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L’OPINIONE/ Filippo Veltri: L’ascensore sociale e il lavoro che non c’è

di FILIPPO VELTRI –  “Lavorare meno, lavorare tutti” è un famoso slogan che diventa il titolo di copertina del giornale Lotta Continua nell’edizione del 5 dicembre 1977. Poi, più o meno, lo stesso titolo anni dopo lo fece Avvenire, il giornale della Conferenza Episcopale Italiana.

Due punti di vista convergenti provenienti da mondi politici, culturali, sociali diversi. Soprattutto ai quei tempi.

La valorizzazione del lavoro è un’idea costituzionale della Resistenza, impiantata nel nostro sistema. Nelle settimane passate, però, l’Istituto Nazionale di Statistica ha pubblicato una ricerca che testimonia come il virus abbia bruciato quasi un milione di posti di lavoro, per l’esattezza 945.000, aumentando il tasso della disoccupazione fino al 10,2%. Le aziende a rischio rappresentano il 45% del panorama nazionale mentre, già a marzo, la direttrice generale della stessa Istat, Linda Laura Sabbadini, aveva denunciato un livello di povertà che raggiunge la soglia delle 5 milioni e 600.000 persone.

Sono dati allarmanti, se non addirittura catastrofici, che mostrano le pesanti ingiustizie del mondo del lavoro nostrano, specialmente se si riflette sulla dimensione giovanile e femminile. Dentro quel 10,2 % di disoccupati, infatti, il 31, 6% è costituito dai giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni, la stessa fascia che ha incrementato il proprio tasso di povertà del 23,1% rispetto al 2020. Le donne occupate, in Italia, sono solo il 49%, mentre i livelli richiesti dalla Commissione.

Non sono solo numeri, ma storie di vita reale che raccontano le difficoltà di un paese incapace di sostenere il peso del lavoro, il principale problema da mettere al centro dell’agenda politica. 

È insomma la storia di una società bloccata. I figli non sanno se riusciranno a garantire alla propria prole le stesse opportunità che i loro padri sono stati in grado di assicurare. Uomini e donne che non possono programmare il proprio futuro, perché non conoscono le loro prospettive e spesso non ne hanno. È tutto frutto di scelte politiche, quindi storiche, che cambiano profondamente la realtà e che hanno condotto alla situazione contemporanea.

L’idea che sull’altare della competitività si debbano sacrificare i diritti, puntare sulla frantumazione del lavoro, sulla sua precarietà, sullo sfruttamento e sul sotto-salariato, ha aumentato povertà e disoccupazione. Le rivolte dei rider degli ultimi mesi simboleggiano una presa di coscienza di questo tema, che non può e non deve rimanere un grido inascoltato. Ma di questo reinserimento sociale è doveroso che se ne occupi la politica.

Quell’ascensore sociale bloccato indica inoltre tante cose ma una più di tutte deve preoccupare: senza scatto in avanti muore tutta intera una società, anche chi magari in questo momento e’ ai piani più alti del palazzo. Se l’ascensore, infatti, non sale più non scende nemmeno più e le ragnatele soffocheranno alla fine anche chi più ha. Ci pensino tutti in questo avvio d’estate, la seconda in era Covid, con una ripresa che appare ancora molto lontana,  e soprattutto difficile, e che nel Sud e in Calabria appare, come al solito, più complicata che altrove. (fb)