE

di FRANCO RUBINO – Il primo tassello, da cui partire per la realizzazione di un “progetto integrato”, finalizzato a risollevare la Calabria dalla condizione di abbandono in cui si trova, è senza dubbio la riduzione del carico fiscale che grava sui cittadini. Troppe imposte frenano lo sviluppo della nostra Regione come quello dell’intero Paese.

Lo studio dell’economia ci insegna che, oltre un certo livello di tassazione, le persone preferiranno non lavorare più. I modelli teorici ci dicono che nella scelta tra “lavoro” e “tempo libero” in funzione delle aliquote fiscali, il lavoratore avrà come sua scelta ottimale, discendente anche da calcoli matematici, quella di rinunciare ad incrementare le ore di lavoro ed aumentare quelle del suo tempo libero.

Basti anche pensare alla nota Curva di Laffer, per quanto nella letteratura economica da alcuni criticata, perché non poggerebbe su un costrutto teorico, ma esclusivamente sull’osservazione ed elaborazione di dati empirici.

Le imposte sono veramente tante: dirette (esempio IRPEF, IRES) e indirette (esempio IVA, Tassa di Registro).  Si consideri, inoltre, che in una Regione come la Calabria, dove i Comuni sono per lo più in uno stato di dissesto o predissesto, anche le aliquote delle tasse comunali, che possono essere fissate dall’Ente tra un minimo ed un massimo, si trovano al livello più elevato.

Le stesse addizionali comunali IRPEF sono elevate, e  la stessa addizionale regionale IRPEF è alta, per non parlare, poi, di tante altre imposte che franano lo sviluppo (esempio, tassa di soggiorno). L’eccessivo carico fiscale da un lato porta spesso ad un’evasione, in tutto o in parte, del versamento delle imposte e dall’altro porta l’italico ingegno (che non manca mai!) a cercare in qualche modo di eludere la tassazione. Anche, però, per chi regolarmente paga le imposte, livelli di tassazione elevata, come abbiamo detto, inducono a rinunciare ad ulteriori ore di lavoro, specie se il compenso aggiuntivo fa scattare una aliquota marginale più alta, e, quindi, viene meno una contribuzione in termini valore di beni e servizi al Prodotto Interno Lordo (PIL).

Ridurre il carico fiscale, pertanto, darebbe indubbiamente liquidità alle imprese e alle famiglie, e, ciò, ipotizzando una propensione marginale al consumo pari all’unità, comporterebbe un aumento più che proporzionale nella domanda globale di beni e servizi.

Se la domanda globale aumenta, le imprese sono incentivate a produrre e ad assumere persone disoccupate, e, così facendo, distribuiranno altri redditi, i quali a loro volta si tradurrebbero in ulteriore domanda ed in ulteriore occupazione: è il virtuoso meccanismo del Moltiplicatore, di cui J.M. Keynes tratta nella sua opera principale, ovvero Teoria generale dell’interesse, dell’occupazione e della moneta. Aumentando il reddito globale, soggetto a tassazione, aumenterebbe anche il gettito fiscale in valore assoluto per quanto le aliquote fiscali siano state diminuite. Si consideri, poi, che ridurre le tasse significa beneficio immediato per i cittadini, aiuto concreto senza dover passare per contributi statali, che sarebbero soggetti ai pericoli della burocrazia, dei quali vi è intenzione di trattare in altro contributo.

A questo punto, però, il quesito sorge spontaneo: ma se è tutto così semplice, perché non è stato fatto e non si fa? Risposta: non è tutto così semplice! Il presupposto, affinchè il processo si avvii, è che il risparmio di liquidità, dovuto alla minor tassazione, venga speso dai cittadini, ovvero si traduca in domanda di beni e servizi.

In realtà, in una situazione economica e sociale così incerta come quella attuale, chi ha liquidità tende a risparmiarla, non a spenderla o investirla, in quanto, come sempre la teorica economica ci insegna, gli individui sono mediamente avversi al rischio. E i dati ci dicono proprio questo!

In base ad uno studio condotto di recente dall’ABI, sui conti correnti degli italiani ci sono circa 1.682 miliardi di euro, ovvero una montagna di risparmi uguale al PIL del 2020! E allora? Se non si spende, la macchina dello sviluppo non parte. Lo stesso Keynes ce lo dice, quando afferma che il livello di investimenti delle imprese non dipende solo dal tasso dell’interesse, ma anche dall’Efficienza Marginale del Capitale (EMC), ovvero dalle prospettive future di rendimento. Che fare?

Risulta evidente che una semplice rivoluzione fiscale non basta, ed è lo Stato che si deve far carico di avviare il processo di sviluppo: deve immettere liquidità nel sistema, deve spendere e fare in modo che questa liquidità arrivi celermente ai cittadini, che a loro volta devono essere incentivati ad incrementare la loro domanda di consumo. Keynes avrebbe detto: bisogna far lavorare la gente e distribuire reddito, a costo di prendere dei lavoratori disoccupati, far loro scavare delle buche e, poi, fargliele riempire nuovamente, pagandoli per questa prestazione!

Il motore della crescita deve essere acceso a tutti i costi, e si deve fare subito: non si può aspettare che “nel lungo termine” le forze di mercato aggiustino tutto, bisogna fare tutto nel breve, anzi brevissimo, termine, perché nel lungo termine saremo tutti morti!

In questo non si può perdere l’enorme opportunità che il Recovery Fund può offrire, anche per abbassare le tasse, ma soprattutto per ristabilire un clima di fiducia nelle persone, senza il quale la ripresa sarà difficilissima, se non impossibile.

Non basta una Politica Fiscale adeguata, ma è necessaria una attenta Politica Economica che la deve accompagnare.

Se l’economia si riprende, aumenterà il PIL e, pertanto, anche l’indebitamento diverrà sostenibile, ovvero si avrà la capacità di ripagarlo.

Ci vuole il solito Progetto Integrato, di cui una Rivoluzione Fiscale è un tassello, che è solo una piccola parte di tutto il  mosaico.

Nel suo insieme per un progetto integrato di sviluppo, ci vuole una Rivoluzione Culturale ad ogni livello, e di questa Rivoluzione illustreremo un altro tassello in un prossimo intervento.

*[Il prof. Rubino è docente all’Unical]