La riflessione / Franco Cimino: a dicembre il caldo catanzarese aspettando l’inverno

di FRANCO CIMINO – Ma che bella giornata, questa seconda domenica del nuovo anno! Una giornata piena di sole. Con quel cielo terso, su cui le leggere nuovole bianche giocano a far i disegni su quel bel celeste. Come fanno i bambini piccoli sul foglio bianco, traendo dalla fantasia di mente e di cuore quella tenerezza incontaminata che li porta a rappresentare il loro mondo per come lo “sentono”. Anche con gli occhi. Essi rispondono alla solita domanda degli adulti in modo sempre eguale:” questa è la mamma( sempre la prima figura disegnata), questo è il il mio papà (quasi sempre in dimensioni più piccole della mamma), questa è la mia casa e questo il mio paese, la “macchina” di papà”. 

Non mancano mai gli animali, nei disegni dei bambini. Il cane e il gattino, che hanno già, e quelli che desiderano, come il fratellino più volte richiesto ai genitori, con quella domandina “impertinente”, che li fa arrossire addirittura, per diversi motivi, alcuni immaginabili nel non potersi dire. Il cielo di oggi è come quei disegnini. E le nuvole come quei bambini. Il Cielo come la Città. Il dipinto che ne viene fuori è il desiderio di vederla esattamente come i nostri figli desiderano la propria famiglia e l’ambiente che li accoglie. Una bella casetta. Bellissimi fratellini. Papà e mamma che si amano e si rispettano nella reciproca lealtà, in cui la fedeltà é un elemento fondamentale e pedagogico. 

Il paese, piccolo o città grande che sia, bello, ordinato, tranquillo. Anzi, pacifico, perché le nuvole, come il cuore dei bambini, hanno una chiarissima idea della Pace. Quella in cui prima dell’amarsi e del volersi bene, valore imprenscindibile affinché la Pace sia solida e ferma, viene il non litigare. Il non volere il male dell’altro. Il non offendersi reciprocamente, utilizzando insulti e pratiche cattive di relazione. Forse per questo, nelle due tipologie dei disegni, dei bambini e delle nuvole, c’è sempre la chiesetta, con il suo campanile talmente alto da entrare proprio nel “ tetto celeste”. 

La chiesetta per loro è la casa di Gesù. Bambini e nuvole sanno bene ciò che gli adulti hanno dimenticato da quando hanno smesso di essere nuvole e bambini. Ovvero, bambini tra le nuvole. Gesù, figlio primogenito di Dio, è buono e fa le cose buone e giuste. Vuole il bene di tutti. E tutti noi a lui siamo fratelli. Per volere del Padre e per scelta Sua. 

Le nuvole di oggi nel cielo limpido e celeste della nostra Città, il cielo che la copre e la ripara e come un bel tetto la rende più bella, disegnano Catanzaro come la desiderano. Ordinata, unita, composta, educata, colta, giusta, onesta, pulita. Con le case al posto giusto, e per tutti, le strade ampie e aperte in un territorio unito e non spezzato in più parti. E sicuro, come i fiumi che la attraversano, da alluvioni e sommovimenti. Le pinete e le spiagge incontaminate. Il mare pulito come l’acqua per le famiglie tutti i giorni. Parimenti il pane di grano puro, assicurato dal lavoro che per ciascuno sia gratificante e dignitoso, per la giusta paga che lo legittimi anche come valore sociale ed economico. 

Quel disegno nel cielo di oggi, vuole di più. Due sole cose su tutte. La ricchezza e la Pace. La ricchezza che sia benessere per tutti, nessuno escluso, tutti concorrendo a realizzare la ricchezza generale. Anche quella individuale, e di pochi purtroppo, che sarà moralmente giusta sé vorrà riconoscere, restituendola in parte, quella più equa, che essa è frutto soprattutto del lavoro e dell’intelligenza di altri e di tutta la Città che ha favorito la sua formazione e la sua crescita. Una ricchezza ristretta, che separi e non unisca nello spirito di solidarietà, che è anima della Politica, non farà parte della ricchezza complessiva della Città. 

La Pace. Quella alta e ambiziosa. Che raggiunga le vette più alte partendo dal basso. Pace sociale quindi, all’interno, tra i suoi cittadini secondo l’antico valore che li ha sempre visti uniti, solidali, quasi di buon vicinato, della ruga di un tempo lontano. La ruga, preceduta dal vicolo, che poi si allargava e si faceva rione. E, poi, ancora quartiere( quasi un piccolo paese autonomo). Infine Città, attraverso l’unificazione tra i suoi otto, poi divenuti dieci, quartieri, obiettivo però ancora non realizzato. E non per colpa dei quartieri, ma di coloro i quali, avendone la responsabilità e l’autorità, non hanno favorito, anche per i disastri urbanistici e i ripetuti scempi edilizi susseguitesi dagli anni sessanta in poi, che si realizzasse la Città nuova da quella antica. La Pace tra cittadini e la Politica, da tempo assente. E quella tra la Politica e i cittadini insieme, e le istituzioni, le grandi ammalate, a partire dal Comune, della nostra Democrazia. La Pace tra la Città e le altre città della Calabria, il nostro territorio e quello circostante, che rompa finalmente le tante separatezze territoriali, da cui nascono le povertà e, da queste, l’ignoranza e lo stupido campanilismo, che vieppiù li indeboliscono. 

Catanzaro, la Città della Pace, guida amorevole fraterna, che opera per unire in un progetto unitario e complessivo, tutta intera la nostra terra. Una Città che alla pretesa campanilistica e alla volontà divisiva di altri comuni non risponde con lo sterile vittimismo o con la frustrata arroganza, alternando il “ mi avete derubato” con “ vengo prima io” , ma con l’intelligenza del “ venite con me, stiamo insieme perché insieme si cresce, attraverso la valorizzazione del tanto e di peculiare che c’è in ciascuno di noi.” Per questo, le nuvole oggi hanno disegnato il desiderio presente sempre nei disegni dei bambini, quello di avere altri fratellini. I fratelli della nostra Città sono le altre Città. Tutti figli degli stessi unici genitori, la Terra e la Regione. Ai nostri figli, attraverso questa via, insegneremo, come dovrebbe fare la Scuola, che la Pace, quella di cui tutto il mondo ha bisogno, non è affare solo degli Stati e dei governi, ma impegno di tutti noi. La Pace inizia da qui, dalle nostre case. Dalle nostre città. Che bella giornata di sole, questa domenica, che la Chiesa celebra come quella dell’acqua battesimale! L’acqua che rinnova la vita, la purifica e la rafforza dello spirito Cristiano che è nella fonte battesimale. L’acqua, che bagna la nostra nudità, come ci ha detto Francesco stamattina. L’acqua che rigenera la Terra e la rende fertile. Che bella giornata, quella di oggi! La Primavera che ci ha accompagnati per tutto questo dicembre, ci regalato addirittura un Natale con il sole. Un Natale d’estate così io non me lo ricordo. È stato un bene per la nostra terra, anche se dispiace che altrove questo sole o non sia arrivato o rappresenti un danno ecologico, specialmente nell’Italia dei monti alti e dei ghiacciai. Per noi è stato un mese fortunato. E questo potrà giovare alla Politica cittadina. La “ fortuna” quasi sempre è una mano tesa nelle difficoltà. Sia, pertanto, questa lunga primavera, la finestra che s’apre alla vera Primavera catanzarese. Non so contare i guadagni dei commercianti dei quali sempre e non correttamente si parla ogniqualvolta si tenti di creare il salotto buono restituendo il Corso, in una sua parte, ai cittadini tutti, cui esso appartiene come gli altri luoghi, quelli della movida compresi. E tanto per non dimenticare nulla, cinema e teatri, ex cinema Orso compreso. So però contare le persone che sono scese nel Centro storico in occasione di particolari feste nelle appena passate festività natalizie. I numeri veri dicono, quelli che si vedono a occhio nudo o dai balconi vedendo le frotte di catanzaresi passare, dicono che sono stati tantissimi. È accaduto, in simili circostanze e condizioni climatiche, anche in passato. Di più o di meno, chi può dirlo? Ma non è su questi falsi confronti che si misura il cambio di rotta. È, invece, nell’umiltà di capire, e nell’intelligenza di agire conseguentemente, che se la Città chiama i suoi cittadini rispondono. Sempre. 

E se questa volta è sembrato affiorare una certa gioia, non è solo per il fattore, quasi clinico, del dopo Covid che li avrebbe liberati da paure e prigionie. Questa gioia tendente o tendente gioia, è fiducia verso la Città, la sua rinascita, la sua reale possibilità di farcela. E bene. È voglia di esserci, come comunità. E come catanzaresi legati strettamente a una identità che da piccola, ruga e quartiere, vorrà diventare finalmente identità unitaria e unificante. “ Sono di Catanzaro”, è il biglietto di presentazione, la didascalia che i nostri ragazzi dovranno gridare al mondo quando ad esso, e in qualsiasi sua parte, si presenteranno. 

La gente è venuta a incontrarsi. E più bello sarà quando ritornerà normalmente per parlarsi. Sulla via. Nei bar e ristoranti, all’uscita da cinema e teatri, biblioteche e musei. In queste settimane li ha aiutati le belle giornate di sole, che è rimasto limpido anche di sera, con il contributo pure del nostro vento buono. Anche quando, come in queste ultime, ha portato un po’ di freddo. Ma che importa! Basta coprirsi un poco, un cappello, un cappotto, i giubbotti moderni per i ragazzi e per gli eterni giovanotti, una sciarpa, e pronti a camminare tra le vie bellissime di questa nostra bellissima Città, la città dei monti e del mare. Adesso, sù, tutti a lavorare, ché stanno per arrivare le piogge. E questa volta badiamo bene a che non facciano male. Ché spendere soldi per le ricorrenti emergenze, è davvero uno spreco. La prima difesa della Città è quella del territorio. La nostra ricchezza. Insieme al mare, che lo bagna e ai due fiumi, che lo carezzano. (fc)

LA RIFLESSIONE / Franco Cimino: Il Natale che ci fa tutti buoni dura solo un giorno

di FRANCO CIMINO – A Natale siamo tutti buoni. Siamo più buoni. Anche di tutti gli altri. Forse, un po’ meno di uno, il solito del villaggio, che conosce le Sacre Scritture e il Vangelo a memoria, e in questo giorno te ne fa lezione. Comunque, a Natale è certo che siamo buoni. È necessario esserlo. È regola ferma e chiara. Rispettarla significa che potremo essere cattivi per tutto il nuovo anno in attesa del prossimo Natale. A Natale, per esempio, la politica sospende la più classica delle belligeranze, i suoi componenti non si insultano a vicenda e le sedute parlamentari, come quelle proseguite fino a stamattina, non accettano gli scontri fisici cui siamo da decenni ormai abituati. A Natale la povertà non esiste, esiste solo la generosità che la copre. Esistono i poveri davanti ai bar e alle chiese, che durante i mesi precedenti vediamo con fastidio. Talvolta con disprezzo. Specialmente quando ci mostrano la condizione che noi avremmo potuto subire se fossimo nati in un’altra regione del mondo, quella da cui molto di questi provengono. Oppure, se quella povertà, fatta di arretratezza e di ogni forma di aridità, avesse colpito la nostra terra, quella in cui siamo nati e viviamo. A Natale quei poveri li vediamo bene, e siamo noi, che prima li scansavamo, ad attraversare la strada per raggiungerli. Una moneta e via, la povertà scaccia via. Anche quella della nostra coscienza che, liberata, a Natale, dai sensi di colpa collettiva, ci consente di sedere con i nostri cari alla tavola riccamente imbandita. Del vicino di casa, di parentela o della via, che nasconde la povertà dietro il suo orgoglio di persona cui resterebbe solo l’onore e la dignità, facciamo ancora finta di non sapere. Son fatti suoi se non ci ha fatto vedere l’Intervenuta povertà. Anzi, meglio che ci risparmi questa sua condizione che potrebbe essere la nostra, ci rovinerebbe il Natale. 

C’è tempo, anche più di una settimana, per fare i conti con le nostre tasche svuotate dalle spese “ compulsive” che abbiamo fatto, dimentichi delle vecchie promesse. Del tipo:” il prossimo Natale basta con queste spese inutili e offensive, dei carrelli pieni di cibo inutile e in parte già da prima destinato allo spreco. E quelle del bagagliaio pieno di regali inutili che consegniamo a parenti e amici, cui abbiamo donato mille volte le stesse cose. E pure ci maledicono perché è tardi per riciclarli. Di più quelli che, imbambolati, non sanno rincartare il regalo non gradito. A Natale siamo tutti più buoni. È proprio vero. Non abbiamo più nemici, non odiamo nessuno, verso nessuno nutriamo invidia e gli altri, buoni come noi, fanno la stessa cosa. Ci amano e hanno trasformato l’invidia in ammirazione diretta. Sì, conosco l’obiezione:” è quello più buono di tutti nel villaggio?” Anche quello, magari avrà un po’ più di difficoltà con l’invidia, ma non eviterà di essere il più buono di tutti. A Natale siamo buoni. Lo ripeto con forza. Anche gli ultrà delle squadre di calcio si abbracciano con quelli della tifoseria nemica. E da una curva all’altra non si lanciano parole di guerra e qualche petardo, ma applausi di amicizia e canti natalizi, appunto. In più, non di aspettano fuori dallo stadio per farsi la guerra. A Natale ritorna l’amore in tutte le famiglie e la fedeltà nelle coppie che l’avevano dimenticata. I telefoni rossi diventano verdi con quel numero, a Natale, bloccato. A Natale i poveri più poveri, quelli dei senza tetto e senza fissa dimora, hanno un abito pulito sul corpo riscaldato da una buona doccia calda, e nella solita mensa all’interno della solita chiesa sono tutti invitati al pranzo di Natale, preparato e donato da mani caritatevoli. Le mani più buone. A Natale sono buoni anche i signori della guerra, quelli che mandano i nostri figli a morire, sempre con la stessa pesante divisa e i più pesanti scarponi, negli inverni freddissimi e nelle estati soffocanti. Ché tanto per morire conta essere giovani con le armi e bambini, donne e vecchi sotto le macerie dei bombardamenti. Il colore della divisa neppure conta, il sangue, il sudore, le lacrime e il fango, le rendono tutte dello stesso unico colore. A Natale, ma solo in quella notte, però, non si fa la guerra. Quella classica, ché le altre si fanno nel mare delle traversate, nelle campagne delle raccolte, nelle fabbriche degli sfruttati, nelle strade degli emarginati, nelle fughe degli abbandoni. E quelle impossibili delle torture e della ingiustizia. Le armi per le munizioni tacciono da sole. È un bene. Ché se si è così buoni a Natale, poi si potrà fare la guerra tutto l’anno. E noi, che siamo stati buoni, a Natale, possiamo guardarla, la guerra, e le a,tre guerre, dalle dirette televisive, tra una cena buona e un film. A noi, tra l’altro, cosa potrebbe importare? La guerra è lontana da qui. E poi mica siamo statisti per poterci fare qualcosa! Anzi, visto che Natale passerà presto, cerchiamo di renderci neutrali rispetto ai nemici che si lottano, ché altrimenti non arriva né grano, né il gas e i prezzi di tutti i prodotti cresceranno enormemente, con gli stipendi e l’occupazione, invece, sempre più bassi. Meno male, allora, che a Natale siamo più buoni. 

Dura solo il giorno Natale. Passerà presto. E tutti torneremo a essere come prima. Quelli di sempre. E di quel pianto di Francesco, il Papa, davanti alla statua dell’Immacolata, a Roma, nel giorno della festa della Madonna, faremo finta di non aver saputo. Ma se molti o anche solo pochi di quei tutti, uomini della Terra, cattolici e persone di altre fedi, credenti e non, laici e agnostici, ci si fermasse solo per un minuto davanti al Presepe e alla nascita del Bambino, pregando o soltanto pensando, per questo mondo che gira all’incontrario della sua perfezione, allora, potremmo fare dell’ Evento o grandioso e dell’Avvento festoso un’occasione stupenda, per quanto forse unica. Probabilmente, l’ultima. 

Quella di concepire e vivere il Natale in modo più autentico e profondo. Viverlo anche come nascita, in ciascun essere umano, dell’uomo nuovo. Un uomo che ritorni bambino. E ci resti per un po’. Quel poco tempo che basterà per cambiare il mondo. E fare la guerra alla guerra. A tutte le guerre, che uccidono la vita e la dignità della persona, dei popoli. E della Libertà, che è vita per la Vita e dignità per le libertà. Il mondo che torni bambino sia il paradiso, qui, popolato di bambini che giocano non l’umanità adulta. In particolare, con i giovani che non avranno più paura di vivere. E con i vecchi, che non avranno più paura di morire. Buon Natale. A tutti. Un Natale finalmente vero, che resti nel cuore. Per tutti i giorni dell’anno che ne prepareranno sempre uno migliore. Anche per le nostre case. E per le nostre singole esistenze. (fci)

LA RIFLESSIONE / Franco Cimino: la tragedia di Catanzaro

di FRANCO CIMINO –ai visto? È successo anche qui una di quelle tragedie che vediamo in televisione”. Le vediamo sempre lontane da noi, però. La televisione, che in questo scritto rappresenta tutti i mass media, anche locali, conserva ancora, rafforzandoli, due poteri apparentemente contrastanti tra loro: portarti dentro la notizia e tenerti lontano dal dolore che essa porta sulle sue spalle. 

Tutto in contemporanea. Anche le due emozioni conseguenti. Pure esse tra loro “oppositive”. La prima è la commozione che trascina in un lago di lacrime aperte, nascoste o trattenute. “Poteva capitare anche a noi. O a me. Ai miei figli. A uno dei miei cari”. Inquietante. Doloroso per il dolore riflesso. La seconda: “per fortuna, non è capitato a me! A noi. Ai miei figli. A uno dei miei cari”. Rassicurante. Da pericolo scampato. Sta in questo gioco antropologico la rapidità con cui consumiamo la nostra emozione per il dolore degli altri. Dieci giorni fa la nostra Città è stata risparmiata dalle conseguenze drammatiche di un terremoto fortissimo. Altrove la stessa magnitudo, 4,7 della scala Richter, ha causato distruzioni materiali e morti a centinaia. 

La tragedia della notte di venerdì ci colpisce in pieno. Come una pugnalata alle spalle. Come un fuoco che accende una notte d’autunno non ancora fredda in quell’appartamento al quinto piano di una palazzina popolare. Quel fuoco che accende la notte e brucia una casa si è portato via la vita di tre ragazzi, due ancora quasi adolescenti. È successo nel ben noto quartiere Pistoia, posto al centro del territorio comunale, a due passi pertanto da ciascun catanzarese. Ma periferia lontanissima da tutti i luoghi che “ centro”non sono. Periferia lontana e abbandonata, che farà sì che questa tragedia immane, la più grave insieme a quella delle Giare nella storia recente di Catanzaro, sia vissuta come quelle tante che ci porta “la televisione”. 

Per essa avremo solo un tempo più lungo per commuoverci e uno assai più breve per dimenticare. Dimenticare specialmente chi è rimasto vivo pur ferito a morte nel corpo e nel cuore. I sopravvissuti al rogo, se gli ospedali di Bari e di Napoli riusciranno a salvarli. 

Nel corpo, almeno, se l’anima implorante non fosse, invece, rimasta lì dentro, accanto a quei ragazzi, i figli che un genitore non abbandonerebbe mai. Si aprirà per loro, che hanno perso tutto in quella casa distrutta, quella gara di solidarietà che ha visto i catanzaresi generosissimi durante lo sbarco sulla nostra costa di quattrocento povericristi spuntati dal mare dei migranti per fame e per guerre diverse? Certamente sì. Più forte anche. 

Come sono certo che il Comune saprà assicurare un’abitazione degna ai tre componenti della famiglia rimasti in vita. Ma poi, riusciremo a mantenere ferma nella nostra memoria per gli anni a venire il dramma di questa notte per poterne ricavare una lezione che ci porti a rendere più sicuro ogni luogo della nostra Città? Riusciremo a non allentare la nostra commozione per il tragico accaduto al fine di poter costruire in ciascuno di noi un sentimento di vera amicizia verso quei due genitori e quella bambina che hanno bisogno dell’ossigeno dell’amore e della comprensione per non dover maledire di essersi solvati non avendo potuto salvare i tre loro ragazzi? Spero tanto di sì. Vorrei dire che vi giurerei, conoscendo l’animo buono dei catanzaresi, ma mi fermo alla speranza dinanzi a questo tempo difficile che, accanto alle tante paure per tutto, ha scatenato affanni e preoccupazioni cogenti per garantire a sé stessi e ai propri figli l’essenziale al vivere. Pochi attimi ancora e, magari, in compagnia, riprenderemo a porci le domande antiche intorno alla forza misteriosa che decide della vita delle persone. “ Ma perché è successo? Perché a loro? Perché tre sono morti e gli altri tre no? E perché quei tre? Perché l’appartamento vicino non è stato incendiato e tutti hanno fatto in tempo a scendere le scale e allontanarsi dal pericolo? Perché in piena notte e non qualche ora prima quando erano tutti svegli e pronti alla reazione? “ Queste e altre domande campeggeranno sulle nostre inquietudini. Siccome non osiamo più coinvolgere Dio, sia che si creda sia che non si creda in Lui, scarichiamo paure e ansie sul destino. E ci acquetiamo. È destino. Punto. A noi non arriverà e se ne avesse intenzione non lo sappiamo noi come non lo sa neanche lui. Già il destino, questa forza misteriosa che si muove sulle nostre vite, senza che ci sia data la possibilità di poterlo conoscere, interpretarlo, così che lo si possa anticipare. Interpellare. Trattare con lui. Sapere se ha qualcosa a che vedere con Dio o con un Assoluto che gli è superiore. Sono domande inquietanti. Fanno tremare i polsi, e perciò ci fermiamo sempre. Oggi dovremmo anche per obbligo del dolore. E, però, se guardiamo a certe tragedie che si ripetono nel tempo, come questa di Pistoia, ai luoghi in cui si verificano, ai modi con cui esplodono, alle fasce sociali che ne vengono colpite, dove arretratezza strutturale, povertà estesa, insicurezza diffusa, sono dominanti, ci viene facile dire che il destino non c’entra nulla. A dover essere interrogata dovrebbe essere la nostra coscienza. Le domande dovremmo porle alla società e alle istituzioni tutte. Una per tutte:” se le case vecchie, indebolite dal tempo e dalla mancanza di puntuali recuperi infrastrutturali, e se chi li abita potesse essere assistito nel proteggerle non possedendo neppure i soldi per comprare il cibo per i figli, queste tragedie piene di morti innocenti potrebbero essere evitate?” La risposta diamocela insieme. E senza piangere lacrime troppo leggere. 

L’OPINIONE / Franco Cimino: La procura di CZ nello storico Palazzo di Piazza Stocco

di FRANCO CIMINO – Cosa fatta, capu ha, questo mi diceva mio padre, me piccolo e molto giovane. Anzi, me lo ripoté fino alla fine dei suoi giorni, me ormai adulto e sposo e padre e prof e tante altre cose di “elevata importanza”. Con questo detto antico egli mi voleva significare che quando un cosa viene fatta, tuo malgrado, devi andare a cercarvi dentro, ché una qualche ragione deve averla. Oppure, una qualsiasi cosa anche se non bella, o dannosa, o brutta, deve trovare nella intelligenza delle persone un motivo che la trasformi nel suo essere stata realizzata già, e in quel modo. Ci sono altri significati, la filosofia popolare ne sforna per lo stesso detto a decine se non a centinaia. Ne riferisco un altro soltanto.

Questo: ma fregatene, lascia correre, non farti u sangu acidu o u ficatu spattu. Lo vedi come va la vita, cumandanu sempre idhri. Arrigetta stu cervedru, spegna stu cavulu e cora, ca sinnò mori poveru e pacciu. Non gli ho mai dato retta su questo. E sono andato avanti con la mia testa adagiata sul cuore, uno battente, l’altra producente. Pensieri tesi e forti. Ma anche inquietudine profonda mista a rabbia e a senso di insopportabile sconfitta. Tuttavia, se in determinate situazioni, specialmente quelle delle battaglie nobili perse( sono quelle dell’onestà dei comportamenti e della purezza delle idee) mi sono fatto il sangue amaro e il fegato rovinato, la soddisfazione per le idee alte sostenute e il coraggio della coerenza delle battaglie per esse, mi ripaga sempre. Mi gratifica alquanto.

Perché quelle idee restano. La tua parola è ferma. Incancellabile. Per questo, e lo ripeto ai trinariciuti, io scrivo tanto. Specialmente, da quando non ho una cattedra e una tribuna o una piazza da cui parlare. Scrivo, per documentare ciò per cui mi batto. Per ricordarlo agli altri, come da mio dovere di uomo politico e di persona impegnata nel sociale. Per memorizzarlo a favore delle mie figlie, per il dovere che un padre ha nei confronti di chi ha contribuito a generare. Per farsi conoscere meglio. Infine, per ricordarlo a me stesso, quando la mia memoria seguirà l’incertezza delle mie gambe pesanti. 

Una delle battaglie che ho sostenuto con ferma convinzione, tra le tante fatte con forza ideale, per tutelare la bellezza della mia Città, è stata quella della difesa e valorizzazione del Convento del 1400, dominante piazza Stocco, meglio noto come ex Ospedale Militare, luogo storico per la Città e romantico per decine di migliaia di giovani calabresi, ora non più tali. Questa battaglia l’ho condotta in due fasi.

La prima, supportando la fatica enorme che Quirino Ledda (il comunista sardo inviato dal PCI a Catanzaro molti anni prima e divenuto con la sua passione e fatica consigliere e vice presidente dell’Assemblea Regionale) ha consumato, e con grande intelligenza, per restituire al Capoulogo, attraverso iniziative legali richieste al Comune, il bellissimo edificio quattrocentesco dopo una lunga contesa con il Demanio che ne rivendicava, erroneamente, la proprietà. Quella battaglia fu vinta. Ed è stata una vittoria bellissima! Poco compresa, purtroppo, dai cittadini e, per ignoranza, scarsamente utilizzata dalla politica locale. La seconda, l’ho iniziata in occasione della mia campagna elettorale per la carica di Sindaco, “evitatami” per soli pochi voti, nel famoso intenso ballottaggio del duemilasei. Nel mio programma vi erano idee e progetti che non ho mai abbandonato avendoli collocati nell’idea di Città che non ho mai dismesso. Al centro di essa vi è il recupero e la valorizzazione della Bellezza, su cui potremmo fare, ma qui non possiamo, un lungo discorso. Uno piccolo di principio, però, sì. Ed è che cultura e bellezza si incontrano nella cura dei luoghi.

Quelli naturali e quelli storici, architettonici, urbanistici. Questo incontro è felice quando la Politica, inserendoli in una visione alta della Città, li riempie di contenuti che a quella visione concorrono. La mia visione è che gli edifici storici debbano essere luoghi della cultura e in essa della tradizione locale, che è storia locale. Sono in sé luoghi della formazione culturale dei giovani, attraverso l’istruzione e gli studi più alti. Sono anche quelli della formazione e dell’aggiornamento e dell’approfondimento della sensibilità culturale dei meno giovani, degli adulti avanzati e degli anziani diversamente collocabili nelle varie età senili. Per l’ex Ospedale Militare, la mia idea (e quella di Ledda, che però vi ipotizzava anche l’Archivio storico comunale) era quella di allocarvi una Facoltà Universitaria importante. In particolare, Giurisprudenza e le scuole specialistiche per le professioni legali, così che la Cittadella della Giustizia avesse un “ornamento” elegante e la Città bella tanti giovani che l’avrebbero vissuta dall’interno del Centro storico, allora più desertificato di adesso.

Tanti studenti in Legge nel Centro Storico, a cui nel tempo si sarebbero aggiunti altri studenti di altre facoltà allocate in altri bellissimi edifici storici ancora disponibili nonostante la svendita di quelli più grandi. L’idea era di realizzare, nella visione di Catanzaro Capoluogo e Città aperta, della Democrazia e della Pace, una Università tra le più qualificate e anche originali d’Europa, attraverso l’articolazione della stessa in due spazi distinti ma vicini e collegati. Una sorta di doppio campus, quello scientifico, da potenziare, a Germaneto, e quello umanistico, con tutte le branche delle Scienze Umane, nel Centro Storico. 

Se nel tempo più urgente fosse risultato difficile, anche per le assurde resistenze dei vertici universitari, collocare all’ex Convento Giurisprudenza, la nostra idea era quella di un Istituto Poliartistico di valenza internazionale. Un Istituto moderno che raccogliesse quel ben di Dio di creatività che va dall’Accademia delle Belle Arti al Liceo Artistico, dal Conservatorio al Liceo Musicale e Coreutico. Che bello sarebbe stato vedere tante ragazze e ragazzi vivere il loro tempo liberato tra una lezione e un’altra e rafforzare sentimenti d’amore o d’amicizia con i libri sottobraccio o gli auricolari in testa, all’interno di quel Chiostro bellissimo. E, perché no? nella chiesetta antica attigua, magari a pregare, o pensare intimo e profondo. Che bello vederli passeggiare, con le borse strapiene sul Corso alla sera, o nelle pizzerie nei bar nei pub nei ristoranti. E nelle trattorie per u Morzeddhu piccante e afrodisiaco. Sentimentale e poetico. Tutto questo non è avvenuto per la storia a tutti nota, che ha visto protagonista assoluto, con la politica incolta distante e acquiescente, il Procuratore Gratteri, che, con la sua intelligenza e la sua personale visione dell’organizzazione della Giurisdizione, ha saputo realizzare in quel palazzo storico, che egli stesso definisce uno dei più belli d’Italia, la sede autonoma della Procura. 

Il dott Gratteri, che è magistrato di grande valore, conosce bene il mio pensiero, quando sin da subito, e ripetutamente in seguito, mi opposi alla sua idea e poi alla ferma volontà manifestata nell’indifferenza generale. La conosce bene. E non perché io possa attirare qualche attenzione e di questo spessore, ma perché fui l’unico, o tra i pochissimi che io ricordi (uno è un politico e avvocato molto importante, che poi si fermò), a opporsi all’idea del Procuratore. Ne spiegai le ragioni pure, gli archivi dei giornali potrebbero riportarla in luce. Lo feci con molta educazione attraverso una lettera pubblica che inizia confidenzialmente con “caro Nicola…”. Gli feci presente che lui, non ancora vissuto pienamente il suo ufficio, e pertanto non conoscitore della Città, nella quale poi non ha abitato, avrebbe dovuto gentilmente considerare che quella sua idea avrebbe inciso sul volto della Città, alterandone la prospettiva futura; che quel progetto per il peso e l’importanza che ha uno degli uffici giudiziari più importanti d’Europa, per il peso notevole e le necessità protettive conseguenti, avrebbe rischiato di ulteriormente dividere, e questa volta al Centro, un territorio già diviso almeno in tre parti, gravemente distanti tra loro. Aggiunsi che quella scelta si sarebbe potuta configurare come scelta politica, che solo a una politica pensosa e non subalterna alla propria ignoranza e insensibilità democratica, spettava fare e nella pienezza della capacità democratica delle istituzioni. Non fui ascoltato e la cosa andò a finire come sappiamo. Per correttezza ed educazione politica non intervenni più sul fatto. Cercai, invece, soprattutto in queste settimane di solenne celebrazione del passaggio del bene tra Comune e Procura, di seguire il detto di mio padre. Vi trovai ragioni sull’opera compiuta e in me l’intelligenza di “ piegarla” alla mia visione di Città, considerata anche la presenza di un Sindaco nuovo e a quella mia idea molto vicino. 

Pensai in questi giorni e intensamente, atteso che io da piazza Stocco, sgombra da auto e da persone, quotidianamente ci passo più volte (Catanzaro me la godo camminandovi sulla sua pelle e danzandovi sul suo cuore), di scrivere al dott Gratteri una lettera di complimenti, congratulazioni, di buon lavoro, sentimenti sinceri che da qui gli confermo. 

La sua videointervista a Catanzaroinforma, nella parte in cui tratta del recupero del Convento, mi ha, però, intristito, portandomi a pensare tanto ancora. Quel suo “bacchettare” la politica, tutta, rimproverare gli intellettuali, tutti (magari ve ne fossero stati e molti sulla posizione del No), l’ho trovata poco gradevole. E poco elegante. Per questo oggi sono intervenuto. Solo per questo, altrimenti mi sarei limitato a tifare perché tutto ciò che venga fatto a Catanzaro frutti al meglio. E nell’interesse esclusivo dei catanzaresi tutti. Anche per la nuova destinazione di Palazzo Alemanni (apprendiamo della Procura Europea), che con pochi altri si era pensato potesse diventare la sede principale del Rettorato dell’Università Magna Graecia della Calabria, felicemente in Catanzaro. (fci)

L’OPINIONE / Franco Cimino: Le tante cose che mi sono piaciute al Consiglio comunale di Catanzaro

di FRANCO CIMINO – Che mi importa se l’ho passata attaccata al video collegamento per la ripresa in diretta dei lavori del Consiglio Comunale! Questa giornata, e quelle che immediatamente la precedono, abitualmente io le dedico alla riorganizzazione della vita più attiva dopo quel sempre più ristretto tempo vacanza che si concentra nel mese d’agosto e affatica alquanto, paradossalmente, e il corpo e la mente. C’erano le dichiarazioni programmatiche del sindaco e la discussione intorno ad esse.

L’atto cioè più significativo (di più importanti ne verrano dopo e molti), dell’intera legislatura. Occorreva capire molte cose, che la campagna elettorale normalmente lascia sotto traccia, quando addirittura non le trova affatto. E, allora, come se mi trovassi all’interno dell’emiciclo politico, nello scranno, che nella memoria rivedo, che ho occupato dal 2006 al 2011 e che felicemente avrei occupato se il voto sulla mia candidatura avesse rispettato le attese mie e le previsioni altrui.

E lì mi inchiodo, per non spostarmi più, dalle nove e trenta del mattino fino alle diciotto e ventidue, ora di chiusura della seduta. Ho fatto bene o male? Ho fatto bene! Ho perso tempo? Nient’affatto! Come cittadino, prima che come politico, se ne avessi avuto la disponibilità non mi sarei perso questo momento “interminabile” e dal respiro unico. Ne avevo oggi, di disponibilità, e l’ho consumata tutta. Ho perso solo l’ultima mia giornata di mare di questa estate bella calda e luminosa. Non importerà a nessuno saperlo, ma lo voglio dire egualmente, io adoro il mare di settembre, che per me inizia a fine agosto, come prediligo le stagioni che finiscono, l’autunno che inizia, la primavera che incomincia. Trovo qui molto del senso della vita e anche del mio personale sentirla, la vita.

Ma torniamo al Consiglio. L’ho atteso con ansia e non per la lunga vigilia di inutili quanto stucchevoli polemiche, alle quali anche chi non doveva ha offerto la stura perché si riscaldassero. No, no, l’ho atteso con l’ansia che sento a ogni nuovo inizio della vita delle istituzioni, il mio luogo preferito. Come quella domenica della mia infanzia quando le mamme ci vestivano con il vestito della festa. Ecco, per me il “ primo” giorno delle istituzioni è un giorno di festa. Come la domenica. Quasi come Natale. Chi dei protagonisti di questo evento non ha messo l’abito più bello e la cravatta nuova, avrebbe fatto meglio a cercare con maggiore attenzione e calma nell’armadio. Battuta a parte, mi aspettavo tanto da questa seduta.

E cosa ho trovato? Cose buone e cose che buone non lo sono state pienamente. Mi soffermerò soltanto sulle buone, che sono state prevalenti agli occhi(!) di quanti nella passata legislatura in quelle nostre due aule hanno visto spettacoli indecorosi. Lascerò per ultimo due battute divergenti. Questa mia odierna riflessione voglio che sia breve e non solo per rispondere ai consigli di qualche amico che mi suggerisce di scrivere meno lungo per poter essere meglio compreso e letto fino in fondo. Il mio personale contributo “programmatico” e le mie osservazioni critiche e sulle linee esposte e sul dibattito da esse emerso, le esporrò in un’altra occasione, essendo piuttosto corpose ma non difficili da elaborare perché le posso attingere dalla mia antica idea di Città, dalla mia rinnovata visione di Catanzaro.

Dirò quindi, quasi che si tratti di uno sguardo estetico sulla Politica, che mi è piaciuta la compostezza dell’intera aula, il portamento e il comportamento dei singoli consiglieri, lo stile anche di ciascuno di loro accompagnato da quella buona educazione che è mancata per molto tempo. E ciò nonostante il brutto vizio di alcuni che si allontanano per lungo tempo dall’aula. Specialmente, di coloro i quali lo fanno dopo aver svolto il proprio intervento. Confido, però, che il buon presidente dell’Assemblea anche su questo aspetto saprà intervenire. Mi è piaciuto constatare che tutti gli interventi, quale più robusto e quale meno o scarno di contenuti, siano stati preparati e dopo l’attenta lettura della relazione che il sindaco, che, rispettando la norma, ha fatto bene a consegnare due giorni prima della seduta. È stato un bel gesto. Anche questo educato. Favorevole al rispetto dell’Istituzione e alla crescita della vitalità democratica della stessa.

Mi è piaciuta la relazione del sindaco, l’emozione distesa sulle lunghe interminabili prime pagine, il modo di esporla, esplicativo del fatto che l’avesse scritta tutta lui. Mi è piaciuta la sua visione di Catanzaro e l’idea di Città e la sincerità con cui ha ribadito che molte di quelle idee( la grande Città e la legge per Catanzaro Capoluogo e altre ancora, come quelle sul Centro storico e l’Università, da molto tempo preesistessero alla sue due candidature). Su molti di quei passaggi e sulla stessa idea dell’ideale realtà urbana, chi mi conosce e mi ha seguito anche nelle ultime mie comunicazioni elettorali, troverà miei pensieri e sentimenti, del qualcosa mi compiaccio molto. Gratificandomi molto nelle mie fatiche spese in questa ultima battaglia collettiva, ben guidata da Nicola.

Ma egualmente troverebbe delle diverse impostazioni e anche percorsi diversi programmatici, che non dovrà attendere molto perché io le possa ripetere. Ma questo Sindaco mi è piaciuto. È arrivato in forma. E come me l’aspettavo. Non è stato arrogante e non presuntuoso. Certamente non in quella finta dimessa umiltà di altri, ma ben contenuto nella modestia del suo comportamento. Ha parlato da sindaco rappresentando di sé stesso una buona personalità di ruolo, cosa non facile che maturi in così poco tempo. L’ho detto in campagna elettorale, spendendomi pienamente per la causa, che era comune, che Nicola sarebbe stato il sindaco che la Città attendeva da tempo. Mi è piaciuto trovarlo lì. È stato bravo anche nella replica. Forte, misurata, incisiva anche nell’ironia che ha usato verso i suoi più agguerriti avversari. Come mi è piaciuto il confronto ravvicinato che ha voluto avviare con Valerio Donato, alla cui aperta disponibilità iniziale ha saputo rispondere. Mi è piaciuto, pertanto, Valerio Donato.

Per lo stile, la finezza del discorso, l’eleganza dell’argomentare, anche polemico, le sue “ lezioni” pocket di diritto amministrativo ed altro ancora. Certo che avrebbe potuto e dovuto dire molto di più, mancando, invece, cosi della visione d’insieme e di progettualità compiuta. È stata colpa dei dieci assurdi minuti decisi dalla conferenza dei capigruppo, che gliel’hanno impedito ne sono certo. Anche se la libertà di tempo concessa successivamente ha fatto rimpiangere che i minuti non fossero stabiliti anche sotto i dieci, per alcuni interventi. Sono certo che Dinato nel prossimo futuro saprà presentarle.

Mi è piaciuto il senso di responsabilità vestito del rispetto istituzionale, che ha mostrato anche oggi. Non ne avrei mai dubito. Tutto ciò è anche merito del ballottaggio. Chi vi arriva, lo dico sempre, per quindici giorni indossa idealmente la fascia di sindaco. La fascia che gli resterà attaccato per sempre sul petto. Come una medaglia al valore civile. Per questa ragione mi piacerebbe che Antonello Talerico, anche se al ballottaggio non vi è arrivato, rafforzi in aula, sulla base di una energia ben nutrita culturalmente e politicamente e per le capacità politiche di cui dispone, quel sentimento di sindaco che ha ben mostrato in campagna elettorale, ed eviti di farsi trascinare in polemiche che non si addicono neppure alla qualità della persona e della professione. Mi sono piaciuti, pur non condividendoli molto, in tutto, o taluni per nulla, gli interventi svolti in aula. Tutti, dal primo all’ultimo. Le osservazioni “critiche”, che mi ero proposto di fare in conclusione qui, stasera. Le uniche. Per questa scrittura. Eccole.

Da sindaco avrei evitato, in questo inizio, una polemica frontale con Lamezia, soprattutto sulla questione della denominazione dell’aeroporto. Con la Città della Piana, e con quell’intero territorio, occorre da subito riaprire dialogo nuovo, rispetto a quello interrotto anche dalla nostra incapacità politica di capire il ruolo del capoluogo di regione e la straordinaria funzione di cerniera che l’area Catanzaro-Lamezia, su cui dovrà nascere un nuovo modello di sviluppo economico, rappresenta per il progetto antico di unificazione territoriale, culturale, economico e politico della Calabria. Un progetto senza il quale le singole povertà territoriali accentueranno la povertà dei singoli calabresi e quella complessiva della nostra amara amata terra. La seconda osservazione critica è rivolta a quanti hanno osservato criticamente che la relazione fosse piana di belle parole.

Qui ha detto bene il sindaco e mi ripeto per come l’ho pensato durante la discussione. Ma di cosa dovrebbe comporsi una relazione quadro che allunga il suo sguardo nei cinque anni a venire, e anche oltre? Di idee. E da dove nascono le idee se non dagli ideali? E che cosa sono gli ideali se non i primi sogni di chi fa politica e poi va a governare? E dopo aver sognato, tradotto in idee i sogni e in progettualità gli ideali, con che cosa se non con le parole potrebbe essere espresso tutto questo ben di Dio.

Per fortuna questo sindaco oltre alle idee ha pure le parole. Buone. Colte. Quasi romantiche alcune. Aver studiato e letto e scritto nella vita, è un vantaggio anche per chi lo ascolterà in futuro. Il buono ascolto. La buona lettura. Fanno sempre bene. Alla vista. All’udito. Al cuore. Sarà ancora più bello se queste parole e questo libro di sogni si trasformeranno in fatti. Sarà, però, ancora più incisivo e persuasivo l’atteggiamento politico di quanti duramente reagiranno ogniqualvolta una sola di quelle parole sarà contraddetta, cancellata, ingannata. Lo dice la Democrazia, questo. Che è la parola più bella che si possa far rivivere in un’aula del parlamento. Ché il Consiglio Comunale è anche Parlamento. (fc)

IDEE / Del mio dolore, dei ragazzi, della scuola, e della guerra che fa schifo

di FRANCO CIMINO – Sono alla tastiera per il mio solito appuntamento con la scrittura. Fermo, però. Le dita ancora non partono. Non si muove neppure il pensiero. E dire che io scrivo talmente tanto che ormai mi stanco prima di scrivere. Di più, mi affatica il pensare, la cosa più agevole che vi sia. La più leggera, di peso. La meno impegnativa, per qualità, per il suo modo di volare alto e di scendere piano, senza farti pagare nulla. Neppure la responsabilità di rappresentarlo. Pensare è la resistenza della libertà nell’uomo. La forza insopprimibile che lo lascia libero anche dentro le più dure prigioni. E che lo salva, quando si raccoglie nelle allucinazioni, dalla follia. Scrivere, poi, è la “liberazione” della libertà. Una cosa talmente bella e purificatrice che del dovere-piacere di farlo assillo i miei ragazzi. Ai quali non mi stanco mai di dire:”se, come è vero, leggere migliora la qualità della vita, scrivere la salva”. Scrivere di tutto di sé e del sé, quale sentire, si tiene dentro. Il sentire che ammutiamo. Il sentirsi che assordiamo. E quell’io profondo che continua a essere lo sconosciuto con cui camminiamo a fianco tutta la vita, salvo poi, per non molti accorgersene quando, però, ormai è troppo tardi. Quell’io, per nulla nascosto, che ci bussa in petto e scambiamo (tutti lo scambiamo) per rumore. 

“Scrivete ragazzi, scrivete! Scrivete poesie!” Questo, prima di iniziare il programma delle diverse discipline che mi sono state assegnate. Specialmente, nelle classi prime. E, poi, ancora: “ragazzi miei scrivete un pensiero ‘filosofico’. Dai su, scrivetelo!” E loro inizialmente a resistere. Dapprima con il silenzio sbarrato, quindi con le frasi tipiche:” ma prof che dice, poesia, filosofia, ma qui siamo per studiarle, non per farle!” E quel loro sguardo, i nuovi, verso quel prof pazzo, che sfortunatamente gli é stato assegnato (è proprio a loro, poverini!). E gli altri ragazzi e ragazze, avanzati di corso, i miei vecchi studenti, diciamo, a pensare ciclicamente: “vuoi vedere che in estate il prof non sia uscito di testa o che non abbia preso a bere di primo mattino?” Infine, tutti a cedere generosamente dopo la risposta alla due domande. La prima: “ma come si scrive una poesia, prof?” La seconda:” come si pensa in “filosofico”?( estremizzazione mia personale del loro concetto). La mia risposta è sempre stata quella più incoraggiante, anche se la meno competente. Questa: “per scrivere una ‘poesia’, che sia la tua senza che della poesia ne abbia la pretesa, devi aspettare che il cuore batta. E forte. Tanto forte di emozione che sarà esso stesso a importi di scrivere.” Per la filosofia: “lasciare che, nel pieno silenzio, il pensiero si involi fino a quel punto del cielo in cui l’uomo sin dal suo nascere pensante, ha attaccato le domande a cui ha paura di rispondere. Anzi, ha paura di porsi. Sono le stesse tue, le mie, e quelle di tutti, che nascondiamo sotto il cuscino, esorcizziamo con i sogni, contrastiamo nel bagno della nostra preparazione mattutina, magari gettandovi sopra qualche canzone stonata a squarciagola o aspettando che la mamma ci bussi forte alla porta per denunciare il ritardo   della nostra uscita”. E aggiungo ciò che sostengo da sempre. Soprattutto, ora. “Noi siamo tutti poeti e filosofi e, perché no ?anche psicologi. Come il corpo è fatta per i tre quarti d’acqua, il resto di noi è composto di pensiero e sentimenti, di emozioni e sensazioni. La poesia è in noi, la poesia siamo noi. E così nel pensare è l’uomo che si eleva dalla finitezza della materia che lo copre”. 

Vabbè, l’ho fatta lunga anche questa volta. Lunga e noiosa, con una ridondanza che forse rappresenta lo sterile tentativo di coprire la mia difficoltà di scrivere oggi qualsiasi cosa. Eppure, il cuore mi batte fortissimo che quasi non riesco a trattenerlo in petto. E la mente a stento riesce a contenere questa forza inarrestabile che le si muove con più intensità dentro. Inquieta, nervosa, spaventata, si muove. Pensoso delle gravi difficoltà della Città, vieppiù gravata dalle pesanti sofferenze da Covid, preoccupato per lo stato in cui versa la politica, qui da noi, arrabbiato per il modo in cui forze politiche di destra centro e sinistra e i numerosi sedicenti possessori di pacchetti di voti, stanno trattando le imminenti scadenze elettorali e con una disinvoltura “privatistica” che neppure nei condomini si registra più, avrei voluto parlare delle cose nostre. Sì, di Catanzaro. E a Catanzaro. Alla Città prima che ai cittadini. Avrei voluto avvertirla dei pericoli che corre in questo nuovo abbandono della politica. In questo completo abbandonarsi della politica alle beghe dei piccoli giochi di potere, tutti indifferenti alla umanità che soffre dentro il corpo ferito del sempre più incerto capoluogo. Avrei voluto dirle di me e dei miei propositi per poterla aiutare ancora. E più fortemente. E per poterla sostenere secondo i suoi bisogni e i miei sogni per lei. Lo farò domani. 

La mia penna è andata dove più oggi batte il cuore. All’Ucraina, che da due giorni tiene anche me attaccato al televisore. Le immagini che arrivano dalle dirette televisive, solo interrotte, e disturbate dal parolaio dei numerosi esperti nei salotti “antagonisti”, sono dure. Devastanti. Sono anch’io con il fiato sospeso dinanzi alla paura che si compia la minaccia della Russia di dare l’assalto finale alla popolosa Città di Kiev, con le migliaia di morti che copriranno di corpi e di sangue le strade della capitale. Impressiona il coraggio del giovane presidente della Ucraina, cui le truppe russe danno la caccia per toglierlo di mezzo nell’avanzata dell’esercito invasore. Commuove la sua rinuncia alla salvezza per lui e la sua famiglia, che gli USA gli hanno offerto con una operazione al bisturi, che lo vedrebbe prelevare per portarlo in Inghilterra o negli stessi States. Commuove la resistenza in armi degli uomini e delle donne che sono rimasti in quella terra per difendere, con il proprio stesso corpo, la patria aggredita. Commuove, fino alle lacrime, quel pellegrinaggio verso la salvezza di centinaia di migliaia di famiglie e persone che tentano di fuggire dalla guerra per poter mettere in salvo i vecchi e i bambini. E commuovono assai di più proprio loro, i bambini. La guerra, lo ripeterò fino alla noia, è sempre un delitto contro l’umanità. E non c’è ragione mai che la giustifichi in chiunque la porti, specialmente nei confronti dei deboli e dei popoli che vogliono essere liberi. La guerra fa schifo. E dobbiamo dirlo anche a quanti, con sottigliezze incomprensibili, di tipo ideologico, mettono sullo stesso piano aggressori e aggrediti. La guerra non si combatte con le ragioni della guerra. Ma con quelle della Pace, e non perché essa sia la sua faccia opposta. Come per il bene, il male e per la bellezza il brutto, la Pace è un valore assoluto che annulla a priori tutti gli elementi negativi. Il mio pensiero particolare oggi è ai bambini ucraini, a quelli che sono costretti a fuggire, ai tanti che sono già morti e il cui numero non sapremo mai. Ai loro genitori che ne piangono il distacco. Ai loro padri che rischiano la vita per difendere il loro paese. Il mio pensiero va alle donne ucraine, e a quelle polacche e bielorusse, che con eguali sentimenti, vivono nella nostra Città una sofferenza indicibile. È per tutte loro che chiedo il nostro massimo impegno, quello del Comune in particolare, la massima vicinanza, materiale e morale, per sostenerle pienamente. Adesso che, finalmente, Catanzaro potrà vederle e riconoscerle oltre le pareti di quelle abitazioni nelle quali svolgono un lavoro indispensabile per la buona tranquillità delle nostre vite. E per tornare ai nostri ragazzi delle scuole, domani, lunedì, gli si dica loro:” dai su, scrivete una poesia!” Quanto dolore vero e quanto amore leggeremmo! Un primo passo verso la Pace. Da qui. (fci)

Il racconto di Franco Cimino: Ma’, quando vena Natala?

di FRANCO CIMINO – È arrivato!» È arrivato chi? «È arrivato Natale». Ma come, non c’è già stato ieri-un anno fa? «No, non c’è stato ieri-un anno fa e forse neppure l’altro ieri-due anni fa. Ovvero, se è arrivato o lui non si è fatto vedere o noi non l’abbiamo visto. Perché se Natale, il Natale, da qualche parte fosse venuto noi non saremmo così. Dolenti, tristi, arrabbiati, guerreggianti e bellicosi, solitari e divisi. Quando Natale veniva, mille anni fa, durava più di un mese, quelli dei giorni della sua attesa. E poi anche dopo, per tanti altri giorni ancora, fino a sentire il Capodanno come un’appendice, un riflesso, una mera proiezione del Natale. Era quella un’attesa, che pure passava presto, che ci trovava tutti bambini e agli uomini di qualsiasi età infondeva quello spirito fanciullo che durava per molti mesi. Quella fanciullezza di fatto trasformava il dolore e la morte in una nuova attesa. L’attesa di un tempo nuovo, ancor prima che i credenti sentissero il mistero della Nascita e in esso credessero fino in fondo. Quella fanciullezza del Natale permeava i cuori di tutti, credenti e non credenti, tanto bello e pieno di sentimenti e significati Natale era. Utilizzo volutamente il nome di persona perché Natale è persona, è amore, è spirito divino che diviene. È bellezza che di sé tutto informa e di se stessa lascia la forma. È ragione che si arrende alla sua bontà e alla sua natura ottimistica del cammino umano. Siamo tutti diventati migliori col Natale. 

Con quello spirito abbiamo lottato contro l’odio, l’inimicizia, la prepotenza, l’egoismo, l’intolleranza, l’arroganza. L’invidia. E anche contro la violenza che si fa potere e il potere che si fa violenza. Abbiamo lottato contro le guerre e le ingiustizie e contro la sopraffazione della libertà e in essa delle libertà e dei diritti umani. È vero che non ci siamo riusciti fino in fondo se in giro per il mondo, per l’Europa, per l’Italia, per le nostre piccole comunità, tracce di tutti quei disvalori ve ne sono state e ve ne sono ancora, ma piccoli passi in avanti verso quella civiltà cristiana(vogliamo chiamarla ancora così a dispetto di una certa Europa falsamente laica e falsamente democratica)li abbiamo fatti. E li abbiamo fatti con quella coscienza tesa che ha sempre comportato una sorta di dovere di riflessione sulle cose umane. E anche addirittura sul dovere che gli uomini devono compiere per realizzare il bene e sulla responsabilità che essi hanno dinanzi al male che si muove nella società. 

Una riflessione, quella passata, che magari si è mossa come il gambero – un po’ avanti, un po’ indietro – che si è coperta talvolta di ipocrisia. E, però, ci si interrogava. In qualche modo un poco ci cambiava. E c’era anche chi pregava, in quel Natale lì. E c’era anche chi pensava. Tanta gente si incontrava perché Natale era l’incontro. Delle famiglie, degli amici, tra persone, tra comunità. Natale era avere uno sguardo per l’altro. L’interesse per l’altro. Un gesto per gli altri. Per chi stesse male. Per chi stesse peggio di noi. Per gli sfortunati, gli abbandonati. Gli affamati di tutto. Gli assetati dell’acqua e del sapere. Assetati e affamati della parola. Ipocrisia o no, tanta o poca falsità, che fosse la ciclica recitazione sul palcoscenico dell’autopurificazione o no, della cancellazione dei sensi di colpa o no, della facile autoassoluzione o no, che durasse, pietismo d’accatto o egoismo caritatevole compresi, poco più che quel tempo del Natale, poco importa. Davvero assai poco importa. Qualcosa di noi c’era. Quella fanciullezza c’era. Quei gesti c’erano.  

E di più quell’interrogarsi che un poco ci inquietava. E c’era più che Babbo Natale, che portava i doni, Gesù Bambino che ci sorrideva. E il padre. C’era questa figura bella e completa, autorità che formava, forza che rassicurava, cattedra che trasmetteva regole e valori. Compreso il valore indissolubile del rispetto delle istituzioni. A partire da quelle politiche e della scuola. Per la fede, la sua cura, che però si era liberi di accettare o di praticare, per i sentimenti e la delicatezza quasi fragile dinnanzi a essi, vi era la madre, che di quel Natale era protagonista. La più importante, forse, come la Madonna nella mangiatoia. 

E adesso? Che Natale è adesso? È un Natale di fragilità e di paura. Di insicurezza. 

È un Natale di ogni fede sospesa. Anche quella laica verso la Ragione e la Politica. È un Natale di sfiducia. Verso l’uomo e quindi verso se stessi. Sfiducia verso le istituzioni e gli uomini in generale e verso quelli che le istituzioni rappresentano. Sfiducia e paura che scarichiamo non più solo sullo “straniero”, il nemico, che ci ruba pane e donne, le cose e il lavoro, ma verso i prossimi a noi, le persone che appartengono alla nostra società. Gli Stati nazionali contro gli altri Stati, in ragione di un nazionalismo che viene difeso chiudendo la braccia della solidarietà e i confini su cui elevare muri altissimi e pareti di filo spinato ancora più invalicabili. Le singole persone contro altre persone. Si dice, all’incontrario di quel che si diceva quando chiusi nelle case ci affacciavano alla vita solo dai balconi, che non siamo diventati migliori con la pandemia. 

Che siamo diventati insensibili difronte al dolore altrui, addirittura indifferenti dinanzi alla morte. Quelle immagini delle sale di rianimazione in cui esseri umani per settimane stanno intubati e addormentati con la pancia in giù, non ci procurano più neppure un’emozione, che fosse anche la paura di trovarci noi in quel posto. 

Il virus maledetto non ci fa paura, addormentati come siamo nelle verbosa disputa che riempie i palinsesti di tutte le reti televisive tra no vax e sì vax, tra i no pass e i sì pass. È andato smarrito quello spirito di solidarietà che animava i popoli della cultura cristiana. 

La cultura del rispetto verso gli anziani si è dissolta in quella preoccupazione, ritenuta eccessivamente costosa, di proteggere socialmente e sanitariamente i nostri vecchi dall’assalto del virus. L’economia prima della vita, il consenso elettorale prima del sentimento. La prepotenza dei più forti prima della ragione. L’istinto prima della politica. I governi stessi, non solo quello italiano, tergiversano nel prendere provvedimenti che più rigorosi saranno assunti a giorni, per non sottrarre al Natale odierno la spinta ai consumi, perché questa aiuta l’economia e salva le aziende e l’occupazione, dicono. Il ricatto del pane sul valore della vita, costringe i cittadini consumatori a scindersi per mantenersi solo consumatori. 

E così nel timore di nuove rovine ci siamo tutti catapultati nelle strade per affollar negozi e luoghi della ristorazione. Un vaccino in più e tre mascherine al giorno, per sentire addosso il profumo di una libertà, che oggi è fittizia e insincera. Illusoria di un diritto ormai sfumato. Sfocato se visto da lontano con gli occhi malati. Si dice che è tutta colpa del Covid, che una volta sconfitto ci riporterà allo stato di bontà pura, come se in questi ultimi vent’anni siamo stati e buoni e belli e giusti. 

No, eravamo così già da prima. Da quando abbiamo perso il senso del Natale. Il Covid, la cui lezione non abbiamo appreso affatto, ha solo tolto il velo a una società che ha smarrito i valori di fondo su cui si è costituita. La nostra, nata dalla fusione del pensiero risorgimentale con le idealità antifasciste, ha trovato come collante sicuro, unitamente alla visione laica dello Stato e all’umanesimo socialista, quella cultura cristiana, che ha cambiato il mondo, rinnovando l’uomo. 

Che Natale, allora, può essere questo? Come il tempo umano, anch’esso si trova davanti a un bivio. Sempre quello, tra l’altro, davanti al quale si trova l’uomo. Specialmente, oggi. Questo Natale può essere l’ultimo. Quello del Natale che uccide Natale. Ovvero, il primo. Quello che dalla sua anima antica rinasce tale e quale come l’ha voluto Francesco d’Assisi nel lontano 1223 quando ha “ inventato” il presepe. È il Natale della Vita. E della povertà condivisa, contrastata, abbattuta, attraverso l’affermazione dell’eguaglianza e della giustizia, questa intesa come guardiana della Libertà. 

Un Natale che trasforma la povertà in ricchezza per tutti, e i doni al divin Bambino in beni per tutti. Beni in cui il pane, di farina e di spiritualità, sia alimento per l’uomo integrale, e la scienza sia strumento anche della coscienza individuale e collettiva, affinché inondi la Politica di luce nuova e il cammino dell’umanità di un passo al contempo veloce e lento. Veloce per camminare al passo coi tempi e con la tecnica. Lento, per non lasciare indietro chi non può correre e i valori di un tempo in cui Natale era davvero il Natale. La scelta davanti a quel bivio è facile. Io ci credo. Arriverà presto. E sarà bellissimo, Natale. (fci)

Il racconto di Franco Cimino: «Ma quando vena Natala?»

di FRANCO CIMINO – “È arrivato!” È arrivato chi? “È arrivato Natale”. Ma come, non c’è già stato ieri -un anno fa? “No, non c’è stato ieri-un anno fa e forse neppure l’altro ieri-due anni fa. Ovvero, se è arrivato o lui non si è fatto vedere o noi non l’abbiamo visto. Perché se Natale, il Natale, da qualche parte fosse venuto noi non saremmo così. Dolenti, tristi, arrabbiati, guerreggianti e bellicosi, solitari e divisi.

Quando Natale veniva, mille anni fa, durava più di un mese, quelli dei giorni della sua attesa. E poi anche dopo, per tanti altri giorni ancora, fino a sentire il Capodanno come un’appendice, un riflesso, una mera proiezione del Natale. Era quella un’attesa, che pure passava presto, che ci trovava tutti bambini e agli uomini di qualsiasi età infondeva quello spirito fanciullo che durava per molti mesi. Quella fanciullezza di fatto trasformava il dolore e la morte in una nuova attesa. L’attesa di un tempo nuovo, ancor prima che i credenti sentissero il mistero della Nascita e in esso credessero fino in fondo. Quella fanciullezza del Natale permeava i cuori di tutti, credenti e non credenti, tanto bello e pieno di sentimenti e significati Natale era.

Utilizzo volutamente il nome di persona perché Natale è persona, è amore, è spirito divino che diviene. È bellezza che di sé tutto informa e di se stessa lascia la forma. È ragione che si arrende alla sua bontà e alla sua natura ottimistica del cammino umano. Siamo tutti diventati migliori col Natale. Con quello spirito abbiamo lottato contro l’odio, l’inimicizia, la prepotenza, l’egoismo, l’intolleranza, l’arroganza. L’invidia. E anche contro la violenza che si fa potere e il potere che si fa violenza. Abbiamo lottato contro le guerre e le ingiustizie e contro la sopraffazione della libertà e in essa delle libertà e dei diritti umani. È vero che non ci siamo riusciti fino in fondo se in giro per il mondo, per l’Europa, per l’Italia, per le nostre piccole comunità, tracce di tutti quei disvalori ve ne sono state e ve ne sono ancora, ma piccoli passi in avanti verso quella civiltà cristiana(vogliamo chiamarla ancora così a dispetto di una certa Europa falsamente laica e falsamente democratica)li abbiamo fatti. E li abbiamo fatti con quella coscienza tesa che ha sempre comportato una sorta di dovere di riflessione sulle cose umane. E anche addirittura sul dovere che gli uomini devono compiere per realizzare il bene e sulla responsabilità che essi hanno dinanzi al male che si muove nella società.

Una riflessione, quella passata, che magari si è mossa come il gambero- un po’ avanti, un po’ indietro- che si è coperta talvolta di ipocrisia. E, pero, ci si interrogava. In qualche modo un poco ci cambiava. E c’era anche chi pregava, in quel Natale lì. E c’era anche chi pensava. Tanta gente si incontrava perché Natale era l’incontro. Delle famiglie, degli amici, tra persone, tra comunità. Natale era avere uno sguardo per l’altro. L’interesse per l’altro. Un gesto per gli altri. Per chi stesse male. Per chi stesse peggio di noi. Per gli sfortunati, gli abbandonati. Gli affamati di tutto. Gli assetati dell’acqua e del sapere. Assetati e affamati della parola. Ipocrisia o no, tanta o poca falsità, che fosse la ciclica recitazione sul palcoscenico dell’autopurificazione o no, della cancellazione dei sensi di colpa o no, della facile autoassoluzione o no, che durasse, pietismo d’accatto o egoismo caritatevole compresi, poco più che quel tempo rel Natale, poco importa. Davvero assai poco importa. Qualcosa di noi c’era. Quella fanciullezza c’era. Quei gesti c’erano. E di più quell’interrogarsi che un poco ci inquietava. E c’era più che Babbo Natale, che portava i doni, Gesù Bambino che ci sorrideva. E il padre. C’era questa figura bella e completa, autorità che formava, forza che rassicurava, cattedra che trasmetteva regole e valori. Compreso il valore indissolubile del rispetto delle istituzioni. A partire da quelle politiche e della scuola. Per la fede, la sua cura, che però si era liberi di accettare o di praticare, per i sentimenti e la delicatezza quasi fragile dinnanzi a essi, vi era la madre, che di quel Natale era protagonista. La più importante, forse, come la Madonna nella mangiatoia.

E adesso? Che Natale è adesso? È un Natale di fragilità e di paura. Di insicurezza . È un Natale di ogni fede sospesa. Anche quella laica verso la Ragione e la Politica. È un Natale di sfiducia. Verso l’uomo e quindi verso se stessi. Sfiducia verso le istituzioni e gli uomini in generale e verso quelli che le istituzioni rappresentano. Sfiducia e paura che scarichiamo non più solo sullo “straniero”, il nemico, che ci ruba pane e donne, le cose e il lavoro, ma verso i prossimi a noi, le persone che appartengono alla nostra società. Gli stati nazionali contro gli altri stati, in ragione di un nazionalismo che viene difeso chiudendo la braccia della solidarietà e i confini su cui elevare muri altissimi e pareti di filo spinato ancora più invalicabili. Le singole persone contro altre persone. Si dice, all’incontrario di quel che si diceva quando chiusi nelle case ci affacciavano alla vita solo dai balconi, che non siamo diventati migliori con la pandemia. Che siamo diventati insensibili difronte al dolore altrui, addirittura indifferenti dinanzi alla morte.

Quelle immagini delle sale di rianimazione in cui esseri umani per settimane stanno intubati e addormentati con la pancia in giù, non ci procurano più neppure un’emozione, che fosse anche la paura di trovarci noi in quel posto. Il virus maledetto non ci fa paura, addormentati come siamo nelle verbosa disputa che riempie i palinsesti di tutte le reti televisive tra no vax e sì vax, tra i no pass e i sì pass. È andato smarrito quello spirito di solidarietà che animava i popoli della cultura cristiana. La cultura del rispetto verso gli anziani si è dissolta in quella preoccupazione, ritenuta eccessivamente costosa, di proteggere socialmente e sanitariamente i nostri vecchi dall’assalto del virus. L’economia prima della vita, il consenso elettorale prima del sentimento. La prepotenza dei più forti prima della ragione. L’istinto prima della politica. I governi stessi, non solo quello italiano, tergiversano nel prendere provvedimenti che più rigorosi saranno assunti a giorni, per non sottrarre al Natale odierno la spinta ai consumi, perché questa aiuta l’economia e salva le aziende e l’occupazione, dicono.

Il ricatto del pane sul valore della vita, costringe i cittadini consumatori a scindersi per mantenersi solo consumatori. È così nel timore di nuove rovine ci siamo tutti catapultati nelle strade per affollar negozi e luoghi della ristorazione. Un vaccino in più e tre mascherine al giorno, per sentire addosso il profumo di una libertà, che oggi è fittizia e insincera. Illusoria di un diritto ormai sfumato. Sfocato se visto da lontano con gli occhi malati. Si dice che è tutta colpa del Covid, che una volta sconfitto ci riporterà allo stato di bontà pura, come se in questi ultimi vent’anni siamo stati e buoni e belli e giusti. No, eravamo così già da prima. Da quando abbiamo perso il senso del Natale. Il Covid, la cui lezione non abbiamo appreso affatto, ha solo tolto il velo a una società che ha smarrito i valori di fondo su cui si è costituita. La nostra, nata dalla fusione del pensiero risorgimentale con le idealità antifasciste, ha trovato come collante sicuro, unitamente alla visione laica dello Stato e all’umanesimo socialista, quella cultura cristiana, che ha cambiato il mondo, rinnovando l’uomo. Che Natale, allora, può essere questo? Come il tempo umano, anch’esso si trova davanti a un bivio. Sempre quello, tra l’altro, davanti al quale si trova l’uomo.

Specialmente, oggi. Questo Natale può essere l’ultimo. Quello del Natale che uccide Natale. Ovvero, il primo. Quello che dalla sua anima antica rinasce tale e quale come l’ha voluto Francesco d’Assisi nel lontano 1223 quando ha “ inventato” il presepe. È il Natale della Vita. E della povertà condivisa, contrastata, abbattuta, attraverso l’affermazione dell’eguaglianza e della giustizia, questa intesa come guardiana della Libertà. Un Natale che trasforma la povertà in ricchezza per tutti, e i doni al divin Bambino in beni per tutti. Beni in cui il pane, di farina e di spiritualità, sia alimento per l’uomo integrale, e la scienza sia strumento anche della coscienza individuale e collettiva, affinché inondi la Politica di luce nuova e il cammino dell’umanità di un passo al contempo veloce e lento. Veloce per camminare al passo coi tempi e con la tecnica. Lento, per non lasciare indietro chi non può correre e i valori di un tempo in cui Natale era davvero il Natale. La scelta davanti a quel bivio è facile. Io ci credo. Arriverà presto. E sarà bellissimo, Natale. (fc)

L’addio alla cattedra di Franco Cimino, un prof speciale da tenere d’occhio

Il prof. Franco Cimino, docente di Filosofia e Scienze Umane al Liceo Fermi di Catanzaro Lido è un docente speciale, di quelli che non smettono mai di insegnare, meno che meno davanti all’arrivo della pensione. Così, per l’ultima lezione, prima della quiescenza, ha voluto concludere la sua carriera, oltremodo brillante,  – su proposta della dirigente scolastica Rita Agosto – all’Auditorium Scopelliti della scuola dove ha insegnato per tanti anni. Una sede prestigiosa per un pubblico più ampio delle sue abituali classi: sono accorsi in tanti ad ascoltarlo e ad apprezzarlo, come sempre. Tra gli ospiti, l’arcivescovo di Catanzaro mons. Vincenzo Bartolone e l’arcivescovo emerito Antonio Cantisani.

Il suo messaggio ai giovani è pieno di speranza: «Sognate alto e se qualcuno vi dice che perdete tempo non credetegli. Il sogno è la tavola d’argento su cui si scrive l’utopia. La felicità esiste, cercatela, non arrendetevi!». Bellissima e intensa la sua “ultima” (ma solo per l’istituto) lezione: «La scuola, davanti a questa società rappresentativa di un mondo rovesciato, debba insegnare l’amore come terra di orientamento di tutta la sua attività. Essa è una forza che si libera, libera le persone dall’egoismo, dalla vanità, dal possesso delle cose e dalle loro prigioni, ossia l’ignoranza, la cattiveria, gli inganni generali. Si muove verso la bellezza senza limiti di spazio e di tempo, dando contenuto e motore alle parole che si dicono».

Franco Cimino
Il prof. Franco Cimino circondato dai suoi libri

Il prof. Cimino, visibilmente emozionato, ha detto grazie ai suoi studenti con le parole alle quali li ha abituati. «Ragazzi miei e ragazze mie – ha detto il prof. Cimino – che rappresentate oggi tutti gli alunni che ho avuto l’onore di incontrare in quarantacinque anni di attività, io vi ho amato tutti, uno per uno, allo stesso modo. Grazie per quello che mi avete donato, per quello che mi avete insegnato. Se sono riuscito ad essere un buon professore è solo merito vostro. Si è davvero professori quando insegnando si impara. E se sono stato un buon padre per Francesca e Ludovica lo devo anche a voi. Sono stato un uomo fortunato, dalla vita e dall’amore ho avuto due figlie bellissime, e dalla vita e per amore ho avuto il dono di stare con voi, i ragazzi e le ragazze più belli del mondo. Quanta bellezza nei vostri occhi. In essi c’è il mare, celesti o grigi, a secondo di come state in quel momento. In essi ho visto il cielo con il sole, la luna o le stelle, ma l’ho visto anche con il temporale perché dentro di voi c’era il dolore. Ho visto il vento muovere capelli e pensieri belli. Ho visto gli occhi di mia madre e la sensazione di mio padre e di chi non c’è più. Ho ritrovato gli occhi miei da ragazzo che hanno pianto di dolore, di nostalgia, ma anche per la bellezza goduta. Ho visto le vette più alte delle montagne con i vostri sogni e la vostra voglia di volare. Oggi vi dico ancora una volta ragazze e ragazzi miei sognate alto e se qualcuno vi dice che perdete tempo non credetegli. Il sogno è la tavola d’argento su cui si scrive l’utopia. E se vi diranno che l’utopia non esiste, che non si potrà mai realizzare, non dategli retta, non è vero, vogliono che restiate passivi e non cambiate il mondo. Vi diranno la stessa cosa della felicità, ma non è vero. La felicità esiste e dovrete avere sempre la forza di cercarla. Non arrendetevi mai, non conformatevi mai. Vestitevi sempre del vostro abito più bello, che siete voi, la vostra persona. Grazie di cuore, vi bacio uno per uno e non vi dico addio perché noi ci incontreremo sempre, ogni qualvolta in cui voi sognerete ed io sognerò, ogni qualvolta in cui voi sentirete d’amare ed io amerò, ogni qual volta in cui vi sentirete di battervi per realizzare l’amore in questo mondo io sarò con voi, e in quel punto esatto dove il mare e il sole si uniscono noi li ci troveremo e saremo insieme per sempre, felici di esserci amati e di amare ancora».

E rivolgendosi ai colleghi il prof. Cimino ha voluto sottolineare il ruolo degli insegnanti: «La scuola siamo pure noi perché troviamo la giovinezza negli alunni, nutrendoci del loro entusiasmo, strappando dal loro cuore i loro battiti per infonderli nel nostro petto. Dobbiamo mettere al centro i ragazzi perché sono l’essenza del nostro mestiere».

Lo scrittore Felice Foresta ha così scritto sull’addio alla cattedra dell’amico prof. Franco Cimino: «Ci sono cattedre da cui non impareremo nulla. E ce ne sono altre che, anche quando saranno vuote, continueranno a parlarci. Si faranno crocevia di parole ormai in disuso, come quelle ascoltate oggi durante l’ultima lezione a scuola di un mio amico, amore, bellezza, politica e utopia. Parole sconfinate e senza governo. E, ancora, ci sono cattedre che si faranno crociere dei sogni dei ragazzi che siamo stati e che saremo. Anche di quelli che non hanno avuto in dono le stille di cuore di un professore visionario, innamorato della vita e dell’amore». (rcz)