LONDRA, LA RELAZIONE COVID E DIABETE
SCOPERTA DAL CALABRESE PROF RUBINO

di SANTO STRATI – Arriva da Londra, dal King’s College, una delle più prestigiose cliniche universitarie inglesi, l’allarme sulle conseguenze del covid sui malati di diabete. Ma soprattutto – è questa la novità scoperta dal prof. Francesco Rubino, scienziato calabrese, da anni in Inghilterra – è stato evidenziato l’insorgere della malattia diabetica a pazienti contagiati dal coronavirus. 

Rubino è professore di Chirurgia Metabolica nel prestigioso King’s College ed è uno dei più apprezzati diabetologi del mondo, con specializzazione nella chirurgia bariatrica. È originario di Cosenza e, come molti altri calabresi, è stato “rapito” da Londra dove ha costruito una luminosa e brillante carriera. Si è laureato all’ Università Cattolica del Policlinico Gemelli di Roma e si è formato negli Stati Uniti al Mount Sinai Medical Center e successivamente al Cleveland Clinic e poi in Francia all’European Institute of Telesurgery di Strasburgo, prima di andare a Londra. Di lui hanno parlato il New York Times, il Wall Street Journal, la CBS, la BBC, Newsweek, etc, quindi è un’autorità nella lotta al diabete.

Il prof. Rubino ha riscontrato effetti del coronavirus nel pancreas, con insorgenza di diabete in persone che prima di scoprire la positività al virus non avevano evidenza di questa malattia. Il diabete è una malattia terribile che colpisce 400 milioni di persone nel mondo. Il prof. Rubino ha scritto con alcuni colleghi di questa ipotesi sul New England Journal of Medicine, uno dei più quotati organi di informazione scientifici, e ne ha parlato anche alla BBC in un’intervista su questa evidenza clinica che allarma il mondo scientifico impegnato nella lotta al coronavirus e al Covid nelle sue pericolose varianti. 

Calabria.Live ha ascoltato lo scienziato cosentino-londinese su questa complicazione aggravante del coronavirus.

– Prof. Rubino, come ha scoperto la relazione covid-diabete?

«Quasi immediatamente dopo l’inizio della pandemia, è emersa chiaramente una relazione fra covid e diabete. Uno di questi aspetti era che pazienti con diabete erano riconosciuti con alto rischio di avere un covid più severo e, quindi con necessità di ospedalizzazione e di terapia intensiva. Purtroppo, le prime statistiche riguardanti la mortalità da covid evidenziavano che i malati di diabete avevano maggiore rischio di mortalità da covid-19. Di conseguenza, una cosa di immediata evidenza era che il diabete aumentava il rischio di contrarre il virus, con livelli di severità del covid. Ma anche nei primi mesi della pandemia cominciavano a circolare alcuni report, magari semplicemente tra colleghi, dove emergeva che tra i pazienti ricoverati per covid c’erano molti casi di diabete in persone che però non sapevano di averlo. 

Questo tipo di osservazione ha dato lo stimolo a me e ad altri colleghi, con i quali avevamo deciso un pomeriggio di tenere un meeting online per parlare di tutt’altro, per approfondire la cosa. 

Tutti i colleghi che si occupano di diabete erano preoccupati del fatto che c’erano casi in diversi Paesi, riportati da colleghi, dove il diabete dei pazienti non era preesistente, almeno non apparentemente. E allora ci siamo chiesti se ci potesse essere in realtà una relazione, che noi chiamiamo bi-direzionale, fra covid e diabete. 

Da una parte, avere il diabete aumenta il rischio di contrarre il virus in maniera severa, con alto rischio di mortalità da covid; dall’altra avere il covid aumenta il rischio di complicanze severe del diabete in chi già ce l’ha, ma anche addirittura, almeno apparentemente, di provocare il diabete in chi non l’ha mai avuto. E quindi ci siamo chiesti se ci potesse essere qualche meccanismo biologico che potesse spiegare questa relazione così stretta e, soprattutto, bi-direzionale, appunto che va in entrambe le direzioni. 

E, guardando semplicemente, alcune pubblicazioni scientifiche precedenti, per esempio sulla Sars – non so se si ricorda c’è stata una pandemia di Sars qualche anno fa – anche quella provocata da un coronavirus, similmente al covid, c’erano stati dei report nella letteratura medica di casi di diabete, apparentemente inspiegabili, associati alla Sars. E in alcuni casi autopsie avevano rivelato un effetto del coronavirus nel pancreas di questi pazienti. Quest’altro indizio ha alimentato fortemente il sospetto che ci potesse essere qualcosa in più. 

Poi, c’era anche un fattore biologico: il fatto che il coronavirus, che causa il covid-19, per entrare nelle cellule umane si lega a una proteina che sta sulla superficie delle cellule. Questa proteina non sta solo nelle vie aeree, quindi giustificando il perché il coronavirus causa polmoniti e malattie sostanzialmente dell’apparato respiratorio, ma è altrettanto diffusa questa proteina nelle cellule di altri organi, incluso il pancreas, ma anche altri organi come il tessuto adiposo, il tratto gastro-enterico, il fegato, che sono tutti organi, insieme al pancreas, molto importanti per il metabolismo degli zuccheri. Quindi c’è un fatto proprio biologico che ci dice che, potenzialmente, il coronavirus ha le “chiavi” per entrare all’interno dei tessuti che sono fondamentali per il metabolismo degli zuccheri. E allora, se ci può entrare, in questi tessuti, nelle cellule di questi tessuti, è probabile che possa, come fa in altri tessuti, in altri organi, causare delle disfunzioni di questi organi. E se causa disfunzioni di organi, va da sé che un paziente può sviluppare patologie del metabolismo, incluse forme di diabete tipiche ma anche forme di diabete atipiche. Le quali, magari, non si riconoscono nelle classiche forme di tipo 1 o di tipo 2, perché, effettivamente, con una infezione virale che affligge più di un organo allo stesso tempo si può avere più di un’alterazione allo stesso tempo, non solo, ad esempio, quella di tipo 1 dovuta a una difetto del pancreas o del tipo 2 dove ci sono altri tipi di difetti».

– Questi segnali, questi indizi vi hanno suggerito di approfondire la relazione tra covid e diabete?

«Esatto. Sulla base di questi indizi, io e i miei colleghi abbiamo, infatti, deciso che era una cosa abbastanza seria che valeva la pena di studiare. Sostanzialmente si configura una situazione abbastanza problematica e, quindi, preoccupante. Cioè ci troviamo davanti a una commistione, a uno “scontro” di due pandemie: la pandemia di diabete e la pandemia di covid.Quindi uno “scontro” che piò causare danni abbastanza seri anche da un punto di vista numerico, se si pensa che il diabete è una delle malattie più diffuse al mondo, con 400 milioni di diabetici nel mondo, e ci sono tantissime persone che non sanno nemmeno di avere questa patologia. Dall’altra parte c’è una pandemia di infezione virale che può aggravare il diabete, se c’è, o crearne forme addirittura nuove. Viceversa, il fatto che il diabete può aggravare il covid, ovviamente, rende molte persone vulnerabili all’infezione di covid. Quindi è una situazione che va studiata, capita meglio. Per questo abbiamo messo su un registro internazionale e abbiamo pubblicato sul New England Journal of Medicine, uno dei più importanti giornali di medicina al mondo, l’ipotesi che ci sia un potenziale ruolo del covid nel causare nuovi casi di diabete. 

Abbiamo chiesto alla comunità medica internazionale di farci sapere dei casi di diabete di cui si veniva a conoscenza di descriverli con un minimo di dati clinici e di laboratorio così da farci capire qual è l’entità del problema e soprattutto se è un problema transitorio, piuttosto che un problema cronico che causa diabete solo durante l’infezione, oppure un problema che causa poi il diabete per il resto della vita, etc». 

I lavori sono in corso, abbiamo pubblicato questa ipotesi già ad agosto e da allora i casi si sono moltiplicati». 

– Quindi non è più soltanto un’ipotesi scientifica, ci sono conferme della gravità della relazione tra le due malattie?

«Se prima avevamo un’ipotesi che ci potesse essere una relazione tra le due malattie, covid e diabete, quell’ipotesi adesso è più solida, la relazione c’è, è confermata. Il problema è di vedere quanto spesso il covid piò causare il diabete o se si tratta di casi più rari, come noi speriamo, e viceversa. Magari molti casi che sono stati osservati potrebbero essere casi di diabete che erano preesistenti e che semplicemente il paziente non sapeva di avere: viene ricoverato per altre ragioni e si scopre che ha il diabete. Probabilmente ci troviamo davanti a un misto delle due cose. Sembrerebbe dai dati di cui siamo in possesso che, però, una certa quota di diabete nuovo esiste».

– Questo rappresenta, quindi, un’aggravante delle conseguenze da covid-19. Si tratta, pare di capire, che si vuole scoprire se il diabete provocato dal covid, guarito il covid permane o scompare. Quanto possono interagire in questo senso i vaccini che si stanno somministrando? Avranno anche la funzione di bloccare la degenerazione di altre cellule coinvolte dal covid?

«Il vaccino può essere utile in due modi. Da una parte, riducendo il numero di persone che si ammalano di covid, soprattutto il numero di coloro che si ammalano di covid severo, riduce il rischio di complicanze di mortalità nei pazienti che hanno già il diabete, perché uno dei problemi che è intrinseco a questa relazione fra diabete e covid, è che chi ce l’ha già il diabete è un paziente vulnerabile. Se il covid capita in una persona col diabete preesistente il rischio è non solo di avere complicanze del covid, ma anche complicanze del diabete che possono essere severe. 

Uno pensa sempre al diabete come una malattia indolente, però in alcuni casi può avere complicanze letali, anche immediate. E, quindi, in una qualsiasi situazione dove un paziente riesce a tenere il diabete in qualche modo sotto controllo però si ammala di covid, questo diabete può esacerbarsi e diventare un pochino pericoloso. 

Vaccinarsi significa evitare questo tipo di rischio. D’altra parte vaccinarsi significa anche che tra la popolazione, in generale, ci saranno meno casi di covid e quindi, da un punto di vista di salute pubblica, si spera che questo contenga il numero di casi di nuovo diabete che potrebbero verificarsi. Già abbiamo un’epidemia di diabete che sono trent’anni che va avanti e ogni anno peggiora: non c’è stato nessun tipo di contenimento della curva epidemica del diabete finora. Noi adesso parliamo di covid e cerchiamo di abbassare la curva della pandemia: si pensi che col diabete in trent’anni non ci siamo riusciti. Ogni anno è una malattia che aumenta, è un’epidemia terrificante. Se adesso ci mettiamo che, oltre all’incremento suo, il covid può aumentare i casi di diabete, questa curva può crescere ancora di più». 

– Questa crescita esponenziale della malattia del diabete 2, quello cosiddetto alimentare, ha avuto trasformazioni della patologia trasformandola in tipo 1?

«Quello che sappiamo rispetto a trenta-quarant’anni fa è che non esiste un diabete di tipo 2 meno severo del tipo 1. Molti anni fa si parlava del tipo 2 come malattia degli anziani, del diabete di tipo alimentare che tipicamente insorgeva in età avanzata, difatti si diceva ‘diabete dell’adulto’. Ora, si pensi che da trent’anni a questa parte, quando è cominciata questa epidemia, innanzitutto non è più un diabete di adulto: il tipo 2 affligge purtroppo anche gli adolescenti e i bambini. Quando io ancora studiavo medicina, non era considerata nemmeno una diagnosi plausibile per i piccoli. Il tipo 2 affligge anche in età precoce ed è un diabete altrettanto severo se non di più, perché il diabete di tipo 2 che rappresenta il 95% di tutti i casi di diabete nel mondo, purtroppo è una malattia che causa incremento della mortalità. È una delle principali cause d’infarto del miocardio o di ictus, è la principale causa di cecità e di amputazioni nel mondo occidentale, come una guerra, praticamente. È una malattia che causa insufficienza renale e una serie di patologie che richiedono ospedalizzazione: si è calcolato che il 20 per cento dei ricoverati in ospedale rivela complicanze del diabete. Non è una malattia da sottovalutare, può essere aggressiva e non va sottovalutata. Una volta, ai tempi di mia nonna, si diceva “ho un po’ di diabete”, oggi non si può più dire. 

La buona notizia è che sappiamo che il diabete di tipo 2 – che ai miei tempi di studente di medicina i libri classificavano come malattia progressiva e incurabile – grazie alla chirurgia è curabile, nel senso che anche quando è ormai conclamato è possibile farlo regredire attraverso interventi chirurgici nell’apparato gastro-intestinale, o attraverso diete ipocaloriche importanti. Non è una malattia invariabilmente progressiva e incurabile e in molti pazienti, oggi, può essere affrontata con risultati soddisfacenti.  (s)


A LONDRA NUMEROSE ECCELLENZE SCIENTIFICHE DELLA CALABRIA

L’Inghilterra ospita diverse eccellenze scientifiche di origine calabresi: oltre al prof. Francesco Rubino, professore al King’s College di chirurgia metabolica e bariatrica (specialità che combatte l’obesità attraverso un intervento chirurgico) e tra i maggiori esperti mondiali di diabete, ci sono al St. Thomas Hospital il dott. Luigi Camporota (primo laureato alla Facoltà di Medicina di Catanzaro) che ha curato e salvato il premier inglese Boris Johnson colpito da Covid, il prof. Vincenzo Libri di Lamezia Terme all’University College, e il prof. Giuseppe Rosano di Vibo Valentia al St. George London University.

TAR O REGIONE, LA GUERRA PER LA SCUOLA
L’EMERGENZA, GLI STUDENTI DISORIENTATI

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Dietro il buon funzionamento di un paese serve necessariamente il genio del suo popolo. Politica, istituzioni, sanità, scuole, associazioni e classi sociali. Uno per tutti e tutti per uno. Buon senso e soprattutto responsabilità, pronti a portare, in tempi emergenziali soprattutto, a scelte pubbliche lungimiranti che non abbiano in assoluto mai scadenze elettorali. Ma in Calabria, l’istituzione, definita più largamente con il termine più allargato di STATO, alla soglia massima dell’emergenza umana, non sfata miti e cronicizza le sue piaghe. L’emergenza invece di accelerare, rallenta. Azzera, in un battito di mani, ogni genere di responsabilità, e il buon senso le deraglia come i treni sui binari, portando via con sé, sui binari astratti dell’indifferenza, i valori inequivocabili della società civile, su cui, come sui testi biblici, è fondato lo spirito dell’umanità intera.

Accertate le fragilità croniche che la Calabria si trascina da decenni in ambito sanitario e non solo, a soffrire questa era pandemica, con cicatrici profonde sulla propria identità, è soprattutto la scuola. Il luogo in cui si forma e si forgia il più prezioso materiale umano del paese. Studenti, docenti, dirigenti, personale… Un ensemble di individui che a differenza d’altri, hanno sulla società intera un peso enorme.

La pandemia, in quanto tempo di progressiva anomala aritmia, mette in discussione il valore dell’essere umano in quanto tale, e in più la sua collocazione all’interno del mondo che in termini di progresso egli stesso ha modificato, con purtroppo cenni di effettiva instabilità a ogni margine di livello.

DAD O PRESENZA?

La scuola, in Calabria, rimane vittima di un acceso ed eccessivo focolaio politico, le cui beghe rocambolesche si snodano tra un duo d’eccellenza, Regione e Tar. Una dualità senza precedenti che, in Calabria, manda al macero anni e anni di impegno sociale da parte della scuola, dove gli studenti risultano essere i primi individui costitutori della società civile che conta, e sulla cui formula si stima la crescita del paese.

In Italia, a un anno esatto dalla pandemia, con 100.000 morti sui bollettini ufficiali e sulle coscienze, l’emergenza, se non tempestivamente arginata, rischia di diventare normalità. E l’industria della scuola continuerebbe a soffrire al pari di quella economica. Con conseguenze evidenti sul futuro della società moderna e dei progetti che su di essa, ogni singolo studente si costruisce.

“La scuola è un posto sicuro”, si è sostenuto per mesi. Ed è vero. È il più certo degli investimenti che una comunità può fare.

La scuola è quella certezza che protegge dalla strada, dalle insidie, dalle provocazioni. È lo scudo perfetto, necessario e indispensabile contro l’ignoranza, la mala gestione, la corruzione. È l’unica fabbrica vera che per legge e per coscienza, costruisce uomini liberi, e imbastisce le basi per il loro futuro. Ma contro il Covid, certezze non ne da. Non ancora.

Studenti costretti per ore a rimanere immobili tra i banchi, con le finestre aperte anche d’inverno per il ricambio dell’aria, nel più rigido regime del distanziamento sociale, non è scuola.

Studenti obbligati a non lasciare l’aula, senza intervalli, zero corse nei corridoi, nessuna pacca sulle spalle, e con proibizioni all’inverosimile, come scambiarsi un libro, prestarsi una gomma, copiarsi i compiti, o suggerirsi qualcosa, non è scuola.

Studenti senza la gioia dei 100 giorni, i laboratori in esterna, gli stage di lavoro, e con le bocche coperte fino al massimo delle ore da insopportabili mascherine, non è scuola.

La scuola vissuta in presenza non può essere frantumata così. Perchè se anche in formula di regime, continua ugualmente a insegnare Dante, Petrarca e Boccaccio, mai potrà a Matteo, Chiara, Roberta, Bianca e a tutti gli altri, offrire le basi libere su cui fondare la loro vita al di fuori dalle sue mura. Per tutto questo diventa necessaria la libertà assoluta nella pratica dei valori. E il Covid, ahinoi, non lo consente.

In era Covid, nasce la DAD. UN destino? No, una situazione d’obbligo.

Ci sono ragazzi che al ritorno da scuola si sono sentiti responsabili per aver portato a casa, quali principali vettori di contagio, il virus del Covid 19, con conseguenze fatali su componenti della propria famiglia. E le colpe sono dure da sopportare a certe età. Ci sono studenti, anche piccoli, su cui il Covid ha dato spettacolo, lasciando vuoti per sempre i propri banchi di scuola; e poi ci sono giovani liceali o universitari che hanno perso le madri, i padri, ma anche i nonni; e ci sono bambini della materna che sacrificano la lor età più bella, per mantenere vive  le loro vite.

DAD O PRESENZA? REGIONE O TAR?

Questo è il problema!

Un rimpallo che in Calabria va avanti ormai da mesi, come un fosse un gioco di magia. Scuola apri, scuola chiudi. Ma la scuola non è un negozio con un’apposita saracinesca. Che se la chiave gira a destra apre, e se invece torce a sinistra chiude. La scuola è l’angolo più sacro della società civile. È la suprema corte della formazione dell’individuo. E non fa giochi e non fa scherzi, nè si presta a terzi per far smuovere batacchi di campane politiche a nessuno e per conto di nessuno.

Quella Tar- Regione, più che una sfida, in Calabria, assume i connotati di una corsa. Chi arriva prima?

Nella gara, chi tifa Regione e chi Tar.

Uno sport estremo in cui gli studenti calabresi si ritrovano davanti due enti moralmente miseri. (gsc)

 

SCUOLE CHIUSE, DIDATTICA A DISTANZA KO
LE POVERTÀ EDUCATIVE VERA EMERGENZA

di FRANCESCO RAO –Le povertà educative, per il Meridione e per la Calabria in particolare sono un’emergenza da non trascurare. L’Istat, già nei dati  relativi al 2018-2019, aveva individuato alcune criticità che il Covid ha ulteriormente aggravato. Per brevità, in questa sede, condividerò alcuni spunti rilevati dell’istantanea fornitaci dall’Istituto di statistica. In primis la questione afferente al digital divide che colpisce molti studenti, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Basti pensare che il 12,3% degli studenti Italiani tra 6 e 17 anni, a marzo dell’anno scorso, non possedeva un computer o un tablet presso la propria abitazione (850 mila in termini assoluti), la quota raggiunge quasi il 20% nel Mezzogiorno. Il 57% degli studenti che possiede un computer lo deve condividere con altri componenti della famiglia e solo il 6,1% vive in famiglie dove è disponibile almeno un computer per ogni componente. Tra le famiglie con minori (0-17 anni) circa 1 su 7 non ha un computer o un tablet a casa (il 14,3%), con differenze geografiche nette: al Sud sono il 21,4%, mentre sono l’8,1% nel Nord-Ovest.  Quindi, anche se quasi tutte le famiglie con figli hanno accesso ad internet, magari attraverso il cellulare di un genitore, risulta molto difficile seguire le lezioni online e svolgere bene i compiti a distanza. Diventa invece difficilissimo, per i segmenti sociali più fragili, stampare e scansionare le schede da inviare ai docenti quale attività di restituzione per gli studi compiuti. Un’altra criticità riscontrata in passato, divenuta più evidente nella prima fase della pandemia, afferisce alle competenze in ambito informatico tanto dei discenti quanto dei familiari. L’Istat stima che tra gli adolescenti (14-17enni), impegnati in questa fase con la didattica a distanza in varie forme e livelli di complessità, solo il 30,2% presenta alte competenze digitali, mentre il 3% non ha alcuna competenza digitale e la rimanente parte presentano competenze digitali basse o di base. È particolarmente interessante notare come le ragazze, mediamente con rendimenti scolastici più elevati ed esposte a minor rischio di fallimento formativo rispetto ai ragazzi, presentano complessivamente livelli più elevati per le competenze digitali. In questo caso, il 32% dichiara alte competenze digitali contro il 28,7% dei coetanei maschi.

Il nostro sistema scolastico ancora oggi è invaso da molte sacche di esclusione, soprattutto nelle scuole delle aree interne che definirei come uno tra i pochissimi presidi dello Stato e simbolo della legalità. L’emergenza sanitaria e la protratta chiusura delle scuole hanno fatto sparire dal radar molti studenti a rischio seppur vi sia stato un costante impegno svolto da insegnanti e dirigenti scolastici e dalle associazioni impegnate ad affiancare le scuole e i loro alunni per garantire quel supporto al conseguimento degli obiettivi che caratterizzano le Comunità educanti. La dispersione scolastica, implicita ed esplicita, oggi più che mai, sembra essere inarrestabile anche perché alla crescente affermazione del learning loss, ossia la perdita dell’apprendimento, registratosi nel periodo estivo e consistente nella perdita di competenze e conoscenze accademiche rilevabili alla conclusione delle vacanze estive nei paesi che hanno pause lunghe durante l’anno scolastico si aggiunge quest’ennesima fase di sospensione delle attività didattiche che potrebbe trasformarsi in un altro lockdown nazionale.

In questi mesi, il Covid, oltre alle vite umane sta mietendo il futuro dei giovani ed oggi, la penuria di una letteratura di prossimità riconducibile a questo fenomeno sociale non ci consente di poter avere contezza immediata del dato per poter elaborare risposte e la didattica a distanza, seppur praticata con impegno e dedizione da parte dei docenti, non può certo sopperire alla quotidiana azione educativa e formativa della scuola, che si fonda tra l’altro sulla relazione, sull’accoglienza e l’organizzazione della vita dei suoi alunni giorno dopo giorno.

Il mancato adeguamento tecnologico e la lenta risposta delle Istituzioni,  in buona parte ha amplificato le numerose difficoltà strutturali: nelle aree interne della Calabria, ancora oggi la qualità della rete internet è identificabile più come un ostacolo che un valido alleato. A ciò si aggiunge la qualità della dotazione informatica da parte di moltissime famiglie. Nei segmenti sociali più umili, dovendo procedere all’acquisto di computer o tablet, spesso hanno scelto una qualità medio bassa soprattutto viste le limitate risorse economiche tendendo a risparmiare, la mancata competenza in ambito informatico porterà a non considerare come prioritaria la ricaduta reale sull’efficienza del computer o il tablet acquistato quando poi verrà utilizzato. In tal senso, seppur vi siano stati interventi straordinari da parte del Ministero dell’Istruzione, le porte di una Scuola Smart, posta in linea con il sistema industria 4.0 resta chiusa soprattutto per i poveri i quali rischiano ancora per una volta di essere gli esclusi. Il mondo scolastico calabrese, durante la fase di lockdown, ha ricevuto 3,6 milioni di euro e questi fondi saranno stati un valido supporto teso a superare le prime difficoltà vissute dalle numerose famiglie e soprattutto un piccolo punto di forza per gli studenti più esposti alle difficoltà. Il problema dei problemi continua ad essere la qualità della rete considerata ancora dall’utenza il vero limite da superare. (fr)

Francesco Rao è sociologo e docente, vive a Cittanova.

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Sto lavorando ad una ricerca tesa a rilevare le dinamiche trattate in questa breve riflessione. È possibile chiedere ai lettori di Calabria.Live di far partecipare a tale studio i loro figli? Il questionario è compilabile da tutti gli studenti con almeno 12 anni d’età utilizzando il seguente link

https://forms.gle/F1EvWuvSzDwFVgun8

«SI MUORE D’ALTRO, NON C’È SOLO IL COVID»
ALLERTA DEL CARDIOLOGO FRANCO ROMEO

di SANTO STRATI – Con responsabilità, il prof. Franco Romeo, uno dei luminari di cardiologia del mondo, lancia un preciso allarme: non si muore solo di covid, ci sono altre patologie trascurate. Gli ospedali devono ripristinare i reparti oncologici, cardiologici, ematologici: ci sono stati 30mila morti in più rispetto allo scorso anno non attribuibili al Covid. È un messaggio chiaro che fotografa l’attuale situazione che si registra un po’ dappertutto, in Itali; interventi rinviati, diagnostiche sospese, ricoveri impossibili per migliaia di pazienti afflitti da gravi patologie, ai quali viene negato per disorganizzazione e per mancanza di posti letto un ricovero che potrebbe salvare loro la vita. Reggino di Fiumara di Muro, una carriera di eccellenza, il prof. Franco Romeo vive a Roma, ma viene spesso in Calabria, la sua terra che ama in modo incondizionato e per la quale spende moltissime risorse personali per offrire capacità e competenza ove necessarie. È l’ultimo consulente scientifico rimasto della task force sanitaria istituita all’inizio della pandemia dalla compianta Jole Santelli: l’ha voluto il presidente ff. Nino Spirlì, confidando nella sua “calabresità” e nella sua generosa disponibilità a favore della regione.

A dire il vero, lo stesso allarme era stato lanciato dal prof. Romeo insieme con una fitta schiera di illustri clinici già lo scorso anno verso marzo e aprile, in pieno lockdown: purtroppo non c’è solo il Covid, ma ben altre patologie che non possono aspettare e per le quali occorre mobilitarsi per consentire cure adeguate e i ricoveri quando necessari. Il prof. Romeo fa l’esempio degli infarti: «È vero che la riduzione dei ricoveri per infarti è stata drammatica – dice a Calabria.Live –, quasi del 50%. ma questo significa che per questi pazienti non è che si era è ridotto il numero degli infarti che si verificavano: i pazienti non andavano in ospedale e quindi è aumentata la mortalità in casa. La riduzione di questi pazienti era legata allora a una paura che c’era di andare nei pronto soccorsi per l’affollamento e la disorganizzazione. Senza trascurare la difficoltà di accesso, che si è avuta durante la prima fase, perché ad esempio allora chiamare un’ ambulanza del 118 era complicato: erano tutte le predisposte per il trasporto covid quindi non era facile trovarne e poi i pazienti cercavano di minimizzare i sintomi, erano sempre con la paura che si potesse trattare di covid e quindi alcune sintomatologie con cui esordisce l’infarto erano sottovalutate. Ci sono dei sintomi che noi chiamiamo equivalenti ischemici, per cui l’infarto si può presentare, per esempio, con una dispnea, con un affanno, perché il cuore riduce la sua capacità contrattile perché c’è un fatto ischemico, si  muove male e non ce la fa e questo spesso veniva scambiato per altro. Ora questo, diciamo, è un po’ diminuito, quasi normalizzato, ma ancora l’altro giorno c’era un allarme per quanto riguardava noi cardiologi per il fatto che interventi di cardiologia interventistica strutturale cioè la sostituzione delle valvole per via percutanea e tutti quegli interventi che noi cardiologi facciamo in modo non chirurgico, invasivo ma non chirurgico sulle valvole, sulle coronarie si sono ridotti di almeno un 30-40 per cento. E questo allarme è stato lanciato di nuovo qualche giorno fa, su una situazione che avevamo messo in evidenza a marzo dell’anno scorso pubblicando i dati sulle casistiche».

– Cos’è successo lo scorso anno con l’arrivo del caldo, è migliorata la situazione ?

«Durante l’estate quando sembrava che l’epidemia avesse preso una discesa abbastanza consistente, la situazione negli ospedali è un pochino migliorata, ma adesso si sta nuovamente aggravando: ci sono alcune regioni, come la Lombardia, che in questi giorni hanno dato di nuovo l’allarme temendo l’arrivo di una terza ondata, dicendo che gli ospedali sono già sotto pressione per il covid. E quando gli ospedali cominciano ad essere sotto pressione per il covid, purtroppo, proprio per la mancanza di posti letto, di organizzazione, quelle che ne risentono sono le altre patologie. Una stima, credo Istat, dice che quest’anno ci sono stati trentamila morti in più di quelli attesi. Per patologie non covid. Rappresentano un terzo dei morti totali per covid e sono pazienti morti per altre patologie. Quindi dobbiamo rafforzare le nostre strutture sia territoriali sia ospedaliere. Questo mainstream, questo concetto così che è ormai dilagante e maggioritario, che il problema sia il territorio è vero solo in parte. Il territorio è importante rinforzarlo, ma i pazienti, a mio avviso, sono morti di più e questa alta mortalità in Italia si è avuta perché nel nostro Paese non avevamo ospedali in grado di accogliere i pazienti in una fase diciamo adeguata, non troppo tardiva. Noi abbiamo consigliato i pazienti di andare tardi in ospedale per non intasare i pronto soccorsi e i pazienti sono andati troppo tardi poi in ospedale e quindi questo ha comportato l’impossibilità di cure adeguate. Non essendoci una terapia specifica per questa malattia virale, per questo Covid – purtroppo non abbiamo una terapia – ci siamo sforzati di intercettare il paziente prima e curarlo sul territorio perché non abbiamo posti negli ospedali, perché questa mancanza di disponibilità, questa mancata resilienza del sistema sanitario ospedaliero ha portato tutti quei messaggi che invitavano i pazienti a non andare in ospedale, se non troppo tardi. Quindi dobbiamo rafforzare il territorio per l’identificazione dei pazienti nella fase più precoce, ma quando il paziente con covid presenta la malattia deve andare in ospedale perché sul territorio la malattia va avanti e non è possibile dare delle cure adeguate e la malattia quando è in fase molto avanzata, oggi mancando delle cure specifiche, spesso non si riesce a fare molto».

– Com’è la situazione in Calabria secondo lei, visto che il tasso di mortalità è abbastanza basso rispetto agli altri?

«In Calabria abbiamo avuto – se uno va a vedere i dati – 660 morti per due milioni di abitanti. La Liguria che ha 500.000 abitanti in meno ne ha avuto più del triplo dei nostri morti, 3.800. Il Lazio – se si rispettassero le proporzioni – ne avrebbe dovuti avere 1500, invece ne ha avuti seimila. In Calabria la mortalità per ogni 100mila abitanti è la più bassa d’Italia. Anche le nostre terapie intensive non hanno una forte pressione in questo momento – siamo sotto il 30% di occupazione. La cosa positiva è che la Calabria è la prima regione in Italia ad avere iniziato la vaccinazione ai pazienti più fragili, oncologici, ematologici e cardiologici gravi, oltre i dializzati e i trapiantati. La Calabria, in questo senso, si è mossa prima di tutte le altre regioni. Noi abbiamo fatto una campagna nazionale come Foce, che è la Federazione degli oncologi cardiologi ematologi, abbiamo fatto un documento che abbiamo condiviso con il ministero della Salute, con il commissario Arcuri, per sollecitare l’inserimento dei pazienti fragili nel piano di vaccinazione unitamente agli ultraottantenni. E il personale sanitario mi risulta che sia stato tutto vaccinato in Calabria, quindi non è vero che siamo indietro come vaccinazione. Si consideri che nel Lazio, tra l’altro, non sono stati vaccinati ancora tutti i medici. Quindi, mi sia consentito di dire che non siamo messi male, qualche dato positivo alla Calabria ogni tanto diamolo. E a questo proposito devo dire che, a mio parere, era ingiustificato l’insediamento di tende ospedaliere, non so perché si era diffuso quell’allarme ha provocato una specie di psicosi collettiva: la Calabria ha retto sempre abbastanza bene. Quando hanno messo la Calabria in zona rossa hanno detto “non sappiamo in caso di uno tsunami epidemiologico cosa si può scatenare e come reagisce”. Potevano dirlo a inizio della pandemia, non dopo un anno. Dopo due mesi si è visto come ha reagito la Calabria, che ha avuto meno morti di tutti. Certo, il fatto di inserire il parametro della fragilità del tessuto sanitario calabrese ha giocato contro, ma non mi pare sia stato fragile. Il ragionamento è stato questo: “ne muoiono pochi, però siccome non ci fidiamo della solidità del sistema sanitario calabrese, mettiamo la regione in zona rossa”. Si tenga conto che abbiamo avuto meno morti per numero di pazienti che si sono ammalati, questo vuol dire che il sistema ha retto».

– Un punto a favore della sanità calabrese che ha potuto contare su risorse efficaci e su medici preparati e brillanti?

«Tutto sommato gli ospedali hanno retto. In ospedale non è stata fatta alcuna selezione, sono stati ricoverati anche pazienti con pochi sintomi: nella grandi città c’era pure la difficoltà pure di avere un contatto. A Roma, per esempio, anche persone di un certo livello avevano difficoltà di avere un contatto con l’ospedale per ricoverarsi, per fare un tampone a casa e gli si diceva: bene, state tranquilli, con la febbre prendete la tachipirina, etc, poi quando improvvisamente la saturazione scendeva da 93 a 80 il paziente arrivava in ospedale con i polmoni seriamente compromessi, spesso era troppo tardi,.

Basti pensare che, all’inizio della pandemia, la Lombardia aveva 500 posti letto di terapia intensiva, la Calabria 140 e la Lombardia è sei volte la Calabria proporzionalmente. Diciamolo senza timore: nella prima fase c’è stato un grave pregiudizio nei confronti della Calabria, ma questa terra ha saputo reagire e sta reagendo bene. E se non si trascureranno le altre patologie si potranno salvare molte altre vite. E questo è questo un obiettivo possibile». (s)

Giannuzzi: Cos’è stato fatto per risollevare la sanità calabrese?

Innocenza Giannuzzi, vicepresidente di Confartigianato Imprese Catanzaro, ha chiesto, a seguito dell’arrivo della variante inglese del covid-19, che cosa è stato fatto per evitare la minaccia un nuovo lockdown.

«Non bastava il Covid-19 – ha detto – a mettere in ginocchio il mondo intero, ci stanno pensando ora anche le varianti del virus a peggiorare la situazione! In particolar modo, quella inglese negli ultimi giorni sta incutendo grande timore, a tal punto che, secondo il Cts, non basterebbe più l’Italia a colori, ma impelle un nuovo lockdown totale, esattamente come quello di marzo scorso, che ha completamente frenato ogni più minimo slancio di quotidianità».

«E qualora ciò dovesse riaccadere – ha aggiunto – cosa ne sarà della nostra Calabria? Ma, soprattutto, nel frattempo cos’è stato fatto perché ciò non si verificasse nuovamente? Beh, certo, sono stati installati gli ospedali da campo in questi mesi per salvaguardare la salute dei calabresi e fronteggiare un’eventuale nuova ondata».

«Nulla di più, a quanto pare – ha detto ancora Giannuzzi – viste le recenti dichiarazioni del commissario alla sanità Guido Longo. Un commissario nominato dopo una lungo e sofferto toto-nomi, abbandonato in una terra in cui il sistema sanitario è quasi inesistente, a fronteggiare le necessità di una regione in completa solitudine e senza uomini a supporto del suo operato. E per quanto concerne i vaccini? La campagna sta procedendo con troppa lentezza e la nostra regione è l’ultima, a livello nazionale, col 63% di dosi inoculate: su 104.370 consegnate, ne sono state somministrate, infatti, solamente 65.750. Come si può sperare di superare una pandemia con questi presupposti?».

«Forse – ha concluso – quello che è sfuggito ai più è che non poteva bastare un nome per risollevare il “caso Calabria”, ma idee da tramutare in fatti e azioni concrete, col supporto di una squadra che impiegasse tutte le proprie energie e la propria passione per ridare vita a questa terra dimenticata». (rcz) 

IMPRESE CALABRESI, SFIDA AL POST-COVID
TIMIDI SEGNALI DI UNA RIPRESA IN ARRIVO

Si fanno avanti, timidamente, segnali positivi nella grave situazione economica provocata dalla pandemia: secondo i dati forniti dal primo studio del 2021 dell’Osservatorio Mpi di Confartigianato Calabria sulle imprese nel nuovo anno, ci sono indicatori che lasciano ben sperare sull’economia del post-covid. Nascono più imprese di quelle che muoiono e questo dato è decisamente significativo a fronte delle chiusure paventate di aziende ed esercizi commerciali non in grado di sostenere la mancanza di liquidità, la riduzione delle commesse, la fortissima contrazione del fatturato.

«Nel 2020 – si legge nel documento – in Calabria le imprese totali iscritte sono state 8.373 e quelle che hanno chiuso sono state 7.007; ciò ha determinato un saldo positivo di 1.296 realtà» riferisce l’Osservatorio, che ha analizzato i dati di Movimprese-UnionCamere, aggiungendo che «per l’Artigianato, le imprese iscritte sono state 1.764 e quelle che hanno chiuso sono state 1.689; ciò ha determinato un saldo positivo di 75 unità, portando il numero complessivo di imprese artigiane registrate nel 2020 pari a 32.512, in crescita di poco rispetto alle 32.456 registrate nel 2019».

Un dato positivo, quindi, che «fa sperare – ha dichiarato Roberto Matragrano, presidente di Confartigianato Imprese Calabria – per il futuro, anche se occorre essere cauti nelle valutazioni, perché i ristori del Governo nazionale e regionale hanno certamente influito frenando le chiusure delle imprese, dovendo dunque attendere la fine dell’emergenza per tirare le somme. E, se da un lato i dati mostrano una tenuta del sistema imprese calabrese e dell’artigianato in particolare, dall’altro però non dobbiamo distrarci dalla realtà che vede un comparto in difficoltà».

E, se da una parte si registra un dato che fa ben sperare, dall’altro si fa largo l’ombra del calo del Pil, che l’Osservatorio ha individuato, per la Calabria, in calo dell’8,9%, di poco più contenuta di quella prevista per la media nazionale (-9,6%). Per il 2021 è previsto un lieve recupero del Pil del +0,6%, non sufficiente, però, a recuperare quanto perso nel 2020 e meno dinamico rispetto al recupero previsto a livello nazionale (+3,8%)

Rispetto ai livelli pre crisi Covid-19 (2019), il Pil nel 2021 resta ancora sotto di 8,4 punti. Una quota maggiore di imprese dislocate sul territorio calabrese (42,7%) segnala nel periodo giugno-ottobre 2020, un calo del fatturato tra il 10% e il 50%. Per l’inizio dell’anno in corso e la fine di quello precedente (dicembre 2020-febbraio 2021) una quota più elevata di imprese (38,7%) segnala anch’essa una perdita compresa nello stesso range (tra -10% e -50%). Ma l’analisi dei dati di Unioncamere-Anpal evidenzia che le micro e piccole imprese calabresi, nonostante le maggiori difficoltà (il 64,3% a fine 2020 ha un attività a regime ridotto, contro il 51,4% delle medie imprese e il 48,1% delle grandi), prevedono secondo le conoscenze del mercato di riferimento il recupero di un livello accettabile di attività entro la prima metà del 2021 nel 35,0% dei casi ed entro il secondo semestre 2021 nel 65,0% dei casi.

Si osserva, dunque, una maggiore resilienza della Mpi, che prevedono di recuperare più velocemente rispetto a medie imprese (di cui il 22,5% recupera entro la prima metà 2021) e grandi imprese (di cui il 29,6% entro la prima metà 2021). Secondo lo studio dell’Osservatorio Mpi di Confartigianato Calabria, il Google mobility permette di monitorare le tendenze dei movimenti delle persone negli esercizi commerciali da febbraio 2020 alla fine di gennaio 2021; nell’osservare l’intera serie le principali evidenze sono: la forte riduzione degli spostamenti in concomitanza con il lockdown di primavera e il costante recupero nei mesi successivi – di molto più intenso nella nostra regione rispetto a quello medio nazionale – e il secondo crollo, più contenuto di quello di primavera, in concomitanza delle limitazioni introdotte a partire dall’autunno.

Discesa che, dopo una breve interruzione nel periodo pre festivo del mese di dicembre, riprende in corrispondenza del periodo 24 dicembre- 6 gennaio, con l’introduzione di misure che hanno nuovamente limitato gli spostamenti delle persone.

«Ci siamo lasciati alle spalle un anno difficile e negativo sotto vari aspetti – ha concluso Matragrano – ma ora non possiamo lasciare sole le nostre imprese ed i nostri artigiani che i dati confermano essere il motore trainante della nostra economia. Dobbiamo lavorare con determinazione per politiche di sostegno e incentivazione creando le migliori condizioni perché possano lavorare ed essere competitive sui mercati». (rrm)

Un piano regionale anticovid: obiettivo rilancio dell’economia

L’obiettivo è il rilancio dell’economia calabrese: il piano regionale di ripresa varato ieri dalla Giunta indica le linee programmatiche per far ripartire l’economia. La crisi provocata dalla pandemia si sta rivelando molto più grave di qualsiasi previsione e le sue ripercussioni stanno provocando una morìa di imprese e grandi disagi per i lavoratori, gli imprenditori, le famiglie.

Con la delibera di Giunta, approvata su proposta del presidente ff. Nino Spirlì e dell’assessore allo Sviluppo economico Fausto Orsomarso, si dà indirizzo ai dipartimenti regionali interessati, con il coordinamento del dipartimento Programmazione unitaria, affinché si proceda alla elaborazione di un progetto di sistema, denominato “Piano regionale di ripresa”, e alla ricognizione e individuazione delle risorse finanziarie compatibili con il piano stesso.

Con il provvedimento, inoltre, si dà atto che il Piano regionale di ripresa dovrà contenere interventi di sistema mediante specifici progetti integrati settoriali e/o territoriali nei seguenti ambiti: innovazione tecnologica e digitalizzazione delle imprese; politiche per l’attrazione degli investimenti e a favore del reshoring e sostegno all’internazionalizzazione delle filiere strategiche; qualificazione dell’offerta turistica e culturale; investimenti per economia circolare (rifiuti, fonti rinnovabili) e sostegno alle imprese operanti nel comparto edilizio per la riqualificazione del patrimonio immobiliare esistente, il risparmio sismico e il miglioramento sismico degli edifici; azioni di politiche attive per il lavoro, sostegno all’orientamento, formazione e collocamento lavorativo nelle filiere strategiche regionali, e ed empowerment femminile con formazione, occupabilità e autoimprenditorialità.

Con la delibera si stabiliscono, infine, alcune direttrici da ricomprendere negli specifici progetti: digitalizzazione e servizi innovativi per le imprese; piano strategico regionale di ripresa e e resilienza delle filiere produttive e dei sistemi produttivi delle costruzioni sostenibili; promo commercializzazione all’estero dell’offerta gastronomica regionale; incentivi per pacchetto localizzativo per attrazione investimenti – area Zes Gioia Tauro; riqualificazione offerta turistica balneare non ricettiva; iniziative per l’occupabilità a supporto delle aziende e dei lavoratori, autoimpiego e imprenditoria femminile. (rcz)

Uil Pensionati Calabria: Investire su anticorpi monoclonari per sgravare le terapie intensive

Investire sugli anticorpi monoclonali come terapia salvavita e per sgravare le terapie intensive calabresi dal peso dei ricoveri legati agli effetti della pandemia da Coronavirus, ma farlo senza disimpegnare risorse per procacciarsi le dosi di vaccino necessarie a immunizzare il numero massimo di cittadini italiani e, soprattutto, calabresi. È questa la proposta lanciata da Alfondo Cirasa, segretario generale della Uilp Calabria.

Nei giorni scorsi, infatti, la segreteria regionale si è riunita alla presenza di Francesco De Biase, segretario generale Uilp di Cosenza; Ilenia Luca, segretario generale Uilp di Crotone; Giuseppe Talia, segretario generale Uilp di Reggio Calabria e Franco Folino Gallo, coordinatore Uilp di Catanzaro e Vibo Valentia, e Cirasa ha ribadito che «l’Italia, ma soprattutto la Calabria – regione alle prese con evidenti ritardi strutturali nel sistema sanitario – dovrebbe seguire l’esempio della Germania “una nazione che sta spingendo ed investendo su cure integrative al vaccino, acquistando ben 200 mila dosi di anticorpi monoclonali che, in attesa di un riscontro ufficiale da parte dell’Ema, sembrano essere una reale e rapida terapia salva vita».

Una terapia decisiva che, anche sotto l’aspetto economico, non avrebbe un impatto devastante per le casse dello Stato.

«Chiaramente – ha detto Alfonso Cirasa – tutto ha un costo che si aggira, per singola dose, a meno del costo giornaliero di una terapia intensiva – che inciderebbe sulle tasche del contribuente per circa 1000 dollari a trattamento – con una sola determinante differenza, dimostrata dal caso di positività dell’ex presidente americano Donald Trump: dimesso e guarito in solo due giorni».

Questa strategia per Alfonso Cirasa potrebbe dare una svolta nel contrasto al virus in Calabria «una regione che, purtroppo, si sta segnalando per un ritmo troppo lento nel processo di vaccinazione, che la condanna agli ultimi posti delle statistiche di tempistica nella somministrazione dei vaccini anti Covid-19».

Con il ritmo attuale, infatti, per il Segretario generale della Uilp la popolazione calabrese sarà vaccinata «non prima dei prossimi anni».

Ritardi che, per il Segretario generale della Uilp, sono inammissibili e rischiano di essere «complici di una silenziosa mattanza a carico degli anziani, la fascia più debole ed esposta che, sino ad oggi, ha fatto contare il 95,4% dei decessi».

Per Alfonso Cirasa, poi, è il momento di fare presto, di bruciare le tappe, di seguire l’esempio del neo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che si è impegnato a far distribuire entro la stagione estiva 300 milioni di dosi vaccinali con l’aggiunta appunto di monoclonali che l’Fda – l’equivalente americano dell’Ema europeo, ha stabilito essere una terapia salvavita.

«Bisogna fare presto – ha commentato Cirasa – non sono più accettabili colpevoli ritardi, in particolare in Calabria, una terra priva di uno strumento coerente al bisogno, di una sanità in grado di sanare. In Calabria, dove il prezzo più alto è stato pagato dagli over 60, dove è emerso con tutta la sua crudeltà la fragilità del sistema delle 358 Residenze sanitarie per anziani, finite sotto stress per le criticità complessive denunciate e mai risolte e spesso protagoniste di focolai, non si può più attendere inermi. Bisogna considerare gli anticorpi monoclonali come salvavita e bruciare le tappe, avviare questa terapia in estate, aspettando l’eventuale avvio di una campagna vaccinale nazionale con anticorpi monoclonali, sarebbe un errore imperdonabile, vorrebbe dire aumentare esponenzialmente il numero, già alto, di sacrifici umani che la nostra regione, così come il nostro Paese, stanno registrando ogni mese». 

«Bisogna alzare la testa – ha ribadito – per disegnare un’Italia diversa per il domani, per progettare il Paese nel quale dovranno crescere i nostri figli, i nostri nipoti. In Calabria è il momento di investire sulla sanità, sulle infrastrutture, per garantire i Lea ed i servizi alle persone. È ora che la Calabria rialzi la testa».

«La situazione sanitaria calabrese – ha concluso Alfonso Cirasa – è un dramma lungo decenni. In questa delicata fase pandemica, quindi, bisogna puntare su terapie rapide salva vita, come possono essere gli anticorpi monoclonali: una terapia allo studio in Italia, la cui sperimentazione dovrebbe essere avviata ad aprile e la cui distribuzione potrebbe essere avviata in estate. Questa strategia unirebbe alla rapidità di contrasto al virus un’azione strategica in grado di sopperire alle carenze strutturali del sistema sanitario ed in particolare alla cronica carenza di posti letto, soprattuto in terapia intensiva, che la nostra terra paga in termini di storicizzato mancato sviluppo». (rrm)

LA CALABRIA SOGNA DI DIVENTARE GIALLA
A REGGIO SCOPPIA IL CASO DEI TEST RAPIDI

Se le indicazioni preliminari saranno confermate, da domenica la Calabria potrebbe passare da arancione a gialla, ovvero in una zona con più permessi e aperture consentite, pur con alcune limitazioni. L’indice settimanale è in discesa, rapportato ai valori della seconda settimana di gennaio, e il valore Rt (che indica il livello di contagio possibile) dovrebbe rientrare al di sotto dell’1, con valori tra lo 0,85 e lo 0,90. Puntano a ritornare “gialle” anche le regioni Emilia Romagna e Veneto, mentre c’è un serio rischio di rimanere in arancione per Lazio, Piemonte, Val d’Aosta, Liguria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo e Lombardia.

Se diventa gialla, la Calabria avrà diverse “opportunità” aggiuntive con una riduzione di alcuni limiti: bar e ristoranti aperti fino alle 18, poi è consentito solo l’asporto e consegna a domicilio fino alle 22. Gli spostamenti per fare visita ad amici una volta al giorno. La persona o le due persone che si spostano potranno comunque portare con sé i figli minori di 14 anni (o altri minori di 14 anni sui quali le stesse persone esercitino la potestà genitoriale) e le persone disabili o non autosufficienti che convivono con loro.

Il servizio di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura (di cui all’articolo 101 del Codice dei beni culturali e del paesaggio) è assicurato, dal lunedì al venerdì, con esclusione dei giorni festivi, con modalità di fruizione contingentata e nel rispetto delle misure anti-Covid. Alle stesse condizioni sono aperte al pubblico anche le mostre.

È consentito recarsi presso centri e circoli sportivi, pubblici e privati, dell’area gialla, per svolgere esclusivamente all’aperto l’attività sportiva di base, nel rispetto delle norme di distanziamento sociale e senza alcun assembramento, in conformità con le linee guida emanate dall’Ufficio per lo sport, sentita la Federazione medico sportiva italiana (FMSI), con la prescrizione che è interdetto l’uso di spogliatoi interni a detti circoli.

È consentito svolgere all’aperto e a livello individuale i relativi allenamenti e le attività individuate con il suddetto decreto del ministro dello sport del 13 ottobre 2020, nonché gli allenamenti per sport di squadra, che potranno svolgersi in forma individuale, all’aperto e nel rispetto del distanziamento.

A proposito di giallo, è avvolto da mistero il caso dei test rapidi richiesti dal sindaco Falcomatà quando aveva lanciato, poco prima di fine novembre, una campagna di screening di massa. Il commissario Domenico Arcuri aveva accolto la richiesta del sindaco di Reggio e fatto inviare 70mila tamponi per i test antigenici (quelli rapidi, sierologici): un buon inizio per una città da 180mila abitanti, peccato che la campagna di screening veloce per individuare i casi positivi non sia mai partita. È successo – a quanto sembra – che i tamponi forniti (di provenienza sud coreana) non abbiano superato, a loro volta, i test di adeguatezza e di affidabilità. Quindi, nel dubbio, sono stati bloccati, dopo alcune prove con volontari, i test rapidi che avrebbero lanciato la città di Reggio tra le più virtuose nella campagna di prevenzione. Sono risultati utilizzabili per drive-in ma inadatti per uno screening a tappeto, visto che l’attendibilità dei test non supererebbe l’80%.

Le analisi richieste all’Università di Catanzaro non hanno dato ancora esito, quindi la campagna di massa (che avrebbe avuto senso se avviata a dicembre) è stata di fatto annullata. Sarebbe stata la task force che il Comune ha messo in piedi contro la pandemia ad aver segnalato problemi sui risultati provenienti dai tamponi sud-coreani. Quindi, nel dubbio, si è deciso di fermare tutto. Poi sono aumentati i numeri del contagio in Italia che hanno messo in allarme le varie amministrazioni comunali alle prese con le misure di controllo e di prevenzione.

Quasi certamente, la fornitura andrà restituita ad Arcuri che dovrà farsi rimborsare dai fornitori. Ma come si fa ad essere così superficiali nella scelta dei dispositivi di screening? Il Comune di Reggio, stavolta, non ha responsabilità, anzi aveva avviato un’ammirevole iniziativa, peccato che la fornitura dei test si sia rivelata taroccata. (rrm)

L’UMG di Catanzaro partecipa alla rete di ricerca internazionale dell’Harvard School

È motivo di grande orgoglio e soddisfazione la partecipazione dell’Università Magna Graecia di Catanzaro alla rete internazionale di ricerca coordinata dalla Harvard Medical School.

4CE – Consortium for Clinical Characterization of COVID-19 by EHR”, è una rete collaborativa internazionale che coinvolge 342 ospedali e policlinici universitari in Europa, Stati Uniti e Asia, per lo studio del COVID-19 tramite tecniche di Intelligenza Artificiale e Data Science applicate ai dati delle cartelle cliniche elettroniche.

In via preliminare, sono stati recentemente pubblicati i primi risultati scientifici di uno studio multicentrico internazionale, retrospettivo osservazionale, sulle caratteristiche della popolazione affetta COVID-19. L’obiettivo della ricerca è poter confrontare, a livello internazionale, le traiettorie dei principali valori di laboratorio di pazienti ospedalizzati con COVID-19 che sviluppano una forma grave della malattia e identificare i tempi ottimali della raccolta dei valori di laboratorio per prevedere la gravità tra ospedali e regioni.

Lo studio è basato su dati aggregati e anonimizzati riguardanti circa 36.500 pazienti COVID-19 raccolti nei 342 ospedali della rete 4CE. I pazienti sono stati classificati in due sottoinsiemi (“sempre gravi” o “mai gravi”) utilizzando criteri di severità validati. Sono stati esaminati diciotto test di laboratorio e alcuni di essi sono stati riscontrati come predittivi del livello di gravità.

In particolare, il 43,7% dei pazienti sono stati classificati come sempre gravi. La maggior parte dei pazienti (78,7%) aveva 50 anni o più ed era di sesso maschile (60,5%). Le traiettorie longitudinali di proteina C-reattiva, albumina, LDH, conta dei neutrofili, D-dimero e procalcitonina, hanno mostrato associazione con la gravità della malattia. Sono state riscontrate differenze significative dei valori di laboratorio al momento del ricovero tra i due gruppi. Ad eccezione del D-dimero, la discriminazione predittiva dei valori di laboratorio non è incrementata dopo il ricovero. L’analisi dei sottogruppi utilizzando età, D-dimero, proteina C-reattiva e conta dei linfociti come predittivi di gravità al ricovero, ha mostrato una discriminazione simile a quella di altri lavori in letteratura (AUC = 0,88 e 0,91, rispettivamente). In media, non è stata trovata alcuna differenza nella previsione della gravità tra i siti nordamericani ed europei.

In definitiva, lo studio ha dimostrato che i valori dei test di laboratorio al momento del ricovero possono essere utilizzati per prevedere la gravità nei pazienti con COVID-19 e ha evidenziato la necessità di sviluppare nuovi modelli predittivi da applicare durante l’intero corso della malattia nei pazienti ospedalizzati.

Il progetto 4CE è un esempio di condivisione intelligente dei dati delle cartelle cliniche elettroniche sotto forma di Big Data che, tramite opportuni algoritmi di Intelligenza Artificiale e Data Science, permette di comprendere meglio le differenti tipologie di gravità dei pazienti COVID-19 e di offrire un’arma in più per combattere il COVID-19.

Nello specifico, l’Università di Catanzaro e il Policlinico Universitario “Mater Domini” partecipano alla rete 4CE tramite l’Unità Operativa di “Malattie Infettive e Tropicali” diretta dal Prof. Carlo Torti e il Centro di Ricerca “Data Analytics” – Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, diretto dal Prof. Mario Cannataro, confermando l’impegno dell’Ateneo nella lotta contro il COVID-19.

I professori Torti e Cannataro ringraziano i numerosi colleghi che hanno contribuito al progetto ed in particolare il Magnifico Rettore, prof. Giovambattista De Sarro, che ha coordinato la partecipazione dell’Ateneo alla rete 4CE, il prof. Pietrantonio Ricci, che ha seguito l’approvazione dello studio presso il Comitato Etico della Regione Calabria, ed i componenti dell’Unità Operativa di “Malattie Infettive e Tropicali” e del Centro di Ricerca “Data Analytics”.