L’ASCENSORE SOCIALE SI È FERMATO AL SUD
NEL 2022 CONTA ANCORA DOVE SI NASCE

di FILIPPO VELTRI – L’Italia non è del tutto immobile. O almeno, non lo è una parte d’Italia. A dirlo è uno studio condotto da tre economisti italianiPaolo Acciari, Alberto Polo e Gianluca Violante – che hanno dimostrato come nel nostro Paese l’ascensore sociale non è bloccato. Anzi, nel Nord Est le possibilità che hanno i figli di guadagnare più di padri e madri superano addirittura anche i più virtuosi Paesi scandinavi e molte città americane. Diverso è invece il caso del Sud Italia, dove lo status familiare resta determinante per il futuro dei figli. A meno che non si decida di emigrare altrove.   

Il World Economic Forum, nell’ultimo report sulla mobilità sociale aveva piazzato l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi industrializzati sul fronte del social mobility index. La novità della ricerca italiana – pubblicata sull’American Economic Journal: Applied – sono i dati utilizzati: non più le rilevazioni della Banca d’Italia, ma le dichiarazioni dei redditi di genitori e figli di circa 2 milioni di famiglie italiane, di cui sono state osservate le variazioni nel tempo.

Confrontando i 730 dei figli a 35 anni, è venuto fuori che la mobilità intergenerazionale verso l’alto esiste anche da noi. Dipende (anche) da dove nasci. Certo, chi nasce da genitori ricchi ha il 33% di possibilità di mantenere lo status sociale di famiglia. Mentre un figlio nato da genitori nella fascia reddituale più bassa ha solo l’11% di probabilità di arrivare da adulto nella fascia più alta. Ma questa percentuale varia, e non di poco, anzitutto in base alla provincia e regione di nascita. «I tassi di mobilità verso l’alto sono molto più elevati nel Nord Italia, dove incidono la presenza di scuole di maggiore qualità, famiglie più stabili e condizioni del mercato del lavoro più favorevoli», ha spiegato a Linkiesta Gianluca Violante, professore di economia a Princeton. Ma anche nel Settentrione ci sono differenze: il Nord Est è più mobile rispetto al Nord Ovest.

Nello studio, si trova anche una classifica delle province italiane dove l’ascensore sociale funziona meglio. In cima alla ci sono Bolzano, Monza-Brianza e Bergamo. Le peggiori, nella parte più bassa della classifica, sono invece Catania, Palermo e, per ultima, Cosenza. «La scarsa mobilità del Sud viene alterata nel momento in cui i figli si muovono dal Sud al Nord», spiega Violante. «In questo caso si hanno tassi di mobilità verso l’alto molto alti». 

A essere determinante è anche il genere. Dai dati dello studio, emerge che la mobilità verso l’alto è maggiore per i figli maschi: un risultato dovuto alla scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro nel nostro Paese. Conta poi anche la professione dei genitori: chi è figlio di imprenditori e lavoratori autonomi ha maggiore possibilità di risalire la scala sociale. Ma il fattore decisivo, più delle condizioni del mercato del lavoro e della stabilità delle famiglie, resta la qualità del sistema scolastico.

La scuola è quella che più determina il futuro dei giovani in termini di posizioni professionali e guadagni futuri. In particolare, sottolinea Violante, «sono decisive le scuole materne e le elementari, ancora più delle scuole superiori. I primi anni di formazione del bambino nella fascia 0-7 hanno effetti permanenti su quanto guadagnerà in futuro».

Secondo Uniocamere e Anpal, con il Recovery Plan nei prossimi cinque anni l’occupazione potrebbe crescere fra 1,3 e 1,7 milioni di unità. Si tratta di un incremento medio annuo, tra il 2022 e il 2026, stimato tra 260mila e 340mila posizioni. Mentre il ministro Renato Brunetta annuncia 100mila assunzioni di dipendenti pubblici nel 2022. La Commissione Ue ha intanto rivisto al ribasso la crescita del Pil italiano dal 4,3% al 4,1% a causa dell’inflazione. Mentre il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sottolineato che la ripresa dell’economia è stata decisiva per interrompere l’aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil, che potrebbe scendere al 150%.

Visco ha chiesto di proseguire sulla strada del miglioramento dei conti pubblici e di evitare gli aiuti generalizzati all’economia. Infine lOsservatorio sui conti pubblici italiani ha realizzato un’analisi su come l’invecchiamento della popolazione stia cominciando a pesare anche sull’occupazione. «È evidente che non è più possibile prescindere dalla demografia per analizzare i cambiamenti del mercato del lavoro». (fv)

Foto di Jill Wellington / Pixabay

L’OPINIONE/ Filippo Veltri: L’ascensore sociale e il lavoro che non c’è

di FILIPPO VELTRI –  “Lavorare meno, lavorare tutti” è un famoso slogan che diventa il titolo di copertina del giornale Lotta Continua nell’edizione del 5 dicembre 1977. Poi, più o meno, lo stesso titolo anni dopo lo fece Avvenire, il giornale della Conferenza Episcopale Italiana.

Due punti di vista convergenti provenienti da mondi politici, culturali, sociali diversi. Soprattutto ai quei tempi.

La valorizzazione del lavoro è un’idea costituzionale della Resistenza, impiantata nel nostro sistema. Nelle settimane passate, però, l’Istituto Nazionale di Statistica ha pubblicato una ricerca che testimonia come il virus abbia bruciato quasi un milione di posti di lavoro, per l’esattezza 945.000, aumentando il tasso della disoccupazione fino al 10,2%. Le aziende a rischio rappresentano il 45% del panorama nazionale mentre, già a marzo, la direttrice generale della stessa Istat, Linda Laura Sabbadini, aveva denunciato un livello di povertà che raggiunge la soglia delle 5 milioni e 600.000 persone.

Sono dati allarmanti, se non addirittura catastrofici, che mostrano le pesanti ingiustizie del mondo del lavoro nostrano, specialmente se si riflette sulla dimensione giovanile e femminile. Dentro quel 10,2 % di disoccupati, infatti, il 31, 6% è costituito dai giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni, la stessa fascia che ha incrementato il proprio tasso di povertà del 23,1% rispetto al 2020. Le donne occupate, in Italia, sono solo il 49%, mentre i livelli richiesti dalla Commissione.

Non sono solo numeri, ma storie di vita reale che raccontano le difficoltà di un paese incapace di sostenere il peso del lavoro, il principale problema da mettere al centro dell’agenda politica. 

È insomma la storia di una società bloccata. I figli non sanno se riusciranno a garantire alla propria prole le stesse opportunità che i loro padri sono stati in grado di assicurare. Uomini e donne che non possono programmare il proprio futuro, perché non conoscono le loro prospettive e spesso non ne hanno. È tutto frutto di scelte politiche, quindi storiche, che cambiano profondamente la realtà e che hanno condotto alla situazione contemporanea.

L’idea che sull’altare della competitività si debbano sacrificare i diritti, puntare sulla frantumazione del lavoro, sulla sua precarietà, sullo sfruttamento e sul sotto-salariato, ha aumentato povertà e disoccupazione. Le rivolte dei rider degli ultimi mesi simboleggiano una presa di coscienza di questo tema, che non può e non deve rimanere un grido inascoltato. Ma di questo reinserimento sociale è doveroso che se ne occupi la politica.

Quell’ascensore sociale bloccato indica inoltre tante cose ma una più di tutte deve preoccupare: senza scatto in avanti muore tutta intera una società, anche chi magari in questo momento e’ ai piani più alti del palazzo. Se l’ascensore, infatti, non sale più non scende nemmeno più e le ragnatele soffocheranno alla fine anche chi più ha. Ci pensino tutti in questo avvio d’estate, la seconda in era Covid, con una ripresa che appare ancora molto lontana,  e soprattutto difficile, e che nel Sud e in Calabria appare, come al solito, più complicata che altrove. (fb)