NOSTRA INTERVISTA AL PRIMARIO REGGINO, UNO DEI LUMINARI INTERNAZIONALI, CONSULENTE DELLA GIUNTA;
Il prof. Franco Romeo

«SI MUORE D’ALTRO, NON C’È SOLO IL COVID»
ALLERTA DEL CARDIOLOGO FRANCO ROMEO

di SANTO STRATI – Con responsabilità, il prof. Franco Romeo, uno dei luminari di cardiologia del mondo, lancia un preciso allarme: non si muore solo di covid, ci sono altre patologie trascurate. Gli ospedali devono ripristinare i reparti oncologici, cardiologici, ematologici: ci sono stati 30mila morti in più rispetto allo scorso anno non attribuibili al Covid. È un messaggio chiaro che fotografa l’attuale situazione che si registra un po’ dappertutto, in Itali; interventi rinviati, diagnostiche sospese, ricoveri impossibili per migliaia di pazienti afflitti da gravi patologie, ai quali viene negato per disorganizzazione e per mancanza di posti letto un ricovero che potrebbe salvare loro la vita. Reggino di Fiumara di Muro, una carriera di eccellenza, il prof. Franco Romeo vive a Roma, ma viene spesso in Calabria, la sua terra che ama in modo incondizionato e per la quale spende moltissime risorse personali per offrire capacità e competenza ove necessarie. È l’ultimo consulente scientifico rimasto della task force sanitaria istituita all’inizio della pandemia dalla compianta Jole Santelli: l’ha voluto il presidente ff. Nino Spirlì, confidando nella sua “calabresità” e nella sua generosa disponibilità a favore della regione.

A dire il vero, lo stesso allarme era stato lanciato dal prof. Romeo insieme con una fitta schiera di illustri clinici già lo scorso anno verso marzo e aprile, in pieno lockdown: purtroppo non c’è solo il Covid, ma ben altre patologie che non possono aspettare e per le quali occorre mobilitarsi per consentire cure adeguate e i ricoveri quando necessari. Il prof. Romeo fa l’esempio degli infarti: «È vero che la riduzione dei ricoveri per infarti è stata drammatica – dice a Calabria.Live –, quasi del 50%. ma questo significa che per questi pazienti non è che si era è ridotto il numero degli infarti che si verificavano: i pazienti non andavano in ospedale e quindi è aumentata la mortalità in casa. La riduzione di questi pazienti era legata allora a una paura che c’era di andare nei pronto soccorsi per l’affollamento e la disorganizzazione. Senza trascurare la difficoltà di accesso, che si è avuta durante la prima fase, perché ad esempio allora chiamare un’ ambulanza del 118 era complicato: erano tutte le predisposte per il trasporto covid quindi non era facile trovarne e poi i pazienti cercavano di minimizzare i sintomi, erano sempre con la paura che si potesse trattare di covid e quindi alcune sintomatologie con cui esordisce l’infarto erano sottovalutate. Ci sono dei sintomi che noi chiamiamo equivalenti ischemici, per cui l’infarto si può presentare, per esempio, con una dispnea, con un affanno, perché il cuore riduce la sua capacità contrattile perché c’è un fatto ischemico, si  muove male e non ce la fa e questo spesso veniva scambiato per altro. Ora questo, diciamo, è un po’ diminuito, quasi normalizzato, ma ancora l’altro giorno c’era un allarme per quanto riguardava noi cardiologi per il fatto che interventi di cardiologia interventistica strutturale cioè la sostituzione delle valvole per via percutanea e tutti quegli interventi che noi cardiologi facciamo in modo non chirurgico, invasivo ma non chirurgico sulle valvole, sulle coronarie si sono ridotti di almeno un 30-40 per cento. E questo allarme è stato lanciato di nuovo qualche giorno fa, su una situazione che avevamo messo in evidenza a marzo dell’anno scorso pubblicando i dati sulle casistiche».

– Cos’è successo lo scorso anno con l’arrivo del caldo, è migliorata la situazione ?

«Durante l’estate quando sembrava che l’epidemia avesse preso una discesa abbastanza consistente, la situazione negli ospedali è un pochino migliorata, ma adesso si sta nuovamente aggravando: ci sono alcune regioni, come la Lombardia, che in questi giorni hanno dato di nuovo l’allarme temendo l’arrivo di una terza ondata, dicendo che gli ospedali sono già sotto pressione per il covid. E quando gli ospedali cominciano ad essere sotto pressione per il covid, purtroppo, proprio per la mancanza di posti letto, di organizzazione, quelle che ne risentono sono le altre patologie. Una stima, credo Istat, dice che quest’anno ci sono stati trentamila morti in più di quelli attesi. Per patologie non covid. Rappresentano un terzo dei morti totali per covid e sono pazienti morti per altre patologie. Quindi dobbiamo rafforzare le nostre strutture sia territoriali sia ospedaliere. Questo mainstream, questo concetto così che è ormai dilagante e maggioritario, che il problema sia il territorio è vero solo in parte. Il territorio è importante rinforzarlo, ma i pazienti, a mio avviso, sono morti di più e questa alta mortalità in Italia si è avuta perché nel nostro Paese non avevamo ospedali in grado di accogliere i pazienti in una fase diciamo adeguata, non troppo tardiva. Noi abbiamo consigliato i pazienti di andare tardi in ospedale per non intasare i pronto soccorsi e i pazienti sono andati troppo tardi poi in ospedale e quindi questo ha comportato l’impossibilità di cure adeguate. Non essendoci una terapia specifica per questa malattia virale, per questo Covid – purtroppo non abbiamo una terapia – ci siamo sforzati di intercettare il paziente prima e curarlo sul territorio perché non abbiamo posti negli ospedali, perché questa mancanza di disponibilità, questa mancata resilienza del sistema sanitario ospedaliero ha portato tutti quei messaggi che invitavano i pazienti a non andare in ospedale, se non troppo tardi. Quindi dobbiamo rafforzare il territorio per l’identificazione dei pazienti nella fase più precoce, ma quando il paziente con covid presenta la malattia deve andare in ospedale perché sul territorio la malattia va avanti e non è possibile dare delle cure adeguate e la malattia quando è in fase molto avanzata, oggi mancando delle cure specifiche, spesso non si riesce a fare molto».

– Com’è la situazione in Calabria secondo lei, visto che il tasso di mortalità è abbastanza basso rispetto agli altri?

«In Calabria abbiamo avuto – se uno va a vedere i dati – 660 morti per due milioni di abitanti. La Liguria che ha 500.000 abitanti in meno ne ha avuto più del triplo dei nostri morti, 3.800. Il Lazio – se si rispettassero le proporzioni – ne avrebbe dovuti avere 1500, invece ne ha avuti seimila. In Calabria la mortalità per ogni 100mila abitanti è la più bassa d’Italia. Anche le nostre terapie intensive non hanno una forte pressione in questo momento – siamo sotto il 30% di occupazione. La cosa positiva è che la Calabria è la prima regione in Italia ad avere iniziato la vaccinazione ai pazienti più fragili, oncologici, ematologici e cardiologici gravi, oltre i dializzati e i trapiantati. La Calabria, in questo senso, si è mossa prima di tutte le altre regioni. Noi abbiamo fatto una campagna nazionale come Foce, che è la Federazione degli oncologi cardiologi ematologi, abbiamo fatto un documento che abbiamo condiviso con il ministero della Salute, con il commissario Arcuri, per sollecitare l’inserimento dei pazienti fragili nel piano di vaccinazione unitamente agli ultraottantenni. E il personale sanitario mi risulta che sia stato tutto vaccinato in Calabria, quindi non è vero che siamo indietro come vaccinazione. Si consideri che nel Lazio, tra l’altro, non sono stati vaccinati ancora tutti i medici. Quindi, mi sia consentito di dire che non siamo messi male, qualche dato positivo alla Calabria ogni tanto diamolo. E a questo proposito devo dire che, a mio parere, era ingiustificato l’insediamento di tende ospedaliere, non so perché si era diffuso quell’allarme ha provocato una specie di psicosi collettiva: la Calabria ha retto sempre abbastanza bene. Quando hanno messo la Calabria in zona rossa hanno detto “non sappiamo in caso di uno tsunami epidemiologico cosa si può scatenare e come reagisce”. Potevano dirlo a inizio della pandemia, non dopo un anno. Dopo due mesi si è visto come ha reagito la Calabria, che ha avuto meno morti di tutti. Certo, il fatto di inserire il parametro della fragilità del tessuto sanitario calabrese ha giocato contro, ma non mi pare sia stato fragile. Il ragionamento è stato questo: “ne muoiono pochi, però siccome non ci fidiamo della solidità del sistema sanitario calabrese, mettiamo la regione in zona rossa”. Si tenga conto che abbiamo avuto meno morti per numero di pazienti che si sono ammalati, questo vuol dire che il sistema ha retto».

– Un punto a favore della sanità calabrese che ha potuto contare su risorse efficaci e su medici preparati e brillanti?

«Tutto sommato gli ospedali hanno retto. In ospedale non è stata fatta alcuna selezione, sono stati ricoverati anche pazienti con pochi sintomi: nella grandi città c’era pure la difficoltà pure di avere un contatto. A Roma, per esempio, anche persone di un certo livello avevano difficoltà di avere un contatto con l’ospedale per ricoverarsi, per fare un tampone a casa e gli si diceva: bene, state tranquilli, con la febbre prendete la tachipirina, etc, poi quando improvvisamente la saturazione scendeva da 93 a 80 il paziente arrivava in ospedale con i polmoni seriamente compromessi, spesso era troppo tardi,.

Basti pensare che, all’inizio della pandemia, la Lombardia aveva 500 posti letto di terapia intensiva, la Calabria 140 e la Lombardia è sei volte la Calabria proporzionalmente. Diciamolo senza timore: nella prima fase c’è stato un grave pregiudizio nei confronti della Calabria, ma questa terra ha saputo reagire e sta reagendo bene. E se non si trascureranno le altre patologie si potranno salvare molte altre vite. E questo è questo un obiettivo possibile». (s)