;
L'OPINIONE / Pietro Molinaro: La protesta degli agricoltori a Lamezia sollecita interventi urgenti

La rivoluzione pacifica dei trattori e la sofferenza non vista della terra

di FRANCO CIMINO – Non li vuole nessuno. Tranne la gente. “Lor signori” non li amano. La gente sì. Stanno percorrendo l’Italia, dal basso all’alto. Dalla Sicilia al Trentino. Dai “palazzi” non si affaccia nessuno, dai balconi tutti. Il loro viaggio è lento, volutamente. Vogliono esser visti. E necessariamente, viaggiano sui trattori. Sfrecciano davanti a loro, le auto veloci. Quelle che non si fermano neppure ai semafori e non rallentano ai limiti di velocità. Le auto che non ferma nessuno.

Sono di coloro che le contravvenzioni non pagano. Hanno il blu dell’auto e il giallo della carta oro. Gli stessi colori di chi sta sul trattore. Il blu del cielo, l’oro dei campi di grano. Sono i colori che hanno negli occhi. Bussano alle porte dei palazzi, ma nessuno gliele apre. Chiedono udienza e attenzione. E una tribuna da cui parlare al Paese, nel timore che il popolo non venga informato sulle ragioni di questa nuova corsa che dai campi muove verso le strade. Non c’è alcuno che gliela voglia offrire. Eppure quelli là, dei microfoni sempre davanti alla bocca, parlano per ore. Tutti i giorni. Da qualsiasi posto. Attraverso mille finestre. Tutte a disposizione esclusiva. Ma quelli del trattore non li riceve il presidente del Consiglio, la donna che si dice del popolo, ché dal popolo proviene. Non li riceve il ministro dell’Agricoltura, che ne avrebbe l’obbligo istituzionale. Non li ricevono i capi dei partiti.

Specialmente, quelli che, probabilmente, hanno vinto le elezioni anche per il loro voto. Voto largamente concesso a seguito delle promesse ricevute. In particolare, a sostegno del mondo agricolo e, finalmente, dei lavoratori della terra. Non li ricevono, come dovrebbero, neppure i capi degli altri partiti che si accorgono di loro oggi che protestano contro il governo. Il governo in carica, però. Sono gli stessi del governo di ieri, che non sapeva nulla di loro. Poco della terra. Poco ancora dell’agricoltura. Non li riceve, non li vuole, non gli porge neanche il microfono, neppure Amadeus. Gli avevano chiesto un piccolo spazio sul palco dell’Ariston. Non ce n’è per i viaggiatori lenti, per i ribelli al potere, per i lottatori disarmati. Non c’è tempo in un festival che oltre agli altri record sta battendo anche quello dell’orologio. Si arriva ogni serata, delle cinque previste, oltre le due di notte. Ma non ci sono dieci minuti per loro.

Disponibile Amadeus a leggere il loro comunicato, ma indisponibile a farlo leggere a un “trattorista” dei tre, quattro, che potrebbero salire sul palco. Quel palco difronte al quale, continuamente ripresi in primo piano, siedono, al centro della primissima fila, con l’eleganza e la postazione di una regina e di un principe, la moglie e il figlio adolescente del conduttore e direttore artistico del Festival. Non li vuole nessuno, quei “contadini”. Eppure sono parte dell’ossatura del Paese. Sono metà della sua colonna vertebrale. Metà della sua ricchezza. Metà di quella che ancora l’Italia potrebbe costruire, nella modernità anche tecnologica, che farebbe dell’agricoltura la forza trainante del nuovo sviluppo economico. E in un sistema che sembra sempre più orientato a rinunciare al lavoro dell’industria e di quei lavoratori. Gli agricoltori sono metà della storia italiana, che è storia di uomini che nascono, oltre che dal mare, dalla terra e la terra fertilizzano con il loro sudore. Sudore caldo, fatto di sangue e di dolore. Di canti e di poesia. Di albe lunghe sul cangiante rosso di un cielo che arriva fino al tramonto. E taglia le notti del riposo, per lasciare solo lo spazio del sogno. Il loro è anche quello di fare della terra quel paradiso che dona frutti sani e fiori belli. Per tutti, non per coloro che possono comprare i prodotti che, dal mercato drogato dal mercato globale, arrivano a prezzi folli. E delinquenziali, se si considerato il furto perpetrato ai danni dei primi produttori di quei beni. Quelli che si ammazzano di fatica sui campi ricevendo la misera paga degli struttati. Sono moltissimi questi lavoratori, anche imprenditori di sé stessi e delle aziende familiari di appartenenza. Ogni giorno sulla strada della protesta crescono a dismisura.

Sono partiti a decina. Si sono raccolti a centinaia. Sono già diventati migliaia. Hanno il sostegno del popolo italiano, che, molto più intelligente di chi lo governa, ha capito che da quella loro battaglia passa il futuro di tutti gli italiani. E anche dell’Europa, che per crescere ha bisogno di due cose essenziali, economia forte(settori di essa trainanti), e giustizia nell’applicazione di leggi che favoriscano il buon lavoro, e la più equa condizione per realizzarlo. I trattoristi in marcia per la Democrazia, sono tantissimi. Sono pacifici. Tutti intelligenti e buoni, parlano con sensibilità e buona lingua. Hanno la luce nello sguardo e la serenità nel cuore. Non sono aggressivi e alcuna forma di disordine e vivacità espressiva hanno finora dimostrato. Eppure, qualcuno vorrebbe pensarli, ovvero che fossero pensati, quali esposti ad atteggiamenti estremistici.

È la scusa di paperino con il becco lungo al posto del naso del bugiardo. Sono forti, i soldati su quel atipico carro armato. Del coraggio. E della dignità. Potrebbero fare “la rivoluzione”, mettere sottosopra il Paese, costituirsi, alla viglia delle europee, come forza elettorale e politica. Fare di ogni capoluogo, e della capitale, ciò che Parigi è stata per mesi sotto l’assedio dei gilet gialli. Potrebbero, rompete con una spallata il muro militarizzato costruito davanti alla larga porta a vetro del teatro del Festival, e salire a centinaia su quel grandissimo e luminosissimo palco, spegnere la musica, trasformare l’ipocrisia che ha invaso le tematiche sulle diverse sofferenze mandate in scena per fare ascolti facili, e denunciare quella che si istituzionalizza nei palazzi del potere, dove gli interessi di parti già forti e di partiti che più forti vogliono diventare, occupano interamente lo spazio della giustizia e delle libertà, dei diritti e dei talenti. Lo spazio in cui l’eguaglianza sia il frutto delle capacità abbinate alle difficoltà. Il merito con le necessità.

L’avvenire dei giovani con la dignità della vita di chi sta coraggiosamente a vigilare, sulla trincea più difficile, affinché il più bel paese del mondo non degradi verso la sua ultima linea di confine. Potrebbero fare almeno una cosa di tutto questo. Ma non la fanno. Sono gli uomini della terra. Portano la Pace della Terra. C’è da sperare,invece, in un atto di utile intelligenza e di fine sensibilità da parte del mondo dello spettacolo, che, volendo trattenere quel tanto del valore dell’arte per dimostrarsi indipendente dai poteri e dall’influenza della politica, consenta a una delegazione degli uomini sul trattore, di parlare in diretta e in mondovisione dei loro problemi e delle ragioni di una lotta, che è lotta per la democrazia.

Se così non fosse, domani dovremmo tutti noi associarci concretamente alla protesta, divenuta, in quella assurda negazione, più vasta, e spegnere il televisore sul Festival o cambiare canale. Una protesta che dovrebbe proseguire nei supermercati, boicottando per anche soltanto due giorni, rinunciando all’acquisto, gli scaffali della vendita dei prodotti agricoli a prezzi assurdi. Ingiusti. Facciamoci tutti per almeno questa sera, contadini e agricoltori. Ché siamo italiani ed europei. Figli belli della civiltà umana. (fc)