SVIMEZ: NO A RIARMO CON FONDI COESIONE
BISOGNA RIDURRE I DIVARI TERRITORIALI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «Serve una chiamata alle “armi” per ridurre i divari territoriali e sociali». È l’appello lanciato dalla Svimez, dicendo “no” all’utilizzo delle risorse di coesione per finanziare il Piano Rearm Eu.

Il piano, infatti, propone un utilizzo delle risorse della coesione inconciliabile con i suoi obiettivi di inclusione economica, sociale e territoriale. «La coesione – scrive la Svimez – rappresenta un pilastro costitutivo dell’Unione europea che non può essere indebolito di fronte ad ogni emergenza. Tuttavia, il basso tasso di spesa del ciclo 2021-2027 e il debole consenso politico intorno a questa politica potrebbe determinare, come avvenuto in passato, e nonostante le dichiarazioni di principio, una forte pressione della Commissione e delle stesse istituzioni nazionali per un loro utilizzo per investimenti nella difesa».

«Non basta, dunque – viene evidenziato – opporsi a tale proposta ma occorre prendere atto dell’urgenza di una profonda riforma che faccia i conti con i suoi «fallimenti» ma che sia in grado di valorizzarne il potenziale in termini di costruzione di un’Europa più inclusiva e competitiva».

La proposta è stata inviata lo scorso 4 marzo dalla presidente della Commissione Europea ai leader degli Stati membri, accompagnata da un Libro Bianco sul futuro delle Difesa Europea/Preparati al 2030 pubblicato il 20 marzo.  Tra le modalità di finanziamento del Piano è anche prevista la possibilità di riallocare i fondi e le risorse disponibili nel bilancio pluriennale 2021-2027, attualmente destinati ad altri scopi.

«La difesa comune rappresenta un tema cruciale e prioritario per l’Europa. Ma le risorse ad essa destinate – scrive la Svimez – sono ben lontane e difficilmente conciliabili con gli obiettivi di riduzione dei divari territoriali e sociali, a cui sono destinate le risorse per la coesione. Nonostante le istituzioni europee continuino a sottolineare il carattere strategico della coesione, essa viene costantemente utilizzata come fonte di finanziamento di ogni nuova iniziativa emergenziale».

Per l’Associazione, «a pagare il prezzo di una eccessiva flessibilità potrebbe essere uno dei principi cardine della politica di coesione: l’addizionalità delle sue risorse rispetto a quelle ordinarie».

«Tale principio stabilisce che i fondi europei non devono sostituire la spesa pubblica dei Paesi membri destinata ai medesimi obiettivi – ha ricordato la Svimez – ma aggiungersi a essa per potenziare ulteriormente gli investimenti. L’addizionalità delle risorse europee è già stata sacrificata in passato, quando in carenza di risorse aggiuntive, si è ricorso ai fondi della coesione per fronteggiare le situazioni di emergenza. Le modifiche legate alle varie emergenze che hanno minato non poco la “qualità” della spesa finale della Programmazione 2014-2020, molto più orientata verso le agevolazioni alle imprese piuttosto che alla riduzione dei divari infrastrutturali. Alla fine del ciclo, rispetto alla programmazione iniziale, si registra una notevole riduzione della percentuale di risorse (e di investimenti) destinate alla doppia transizione verde e digitale (- 33 %) e alle infrastrutture sociali (-24%).

«È proprio con questa consapevolezza che, nel dibattito europeo – si legge – è stato dato rilievo alla necessità di “non nuocere” alla coesione, attraverso un approccio coerente tra tutte le politiche dell’UE per rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale. Si tratta di un punto ribadito anche nelle Conclusioni del Consiglio europeo del 30 novembre 2023, che raccomandano come il principio del “non nuocere” alla coesione debba essere tenuto in considerazione in tutte le politiche e iniziative dell’Unione. La proposta di Rearm EU mette, però, chiaramente in luce come tale principio rischi di essere nuovamente minato non appena appaiono nuove nubi emergenziali per l’Europa».

Al momento, la proposta si limita a enucleare gli incentivi all’utilizzo delle risorse della coesione: Eliminazione degli attuali divieti che impediscono l’utilizzo delle risorse per la coesione a supporto delle grandi imprese operanti nel settore della difesa. Si tratta di una deroga di estremo rilievo, dal momento che la possibilità di concedere agevolazioni alle grandi imprese attraverso i fondi per la coesione è sempre stata impedita dai regolamenti europei.

Inclusione all’interno delle tecnologie strategiche per l’Europa (Step) di tutta la gamma di tecnologie rilevanti per la difesa.

L’iniziativa Step è stata individuata come uno dei principali architravi per incentivare il reindirizzo delle risorse per la coesione verso interventi per la difesa comune inglobando all’interno delle Step tutta la gamma di tecnologie rilevanti per la difesa. Questi interventi potrebbero riguardare non solo le agevolazioni agli investimenti operabili con il Fesr ma anche le spese di apprendimento permanente, di istruzione e formazione finanziabili attraverso il Fondo sociale europeo plus (Fse+). Al riguardo, il Libro Bianco rimarca in diversi passaggi la necessità di promuovere skills and expertise nel settore della difesa.

Maggiori benefici finanziari, in termini di più elevati tassi di prefinanziamento e cofinanziamento, per le risorse riprogrammate a favore della difesa.

«A tal proposito – scrive ancora la Svimez – è plausibile che la Commissione proponga l’applicazione di meccanismi analoghi a quelli già previsti dall’iniziativa STEP: un prefinanziamento aggiuntivo del 30% e l’applicazione del tasso di cofinanziamento con risorse europee del 100% sugli investimenti dirottati a favore della difesa. La proposta costituirebbe un appetibile incentivo finanziario, dal momento che il maggior prefinanziamento comporta una riduzione del fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche, mentre il cofinanziamento al 100% consente di liberare le risorse nazionali attualmente impegnate sui fondi europei. In quest’ultimo caso, occorrerebbe tener cura del loro riutilizzo verso interventi coerenti con le priorità dei Programmi da cui provengono».

Per l’Associazione «le proposte di Rearm Europe non affrontano la questione dell’allocazione territoriale delle risorse della coesione riprogrammabili per la difesa, limitandosi unicamente a prevedere un’affermazione generale su come una più forte e resiliente industria europea della difesa possa promuovere lo sviluppo regionale. Le risorse dei fondi per la coesione sono difatti territorialmente distribuite secondo precisi criteri allocativi fondati sugli svantaggi regionali».

«Si tratta – viene spiegato – del principio fondante della coesione: tutte le precedenti iniziative di riprogrammazione emergenziale hanno sempre mantenuto l’originaria distribuzione territoriale delle risorse. Il mantenimento dell’originale chiave di riparto per risorse riprogrammate per la difesa andrebbe, invece, chiarita il prima possibile, dal momento che nel settore della difesa i criteri di allocazione di mezzi e investimenti tendono a seguire logiche ben diverse rispetto alla situazione socioeconomica dei territori. Una preoccupazione aggravata dalla considerazione che, come a differenza dell’iniziativa di Repower Eu, nella proposta di Rrearm Europe non è prevista una percentuale massima delle risorse della coesione riprogrammabili a favore della difesa.

La riprogrammazione delle risorse per la coesione a favore della difesa avviene esclusivamente su base volontaria, ma dovrà essere effettuata in concomitanza con la revisione di medio periodo dei Programmi 2021-2027.

«Si ricorda – si legge nel documento della Svimez – che la revisione di medio termine prevede che il 50% del contributo europeo per gli anni 2026 e 2027 (circa 50 miliardi) relativo ai Programmi di ciascuno Stato membro possa essere definitivamente assegnato solo dopo l’adozione, in seguito al riesame intermedio, di una apposita decisione da parte della Commissione europea. Ciò pone la Commissione in una oggettiva posizione di forza ai fini delle modifiche ai Programmi necessarie per ottenerne l’approvazione definitiva e l’assegnazione delle ultime tranche di risorse. Non è pertanto da escludere che, in situazioni di oggettiva assenza di efficacia e/o di difficoltà attuativa dei Programmi, la Commissione possa essere in grado di esercitare azioni persuasive per un loro utilizzo che comprenda gli investimenti per la difesa. Soprattutto per l’Italia considerato che al 31 dicembre 2024 la percentuale di spesa della programmazione 2021-2027 è di appena il 4%, e l’importo impegnato pari al 25%».

Le incognite sulla revisione di medio periodo e di una riprogrammazione potenzialmente incoerente con gli obiettivi di inclusione e addizionalità sollevano nuovi dubbi sulla tenuta del principio del “non nuocere” alla coesione.

Secondo la Svimez, «questa tendenza può essere invertita solo attraverso una profonda revisione dell’impostazione generale e delle modalità di organizzazione e funzionamento della politica di coesione. Una revisione che consenta di superare gli oramai evidenti limiti dell’attuale impostazione, e che rimetta tale politica al centro del modello di sviluppo sociale ed economico del continente europeo, riorientandola verso obiettivi di riduzione dei divari regionali, la cui strategicità possa essere immediatamente compresa, condivisa e verificata da cittadini e territori».

«Un focus deciso su obiettivi di riduzione dei “divari di cittadinanza” omogenei in tutti i territori appare un passaggio cruciale – viene sottolineato – affinché le politiche di coesione possano trovare fattivamente sostegno e supporto “dal basso. Obiettivi chiari e verificabili in tema di diritto all’istruzione, all’assistenza, alla mobilità e alla salute renderebbero sicuramente meno attaccabili e più stabili le risorse ad essi destinate. In questo quadro, un approccio orientato ai risultati richiederebbe una maggiore responsabilità europea nella definizione degli obiettivi che deve accompagnarsi ad un coinvolgimento diretto delle amministrazioni locali, a partire dai Comuni, nella realizzazione dei target, non disperdendo lo sforzo progettuale e attuativo determinato dall’esperienza del Pnrr».

La definizione di obiettivi chiari, misurabili e verificabili, assieme al focus sui servizi “di prossimità” legati alla cittadinanza risulterebbe idonea a destare un’attenzione e un interesse maggiore da parte delle comunità locali nei confronti dei fondi europei e, conseguentemente, un monitoraggio civico sul raggiungimento dei risultati. Tutto ciò porrebbe le basi per un sostanziale miglioramento della percezione e della valutazione delle politiche di coesione da parte dei cittadini, avvicinandoli a comprenderne l’utilità e il valore.

«Questo passaggio, apparentemente non strategico – spiega la Svimez – rappresenta in realtà uno snodo essenziale per creare una constituency, oggi assente per le politiche di coesione, che le sostenga e difenda in sede europea. Una constituency che si attiverebbe solo laddove il trasferimento delle risorse della coesione verso altre finalità dovesse mettere a rischio l’attuazione di misure atte a raggiungere obiettivi essenziali per le comunità locali».

«La riduzione dei divari di cittadinanza – viene sottolineato – dovrebbe essere inoltre accompagnata dal ruolo centrale da assegnare alle politiche di coesione per favorire la localizzazione degli investimenti (pubblici e privati) nelle regioni meno sviluppate, al fine di consolidare e potenziare tutti settori strategici della nuova politica industriale europea delineata dal Piano Draghi, non solo al settore della difesa. Se l’attuale dibattito tecnico e politico sulla politica industriale europea risulta carente per quanto concerne la dimensione territoriale, la centralità della politica industriale all’interno della politica di coesione è l’unica strategia per restituire un’adeguata rilevanza alle specificità e potenzialità regionali».

«Si tratterebbe di passare dall’attuale approccio, che vede la destinazione di agevolazioni alle imprese come la più semplice modalità per risolvere problemi e lentezze di attuazione dei Programmi, e che da sempre induce a riprogrammazioni a favore di generici sussidi orizzontali “a pioggia” – conclude la Svimez – ad una impostazione strategica coerente con gli indirizzi di politica industriale europea per l’individuazione di settori industriali di traino, e le modalità con cui sostenerli». (am)

L’OPINIONE / Massimo Cogliandro: Il Sud ha meno diritti per legge

di MASSIMO COGLIANDRO Sono meridionale e ammetto di aspirare ad essere considerato un meridionalista. Ma il mio cuore è sempre rivolto alla giustizia, rispettosamente timoroso di quella Divina ed all’equità.

Sono convinto sostenitore di un’Italia unita e migliore in un’Europa non più cripto-continente ma confederazione di Stati, forte, equa, solidale e florida! Ma in questo percorso quanti ostacoli, piccolezze umane e politiche insensate si frappongono, rendendolo quasi impraticabile.

È, quindi, l’ora dell’autocritica, dell’esame, dell’accondiscendenza. Non certamente del mantenere punti di forza od orgogli nazionalistici o peggio ancora regionali! Sono convinto dell’assoluta necessità di ciò perchè il percorso europeista è, a mio avviso, la sola strada percorribile per cancellare il gap infrastrutturale ed economico meridionale.

Ho maturato questo pensiero alla luce della sentenza della Corte Costituzionale sull’Autonomia Differenziata regionale che certifica l’impossibilità di assegnare alcune materie alle regioni, perché già di competenza europea! Quindi solo la via europeista ha chance di salvare il meridione! Infatti ad ulteriore prova e con l’amaro in bocca quale appartenente al Partito del Sud, vedo i miei compaesani più propensi a votare la Lega Nord. Preferiscono andare contro i propri interessi, invece di scegliere di sostenere noi o qualsiasi altra forza politica meridionalista che con convinzione avrebbe esclusivo mandato di tutelare i nostri interessi economici ed il futuro dei figli di questa terra.

Più volte ho riflettuto sul perché questo accada e mi sono spiegato che oltre alla nostra incapacità politica di promettere cose irrealizzabili, tipo le accise abolite ecc. ecc., noi meridionali abbiamo un’educazione forgiata nei secoli dalla legge Pica e dall’impostazione sabauda amministrativa dello stato.

È, quindi, impossibile per qualsiasi forza politica recuperare economicamente il meridione perché necessiterebbe una generale revisione dei codici: civili ed amministrativo e di leggi loro omogenee.

Questa mia sconvolgente affermazione deriva dalla lettura, accidentalmente, occorsami della sentenza della Cassazione, sez. I, 27 ottobre 1988 – 7 aprile 1989, n 4906, CP 90, I, 839” che recita: «Per la sussistenza dell’attenuante della provocazione, necessita un fatto da qualificare come ingiusto, e ciò perché contra ius (ndr. Responsabilità da fatto ingiusto) o privo di motivo ragionevole o non conforme a regole morali e sociali dal punto di vista sostanziale od anche per la forma angarica (ndr.: angheria), villana o vessatoria nella quale viene manifestato un fatto di per sé giusto; cosicché non può essere ritenuta ingiusta la modalità, la misura con cui il Parlamento od il governo nazionali, nella loro politica discrezionalità, procedono alla ripartizione dei mezzi, delle dotazioni e dei servizi fra le varie regioni d’Italia, ripartizione iugulata (ndr. imporre condizioni inique approfittando di uno stato di inferiorità) dalla limitazione delle disponibilità rispetto alle generali richieste».

La sentenza nasce parlando di attenuanti di reato, quindi di un argomento lontano dal meridionalismo. Però, fa riferimento ad un argomento scontato: il dispari trattamento tra territori considerandolo prassi ordinaria e corretta, di impostazione discrezionale!

Non sono un giurista, e men che meno un costituzionalista, quindi lungi da me avere titolo a critiche. Però mi sento profondamente offeso dal dettato di questa sentenza che credo emessa mancante di qualche dovuta specifica.

Credo, infatti, che il giudice bene avrebbe fatto a moderare il concetto, aggiungendo il dovuto rispetto delle libertà che ogni cittadino riesce ad ottenere grazie alle erogazioni statali.

In altre parole la tendenza ed essere trattati economicamente con pari opportunità per avere pari libertà. Questa sentenza, di stagionata epoca, mi fa dedurre che nessun cittadino italiano, per legge, abbia diritto ad un minimo comune multiplo di servizi scaturenti dalle erogazioni statali. Affermo ciò perché questa, come le altre sentenze emesse dalla Cassazione, promanano dall’interpretazione di leggi e di altre sentenze.

È, quindi, giurisprudenza consolidata il dover trattare economicamente peggio i meridionali; rassegniamoci!

Mi resta una domanda, ma la Costituzione non sanciva il contrario? Che amarezza! (mc)

[Massimo Cogliandro è responsabile per la Città Metropolitana di Reggio Calabria del Partito del Sud]

MEDITERRANEO, L’ITALIA PUÒ COMPETERE
MA DOVRÀ INVESTIRE SUI PORTI DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Una volta si chiamava Mare nostrum. Ed era un mare di civiltà sul quale si sono affacciati grandi Paesi e tutte le religioni monoteiste. I nostri progenitori lo percorrevano in lungo e in largo tanto che più che un mare era un lago che univa popoli .

In tale mare l’Italia è centrale fisicamente ma purtroppo si sta facendo sfuggire i traffici internazionali. Prima con la scoperta dell’America i porti atlantici sono diventati quelli fondamentali per i traffici con il nuovo mondo, poi con l’apertura del canale di Suez non si è riusciti a far diventare i porti mediterranei centrali perché quelli atlantici, malgrado la loro lontananza fisica sono riusciti a prevalere per la loro efficienza e la capacità di collegarsi via terra al centro dell’Europa  con collegamenti ferroviari, autostradali e aerei. 

Quindi la centralità dell’Italia è rimasta solo fisica, considerato che il Sud che doveva essere il luogo di attracco per le navi provenienti da Suez in realtà è rimasta un’area isolata. Il porto di Augusta, frontaliero a Suez, peraltro non utilizzabile anche per le scorie esistenti nei suoi fondali é rimasto non collegato con una linea ferroviaria veloce.  Ma che anche se fosse esistita avrebbe trovato nell’attraversamento dello Stretto di Messina un blocco difficilmente superabile, visto che il collegamento veniva fatto con i Ferry Boat. 

Ma anche Gioia Tauro, che non aveva il problema della strozzatura dello stretto di Messina, non è stata collegata adeguatamente con la linea ferroviaria al Centro Europa, per cui le maxi navi porta containers avevano più convenienza a percorrere tutto il Mediterraneo, attraversare il canale di Suez, costeggiare la Spagna, il Portogallo, la Francia, attraversare il canale della Manica ed arrivare poi ai porti dell’Europa del Mare del Nord, dai quali le merci, dopo essere state lavorate creando migliaia di posti di lavoro nei retroporti relativi, potevano essere trasportati nel centro Europa. 

In realtà l’Italia ha sempre puntato ai due grandi porti dell’ascella del paese, Genova e Trieste, che non sono mai riusciti a competere adeguatamente con Rotterdam, Amburgo e Anversa. Con investimenti importanti fatti in essi, forse meno giustificati di quelli non effettuati nei grandi porti meridionali che caratterizzano tutto lo stivale, da Napoli a Salerno, a Gioia Tauro a Messina, Taranto, Bari e poi di tutti quelli della Sicilia che da Palermo, Trapani, Marsala, Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Gela arrivano fino a Siracusa, Augusta e Catania. 

Con la chiusura degli approvvigionamenti energetici dalla Federazione Russa, l’esigenza di guardare verso sud è diventata prioritaria e con essa la favola del Mezzogiorno Batteria del Paese. Cioè si è cominciato a capire che essendo a pochi chilometri di distanza dalla costa africana la Sicilia poteva diventare un territorio fondamentale di attracco per i vari oleodotti, elettrodotti, metanodotti che, partendo dal Nord Africa, ricca di energia fossile, sarebbe potuta diventare un punto di passaggio importante per portare l’energia alle aree produttive del Nord e magari anche al centro Europa. 

Tale approccio insieme alla favola di una seconda industrializzazione, dopo quella mancata degli impianti petrolchimici, è diventato fondamentale per illudere i meridionali che tali impianti avrebbero portato anche posti di lavoro. 

L’altro elemento che è diventato fondamentale è stato quello relativo agli impianti eolici e solari, che necessari portano però uno stravolgimento dello skyline delle realtà interessate e un consumo di suolo agricolo, per quanto attiene agli impianti solari, estremamente elevato. 

Tanto che recentemente si è pensato di permettere la costruzione di tali impianti soltanto offshore, cosa che è estremamente più costosa di quanto non si realizzano sul territorio. 

Il recente progetto che dovrebbe realizzarsi con il piano Mattei in realtà poco può fare se diventa una realizzazione che riguarda solo l’Italia. Con tutta la buona volontà che il nostro Paese può metterci è chiaro che se parliamo di accordi di cooperazione che aiutino l’Africa ad uscire dalla condizione di sottosviluppo in cui si trova, per evitare i flussi drammatici di emigrazione, che ci riguardano, ci preoccupano e rischiano di far saltare gli equilibri socioeconomici di tanti paesi dell’Unione Europea, dobbiamo guardare a dimensioni finanziarie di aiuti che certamente il nostro Paese da solo non può consentisi. 

Il rischio che lo scambio con l’Africa continui ad essere quello predatorio, che prevede l’acquisto di energia in cambio di risorse, che spesso si perdono a favore della nomenclatura di paesi ancora che non hanno ancora raggiunto o consolidato processi democratici evoluti e che non contribuiscono ad innescare quel processo di sviluppo necessario per creare un percorso autonomo di autosufficienza, è alto.

In tale contesto l’interesse della Cina per quest’area, conseguenza degli interesse per tutto il continente africano, rischia di consentire l’esproprio di un’area che naturalmente dovrebbe far parte di una zona teorica di influenza riguardante l’Italia. 

Mentre anche la Russia manifesta l’esigenza di affacciarsi sul Mediterraneo, per cui si capiscono  i grandi interessi di conquistare il Donetsk ucraino in modo che tramite Odessa, Mariupol, che si affacciano sul Mar Nero, arrivare al grande lago salato che si chiama Mediterraneo. 

In tale contesto geopolitico l’Europa sembra totalmente assente e sta guardare i conflitti che stanno avvenendo sulle coste del grande lago salato, come se non la riguardassero, mentre invece nascono da interessi ben precisi contrapposti di influenza in tali aeree. 

Se le politiche che il Paese vuole portare avanti riguardano lo spopolamento del Mezzogiorno, fornendo anche aiuti a chi si voglia trasferire, non investendo adeguatamente in tale realtà attraendo investimenti dall’esterno dell’area, infrastrutturando adeguatamente tale territorio, lavorando fin da adesso per mettere a regime i porti del Mediterraneo e della Sicilia orientale in maniera tale che all’apertura del ponte sullo stretto del 2032 siano già pronti, perché competere con Rotterdam non è un gioco da bambini, se tutto questo non si fa quando ci sveglieremo dal lungo sonno troveremo i giochi già tutti fatti e non potremmo che essere spettatori in casa nostra. 

Per guardare al Mediterraneo non basta solo affermarlo a parole o sostenere soluzioni parziali come quella di diventare il centro di formazione per i paesi arabi, o altre correte visioni ma parziali, ma è necessario un approccio sistemico, che guardi a tutte le variabili economiche e geopolitiche. Prima ce ne rendiamo conto e più facile sarà avere un ruolo. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

L’INGIUSTIFICATA NECESSITÀ DEL MINISTRO
FITTO DI RIESAMINARE IL PNRR PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «La Commissione Europea ha versato all’Italia la quinta rata del Pnrr, pari a 11 miliardi di euro. Il pagamento segue la valutazione positiva, adottata formalmente lo scorso 2 luglio, connessa al conseguimento di 53 traguardi e obiettivi della quinta rata del Pnrr italiano».

Questa la notizia delle Agenzie che riguarda un fatto estremamente importante, che viene confermato da numeri inoppugnabili: vi è un versamento nelle Casse dello Stato italiano di una cifra considerevole. Parliamo di 11 miliardi che certamente aiutano il bilancio. 

Giancarlo Giorgetti sarà molto soddisfatto e grato nei confronti di Raffaele Fitto, che porta a casa già oltre 100 miliardi. Con l’incasso della quinta rata, infatti l’Italia ha ricevuto ad oggi il 58,4% delle risorse complessive del Pnrr, pari a 113,5 miliardi di euro su un totale di 194,4 miliardi. 

Già il 2 luglio Bruxelles aveva approvato una valutazione preliminare positiva delle 53 tappe e obiettivi richiesti, per sbloccare la rata da 11 miliardi, tra cui l’attuazione di 14 riforme e 22 investimenti, in settori quali il diritto della concorrenza, gli appalti pubblici, la gestione dei rifiuti e dell’acqua, la giustizia, il quadro di revisione della spesa e l’istruzione.

L’Italia ha già richiesto a Bruxelles il pagamento della sesta rata da 8,5 miliardi di euro, ed è al lavoro per la verifica e rendicontazione dei 69 traguardi e obiettivi previsti per la settima rata del Pnrr, equivalenti a 18,2 miliardi di euro.  

I rumors della minoranza che parlano di gioco delle tre carte perché il Pnrr sarebbe solo al «37% del totale del cronoprogramma» non fanno breccia. Né può essere preso sul serio un Angelo Bonelli, leader di Europa Verde, che pensa che il Governo non sia impegnato «a risolvere i problemi reali del Paese». 

Troppa generica l’accusa e l’attivismo della Premier va proprio nel senso opposto, qualcuno addirittura chiederebbe che avesse meno iniziative. E allora tutto bene? Intanto non vi è dubbio che è meglio incassare le risorse che sono state destinate all’Italia provenienti dal debito comune che invece non essere in condizione di esigerle. 

Ma qualche considerazione più ampia deve essere fatta. Le notizie circa il fatto che a livello territoriale le risorse non stanno arrivando nel Mezzogiorno, nella quantità destinatagli dal Paese, che è inferiore a quella che sarebbe toccata se l’algoritmo europeo fosse stato applicato senza alcuna correzione, sono molto frequenti e da fonti diverse. 

 Lo stesso Raffaele Fitto ha parlato della necessità di rivedere il piano per quanto attiene il Sud, con una rimodulazione che rivela alcune difficoltà, peraltro attese, considerato lo stato degli uffici tecnici delle istituzioni locali dopo anni di “dimagrimento”.  

«Dovremo garantire che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud e su questo bisognerà interrogarsi. Ci sarà l’esigenza di valutare qualche altra ulteriore revisione? Forse sì». Cosi il Ministro,  in una recente audizione presso le Commissioni Riunite Bilancio e Affari Europei di Camera e Senato, nella quale non ha escluso un’ulteriore modifica al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. 

Forse siamo andati nel senso delle proposte indecenti di Giuseppe Sala e Luca Zaia, che si offrivano di spendere loro le risorse, visto che avevano progetti esecutivi e capacità di spesa? 

E che dimenticavano entrambi che il primo obiettivo del Pnrr era di diminuire i divari non di aumentarli, e che solo perché esiste il Sud sono arrivate risorse consistenti, senza dimenticare che in parte sono a debito e quindi dovranno essere restituiti da tutti gli italiani, ovviamente in modo progressivo rispetto al reddito prodotto, concetto che alcuni “nordici” non riescono ad accettare e forse capire. E che prevede che a parità di reddito si paghi lo stesso importo di tasse e che, indipendentemente da ciò che si versa, si abbia diritto agli stessi servizi essenziali, quelli che sono stati definiti come Lep (Livelli Essenziali di Prestazioni) e che invece dovrebbero essere Lup (Livelli Uniformi di Prestazioni ). 

Ma se “bisognerà” interrogarsi sulla garanzia che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud allora vuol dire che nel raggiungimento degli obiettivi non è prevista alcuna clausola territoriale.  Se così fosse l’Unione confermerebbe una disattenzione alla quale ormai siamo abituati, e confermerebbe un assenza di governance sull’utilizzo corretto dei fondi strutturali provenienti dall’Europa. 

È accaduto che per anni i fondi strutturali siano stati sostitutivi dei fondi ordinari, che dovevano arrivare nel Mezzogiorno, tanto che il pro-capite che avrebbe dovuto essere superiore nel Sud, per l’utilizzo dei fondi aggiuntivi dell’Europa, sia risultato poi invece, malgrado questi, inferiore, senza che ciò fosse in qualche modo rilevato e sanzionato da parte della Commissione, sempre molto attenta invece  a controllare l’andamento di altri indicatori. 

E non per per una piccola cifra ma per oltre 60 miliardi annui, come è stato ampiamente documentato dal Il Quotidiano del Sud, sulla base dei dati del Dipartimento per le Politiche di Coesione voluto da Carlo Azeglio Ciampi

Bene se il raggiungimento degli obiettivi, che hanno fatto pagare la quinta rata, seguisse la stessa logica, sottovalutando il tema della territorialità, motivo per cui i vari Sala e Zaia non si lamentano più, sarebbe molto grave. 

Perché come al solito avremmo eluso il vero obiettivo che l’Unione si era data, quando per stabilire gli importi da destinare a ciascuno aveva utilizzato tre parametri: il tasso di disoccupazione, il reddito pro capite e la popolazione. 

È chiaro che la Commissione può essere disattenta rispetto ai divari territoriali, considerato che il solo vero Paese duale in Europa,  nel quale coesistono due realtà opposte,  é l’Italia, e che gli altri, che hanno problemi simili, hanno avuto sempre una considerazione estrema, come la Spagna e la Germania, delle loro realtà periferiche. 

Ciò non toglie però che l’Unione pagando le varie rate senza controllare la destinazione territoriale, come sembrerebbe stia facendo,  in realtà diventerebbe  complice del possibile fallimento  dello strumento, che invece di diminuire i divari li aumenterebbe. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud  – L’Altravoce dell’Italia]

IL PIANO RETI TEN-T PRIVILEGIA IL SUD
ORA SI DEVE COMPLETARE L’ALTA VELOCITÀ

di ERCOLE INCALZA –  In questi ultimi anni ci siamo innamorati del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, abbiamo cercato di salvare il salvabile delle risorse non spese del Fondo di Sviluppo e Coesione 2014 – 2020, non riuscendoci, ci siamo interessati al nuovo Fondo di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027 e grazie all’azione del Ministro Raffaele Fitto stiamo cercando di evitare la perdita secca di circa 80 miliardi di euro della passata esperienza, ma ora, proprio in occasione di questo nuovo Parlamento dovremmo ricordare a coloro che nel prossimo mese si insedieranno nel nuovo consesso comunitario che esiste un’altra grande occasione strategica per il rilancio organico del nostro Mezzogiorno.

Mi riferisco, in particolare alla nuova edizione delle Reti Trans European Network (Ten – T); sì di quel Pian strategico che produce direttamente la Unione Europa e che ogni cinque anni lo aggiorna. Un Piano che è supportato dagli Uffici della Unione Europea e dalla Banca Europea degli Investimenti. Un Piano che dispone anche di un volano di risorse pari a circa 35 miliardi di euro. L’importanza di un simile strumento, il cui aggiornamento è stato approvato venti giorni fa, è quanto meno duplice: Ratifica ancora una volta le scelte relative al Corridoio Helsinki – La Valletta e, quindi, contiene integralmente l’asse ferroviario ad Alta Velocità Napoli – Bari, Salerno – Reggio Calabria – Messina – Palermo – Catania. Riconferma la essenzialità del Ponte sullo Stretto. Prolunga il Corridoio Baltico – Adriatico fino alla Regione Puglia (prima si fermava a Ravenna).

In base ad una decisone assunta dal Consiglio Europeo in occasione della approvazione del Patto di Stabilità comunitario, gli interventi relativi a scelte programmatiche comunitarie (e quindi quelli ubicati sulle Reti Ten – T non gravano sul debito pubblico delle singole Nazioni).

Appare evidente che in presenza di simili sostanziali decisioni, i nostri rappresentanti nel nuovo Parlamento dovranno perseguire la concreta attuazione di una volontà che già la Unione Europea ha condiviso e ratificato. In realtà dovranno dare concreta attuazione al completamento della offerta ferroviaria ad alta velocità nell’intero Mezzogiorno.

Diventa improcrastinabile portare a termine, davvero, la offerta ferroviaria ad alta velocità nell’intero Mezzogiorno e quando intendo “intero” Mezzogiorno mi riferisco oltre alle linee già definite come la: Salerno – Reggio Calabria, Napoli – Bari Palermo – Catania – Messina, mi riferisco anche alle linee: Cagliari – Sassari – Porto Torres, Trapani – Palermo, Siracusa – Catania, Bari – Brindisi – Lecce, Bari – Taranto – Battipaglia.

Questa scelta, in un certo senso, denuncia una discutibile impostazione iniziale del progetto della rete ferroviaria ad alta velocità; in fondo la mia è un’autocritica e devo anche precisare che Lorenzo Necci sin dal primo momento ribadì che la famosa T (Torino – Venezia e Milano – Napoli) “era solo l’inizio di “una rivoluzione del nostro rapporto con il treno, una rivoluzione che terminerà quando l’intero Paese avrà un sistema ferroviario ad alta velocità; ho detto sistema perché coinvolge il rotabile, la sicurezza ed i nodi stazioni” (sono parole di Necci) in una audizione al Senato nel 1992. Cioè Necci era convinto che il sistema ad alta velocità sarebbe stato una offerta non più legata alla “convenienza dell’investimento” ed alla “rilevanza della domanda” ma sarebbe stata una condizione obbligata per rispondere alle esigenze di un Paese che non poteva essere diviso in due distinte aree: una di serie A ed una di serie B. Ebbene questo impegno dovrebbe essere intanto prodotto subito dalle Ferrovie dello Stato ed inserito nel prossimo Contratto di Programma.

Questa proposta contiene un respiro programmatico lungo e consente, al tempo stesso, un ritorno alla intuizione programmatica di medio e lungo periodo che da almeno dieci anni avevamo dimenticato e, soprattutto, assicura al Mezzogiorno un grado di libertà che non possiede e cioè: una rete ferroviaria ad alta velocità vera. (ei)

SOLO L’EUROPA SI È ACCORTA CHE CI SONO
DUE ITALIE: SERVE ATTENZIONE PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAChe i Paesi sono due se n’è accorta solo l’Europa. Lo dimostra quando utilizza un algoritmo per distribuire le risorse del Pnrr riferendosi a dei parametri che avvantaggiano le realtà a sviluppo ritardato. 

Assegnare le risorse molto consistenti del Recovery Plan in relazione al tasso di disoccupazione, al reddito pro capite e alla popolazione, è stato un modo per privilegiare le realtà più marginali e periferiche, che dimostrano con l’entità di tali aggregati la loro debolezza. 

 L’Italia come risponde a questa sensibilità dell’Europa alle problematiche dei divari? Limitando l’intervento europeo ed evitando di utilizzare lo stesso algoritmo ma, governo di Super Mario Draghi in carica, finge di regalare un 7% in più rispetto al 33% della popolazione del Meridione, e distribuendo i fondi  attribuisci  il 40%  e il 60% , rispettivamente, al Sud e al Centro Nord, contrabbandando la vulgata di aver dato un 7% in più, quando invece se ne sottraeva il 10% rispetto al 50% che sarebbe toccato, se si fossero riproposti sic e sempliciter i calcoli fatti dalla Commissione. 

Se n’è accorta quando ha consentito che le otto Zes diventassero una unica per tutto il territorio. Senza entrare nel merito che poneva una contraddizione nei fatti nel cambiare delle regole di vantaggio, che dovevano essere adottate da aree limitate per consentire l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area e il superamento delle problematiche che scoraggiano gli eventuali investitori a localizzarsi nel Sud.

Quando ha  autorizzato un cuneo fiscale per il costo del lavoro di vantaggio per tutta l’area, che se il Paese fosse unico avrebbe configurato la fattispecie degli aiuti di Stato. Tutto ciò nei limiti consentiti dalle normative dei rapporti tra Stati e Commissione  e tenendo conto della prevalenza nelle decisioni del Consiglio dei Capi di Governo, l’Europa sembra porsi in modo molto preciso la problematica relativa ad un’area così ampia che, se fosse da sola, rappresenterebbe il quinto Paese, in termini di dimensioni demografiche, d’Europa. 

Perché sa bene che differenze troppo ampie tra singole aree provocano problemi sociali e conseguentemente anche istituzionali gravi, che si ripercuotono poi sulla governance complessiva. Oggi che la Commissione Europea approva modifiche al regime italiano a sostegno delle imprese del Sud Italia conferma la sua attenzione particolare.

 L’aiuto consisterà in una riduzione del 30% dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro privati attivi nelle regioni meridionali dell’Italia. L’Italia ha notificato le seguenti modifiche al regime esistente: un aumento di bilancio di 2,9 miliardi di euro, che porta la somma  complessiva da 11,4 miliardi a 14,3 miliardi di euro; e una proroga del periodo in cui si applica la riduzione dei contributi previdenziali al 31 dicembre 2024. 

In realtà l’Europa sembra essere molto più attenta alle problematiche dei divari di quanto non lo siano gli stessi Paesi membri. Alcuni dei quali in realtà si comportano con atteggiamenti e obiettivi che rispecchiano la volontà di diminuire le differenze esistenti, come ha fatto la Germania con la ex Ddr; con i comportamenti adottati dalla Spagna che ha una grande attenzione alle realtà periferiche, tanto da rilanciare le città meridionali del paese iberico, come Siviglia, Valencia o Malaga; come sta facendo con grande successo la Polonia, e come invece sembra non fare l’Italia, anche se il provvedimento di cui parliamo, che viene approvato, ha origine in una richiesta italiana. 

Strombazzare i successi conseguiti nel mercato del lavoro quando ancora il Sud ha una occupazione complessiva, che comprende anche il lavoro sommerso, che si pone su un dato di 6 milioni e 400 mila  occupati su 20 milioni di abitanti, che pone quest’area in una posizione nella quale lavora poco più di una persona su quattro, quando realtà come Emilia Romagna e Veneto riescono a far lavorare una persona su due, ci dà la dimensione di quanto ancora debba essere fatto, malgrado i tassi di incremento che sono stati recentemente conseguiti e che hanno un valore poco più alto di quelli del Centro Nord.              

Per esemplificare due Regioni che hanno una popolazione simile  come il Veneto (4.834) e la Sicilia (4.789), nel 2023, hanno un’occupazione media rispettivamente di 2.225.751 occupati e 1.410.776, compresi i sommersi. 

Cioè in Veneto, con  popolazione analoga hanno possibilità di lavorare 800.000 persone in più. E poi si briga senza successo per portare l’Intel a Vigasio a pochi chilometri da Verona. 

Mentre la Puglia con 3.883,839 abitanti ha occupati per 1.292.646 e l’Emilia Romagna con 4.455.188 abitanti ha occupati  per 2.023. Anche qui il rapporto di uno a quattro e uno a due. In questo caso i dati assoluti danno meglio la dimensione delle problematiche e di come  differenze di incremento dell’1%, nella crescita degli occupati a favore del Mezzogiorno sia assolutamente insignificante. 

L’interesse e la comprensione della problematica dell’Europa ci suggeriscono l’esigenza che si possa avere, nel caso del utilizzazione non corretta dei fondi comunitari, un intervento che ci faccia passare dal disimpegno automatico alla sostituzione dei poteri, che deve avvenire sia all’interno del Paese, così come è accaduto per la sanità calabra, con un flop però incredibile, ma che avvenga anche tra le realtà nazionali e quella europea. 

Si evidenzia l’esigenza cioè che l’Europa non sia soltanto ragionieristicamente controllore della correttezza amministrativa delle operazioni svolte, come sembra  stia  accadendo con il Pnrr, ma che entri nel merito. 

Perché per esempio pensare di mettere a bando gli asili nido e consentire ai Comuni più virtuosi di aumentare la propria dotazione anche se questa era al di sopra delle medie nazionali forse non è l’approccio più corretto. 

L’inserimento nella legislazione nazionale dell’Autonomia Differenziata deve far scattare un campanello d’allarme. Perché la possibilità che le Regioni chiedano un contatto diretto con l’Unione Europea, diventando dei piccoli Staterelli, più garantiti da un’Europa delle nazioni invece che da un’Italia coloniale potrebbe essere piuttosto alto. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

EUROPA, UN VOTO IMPORTANTE E DECISIVO
MA RISCHIA DI VINCERE L’ASTENSIONISMO

di SANTO STRATI – Anche se i partiti, in via preliminare, hanno volutamente dato una valutazione modesta sull’importanza del voto europeo a cui sono chiamati ben oltre 370 milioni di elettori, in realtà questa consultazione ha particolare rilevanza. Soprattutto per il nostro Paese.

In primo luogo, al contrario di quanto sostiene Giuseppe Conte (M5S), è un test importante per il Governo e – se vogliamo – una misura precisa di distacco tra la Meloni e la Schlein. Difatti, stasera, quando cominceranno gli exit-poll e domani quando avremo le cifre del voto, sarà evidente che il “referendum” destra-sinistra avrà vincitori e vinti.

Il vero problema è, in realtà, un altro. Qualcuno ha sentito parlare di Europa durante questa campagna elettorale? Sì, vagamente, ma soprattutto in chiave partitica con lo spettro dei sovranisti a seminare timori sul trionfo del più becero nazionalismo, quando, in realtà i cittadini avrebbero voluto ascoltare dai leader – quasi tutti impegnati in prima persona a raccattare voti (tanto nessuno, a partire da Giorgia per finire alla Schlein, passando per Tajani, Calenda, Renzi e via discorrendo) ha la benché minima intenzione di andare a Bruxelles.

Non si pensi a una presa in giro dell’elettorato, che è molto più intelligente di quello che credono i politici, e ha immediatamente capito la mossa “acchiappa-voti” dei principali player del quadro politico italiano: la gente non va a votare per tante ragioni, prima di tutto perché delusa dalla politica e stufa di promesse date e poi mai mantenute, in lotta perenne (la stragrande parte) con i soldi che non bastano più e una povertà strisciante che sta insidiando il ceto medio. Hanno un bel dire che l’inflazione si è abbassata, sotto livelli apprezzabili: andassero i nostri amministratori, governanti, ministri a fare direttamente la spesa al supermercato. Da gennaio a oggi il cittadino medio ha visto aumentare i costi del 30-40-50 % (a essere generosi, per in verità qualche volta i prezzi sono raddoppiati). E il Governo in carica – come del resto tutti i precedenti – si trova a fare i conti della serva rosicchiando ove possibile sulla pelle, però, dei cittadini-sudditi (ed elettori), ma dimenticandosi di stanare i veri evasori e tagliare le spese inutili dei tantissimi enti a  loro volta fin troppo inutili.

Non si può giocare con mancette elettorali: una social card da 500 euro, da spendere a settembre, non basta nemmeno a fare una spesa decente di un mese, salvo a tagliare anche i generi di prima necessità. Il pane costa quanto le brioches, la carne è inavvicinabile per molte categorie di pensionati, il pesce nemmeno a parlarne, per non dire poi del latte, dei pannolini dei bambini, persino degli assorbenti intimi (sui quali è ritornata l’iva “pesante”, con buona pace dei buoni propositi di una politica a favore di donne e famiglie).

Se i nostri politici leggessero il Manifesto di Ventotene che un gruppo di intellettuali antifascisti, capitanati dallo straordinario Altiero Spinelli, scrisse nel 1941 con una visione di futuro formidabile, capirebbero che è quella l’Europa che gli italiani (ma non solo loro, bensì tutti i cittadini europei) sognerebbero di avere. Non un monumento stabile alla burocrazia che penalizza produttori e consumatori con ridicole imposizioni su dimensioni, formati, prescrizioni, etc, bensì una federazione di Stati in grado di esprimere, in unità, i valori fondanti del vivere civile, ovvero pace e libertà.

Due concetti in grande affanno da due anni a questa parte: il conflitto russo-ucraino non mostra soluzioni immediate e lo stesso si può dire per la “guerra” Israele-Hamas che ha colpito e continua a colpire palestinesi (e israeleliani)inermi che hanno soltanto capito quanto vale già la parola stessa “libertà”, senza la quale nessuna pace è possibile.

E l’Europa di fronte a questi due drammi che hanno già a dismisura riempito i cimiteri di vittime civili cosa ha fatto, cosa fa, cosa farà? Sarebbe stato utile per gli elettori ascoltare dai “contendenti” idee, programmi, progetti. Invece la campagna elettorale si è svolta nella più triste sceneggiata del voto: “se non vuoi la destra al potere vota a sinistra; se non vuoi far tornare la sinistra al potere vota a destra”. Elementare, direbbe monsieur de la Palisse, scompisciandosi dalla risate. Ma non c’è stato alcun confronto serio sui temi del vivere quotidiano, sulla necessità di affrontare in maniera seria la crisi della sanità (che non è nei guai solo  in Calabria), la crisi del lavoro che non c’è (per i nostri giovani laureati che se ne vanno all’estero o al Nord, per non tornare più), la crisi degli immigrati.

La scelta – discutibilissima – di inviare in Albania a nostre spese gli sventurati che s’avventurano nel Mediterraneo, privi di un qualsiasi permesso di soggiorno è certamente contraria ai principi di accoglienza e fraternità nei confronti dei profughi che la nostra Carta costituzionale, ha previsto. E pensare che con la stessa cifra prevista per la “deportazione” si potrebbero avviare programmi di formazione e avviamento al lavoro dei migranti, il cui numero autorizzato è sicuramente inferiore ai reali bisogni del Paese.

I migranti vanno considerati una risorsa, non un problema, e invece vengono trattati – quelli intercettati prima di poggiare piede in Italia – come carne da macello. Peggio delle infelici storie di schiavitù dei secoli scorsi che aiutano solo a giustificare il senso di pena per quei derelitti del Mediterraneo, ma nulla di più.

E l’Europa cosa ha fatto? Cosa fa, cosa pensa di fare a proposito dei migranti? Al di là delle volgari idee razziste di qualche imbecille che ha persino la faccia tosta di difendere, non c’è alcun piano programmatico, alcuna visione di aiuto.

La Calabria – lo abbiamo scritto tante volte – è stata un modello di inclusione e accoglienza con l’esperienza  (mai sopportata o supportata) di Mimmo Lucano.

Restiamo, come calabresi, un modello di fraterna accoglienza e di aiuto sincero nei confronti dei disperati che tentano la sorte affrontando un Mediterraneo che è sempre più un vergognoso e non più sopportabile cimitero di migranti, ma il Governo centrale malvede questo genuino slancio di generosità e di voglia di inclusione.

L’Europa, quella che uscirà dalle urne, domani mattina, richiede una visione che non pensi soltanto al giorno dopo, ma programmi a lungo termine interventi e iniziative che facciano sentire i cittadini d’Europa, orgogliosi della loro appartenenza.

Ecco perché il voto di ieri e di oggi è importante: andiamo tutti a votare, facciamo sentire questo bisogno di rinnovamento contestando antistoriche posizioni o illusorie e disastrose promesse. La Calabria è Europa, ma l’Europa siamo noi.

UN NUOVO INIZIO EUROPEISTA, MA INSIEME
PER UN’EUROPA UNITA, DI POPOLI E LAVORO

di LUIGI SBARRA – Il mondo corre, cambia. Anche l’Europa deve cambiare. Non può arrancare, restare sulla difensiva. Troppo ritardo è già stato accumulato. Troppe questioni, enormi e complesse, dimostrano che così come è strutturata l’Unione europea non riesce, non riuscirà, ad essere protagonista sulla scena globale.

La legislatura che si aprirà tra poco deve dare il via ad una vera fase costituente in Europa. Bisogna accelerare lungo la strada dell’integrazione economica e sociale, verso la realizzazione dell’unità politica e degli Stati Uniti d’Europa. Per rendere l’Unione più efficiente, coesa, solidale e rappresentativa. Più forte, autorevole e incisiva sulla scena politica mondiale. Baluardo contro autocrazie e regimi illiberali che puntano apertamente ad attaccare la democrazia e i nostri valori. È indispensabile che l’Unione si doti di una politica estera, di difesa e di sicurezza comune. Per sostenere con rinnovata energia l’Ucraina, assumere un ruolo per porre fine al conflitto israeliano-palestinese e aprire la strada all’unica soluzione possibile, quella che dovrà condurre a due Stati per due popoli.
E per restare al passo con l’Europa la Cisl ha auspicato per l’Italia un’Agenda che deciderà crescita e futuro del Paese, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, investimenti su politiche attive, formazione e competenze, una nuova politica dei redditi che difenda risparmi, salari e pensioni, il rinnovo di tutti i contratti, una riforma fiscale che sostenga i redditi medi e popolari, un’evoluzione del sistema pensionistico nel segno della sostenibilità e dell’inclusività per giovani e donne, maggiori risorse per sanità, pubblico impiego, scuola, politiche sociali e non autosufficienza, governance partecipata del Pnrr, relazioni industriali che evolvano nel solco della partecipazione, come stiamo contribuendo a fare con la nostra Proposta di legge ora in Parlamento.
Un nuovo inizio europeista. Questo è il grande compito. Cominciando col rendere strutturali gli strumenti pandemici e istituendone altri, come il Fondo sovrano europeo per l’industria, Ma bisogna riformare l’architettura decisionale, dando un ruolo più ampio alla Commissione e al Parlamento europeo. Via il cappio del diritto di veto, sostituendo la regola delle decisioni all’unanimità con il voto a maggioranza qualificata, pressoché in tutti i settori. Decidere e unificare, ha continuato Sbarra, secondo cui si deve puntare a stringere, a livello europeo, un Patto per il lavoro che abbia al centro formazione, occupazione e protezione sociale.
Si proceda alla piena e vincolante inclusione dei principi del Pilastro europeo dei diritti sociali. Per promuovere l’incremento dei salari e delle condizioni di lavoro, costruire uno spazio contrattuale europeo, che valorizzi relazioni industriali e partecipazione transnazionale
La chiave di tutto sta nella parola insieme. Insieme per un’Italia e un’Unione nuove, in grado di fare bene e fino in fondo la loro parte, per ritrovare lo spirito e l’ambizione dei Padri fondatori, per essere protagonisti oggi e domani sulla scena politica ed economica a livello globale. Insieme. Verso una vera comunità dei popoli e del lavoro e l’orizzonte degli Stati Uniti d’Europa.

Il Manifesto della Cisl Insieme per un’Europa Nuova: Lavoro, Coesione e Partecipazione

Di fronte alle trasformazioni in atto dobbiamo aprire una nuova fase costituente e completare il cammino verso un’Europa nuova, unita, partecipata, dei popoli e del lavoro. Occorre uno scatto in avanti, un grande processo di riforma che promuova il modello sociale, i valori democratici, una governance sovranazionale in grado di valorizzare e tutelare gli interessi dei singoli Stati e di rispondere concretamente ai bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, dei pensionati e delle pensionate, dei cittadini e degli immigrati.

Secondo la Cisl l’Unione Europea dovrà salvaguardare e promuovere maggiormente la dignità della persona e il lavoro di qualità, contrastando le disuguaglianze e le marginalità sociali, dando risposte di inclusione in particolare a donne e giovani.
Le grandi transizioni del nostro tempo, un contesto internazionale turbolento e frammentato chiamano in causa la capacità dell’Europa di trovare le giuste risposte, accompagnate da una crescita del proprio ruolo geopolitico.

Da questo punto di vista il nuovo Patto di stabilità e crescita presenta aspetti preoccupanti da affrontare superando l’impostazione eccessivamente rigorista ed evitando, al contempo, che gli effetti di tale impianto gravino sui cittadini attraverso tagli alla spesa sociale e allo sviluppo. Bisogna riconquistare la fiducia delle persone nei confronti del progetto europeo, arginando populismi e nazionalismi e giungendo, anche mediante una revisione dei Trattati, alla costruzione degli Stati Uniti D’Europa quale traguardo ultimo per affrontare la complessità del contesto, promuovendo e facendo progredire pace giusta e coesione, democrazia e sviluppo.

Sono quattro le priorità su cui puntare per dare un nuovo assetto sociale, organizzativo ed economico al vecchio continente:
Realizzare una governance partecipata.

Per la Cisl aumentare il coinvolgimento di sindacati e imprese è fondamentale per affrontare la complessità di transizioni epocali come quelle energetiche, climatiche e digitali, salvaguardando la coesione. Dialogo sociale, contrattazione e partecipazione devono essere i pilastri portanti di una nuova governance europea per far progredire qualità, stabilità e sicurezza del lavoro, incentivare sostenibilità e crescita dei territori, radicare gli investimenti rilanciando e redistribuendo la produttività, elevare l’innovazione e proteggere la persona nelle transizioni. Serve maggior protagonismo negoziale della Confederazione europea dei sindacati alla luce anche delle grandi trasformazioni dell’occupazione dovute alla digitalizzazione e all’avanzare delle intelligenze artificiali. Una maggiore partecipazione dovrà essere collegata anche ad un coinvolgimento delle organizzazioni della società civile per contribuire a politiche orientate al benessere sociale.

Rafforzare la dimensione sociale.

Occorre rendere il mercato del lavoro un luogo di crescita della persona. Va data piena attuazione al Pilastro dei diritti sociali, promuovendo il miglioramento dei livelli salariali, delle condizioni di lavoro e delle protezioni sociali. Va costruito uno spazio contrattuale comunitario che valorizzi la partecipazione transnazionale, a partire dal rilancio del ruolo dei Comitati aziendali europei nelle imprese multinazionali per ridurre il rischio di dumping e delocalizzazioni e sviluppare strumenti di gestione sostenibile d’impresa volti a garantire una responsabilità solidale nell’intera filiera produttiva.

È necessario garantire l’applicazione delle norme sulla mobilità equa dei lavoratori, anche attraverso il rafforzamento dell’Autorità europea del lavoro, e assicurare il principio della parità di retribuzione per le stesse mansioni. Forti vincoli sociali devono orientare i criteri di finanziamento pubblico alle imprese. Bisogna fronteggiare e sradicare il lavoro sommerso, delle società di comodo, dei falsi rapporti autonomi. Il contrasto all’illegalità e alla criminalità organizzata va garantito anche estendendo a livello comunitario i contenuti della Legge La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. Vanno risolti i grandi divari regionali potenziando le politiche di coesione in un’ottica di lungo periodo

Rendere equo il mercato interno.

Rafforzare e completare il mercato interno, puntando all’equità e a una competitività sostenibi e allargandolo ad ulteriori settori come la finanza, l’energia e le telecomunicazioni, è un obiettivo non più rinviabile. Dobbiamo convergere su politiche comuni a partire da quelle industriall e di ricerca e sviluppo, che contribuiscano alla produzione di beni pubblici di cui tutti gli Stati membri possano beneficiare. È necessario aggiornare la politica di concorrenza alle nuove sfide in modo da promuovere gruppi industriali europei salvaguardando la coesione e lo sviluppo territoriale, così come assicurare l’inclusione di clausole sociali negli accordi commerciali per salvaquardare i diritti contrattuali dei lavoratori lungo tutte le catene di fornitura.

Il rafforzamento del mercato interno non può prescindere inoltre da una tassazione armonizzata, per evitare fenomeni di concorrenza al ribasso, e dalla valorizzazione della componente del risparmio mediante strumenti di investimento nel ‘economia reale. Occorre migliorare l’accessibilità di capitali a imprese e cittadini, anche in un’ottica di attenzione ai territori più svantaggiati, e contrastare tutti i fenomeni di finanza speculativa.

Creare un assetto decisionale comunitario.

È necessario promuovere una riforma dell’architettura decisionale europea verso l’obiettivo di un rafforzamento politico e di maggiore legittimazione della Commissione, di un ruolo più ampio del Parlamento europeo e del superamento della regola delle decisioni all’unanimità nel Consiglio nell’ambito di una vera Costituzione europea. Una riforma ancor più necessaria alla luce di un possibile allargamento a 35 Paesi. Occorre aumentare eticacia comunitaria rivedendo le competenze e gli ambiti di intervento, a fronte di un sistema troppo intergovernativo, troppo condizionato da veti e interessi nazionali su aspetti fondamentali come le politiche migratorie, fiscali, estera e della difesa.

Nel contesto di “riglobalizzazione” e di riassetto geostrategico che vede riemergere regimi autocratici, l’Europa deve avere voce forte e autorevole nel campo della difesa e della sicurezza con un conferimento di capacità militari, che da un lato riequilibri le forze in campo e dall’altro consenta sinergie sulle spese dei singoli Stati, con risparmi in grado di aumentare le risorse disponibili per le politiche sociali e di sviluppo. Allo stesso modo è indispensabile che l’Unione adotti una politica estera comune e sia capace di gestire flusso migratori e di asilo con criteri di solidarietà tra Stati, canali legali, parità di trattamento, inclusività e valorizzazione di competenze nel mercato del lavoro.  (lb)

[Luigi Sbarra è segretario nazionale della Cisl]

Il sindaco di Bari Antonio Decaro a Reggio: Si parlerà del futuro del Mezzogiorno

Si parlerà dello sviluppo del Mezzogiorno nel corso dell’incontro, in programma domani sera, al CineTeatro Odeon di Reggio Calabria, alle 19, con Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente di Anci.

Ad accoglierlo ci sarà il sindaco della Città Metropolitana Giuseppe Falcomatà, insieme ad altri Sindaci ed amministratori del territorio metropolitano e calabrese, dirigenti del Partito Democratico e rappresentanti di associazioni, forze sindacali e associazioni di categoria.

Nel corso dell’incontro, dal titolo Portiamo il Sud in Europa, il sindaco Decaro  si soffermerà proprio sui temi legati alla coesione, alla perequazione delle risorse per il Mezzogiorno e sulle opportunità di sviluppo legate all’utilizzo da parte degli Enti locali dei fondi europei e del Pnrr.

Decaro, inoltre, è candidato capolista del Pd alle elezioni europee nella Circoscrizione Sud. Negli ultimi anni in più occasioni ha visitato la città di Reggio Calabria per incontri ufficiali. Da tempo è protagonista, insieme ad altri importanti sindaci italiani, della battaglia contro la legge sull’autonomia differenziata, che costituirebbe un colpo mortale all’economia delle regioni del Sud Italia. (rrc)

 

CALABRIA E MEZZOGIORNO: C’È IL RISCHIO
CHE VADANO SPRECATI I FONDI UE 2021-2027

di PAOLA LA SALVIA – Il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze dei vari conflitti in corso, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese tuttora ancorato a due differenti velocità di sviluppo, come se il divario tra un Mezzogiorno in difficoltà e un Centro Nord in linea con l’Europa fosse ineluttabile.

Fin dall’Unità d’Italia si è cercato di porre rimedio a tale situazione sul piano Istituzionale attraverso ingenti stanziamenti di risorse pubbliche, tuttavia con risultati decisamente deludenti, difatti tuttora permane sia un divario tra le regioni settentrionali e quelle meridionali sia una diseguaglianza interna alle stesse aree del Mezzogiorno. L’analisi delle difficoltà strutturali che opprimono il Sud italiano, sia in termini di struttura produttiva che di assetto istituzionale, evidenzia una situazione complessiva di fragilità che impone la ricerca di radicali elementi di discontinuità nelle politiche di sviluppo.

 Per superare tale Gap è indispensabile disegnare nuove e più efficaci azioni che consentano al Mezzogiorno di intraprendere un percorso di sviluppo, autonomo e responsabile, in grado di valorizzare i tanti elementi positivi comunque presenti in questi territori. 

I Fondi che l’Unione Europea destina ai Paesi hanno lo scopo di aiutare le Regioni meno sviluppate ad avvicinarsi alla media europea e ridurre gli squilibri interni ai Paesi, a livello economico e sociale, per esempio attraverso un’omogenea crescita economica e il miglioramento della qualità della vita dei cittadini in tutte le regioni. Dunque, tempistiche più efficienti e una programmazione più coesa tra le regioni potrebbero aiutare nella spesa dei fondi. In particolare, considerato il delicato periodo che l’Italia sta attraversando, i fondi strutturali e quelli provenienti dal Piano Next Generation Eupotrebbero essere la chiave per una ripresa economica e sociale più rapida.

Al riguardo, purtroppo, sono preoccupanti gli ultimi dati pubblicati recentemente dal Sole24. Siamo giunti quasi a metà del periodo di programmazione 2021-2027 e la spesa italiana del Fondo europeo di sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo è di appena 535 milioni di euro, meno dell’1% dell’ammontare complessivo delle risorse disponibili pari a 74 miliardi. Si tratta della spesa effettiva già realizzata e di cui si può quindi chiedere il rimborso a Bruxelles.

I progetti considerati ammissibili (quasi 35mila) e dunque in via di realizzazione assorbono quasi 4,8 miliardi (il 6,5 del totale) La Commissione Europea ha espresso le proprie preoccupazioni per una situazione definita “quasi bloccata” e ritiene molto difficile raggiungere l’obiettivo dei 7 miliardi di spesa a fine 2025. Una spinta alla spesa potrebbe arrivare dagli accordi per la coesione tra Regioni e Governo voluti dal Ministro Fitto. Tra le Regioni, sono riuscite a spendere qualche decina di milioni di euro solo le più sviluppate e la Calabria purtroppo non è ancora tra queste. È urgente accelerare i programmi, spendere bene le risorse, evitando sprechi e inefficienze. 

La competenza sui Fondi Europei è soprattutto delle Regioni ma molte di esse non hanno un apparato tecnico adeguato a produrre progetti sui fondi europei e poi per seguirli adeguatamente. La Commissione Europea è molto esigente per quello che riguarda la qualità dei Progetti, per il loro monitoraggio in corso di esecuzione e infine per la rendicontazione delle somme assegnate. Sarebbe necessario, a tal fine, favorire la formazione del personale in modo da avere, nelle strutture regionali, esperti nell’organizzazione europea.

Il monito, quindi, è di continuare a spendere, e inoltre di guardare molto di più rispetto al passato alla qualità della spesa. Come dire, spendere è una condizione necessaria, ma non sufficiente affinché un programma regionale riceva una valutazione positiva.

I Fondi Europei costituiscono per la Calabria e le Aree del Mezzogiorno un’importante occasione di crescita e sviluppo che non può andare sprecata. (pls)