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Mario La Cava

Mario La Cava: una vita spesa per scrivere della Calabria

“…ho speso una vita per scrivere, per analizzare la Calabria, non so se bene o male; questo non tocca a me dirlo. Posso dire che ho fatto grandi sacrifici, sperando che questa terra potesse avere una sorte migliore, come credo che avrà“. (Mario La Cava)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Era Novembre. Per fortuna il 16 e non il 17, ma probabilmente non avrebbe fatto differenza.  Sapeva bene che quando la morte arriva non guarda in faccia né i giorni né i mesi né gli anni. Niente e nessuno. Ma ugualmente novembre sembrava essere un mese un po’ più modesto rispetto agli altri per compiere la dipartita. E per Mario La Cava andò proprio così. 

Il 16 novembre 1988, lo scrittore si spegneva nella sua casa di Bovalino, dove aveva trascorso la sua vita. Tra l’odore dei libri e quello dello Ionio. All’età di 80 anni, moriva il padre dei Caratteri del Sud. Intellettuale stimato dalla gente a apprezzato dalla critica. Uomo dal pensiero libero, da sempre impegnato nella lotta ai diritti civili. 

Sacrificio e abnegazione, legati agli anni duri di una Calabria povera, da cui però La Cava non fugge, anzi, appunta ogni cosa. Il dolore, la fame, il valore della terra, l’inettitudine umana. Una vita da scoglio in una Bovalino amatissima, ma che si scopre anche da mare aperto, nel racconto delle sue storie, dove La Cava viene fascinosamente sorretto dall’ardore della conoscenza. Gli anni di formazione, i viaggi, il rapporto con il resto del mondo. Uno scrittore che non falsa mai la sua identità, e resta uomo anche nei libri, rifacendosi a un’esistenza che non è mai agiata né ricca, né troppo ricercata. 

«Sono nato a Bovalino, un paese della Locride, sul mar Ionio, nel 1908. 

Sono uno scrittore ormai anziano, ma molto fortunato per aver vissuto così a lungo. Abbastanza fortunato se penso che i dispiaceri, i disturbi e le seccature che si hanno, non siano cose sempre perdute per l’animo umano. L’esperienza di dolore serve alla conoscenza. Ed io, alla mia età, non dico che mi rallegro di quello che è stata la mia vita, ma la posso accettare con notevole coraggio.

Scrivo. Ho cominciato a scrivere da giovane. La mia passione da principio è stata quella di fare qualcosa che fosse servita a farmi segnalare sugli altri, ma non sapevo che cosa.

Avevo da studente il complesso dell’inettitudine linguistica, dell’incapacità di esprimermi in un linguaggio corretto. Sono calabrese e non avevo dietro di me le glorie letterarie della Toscana. Il linguaggio che parlavo in famiglia era il dialetto, e credevo che il linguaggio delle lettere fosse fortemente lontano. Invece ho visto che il linguaggio letterario può fondarsi benissimo sulla lingua parlata, sul dialetto comune. 

Ho scritto varie opere. Molti sanno che sono uno scrittore, ma pochi mi hanno letto. In Calabria soprattutto, si legge poco, sono molti quelli che scrivono, poeti soprattutto. Tutti vogliono giudizi, chiedono di essere letti, ma nessuno è disposto a leggere gli altri. Noi che viviamo in Calabria, non possiamo dire di essere in luogo ideale per comunicare, avere chi ci voglia leggere e ascoltare, però è un luogo ideale per altri versi. È un luogo in cui la natura parla con la sua bellezza, in cui gli uomini sono, anche nel male, schietti, non falsati dall’estrema civiltà. Abbiamo stimoli culturali notevoli, pur vivendo qui, in questa regione, in un lembo della Calabria, come vivo io da tanti anni. 

Sono nato all’inizio del secolo, e sono stato fortunato, perché avrei potuto morire molto tempo prima. Ancora non sono morto, e spero di prolungare questa mia permanenza sulla terra più che sia possibile, purché abbia la capacità di una mente vigile, perché altrimenti non è vita. 

Questo volevo dirvi».

Mario La Cava, nella veste di romanziere e sopraffino meridionalista, dà un contributo unico ed inequivocabile alla letteratura italiana. Nelle sue opere viene raccontata, e con ricognizione reale, la tragicità della gente di Calabria. Il destino, quasi sempre avverso, di un popolo a volte incapace, altre  impossibilitato, a scegliere. Per questo, i libri dell’avvocato, come tutti riconoscevano Mario La Cava, laureato in Giurisprudenza a Siena, pur con una grande cultura umanistica, vengono considerati necessari alla vita. Pagine di trattati umani apprezzatissime persino da Leonardo Sciasca, il quale, su La Cava, ebbe sempre parole di grande merito. 

«Come quelli di Enrico Morovich, quelli di La Cava sono libri che stanno, che non si muovono, che non si rimuovono, che non conoscono ascese e cadute, cui né ombre né risalto danno il mutare dei gusti e delle mode».

Uno scrittore fortemente legato alla sua terra, Mario La Cava, quella Calabria che, scrive Repubblica, ricordandolo nel giorno della sua morte, ha fornito i prodotti più tipici del realismo meridionalista. Uno scrittore mite e incompreso, titola invece il Corriere della Sera, lo stesso giorno dello stesso anno, in un articolo firmato da Giuliano Gramigna.

«Piccolo, minuto, il cranio lucido, gli arguti e allarmati dietro gli occhiali, Mario La Cava appariva ciò che era, un uomo mite. Ma capitava che si animasse di colpo, per uno sdegno, un impegno civile o letterario: allora la sua voce un poco stridula si alzava per un momento a toni acuti, i gesti diventano fitti e frenetici».

Uno dei massimi autori calabresi, scrivono ancora Il Tempo e Il Giorno. Uno scrittore prolifico e raffinato, “Una voce scomoda del Sud”, Il Sole 24 Ore.

La Cava guarda il mondo attraverso i ritratti, gli scorci, i racconti autentici di una Calabria che è dentro di lui e dentro cui egli ha responsabilmente deciso di restare. Non avrebbe potuto, altrove, trovare ispirazione per i ritratti e i bozzetti dell’umanità che egli narra in Caratteri, la sua opera più celebre. 

Mario La Cava, resta uno dei pochi esclusi dalla categoria degli intellettuali meridionali delle partenze. Egli non lascia la Calabria, non parte per affermarsi altrove. Un calabrese intellettuale anomalo come Fortunato Seminara, i soli due rimasti in terra natia. La Cava deve alla sua restanza, l’autenticità della sua narrazione, sempre  geniale, sincera, mai falsata, e senza per nulla mai prendere in presto storie o situazioni altrui. 

Il professore Pasquino Crupi, uno dei più grandi meridionalisti e intenditori della letteratura calabrese, recandosi a casa di Mario La Cava, nel giorno dei suoi funerali, ai microfoni di una tv locale, fa un’analisi dello scrittore che è intima e altrettanto realista. «La Cava – dice Crupi – restando in Calabria, è consapevole di essere uno scrittore di provincia, lo ha scelto, ma mai, mai di La Cava nessuno potrebbe dire di uno scrittore provinciale. Uno scrittore progressivo, invece, di cui però molti si sono ricordati in morte. La Martin – aggiunge – diceva che la letteratura italiana è una letteratura dei morti, e aveva ragione. Dei nostri scrittori bisognerebbe ricordarsi quando sono in vita, per aiutare loro e al tempo stesso noi.

Ricordare La Cava, vuol dire ricordare gli ambienti e i personaggi della vita meridionale, che hanno dato senso e significato alle pagine dei suoi romanzi. I suoi libri infatti sono testamento di una Calabria spesso sconfitta, dentro la quale è lo stesso La Cava a essere trascurato e incompreso». 

«La scarsa fortuna commerciale dei suoi libri, – afferma Giuliano Gramigna – non aveva mai intaccato la sua dignità. Semmai si rammaricava appena di avere tanto lavorato e di trovarsi alla fine con quasi nulla in mano, soprattutto dal punto d vista pratico; e di avere i cassetti pieni di inediti, e ancora molto da raccontare».

La Cava fu maestro di un genere letterario, oltre che scrittore dal respiro europeo. La  sua letteratura ha avuto e a tutt’oggi ancora ha un compito importante nella società civile. Pur narrando una storia semplice, essa è una letteratura elevata, rivolta alla conoscenza piena dell’uomo. 

Oggi in pochi ricordano lo scrittore di Bovalino. A 33 anni dalla sua morte, molti hanno dimenticato il nome di Mario La Cava. Una disattenzione inaccettabile, che può essere riparata solo studiandolo e leggendolo (nelle scuole).

«…Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo». (Leonardo Sciascia).  (gsc)