IL CASO DELLE OPERE INFRASTRUTTURALI
AL SUD È SEMPRE UNA BATTAGLIA PERSA

di MASSIMO MASTRUZZOQuando si tratta di grandi opere infrastrutturali nel Sud Italia, improvvisamente la macchina burocratica e politica sembra diventare iper attenta, quasi ossessiva, nel cercare il proverbiale pelo nell’uovo. Norme, vincoli, ricorsi, opposizioni: tutto si complica. Al contrario, nel Nord del Paese, si costruisce prima e si discute – eventualmente – dopo.

È questo il paradosso che emerge con chiarezza anche in merito al ponte sullo Stretto di Messina. Il segretario confederale della Cgil, Pino Gesmundo, ha espresso forte contrarietà agli emendamenti 1.46 e 3.038, presentati in Parlamento, definendoli un attacco alla trasparenza, alla legalità e alla partecipazione democratica. Si teme, legittimamente, un’accelerazione forzata nella realizzazione dell’opera. Tuttavia, colpisce la differenza di tono rispetto a interventi analoghi nel resto d’Italia, dove simili procedure sono già state adottate – e senza clamore – per eventi come le Olimpiadi Milano–Cortina 2026 o il Giubileo 2025, con la creazione di società speciali come stazioni appaltanti.

Perché tanto clamore proprio adesso? Perché ci si “sveglia” con il ponte? E dove sono finite le lezioni del cosiddetto “modello Genova”, osannato per l’efficienza nella ricostruzione del ponte Morandi?

Il Mezzogiorno italiano da decenni attende opere strategiche che altrove sembrano addirittura in eccesso. A Genova si realizzano la Gronda autostradale, il Terzo Valico ferroviario, la Diga foranea. In Veneto si investe sulla Pedemontana. Nel Sud, invece, si litiga ancora sul raddoppio della linea ferroviaria fra Termoli e Lesina, bloccato da oltre vent’anni per presunte incompatibilità ambientali legate alla nidificazione del fratino, un piccolo uccello. Un caso emblematico di paralisi che diventa freno allo sviluppo.

Eppure, gli investimenti in infrastrutture hanno un impatto economico diretto e documentato. Creano occupazione nel breve periodo, stimolano l’indotto e, nel lungo termine, rafforzano la competitività del Paese intero. Gli economisti parlano di “effetto moltiplicatore”: ogni euro speso in infrastrutture genera una crescita del PIL superiore al valore iniziale dell’investimento. E questo effetto è ancora più forte nei territori che partono da una situazione di carenza.

Lo spiegano bene anche Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis nel loro libro L’economia reale del Mezzogiorno: un’Italia che punta sullo sviluppo industriale e infrastrutturale del Sud diventerebbe più competitiva persino di Francia e Germania. Portare il Sud ai livelli delle regioni più avanzate del Nord sarebbe, in questa prospettiva, la vera “operazione Paese”, con benefici diffusi per l’intera nazione.

Dimostrare che un’autostrada o una ferrovia è più utile lì dove mancano – e non dove già abbondano – non dovrebbe essere un’impresa difficile. Lo stesso articolo 3 della nostra Costituzione, che sancisce l’uguaglianza dei cittadini, dovrebbe guidare le scelte politiche e progettuali.

E invece, in Italia, ogni infrastruttura al Sud sembra dover superare un processo a ostacoli. Non per mancanza di fondi, non per carenza di progetti, ma per una sistematica mancanza di volontà. (mm)

[Massimo Mastruzzo, direttivo nazionale Met – Movimento Equità Territoriale]

 

EMIGRAZIONE, È RECORD: IN DUE ANNI SONO
PARTITI IN OLTRE 241 MILA DAL MERIDIONE

di MASSIMO MASTRUZZONel biennio 2023-2024, oltre 241.000 cittadini del Mezzogiorno si sono trasferiti nelle regioni del Centro-Nord, contro appena 125.000 nella direzione opposta. Lo segnala l’Istat nel rapporto “Migrazioni interne e internazionali della popolazione residente”, tracciando un quadro ormai strutturale dello spopolamento del Sud Italia.

Il saldo negativo è preoccupante: 116.000 persone in meno in due anni. Una vera e propria emorragia demografica, che però ha anche impatti economici rilevanti e spesso sottovalutati, soprattutto dal punto di vista fiscale.

Lombardia prima destinazione: un terzo dei pugliesi e lucani migranti finisce qui

Secondo l’Istat, tra le mete più scelte spicca la Lombardia, che da sola accoglie circa il 30% dei migranti interni dalla Puglia e dalla Basilicata. Province come Milano, Bergamo e Brescia attraggono forza lavoro giovane e qualificata che spesso non trova adeguate opportunità nel Sud d’origine.

Il peso delle tasse locali: un trasferimento che vale milioni per il Nord

L’aspetto meno discusso ma estremamente rilevante riguarda la redistribuzione delle entrate tributarie locali, legate in particolare all’Irpef regionale e comunale. Prendendo come esempio reale una busta paga di un lavoratore residente in provincia di Brescia: 41 euro al mese vanno alla Regione Lombardia; 21 euro al mese vanno al Comune di residenza

In totale, 62 euro al mese solo in tributi locali, ovvero 744 euro l’anno per contribuente.

Applicando questo dato medio ai 241.000 nuovi residenti al Nord: 241.000 x 744 € = circa 179 milioni di euro all’anno versati in imposte locali a favore delle regioni e comuni ospitanti.

Al contrario, si tratta di 179 milioni in meno che le regioni del Sud perdono annualmente, aggravando ulteriormente la debolezza dei bilanci pubblici locali.

Le regioni meridionali in perdita doppia: persone e risorse

Il trasferimento di popolazione non è solo una questione numerica. Ogni residente che parte porta con sé: Reddito da lavoro; Contributi previdenziali; Consumi locali (commercio, servizi) e, soprattutto, entrate fiscali che finanziano sanità, trasporti, istruzione e servizi sociali.

Se consideriamo una permanenza media di 10 anni al Nord, la perdita potenziale per il Sud potrebbe arrivare a quasi 2 miliardi di euro di mancate entrate locali in un solo decennio.

Non è solo fuga di cervelli, ma un “trasferimento fiscale” strutturale

Il rapporto Istat fotografa una tendenza consolidata e profonda: l’Italia continua a muoversi, ma in una sola direzione. E mentre il Sud si svuota, il Nord non solo guadagna in forza lavoro, ma incassa ogni anno centinaia di milioni di euro grazie a queste migrazioni.

L’emigrazione interna, da questo punto di vista, non è più solo una questione sociale o demografica, ma un meccanismo di redistribuzione fiscale silenzioso e progressivo.

Chi governa sa, ma non agisce

L’Istat informa la politica italiana da sempre, ma questo governo e quelli precedenti non hanno mai voluto cambiare rotta. Il Sud resta, nei fatti, un bacino di voti da gestire, ma non un territorio da sviluppare. Le segreterie dei partiti, quasi tutte localizzate al Nord, continuano a sfruttare questa disomogeneità territoriale.

Una situazione in aperto contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza sostanziale tra i cittadini e l’impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali.

In questo contesto, il Movimento Equità Territoriale si batte per invertire questa tendenza, denunciando l’abbandono istituzionale del Mezzogiorno e proponendo un nuovo modello di sviluppo realmente equilibrato tra Nord e Sud.

 

[Massimo Mastruzzo, direttivo nazionale MET – Movimento Equità Territoriale]

LA CALABRIA “TORRIDA” IN UN SUD CHE
BRUCIA MENTRE LE ISTITUZIONI TACCIONO

di FRANCESCO GRAZIANOIl Sud Italia è intrappolato in una morsa climatica che non accenna a mollare la presa. In questo weekend, temperature oltre i 40 gradi colpiscono la Calabria, la Sicilia e la Puglia. Un’ondata di calore che, da evento eccezionale, è ormai diventata la nuova norma. E mentre i cittadini boccheggiano e i campi si seccano, si fa fatica a scorgere una reazione concreta da parte delle istituzioni. Peggio ancora: si moltiplicano voci che negano l’evidenza scientifica dei cambiamenti climatici.

La normalità della siccità

In Calabria e in Sicilia le piogge sono ormai un ricordo lontano. La siccità, un tempo considerata una crisi passeggera, è diventata un elemento strutturale del paesaggio. I dati dell’Isac-Cnr (Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima) confermano che le giornate piovose si sono ridotte del 70% negli ultimi vent’anni in molte aree del Sud. L’Altopiano della Sila, noto un tempo per le sue abbondanti nevicate, ha più che dimezzato i giorni di neve all’anno. Le foreste si stanno ritirando, le sorgenti si prosciugano, e le falde acquifere sono sotto stress. La desertificazione, secondo l’Ispra, avanza ormai in oltre il 30% del territorio meridionale, con le zone interne della Sicilia e della Calabria tra le più colpite d’Europa.

Agricoltura al collasso

L’agricoltura, motore economico di molte zone del Mezzogiorno, è in ginocchio. Le colture tradizionali – ulivi, agrumi, ortaggi – non reggono più l’assenza di acqua e l’aumento costante delle temperature. La Coldiretti ha denunciato perdite per oltre 1 miliardo di euro solo nel primo semestre del 2025. I raccolti sono dimezzati, le spese per l’irrigazione sono insostenibili e molti piccoli agricoltori sono costretti a chiudere.

Sanità sotto pressione

Il caldo estremo non è solo un problema ambientale ed economico. È un rischio diretto per la salute. Gli ospedali calabresi e siciliani registrano un’impennata di ricoveri per colpi di calore, disidratazione e scompensi cardiaci, soprattutto tra gli anziani. La Croce Rossa ha lanciato l’allarme: le strutture sanitarie del Sud, già provate da anni di tagli e carenze, non reggono l’urto delle emergenze climatiche ricorrenti.

Turismo invernale compromesso

Il cambiamento climatico sta riscrivendo anche le mappe del turismo. L’Appennino meridionale, un tempo meta per sciatori e amanti della montagna, non garantisce più la neve, né per quantità né per durata. Le stazioni sciistiche della Sila, del Pollino e dell’Etna registrano stagioni sempre più corte e non redditizie, con ricadute sull’indotto e sull’occupazione locale. Il futuro del turismo montano al Sud appare appeso a un filo.

E le istituzioni?

Di fronte a questa emergenza, le Regioni appaiono smarrite, spesso divise tra annunci e immobilismo. Nessuna strategia unitaria, pochi piani di adattamento climatico, scarsissimi investimenti in prevenzione. Il Governo, da parte sua, ha rimosso ogni riferimento ai cambiamenti climatici dall’agenda politica. Nessun piano nazionale di transizione ecologica è stato rilanciato. Peggio ancora: si moltiplicano segnali negazionisti.

Dagli Stati Uniti, Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, ha recentemente dichiarato: «Non c’è bisogno di combattere per l’energia pulita: il cambiamento climatico è solo una bufala». Un’affermazione che rimbalza anche in Italia, alimentando l’inerzia politica e disorientando l’opinione pubblica. Ma i dati parlano chiaro: l’Italia è uno dei paesi europei più esposti agli effetti del riscaldamento globale.

«Il Sud rischia di diventare la prima area semi-arida stabile d’Europa», ha dichiarato il climatologo Luca Mercalli. «Senza un piano nazionale di adattamento climatico, rischiamo una crisi ambientale, economica e umanitaria», ha avvertito Enrico Giovannini, direttore ASviS. «I cambiamenti climatici sono reali, misurabili, e già qui. Negarli oggi è come spegnere l’allarme mentre la casa brucia», ha scritto la climatologa Serena Giacomin.

L’impressione è che ci si stia arrendendo. Alla sete, al caldo, al fuoco, all’abbandono. Ma questa non è una condizione inevitabile. È il risultato di scelte (o non-scelte) politiche. Di un ritardo culturale e amministrativo che rischia di condannare il Sud a una spirale di degrado e spopolamento. Non si tratta più solo di tutela ambientale: è una questione di giustizia sociale, coesione territoriale, sopravvivenza economica. (fg)

[Courtesy LaCNews24]

ZES UNICA, LA RIFORMA VOLUTA DA FITTO
HA PORTATO RISULTATI SODDISFACENTI

di ERCOLE INCALZA – «Abbiamo rilasciato 571 autorizzazioni uniche che attivano investimenti per 10 miliardi di euro e creano 10 mila nuovi posti di lavoro». È quanto ha detto Giosy Romano, Coordinatore della Zona Economica Speciale Unica, alla Fiera dell’Industria di Hannover, una delle più importanti al mondo, a promuovere la Zes Unica. 

«Qui nell’incontro di Hannover abbiamo partecipato a diversi incontri e abbiamo potuto verificare che gli imprenditori stranieri con cui abbiamo dialogato si sono mostrati sorpresi dei vantaggi offerti dalla autorizzazione unica che riusciamo a rilasciare in 30 giorni. Questa è la vera rivoluzione della Zes Una innovazione che sta trasformando il panorama degli investimenti in Italia e costituisce un esempio semplificativo di semplificazione e rapidità nei processi amministrativi».

Queste due dichiarazioni non solo testimoniano la rilevanza del successo della Zes Unica ma, al tempo stesso, dimostrano quanto sia stato utile e innovativa la riforma portata avanti dall’ex Ministro Raffaele Fitto. Una riforma che giustamente viene ulteriormente valorizzata da Giosy Romano in quanto ha vissuto prima da Commissario la esperienza di una delle 8 Zes. Ritengo però doveroso ricordare oggi dopo questo grande e misurabile successo ricordare il danno prodotto in passato da una norma assurda come quella delle otto Zes.

Nel 2022, in un mio articolo, avevo ribadito che, dopo sei anni dal varo del Decreto Legge sulle otto Zes, il provvedimento si era trasformato in un inutile strumento: di circa 600 milioni previsti dalla norma erano stati attivati appena 30 milioni di euro. Ricordai anche che il fallimento della norma era da riscontrarsi non nell’operato dei Commissari ma in almeno quattro fattori: La limitata disponibilità delle risorse (circa 600 milioni di euro; Il numero rilevante di siti (solo in Sicilia entro il 2021 si sarebbero dovute istituire e rese operative due Zes, per un totale di 5.118 ettari in 43 aree dichiarate idonee dalla apposita Commissione di valutazione. Cioè nella sola Sicilia erano state identificate ben 43 aree elette a Zes, in tutta la Unione Europea le aree elette a ZES erano solo 91. La mancata interazione tra distinte realtà territoriali del Mezzogiorno, cioè l’assurdo isolamento tra distinti Hub logistici (porti della Calabria non interagenti con porti della Puglia, ecc.); Il lungo iter istruttorio soprattutto da parte degli Enti locali.

La miopia dei promotori istituzionali del richiamato Decreto Legge e la incapacità dei Governi Conte 1 e Conte 2 nell’aggravare con norme correttive la stessa norma iniziale, hanno praticamente fatto lavorare tantissimo i vari Commissari per tentare, in tutti i modi, di dare concreta attuazione al provvedimento ma, per la serie di negatività prima riportate, il loro apprezzabile impegno era rimasto all’interno di un dettagliato quadro programmatico, all’interno di una misurabile prospettazione di potenzialità e di interessi imprenditoriali ma non aveva prodotto nulla, non aveva in nessun modo incrementato il Pil.

Ed allora la soluzione prodotta dall’allora Ministro Raffale Fitto con la Zes Unica ha praticamente posto la parola fine ad un tragico fallimento dei Governi che, dal giugno del 2017 (data ripeto del varo del Decreto Legge 91 istitutivo delle otto Zes), si erano succeduti.

Ma proprio perché oggi siamo in possesso di un dato: «10 miliardi di euro e 10 mila nuovi posti di lavoro», non possiamo non stigmatizzare la rilevanza del danno prodotto dall’azione, soprattutto, dei Governi Conte 1 e Conte 2 e, in parte, anche Draghi che, per quasi quattro anni, hanno reso inutile un provvedimento che se rivisitato solo formalmente, sì anche senza un adeguato supporto finanziario, avrebbe quanto meno reso possibile l’attivazione di un volano di risorse di 600 milioni di euro.

Ho voluto ricordare questo fallimento, ho voluto denunciare questo danno perché, spesso, mi meraviglio della assenza di una adeguata e documentata denuncia da parte dell’attuale maggioranza parlamentare. Mi meraviglia, infatti, il sistematico attacco del responsabile del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte all’operato dell’attuale Governo, un attacco che non trova una immediata risposta sulle gravi responsabilità generate dalla imperdonabile incapacità gestionale proprio dei suoi due passati Governi.

Dove erano sia Giuseppe Conte che i vari Ministri del Movimento 5 Stelle quando gli stessi Commissari, preposti alla gestione delle varie Zes, prospettavano proposte di rivisitazione della norma e come giustificano oggi il danno all’erario provocato proprio dalla loro incapacità?

La Corte dei Conti spero affronti queste diffuse responsabilità di uno schieramento che, come ho avuto modo di ricordare in passato, ha accumulato rilevanti danni alla crescita del Paese. (ei)

INFRASTRUTTURE, VISIONI E COMPETENZE
PER CAMBIARE IL FUTURO DEL MERIDIONE

di MARIA RITA GALATI – Infrastrutture, giovani, futuro. Sono le parole chiave che hanno scandito l’XI Convegno del Mezzogiorno dei Giovani Imprenditori Edili Ance, dal titolo evocativo “Amò il Sud”, svoltosi nella Sala delle Culture della Provincia di Catanzaro.

Un appuntamento ormai centrale nel panorama economico e infrastrutturale del Sud Italia, che ha visto protagonisti decine di giovani imprenditori edili provenienti da Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, pronti a confrontarsi sulle sfide dello sviluppo del Mezzogiorno.

L’evento, moderato dal giornalista Rai Marco Innocente Furina, ha visto l’apertura affidata a Carlo Barberio, presidente Ance Giovani Calabria, Giuseppe Catizone, presidente Ance Giovani Catanzaro e Roberto Rugna, presidente Ance Calabria.

Proprio Rugna ha voluto sottolineare come la Calabria resti una terra che deve ancora esprimere appieno il proprio potenziale: «Eventi come questo rappresentano non solo un riconoscimento per il nostro lavoro – ha affermato – ma soprattutto un punto di partenza per costruire nuove prospettive di sviluppo».

«Le infrastrutture restano la chiave – ha evidenziato – per collegare la nostra regione al resto del Paese e permetterle di diventare davvero competitiva e attrattiva. C’è una Calabria che lavora, che investe, che guarda al futuro, e dobbiamo creare le condizioni affinché questa energia si trasformi in crescita stabile e duratura».

Un messaggio di fiducia, ma anche di responsabilità, rilanciato dal sindaco di Catanzaro Nicola Fiorita, che ha parlato di un tema strategico che «va ben oltre gli interessi del comparto edilizio» e che rappresenta la base per costruire un futuro solido per tutto il Mezzogiorno.

Dello stesso avviso il prefetto Castrese De Rosa, che ha ricordato come lo Stato sia presente sul territorio e al fianco delle imprese, ma ha invitato tutti a fare sistema: «L’Europa rappresenta per noi una sfida, ma anche una grande opportunità. Possiamo fare molto, soprattutto per i giovani».

Il presidente di Unindustria Calabria Aldo Ferrara ha posto l’accento sulla dinamicità dell’industria calabrese: «La Calabria è una regione in movimento. I numeri sull’export, sugli investimenti e sull’occupazione lo confermano. Ma sappiamo bene che la qualità dello sviluppo dipende dalla qualità delle infrastrutture. Solo infrastrutture moderne, integrate e sostenibili possono consolidare la crescita e trattenere i nostri giovani».

Dal palco, l’assessore regionale allo Sviluppo economico Rosario Varì ha ribadito il ruolo centrale che la Regione assegna al potenziamento infrastrutturale e al sostegno alle imprese: dalla Statale 106 agli aeroporti, dal porto di Gioia Tauro ai nuovi collegamenti ferroviari.

«Ma accanto a questi elementi materiali – ha aggiunto – dobbiamo continuare a creare un contesto favorevole alla crescita, capace di attrarre nuovi investimenti e generare occupazione di qualità».

Il dibattito ha visto poi il contributo di Marco Oloferne Curti, coordinatore nazionale macro area Sud di Ance Giovani, che ha ricordato come le infrastrutture debbano essere vissute e progettate come moltiplicatori di valori e non solo come opere materiali: «Dietro ogni cantiere ci sono persone, processi e comunità che cambiano. E come tali dobbiamo affrontarle».

Cuore del convegno è stata la tavola rotonda “Infrastrutture e sviluppo: il Mezzogiorno che verrà”, con interventi della professoressa Francesca Moraci, dell’architetto Massimo Crusi, del presidente dell’Autorità portuale Andrea Agostinelli, del giornalista Tommaso Labate e di Giovan Battista Perciaccante, vicepresidente Ance per il Mezzogiorno.

Agostinelli ha illustrato il nuovo documento strategico che definisce il piano regolatore di tutti i porti calabresi, sottolineando che «il vero nodo resta l’intermodalità: porti, strade, ferrovie e aeroporti devono dialogare tra loro per rendere competitivo l’intero sistema logistico regionale».

Labate ha lanciato un messaggio chiaro: «Il dilemma non è più fare o non fare, ma fare bene o fare male. Servono competenze, visione e responsabilità».

Perciaccante ha ribadito i progressi compiuti, dagli aeroporti di Crotone e Reggio Calabria all’alta velocità e alla SS 106, ma ha anche ammonito: «Non basta aprire cantieri, bisogna completarli. E bisogna farlo velocemente, abbattendo la burocrazia che rischia di bloccare opere già finanziate».

Dal fronte dei giovani imprenditori, forte il richiamo a rendere le infrastrutture strumento di sviluppo reale e contrasto al disagio giovanile, come sottolineato da Vincenzo Scarano (Ance Puglia), mentre Marco Colombrita (Ance Sicilia) ha ribadito il ruolo chiave del Ponte sullo Stretto e dell’alta velocità per connettere Calabria e Sicilia all’Europa.

Le conclusioni sono state affidate alla presidente nazionale di Ance Giovani Angelica Krystle Donati, che ha lanciato un messaggio al sistema Paese:
«Non possiamo più permetterci di agire solo in emergenza. Serve pianificazione di lungo termine, visione strategica e nuove competenze, sia nelle imprese che nella pubblica amministrazione».

«Il Pnrr ha dimostrato che il nostro settore è pronto – ha evidenziato – a fare la sua parte, ma tra un anno finirà e serve una strategia chiara per non disperdere i risultati. Dobbiamo continuare a spingere per un piano industriale di settore e di Paese che metta al centro le costruzioni e le infrastrutture, perché senza di esse non c’è sviluppo economico, sociale e territoriale possibile». (mg)

AL SUD C’È UN “CAMBIO DI PARADIGMA”
COSA SIGNIFICA E LE SUE CONSEGUENZE

di ERCOLE INCALZA – Ricordo spesso la delusione di Pasquale Saraceno, consigliere di Amministrazione della Cassa del Mezzogiorno, fondatore dello Svimez e grande meridionalista, quando nel 1973, dopo praticamente 23 anni di attività della Cassa del Mezzogiorno, precisò che, purtroppo, non era cambiato praticamente nulla e ricordò gli indicatori che erano rimasti quasi identici a quelli del 1950 e cioè: Il reddito pro capite; Il tasso di occupazione; Il costo del denaro e l’accesso al prestito.

Ma, sempre Saraceno, ricordò che il Mezzogiorno possedeva tutte le condizioni per “cambiare paradigma”; si usò proprio la frase “cambiare paradigma” e portò come riferimento, in difesa di questo suo “ottimismo della ragione”, alcuni punti chiave come: La portualità campana ed il suo retroporto ricco di attività commerciali; La elevata produzione agricola della Regione Calabria e la rilevante potenzialità industriale di Gioia Tauro (allora si pensava di realizzare un secondo centro siderurgico); La elevata capacità produttiva della Regione Sicilia e degli hub portuali di Catania e di Palermo; L’avvio dei lavori di costruzione del porto canale di Cagliari, determinante piastra logistica all’interno del bacino del Mediterraneo; La rilevanza strategica del porto di Taranto e del nuovo centro siderurgico; La grande produzione agro alimentare presente nelle Regioni Basilicata, Molise ed Abruzzo.

Sono passati più di cinquanta anni, sì sono passati un numero enorme di anni, però oggi finalmente stiamo misurando davvero un cambiamento di paradigma sostanziale. Tre anni fa, al primo Festival Euromediterraneo svoltosi a Napoli, nelle conclusioni dei lavori fu prodotta la “Carta di Napoli” in cui venne chiaramente denunciato il cambiamento della narrazione del Mezzogiorno ed emersero subito le conferme ed i dati che confermavano un simile cambiamento, emersero i dati che davano ragione alle previsioni di Saraceno e cioè: Il Mezzogiorno stava diventando un riferimento determinante della ricerca, stava diventando un polmone di eccellenze tutte comparabili con analoghe realtà a scala comunitaria ed internazionale; Il Mezzogiorno, anno dopo anno, si confermava come elemento determinante del sistema agro alimentare, un sistema che incideva per oltre il 25% nella formazione del Pil nazionale e che in tale percentuale il Sud era presente con oltre il 50%; Gli Hub portuali ed in modo particolare Gioia Tauro diventava sempre più il porto transhipment più strategico dell’intero Mediterraneo; La Regione Campania aveva al suo interno un Hub logistico, formato dai porti di Napoli e di Salerno e dagli interporti di Nola, Marcianise e di Battipaglia, che lo rendevano, in termini di movimentazione, paragonabile ai grandi Hub comunitari; Crescevano sempre più, proprio nelle attività commerciali e produttive, le Regioni Basilicata, Puglia, Molise ed Abruzzo; Il Mezzogiorno diventava in modo inequivocabile un teatro di crescita del turismo, una crescita testimoniata dalla vera esplosione della domanda passeggeri negli aeroporti del Sud: oltre 50 milioni di passeggeri (un aumento del 30% in soli dieci anni).

Ebbene, questo cambio di paradigma si è ulteriormente consolidato sicuramente grazie anche alla istituzione della Zona Economica Speciale Unica e si potrà ulteriormente rafforzare se le 8 Regioni del Sud cercheranno, in modo sinergico, di: Utilizzare in modo organico ed in tempi certi le risorse già assegnate e disponibili dal Pnrr; Utilizzare le risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027. Più Istituti di ricerca hanno in più occasioni anticipato che se a questo cambiamento di paradigma facesse seguito anche una misurabile capacità della spesa allora la incidenza del Mezzogiorno nella formazione del Pil del Paese passerebbe dall’attuale soglia del 22% ad oltre il 30 – 32% ed una simile percentuale non rappresenterebbe un dato sporadico di una felice annualità ma diventerebbe un riferimento stabile. (ei)

INFRASTRUTTURE, AL SUD VINCOLATO IL
40% DEGLI INVESTIMENTI DEI FONDI PNRR

di ERCOLE INCALZA – Il Ministro Tommaso Foti lo scorso 7 gennaio ha dichiarato che «la spesa effettiva dei fondi Pnrr si attesta a circa 60 miliardi di euro di cui 22 miliardi nel 2024. Il 50% delle risorse spese rientra tra quelle a fondo perduto e i pagamenti effettivi sono superiori del 10 – 12% rispetto a quelli rilevati ufficialmente».

Appare evidente che, per centrare l’obiettivo di una piena attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), bisognerebbe spendere oltre 130 miliardi di euro in 18 mesi.

Questo ultimo dato dimostra che siamo già oggi di fronte alla constatazione che è impossibile rispettare la scadenza imposta dalla Unione Europea e, sempre il Ministro Tommaso Foti, di fronte a questa constatazione ha precisato: «Non dobbiamo avere l’incubo di spendere a tutti i costi perché vorrebbe dire spendere male. Se una quota non riesce ad essere spesa perché le misure non sono attrattive, dopo che le abbiamo cambiate, ben venga il prendere atto che ci sono misure che non hanno mercato».

Sulla base di questa obbligata constatazione il Ministro Foti ha anticipato che, entro il mese di febbraio, il Governo varerà un Piano in cui non compariranno più gli interventi irrealizzabili entro i prossimi sedici mesi e saranno inserite opere potenzialmente realizzabili entro la scadenza del giugno 2026.

In questa operazione, ha precisato sempre il Ministro Foti: «sarà inserito il vincolo di destinare almeno il 40% degli investimenti nel Mezzogiorno, anche perché il Mezzogiorno ha dimostrato di utilizzare al meglio i fondi e di farne volano per una crescita che, sempre nel 2024, è stata superiore a quella del Nord».

È quindi in corso, nei vari organismi preposti alla attuazione delle opere, nei vari organismi responsabili della progettazione e della realizzazione degli interventi, un lavoro capillare mirato a cercare da un lato possibili ulteriori modalità per velocizzare l’avanzamento delle attività e dall’altro identificare l’inserimento di interventi sostitutivi in grado di essere portati a termine entro il mese di giugno del 2026.

Senza dubbio questo si configura come un lavoro obbligato e, al tempo stesso, senza dubbio, tutto questo rappresenta un ultimo tentativo per evitare un vero e pesante fallimento nell’attuazione del Pnrr; un fallimento che l’ex Ministro Fitto aveva già cercato, riuscendoci, di ridimensionare trasferendo già molti interventi all’interno del Fondo Sviluppo e Coesione 2021 – 2027.

In altre mie note ho ricordato le grandi responsabilità dei Governi Conte 1, Conte 2 e dello stesso Governo Draghi nell’aver sottovalutato l’obbligato rispetto della “spesa” entro il mese di giugno del 2026 ed in particolare l’aver perso praticamente un biennio nella identificazione delle opere e nell’avvio concreto delle procedure di gara.

Oggi, quindi, non possiamo più rinviare questa triste fase di ammissione della impossibilità di attuare il Pnrr e, come ribadisco da almeno due anni, riconoscere che la possibilità della spesa non potrà attestarsi su un valore superiore alla soglia di 80 – 90 miliardi di euro.

Sempre in alcune mie considerazioni avanzate poche settimane fa ho precisato che dovremmo trovare delle soluzioni per evitare non solo di perdere circa ulteriori 120 miliardi ma di dover subire anche delle penalty.

Avevo anche ribadito che la corsa a cambiare il Piano attraverso l’inserimento di nuove opere e l’annullamento di altre ormai non più difendibili, sia una soluzione rischiosa anche perché l’annullamento di alcune opere scatenerebbe gli Enti locali (Regioni e Comuni), scatenerebbe alcune grandi Aziende come il Gruppo delle Ferrovie dello Stato, darebbe origine ad un vero contenzioso da parte del mondo delle costruzioni.

L’unica soluzione, o meglio, l’unico compromesso penso potrebbe essere quello di trasformare la quota a fondo perduto pari globalmente a circa 68 miliardi (di cui finora utilizzati circa 30 miliardi e per la data del 30 giugno 2026 spendibili fino ad una quota di 45 miliardi) in prestito (cioè dovremo trasformare in prestito un importo di circa 23 miliardi di euro) e incrementare gli interessi anche della quota in prestito restante e quindi dovremo definire con la Unione Europea un accordo attraverso il quale il  nostro Paese dovrà dal 2027 in poi onorare un prestito globale di circa 118 miliardi di euro  (23 miliardi di euro + 95 miliardi di euro).

Senza dubbio questa proposta trova un supporto adeguato nella serie di cambiamenti, nella gestione del nostro Paese, vissuti dal 2020 ad oggi; in soli quattro anni si sono alternati tre distinti schieramenti il primo con il Governo Conte appoggiato essenzialmente dal Partito Democratico e da 5 Stelle, il secondo con il Governo Draghi con la presenza di tutti gli schieramenti politici escluso quello di Fratelli d’Italia e dalla fine del 2022 ad oggi una compagine solida formata da Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega e Noi moderati.

La instabilità dei Governi Conte 2 e Draghi ha inciso in modo rilevante sulla concreta attuazione delle scelte del Pnrr e questo penso possa essere una valida motivazione per supportare la proposta di rivisitazione avanzata non delle opere ma delle modalità di uso delle risorse.

La ipotesi avanzata dal Ministro Foti invece genera automaticamente, come detto prima, uno scontro con gli Enti locali, con le grandi Aziende come Ferrovie dello Stato ed Anas, una vera presa di posizione non solo degli schieramenti politici oggi alla opposizione ma anche di quelli che appoggiano il Governo.

Insisto, quindi, nel ribadire la opportunità di verificare attentamente la mia ipotesi di lavoro perché quanto meno evita: una riapertura procedurale delle istruttorie sulle nuove opere; un contenzioso tra le opere già assegnate anche attraverso l’attestato di “opera giuridicamente vincolante” (OGV); l’impossibilità di identificare in appena 20 mesi interventi capaci di essere portati a compimento entro il 30 giugno 2026

Una grave penalizzazione, soprattutto per il Mezzogiorno, in quanto le opere avviate dalle Ferrovie dello Stato e relative all’asse Salerno – Reggio Calabria, Palermo – Catania e Catania – Messina, per un valore globale di circa 8 miliardi di euro sarebbero bloccate generando un contenzioso perdente per il committente pubblico.

Non credo che, in questo delicato momento storico, il Governo voglia incamminarsi verso una scelta divisiva e ingestibile. (ei)

LA MANCATA CRESCITA DEL SUD EQUIVALE
A DUE PUNTI IN MENO DI PIL DELL’ITALIA

di DOMENICO MAZZA – La programmazione dei fondi Pnrr ha disposto l’utilizzo di risorse imponenti e strategiche per il Paese. Seppur con meno spettanze, rispetto a quante originariamente riservate, anche il Sud sta vedendo una mole non indifferente di fondi finalizzati a colmare il divario tra il nominato contesto e il resto della Nazione.

Le recenti ricerche avviate da autorevoli Istituti in materia economica, d’altronde, ci rimandano un quadro chiaro e inequivocabile: «Se il Sud avesse avuto negli ultimi 20 anni un tasso di crescita medio annuo di almeno 2 punti superiore, il Pil italiano sarebbe stato allineato a quello degli altri Paesi europei, invece che sistematicamente sotto».

Quanto detto a conferma che una ripresa strutturale dell’economia italiana può avvenire solo se il Sud cresce di più e in maniera sostenibile. Per centrare l’obiettivo, però, occorre una comprensione articolata e flessibile dei contesti geo-politici. Perché se l’Italia è un insieme di territori, simili ma non uguali, aggregati dalla forza unificante della lingua, il Sud è un mosaico composito e prezioso, unico e raro, di territori, di tradizioni e di storie in cui però poco si è fatto nella direzione di amalgamare gli ambiti per omogeneità territoriali e affinità economiche tra aree a interesse comune.

Sarebbe opportuno, quindi, porsi il problema di cosa necessiterebbe per un rilancio sistemico dei processi produttivi nell’estremità della Penisola. Chiaramente, un ragionamento del genere non può prescindere da un’analisi degli ambiti concorrenti a formare il Sud nel suo insieme. Se ci concentrassimo sull’area del Golfo di Taranto, non certo per partigianerie, ma per rispetto delle ottimali condizioni geografiche in riferimento al più ampio contesto euro-mediterraneo, apparirebbe lampante quanto tale ambito geo-politico sia ideale per essere candidabile a ospitare simultaneamente filiere logistiche, turistiche e agroalimentari. Al punto da risultare quello più predisposto e geograficamente più favorevole, per accogliere un vero e proprio ecosistema delle richiamate filiere.

Turismi e distretti agroalimentari di qualità: necessaria una narrazione diversa e lungimirante 

Lungo i 400km della baia jonica esistono già tre Distretti agroalimentari di qualità: Sibaritide, Metapontino e Salento jonico. Trovando le opportune sinergie fra i tre si potrebbero creare plusvalenze, riscrivendo una narrativa diversa e lungimirante per l’area in questione. Esistono già, e negli ultimi anni si sono sviluppati in maniera esponenziale, il Distretto turistico di Taranto e della valle d’Itria nonché quello del Salento. Non sarebbe affatto peregrino lavorare alacremente alla costituzione di un Distretto turistico dell’Arco Jonico calabrese.

Un nuovo sistema di attività e servizi integrato che amalgami le aree omogenee rivierasche e pedemontane afferenti ai contesti della Sibaritide e del Crotonese. Una struttura che, rafforzando i percorsi magnograeci, bizantini, e normanno-aragonesi caratterizzanti i due ambiti, costituisca una destinazione straordinaria caratterizzata dal marchio inconfondibilmente unico e caro al Prof. Filareto: la Mediterraneità jonico-silana.

Una nuova valorizzazione delle filiere, ordunque, per promuovere la riscoperta e, non per ultimo, un restyling delle funzioni economiche caratterizzanti l’Arco Jonico.

Una nuova concezione della mobilità partendo dall’efficientamento e collettamento degli Asset esistenti 

Naturalmente, per poter elevare l’appeal dell’offerta turistica collegata ai distretti agroalimentari di qualità, andranno messi a sistema gli Asset infrastrutturali esistenti e posizionati nel contesto della baia jonica (porti e aeroporti di Corigliano-Rossano, Taranto e Crotone). Andranno rammagliate le richiamate infrastrutture con un sistema ferro-stradale europeo e all’avanguardia. L’efficientamento del tronco ferroviario e un nuovo tracciato per la statale, che non potrà essere la semplicistica manciata di km tra Sibari e Corigliano-Rossano e tra Crotone e Catanzaro, sarebbe il minimo sindacale da cui partire. Bisognerà, invero, ricostruire la spina dorsale del sistema Sibari-Crotone: vero anello debole della mobilità nell’area. In questo processo di ricucitura, chiaramente, dovranno entrare di diritto le questioni legate ai porti, ai retroporti, alle aree industriali dismesse e alla Zes.

La descritta operazione, anche, al fine di declinare una nuova visione della logistica integrata che da Crotone al Metapontino ha nel cuore della Sibaritide la naturale area cerniera. Pensare, pertanto, alla creazione di un interporto nel baricentro sibarita significherebbe riscrivere una storia diversa anche per quei contesti industriali dismessi e per le portualità presenti nel bacino del golfo.

Avviare percorsi di crescita economica simultanea e integrata

Cogliendo, quindi, più opportunità economiche e accelerando i tempi di ottimizzazione delle priorità tra contesti ad affini interessi si favorirebbe la creazione di nuovi posti di lavoro. La rinnovata percezione del territorio, pertanto, che deriverebbe da mirati investimenti, trasformerebbe settori e filiere largamente sottoutilizzate in vero e proprio valore aggiunto. In ossequio a quanto raccomandato dai principi macroeconomici, infatti, le capitalizzazioni effettuate nelle aree arretrate restano suscettibili di promuovere una crescita più elevata rispetto a quelle messe in pratica in ambiti più evoluti.

Sotto quest’aspetto, quindi, è conveniente che un’area come il golfo di Taranto decolli; a regime, infatti, disporrebbe di qualità tali da trainare il resto del sistema calabro-appulo-lucano ed in generale il Mezzogiorno. Così facendo, si individuerebbero i settori da cui partire per immaginare processi di economie circolari finalizzati a permettere, anche al territorio più isolato e marginale dell’intero Mezzogiorno (l’Arco Jonico sibarita e crotoniate), la possibilità di declinare nuove prospettive di sviluppo.

Sostenibilità, razionalizzazione, innovazione, management evolutivo devono essere i capisaldi a cui guardare con fiducia ed ottimismo, affinché si alzi forte il vento e la voce di un altro Sud. Ma, soprattutto, di un altro ambito jonico: quello che non subisce le scelte imposte dai centralismi e che, al contrario, indirizza, con intelligenza e cognizione di causa, un nuovo paradigma economico condiviso con le popolazioni locali. (dm)

[Domenico Mazza è del Comitato Magna Graecia]

PNRR E OPERE PUBBLICHE, PER LA SVIMEZ
IL SUD IN RITARDO NELLA FASE ESECUTIVA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Il Sud è in ritardo nell’avvio della fase esecutiva dei lavori del Pnrr. È quanto emerso nel nuovo numero di InformazioniSvimez “Pnrr Execution: le opere pubbliche di Comuni e Regioni” della Svimez, a meno di un anno e mezzo dalla scadenza del 2026, evidenziando come nei Comuni sono avanzati i lavori per asili e infrastrutture scolastiche, mentre nelle Regioni si registra un rallentamento delle opere, soprattutto per la sanità territoriale.

La Svimez nel documento ha ricordato come le risorse che il Pnrr destina alla realizzazione di lavori pubblici sono pari a 65 miliardi. La quota di risorse Pnrr per interventi infrastrutturali è del 54,2% nel Mezzogiorno (26,2 miliardi), di circa 6 punti percentuali superiore al dato del Centro-Nord (48,5%; 38,8 miliardi).

«Per questa tipologia di interventi – si legge – almeno in termini di stanziamenti, si raggiunge appieno la “quota Sud” del 40%. Proprio gli investimenti in opere pubbliche rappresentano l’ambito di intervento del Pnrr funzionale al riequilibrio territoriale nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali e nella quantità e qualità dei servizi».

La distribuzione delle risorse Pnrr che finanziano la realizzazione di opere pubbliche per soggetto attuatore rivela il coinvolgimento primario delle amministrazioni decentrate, soprattutto nel Mezzogiorno.

L’incidenza delle risorse a gestione dei Comuni per opere da realizzare nell’area è del 33,2% nel Mezzogiorno e del 30,5% al Centro-Nord. Anche dai valori pro capite risulta il maggior sforzo attuativo a carico dei Comuni del Mezzogiorno: 440 euro di investimenti Pnrr per cittadino (302 euro il dato del Centro-Nord). Il dato relativo alle amministrazioni regionali è del 15% nel Mezzogiorno e di circa il 12% al Centro-Nord in termini di incidenza di risorse complessive; valutate in pro capite le risorse a gestione delle regioni meridionali raggiungono 197 euro per cittadino (118 euro il dato del Centro-Nord).

A fine dicembre 2024, i Comuni meridionali hanno avviato lavori per 5,6 miliardi, il 64% del valore complessivo degli investimenti a loro titolarità; per i Comuni del Centro-Nord il dato è di 9,7 miliardi, l’82,3% delle risorse Pnrr. Alla stessa data, per le amministrazioni regionali meridionali risultano avviati lavori per 1,9 miliardi di euro, il 50% del valore complessivo degli investimenti Pnrr a loro titolarità. Il valore dei progetti avviati per quelle del Centro-Nord si attesta a 3,5 miliardi, quasi il 76% delle risorse Pnrr.

Se da un lato emergono ritardi dei Comuni del Sud per quota di avviamento dei lavori, i dati in termini di risorse pro capite ribaltano la lettura con livelli di spesa avviata significativamente superiori: 440 euro di investimenti Pnrr per cittadino (302 euro il dato del Centro-Nord).  Va inoltre rilevato che i ritardi nell’apertura dei cantieri riflettono le difficoltà incontrate dalle amministrazioni nella fase progettuale, in quella di accesso competitivo alle risorse, e nell’espletamento delle procedure ammnistrative preliminari all’apertura dei cantieri.

Per le linee di investimento per asili nido e infrastrutture scolastiche, le percentuali di mancato avviamento lavori a gestione dei Comuni del Sud sono significativamente più contenute e si riduce la forbice sui tempi di apertura dei cantieri rispetto al resto del Paese. L’investimento “Costruzione di nuove scuole mediante sostituzione di edifici”, ricompresa nella missione M2C3, registra un valore di progetti non avviati del 9% (2% il dato medio dei Comuni del Centro-Nord). In aggregato, per la componente M4C1 dedicata al potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione, il valore dei progetti avviati è di quasi l’87% (94% il dato del Centro-Nord), per effetto di quote di progetti non in fase esecutiva comprese tra l’8% (Piano estensione del tempo pieno) e il 14% (Potenziamento infrastrutture per lo sport a scuola) delle diverse linee di investimento.

Ma perché le Regioni sono in ritardo rispetto ai Comuni? Per la Svimez è, in parte, a causa della sovrapposizione con gli impegni legati all’implementazione dei programmi della politica di coesione europea.

Il Pnrr ha individuato nella sanità l’ambito di intervento prioritario delle amministrazioni regionali, soprattutto per le misure orientate al rafforzamento della sanità di prossimità, adottando criteri perequativi di allocazione territoriale delle risorse per orientare gli investimenti verso le regioni a maggior fabbisogno. È proprio negli investimenti in sanità territoriale che le Regioni del Sud registrano i ritardi più preoccupanti.

La Svimez, di fronte a questo quadro, pone l’attenzione alla prossima rimodulazione del fondi del Pnrr, ricordando come la «precedente riprogrammazione ha già sottratto investimenti destinati al riequilibrio territoriale infrastrutturale, indirizzando i fondi verso gli incentivi alle imprese di più rapida spendibilità. Una scelta finalizzata a semplificare e accelerare l’attuazione del Piano che però ne ha indebolito le finalità di perequazione infrastrutturale territoriale».

Per questo «replicare quella scelta per motivi di efficienza rischia di penalizzare ulteriormente le finalità di perequazione territoriale dele Pnrr, soprattutto in ambiti fondamentali per la riduzione dei divari di cittadinanza, a partire dalla sanità. Se i fondi per le infrastrutture pubbliche venissero ulteriormente ridotti, il Mezzogiorno vedrebbe diminuire le opportunità di sviluppo e la possibilità di colmare i divari storici nei servizi essenziali, dalla sanità ai trasporti».

«La messa in sicurezza degli interventi orientati a ridurre i gap territoriali nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali a titolarità degli enti locali – si legge – dovrebbe, dunque, rappresentare una priorità in vista di nuove possibili nuove riprogrammazioni per: preservare le finalità di coesione territoriale del Pnrr; valorizzare l’inedito sforzo progettuale, attuativo e di spesa realizzato delle amministrazioni, soprattutto quelle comunali; non disperdere il patrimonio di capacità ammnistrativa maturato con l’occasione del Pnrr». (ams)

 

LEGGE DI BILANCIO 2025, C’È UN GRANDE
ASSSENTE: NON SI PARLA DI MEZZOGIORNO

di ERCOLE INCALZA – Leggendo il Disegno di Legge di Stabilità 2025 nasce spontaneo un interrogativo: e il Mezzogiorno? Cioè quali siano o quali possano essere le risorse che il Governo intenda assegnare, sotto varie forme (in conto esercizio e in conto capitale) alla infrastrutturazione del Sud?

Io, in modo forse ripetitivo, ricordo sempre che la legge 27 febbraio 2017, n. 18, dispone che la quota delle risorse ordinarie delle spese in conto capitale a favore delle otto regioni del Mezzogiorno non sia inferiore al 34% del totale nazionale. Quest’ultimo valore non è casuale, in quanto è analogo al peso che la popolazione del Meridione ha sull’intero aggregato nazionale. Inoltre nella legge Finanziaria del 2005, era stato precisato che le Amministrazioni centrali si dovevano conformare all’obiettivo di destinare al Mezzogiorno almeno il 30% della spesa ordinaria in conto capitale.

Ma dal 2018 al 2022, se andiamo a leggere le dichiarazioni di Ministri del Mezzogiorno come Barbara Lezzi o Giuseppe Provenzano o Mara Carfagna e di Ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti come Danilo Toninelli o Paola De Micheli o Enrico Giovannini, scopriamo che era davvero scandaloso assegnare solo il 34%; una percentuale ridicola che non avrebbe mai incrinato il gap tra Sud e resto del Paese; almeno bisognava assegnare il 50% e il Ministro Giovannini dichiarò, addirittura, la soglia del 60%.

Appare evidente che allo stato attuale le risorse assegnate per interventi infrastrutturali rilevanti, sì per le cosiddette “opere strategiche”, nel Mezzogiorno dal 2015 ad oggi non superano, come preciserò dopo, il 6,5% del valore globale degli interventi infrastrutturali del Paese.

Ritengo opportuno precisare che in tale analisi non ho ritenuto opportuno inserire le risorse destinate al Ponte sullo Stretto di Messina perché non ho, in tale indagine, inserito gli interventi relativi al nuovo valico Torino – Lione, al Terzo Valico dei Giovi ed al Brennero; infatti ho sempre ritenuto questi quattro interventi come scelte mirate a realizzare i quattro anelli mancanti in grado di integrare il nostro impianto trasportistico con l’intero impianto comunitario.

Per questo motivo le opere infrastrutturali ubicate nel Mezzogiorno per le quali ci sono apposite risorse e sono in corso iniziative progettuali e realizzative sono: Un primo lotto dell’asse ferroviario ad alta velocità – alta capacità Salerno – Reggio Calabria per un importo di circa 2,2 miliardi di euro; Il collegamento ad alta velocità – alta capacità Napoli – Bari per un importo di circa 5,8 miliardi di euro; Alcuni lotti funzionali degli assi ad alta velocità – alta capacità Palermo – Messina e Messina – Catania per un valore globale di circa 3,8 miliardi di euro; Alcuni lotti (uno in costruzione altri in fase di appalto) della Strada Statale 106 Jonica che collega Taranto con Reggio Calabria per un valore globale di 4,3 miliardi di euro; Alcuni lotti dell’asse viario Palermo – Agrigento – Caltanissetta per un valore globale di circa 700 milioni di euro; Asse ferroviario ad alta velocità Taranto – Potenza – Battipaglia per un valore di circa 500 milioni di euro; Reti metropolitane e ferroviarie urbane di Napoli, Palermo e Catania per un valore globale di circa 900 milioni di euro.

Il valore globale di queste assegnazioni si attesta su un valore di 18,2 miliardi di euro e tutte sono opere previste nel Programma delle Infrastrutture Strategiche della Legge Obiettivo, opere che fino al 2022, escluso l’asse ad alta velocità Napoli – Bari, erano praticamente rimaste bloccate per scelta dei Governi Renzi, Gentiloni, Conte 1 e 2 e Draghi. Il valore del Programma della Legge Obiettivo era pari a circa 277 miliardi di euro (valore questo che non tiene conto, come detto prima, del valore dei valichi e del Ponte sullo Stretto) per cui i 18,3 miliardi di euro rappresentano appena il 6,5%.

Ma questa mia denuncia è davvero ridicola perché basata sulla logica delle risorse assegnate al Sud, una logica che, purtroppo, dopo molto tempo, ho capito che è solo un atto mediatico utile per testimoniare la esistenza di una volontà che si è trasformata in atti concreti solo con la Legge Obiettivo, dopo, invece, è rimasta solo una dichiarazione di buone intenzioni.

Pochi mesi fa ho fatto presente, in alcune mie note, che forse l’attuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) possono essere invece una prima misurabile occasione per uscire da questo equivoco e, soprattutto, un simile approccio ci farebbe scoprire che sarebbe necessario disporre per azioni infrastrutturali e servizi al Sud pari ad un valore di circa 14 miliardi di euro all’anno per un arco temporale di almeno dieci anni.

In realtà, quindi, la misura di un vero cambiamento dell’azione del  Governo nei confronti del Mezzogiorno non dovremmo più misurarla solo con queste percentuali inutili sul valore globale degli investimenti ma dovremmo convincerci, una volta per tutte, che l’unico modo per tentare di abbattere il gap del Sud nei confronti del Centro Nord, l’unico modo per evitare che il reddito pro capite medio si attesti sempre su un valore di 21 mila euro contro i 40 mila del Nord, l’unico modo per riconoscere al Mezzogiorno il suo ruolo chiave nel contesto nazionale e comunitario, l’unico modo per non rimanere, all’interno della Unione Europea, insieme alla Germania dell’Est la realtà economica incapace di crescere, l’unico modo è solo legato ad una azione organica nella omogenizzazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni.

Una azione che deve essere caratterizzata da iniziative non solo infrastrutturali ma anche in interventi capillari sulla miriade di servizi offerti: da quelli sul trasporto pubblico locale a quelli relativi alla offerta dei servizi sanitari e scolastici, ecc.

Ed allora, non avendo trovato risorse in conto capitale nel Disegno di Legge di Stabilità 2025 ho cercato quante risorse fossero state previste per l’attuazione dei Lep e non ho trovato alcuna risorsa e questa dimenticanza mi ha davvero preoccupato.

Addirittura ho pensato che il Governo speri, il prossimo 12 novembre, in una bocciatura, da parte della Consulta, della Legge n.86 del 26 giugno 2024 relativa all’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione. Sì è l’unico modo per evitare che una norma aggravi ulteriormente le sorti del Sud soprattutto perché, non disponendo il Governo di risorse, provocherebbe solo un rischioso conflitto non solo tra le Regioni del Sud e quelle del resto del Paese ma, addirittura, tra le stesse Regioni del Mezzogiorno. Mi spiace ma questo è uno dei primi passi falsi dell’attuale Governo. (ei)