di MASSIMO MASTRUZZO – Quando si tratta di grandi opere infrastrutturali nel Sud Italia, improvvisamente la macchina burocratica e politica sembra diventare iper attenta, quasi ossessiva, nel cercare il proverbiale pelo nell’uovo. Norme, vincoli, ricorsi, opposizioni: tutto si complica. Al contrario, nel Nord del Paese, si costruisce prima e si discute – eventualmente – dopo.
È questo il paradosso che emerge con chiarezza anche in merito al ponte sullo Stretto di Messina. Il segretario confederale della Cgil, Pino Gesmundo, ha espresso forte contrarietà agli emendamenti 1.46 e 3.038, presentati in Parlamento, definendoli un attacco alla trasparenza, alla legalità e alla partecipazione democratica. Si teme, legittimamente, un’accelerazione forzata nella realizzazione dell’opera. Tuttavia, colpisce la differenza di tono rispetto a interventi analoghi nel resto d’Italia, dove simili procedure sono già state adottate – e senza clamore – per eventi come le Olimpiadi Milano–Cortina 2026 o il Giubileo 2025, con la creazione di società speciali come stazioni appaltanti.
Perché tanto clamore proprio adesso? Perché ci si “sveglia” con il ponte? E dove sono finite le lezioni del cosiddetto “modello Genova”, osannato per l’efficienza nella ricostruzione del ponte Morandi?
Il Mezzogiorno italiano da decenni attende opere strategiche che altrove sembrano addirittura in eccesso. A Genova si realizzano la Gronda autostradale, il Terzo Valico ferroviario, la Diga foranea. In Veneto si investe sulla Pedemontana. Nel Sud, invece, si litiga ancora sul raddoppio della linea ferroviaria fra Termoli e Lesina, bloccato da oltre vent’anni per presunte incompatibilità ambientali legate alla nidificazione del fratino, un piccolo uccello. Un caso emblematico di paralisi che diventa freno allo sviluppo.
Eppure, gli investimenti in infrastrutture hanno un impatto economico diretto e documentato. Creano occupazione nel breve periodo, stimolano l’indotto e, nel lungo termine, rafforzano la competitività del Paese intero. Gli economisti parlano di “effetto moltiplicatore”: ogni euro speso in infrastrutture genera una crescita del PIL superiore al valore iniziale dell’investimento. E questo effetto è ancora più forte nei territori che partono da una situazione di carenza.
Lo spiegano bene anche Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis nel loro libro L’economia reale del Mezzogiorno: un’Italia che punta sullo sviluppo industriale e infrastrutturale del Sud diventerebbe più competitiva persino di Francia e Germania. Portare il Sud ai livelli delle regioni più avanzate del Nord sarebbe, in questa prospettiva, la vera “operazione Paese”, con benefici diffusi per l’intera nazione.
Dimostrare che un’autostrada o una ferrovia è più utile lì dove mancano – e non dove già abbondano – non dovrebbe essere un’impresa difficile. Lo stesso articolo 3 della nostra Costituzione, che sancisce l’uguaglianza dei cittadini, dovrebbe guidare le scelte politiche e progettuali.
E invece, in Italia, ogni infrastruttura al Sud sembra dover superare un processo a ostacoli. Non per mancanza di fondi, non per carenza di progetti, ma per una sistematica mancanza di volontà. (mm)
[Massimo Mastruzzo, direttivo nazionale Met – Movimento Equità Territoriale]