LA RIFLESSIONE / Franco Cimino: Quella commedia dei potenti nella Basilica di San Pietro

di FRANCO CIMINO – E comunque, a me quella cosa in Chiesa non è piaciuta affatto. Sapeva di strumentalizzazione, di sceneggiata. Di recita conveniente per la facile pubblicità dalle televisioni in mondo visione.

In Chiesa, luogo sacro. Ché Basilica di San Pietro è una Chiesa, oltre che il monumento dell’uomo alla sua “procreatività” divina. È una delle più grandi opere d’arte mai edificate dall’uomo. Opera d’arte, che contiene altre opere d’arte, dalla divina creazione umana, quale dimostrazione dell’esistenza di Dio.

In quella Chiesa, in quell’opera d’arte, è stata recitata la farsa più pregna di ipocrisia e spregiudicatezza, che si potesse immaginare. Con il corpo ancora vivo di Francesco a venti passi da lì, è stata profanata la casa di Dio, la palestra d’amore di Francesco, la cattedra alta dalla quale ha parlato al mondo del Vangelo. Con la parola del Vangelo, attraverso la sua parola umana.

Parola profonda dell’animo di un uomo che ha sofferto a causa delle guerre prodotte da molti degli uomini di potere, che erano venuti non a inginocchiarsi per chiedere perdono all’uomo che è stato contrastato e combattuto, offeso e denigrato, isolato nella sua lunga lotta contro la barbarie delle guerre, la ferocia dell’odio, la cattiveria della forza armata contro i deboli. Se l’ironia non fosse a me stesso sgradevole, direi che molti di loro sono venuti ai funerali più per verificare che Francesco fosse veramente morto, liberando il loro mondo della sua presenza, che non per renderegli omaggio, perdonandosi e chiedendo perdono.

Vedere che in quella Basilica del Papa regnante sotto il Cristo Signore della vita, guida del mondo e del cammino per la Pace, abbia trovato imperio e centralità un potente della terra, per essere globalmente riconosciuto come il capo del mondo, cui assoggettarsi riconoscendone autorità e potenza, francamente mi ha ferito molto. Come cristiano e come uomo. Sapere che quel potente in solo quindici minuti abbia potuto parlare con sette Capi di Stato, e lungamente come dicono gli ossequienti osservatori con il rappresentante del popolo ucraino, che, come quello di Gaza sta ancora subendo il martirio di continue uccisioni e devastazioni, fa ridere piangendo di dolore immobile, sconfitto, disarmato.

Se qualcosa di diplomatico, appena appena accennato, vi fosse stato in quella sala enorme di enorme bellezza, avrà riguardato, dicono ancora gli ossequienti osservatori, l’accordo di “pace” che si vorrebbe imporre all’Ucraina come alla Palestina ancora non nata, questo dovrebbe far riflette i pacifisti improvvisati sull’altare delle partigianerie.

L’accordo americano dello studio ovale, intendo, fotocopia della volontà di Putin e di Netanyahu, che vorrebbero che le posizioni restassero sul terreno così come sono state determinate da più di tre anni di assalti bellici durissimi da parte della Russia all’Ucraina e da quasi due anni di barbari massacri di Israele, sulla palpazione palestinese. Con un premio-rapina ai falsi mediatori in terre e in beni preziosi per l’imposizione di questa autentica vergogna.

Se questa è la Pace, io mi candido a fare il prossimo Papa. Se davvero si fosse voluto onorare Francesco, sarebbe bastato il silenzio. Ovvero, nel momento dello scambio del segno di pace durante la Messa per Lui, tutta la parte destra dall’altare, quella macchia nera che si vedeva in contrasto di colore dalle televisioni, si lanciasse, nello stesso spazio, in un abbraccio forte ad occhi chiusi per non sapere dell’altro.

Un abbraccio tra tutti loro. E tutti insieme, con gli occhi rivolti al cielo, urlare una sola parola, Pace, Pace, Pace. Quella professata dal Vangelo e predicata da Francesco. La Pace senza condizioni, se non quelle di riparare a tutte le offese morali e materiali commesse.

In danno all’uomo e alla umanità, che custodisce e valorizza la dignità e la vita di ogni essere umano. E del popolo e della terra a cui appartiene, un attimo prima di essere parte dell’Umanità. (fc)

L’INTERVENTO / Nicola Barone: Il grande vuoto che lascia Papa Francesco

di NICOLA BARONE – «Non dimenticatevi di pregare per me».

Sabato 26 sono stato presente alle esequie funebri di Papa Francesco come cavaliere di San Gregorio Magno.

Per me è stata una giornata veramente toccante, emozionante e storica, dal momento che ultimamente l’avevo incontrato sia il 24 sera a Santa Marta prima dell’apertura della Porta Santa, sia il 12 gennaio per il battesimo del mio nipotino Angelo nella cappella Sistina.

Pertanto vedere, poi, la salma a Santa Marta e poi nella Basilica di San Pietro è stato per me un momento di dispiacere enorme, in quanto mi sono venuti in mente tutti i ricordi degli incontri fatti con lui.

Nel 2015 ho avuto modo di consegnare la targa di Marconista del XXI secolo a Piazza San Pietro con il Presidente della Fondazione Marconi, prof. Gabriele Falciasecca, l’ing. Oscar Cicchetti, presidente di Telecom Argentina, ed il prof. Franco Romeo, presidente della Società italiana di Cardiologia.

Papa Francesco è stato un uomo grande, nella sua umile postura e profetico, nella sua analisi dell’epoca vissuta.
Ho inteso tributare un sentimento di vicinanza solidale e spirituale verso un pontefice che ha lanciato al mondo intero grandi messaggi di Pace, altamente profetici e lungimiranti nel corso dei 12 anni di Pontificato.

Messaggi, moniti e appelli che Papa Francesco ha sempre espresso in maniera diretta, favorendo l’incontro con tutte le fasce vulnerabili del pianeta, con l’ascolto alle istanze degli umili, dando voce alle periferie del mondo, che parta dal primario diritto dei popoli a vivere in pace.

Si è sempre battuto per costruire ponti contro la cultura dei muri e degli scarti.  (nb)

[Nicola Barone è presidente Tim San Marino]

L’ULTIMO ADDIO A FRANCESCO
IL PAPA DEGLI ULTIMI

di SANTO STRATI – L’ultimo addio col funerale che tutto il mondo ha potuto seguire in diretta attraverso tv e social (quanti milioni, forse miliardi di persone?) ci ha messo di fronte a una realtà ineludibile.

Francesco non c’è più e lascia un vuoto enorme. Ci mancheranno la sua freschezza, la sua spontaneità, il suo sorriso, ma peserà, soprattutto, l’assenza di una figura carismatica che contro la guerra – contro tutte le guerre – ha usato lo strumento della persuasione opponendo nessuna indulgenza nei confronti dei responsabili.

La guerra – le guerre (ci sono più di 60 conflitti in corso, non è solo Russia-Ucraina e Israele-Gaza) – sta diventando l’atroce paradigma di questo Terzo Millennio che doveva segnare orizzonti di prosperità e benessere e, invece, ha pagato il caro prezzo della pandemia prima e dell’acuirsi dei conflitti mondiali.

La pace non è un’utopia, ma bisogna crederci per volerla davvero, attività che non sembra praticata né dai grandi né dai piccoli della terra. E a fianco allo strazio della guerra si deve registrare il deterioramento dei rapporti umani, delle relazioni sociali, con il prevalere di una intollerabile (ma ahimè troppo in crescita) indifferenza. Un sentimento che è peggio dell’odio perché induce a dimenticarsi degli altri e scartare a priori fragilità e povertà, malesseri che non derivano da scelte personali ma condizionano in maniera severa l’intera esistenza di milioni di persone.

Francesco aveva preso a cuore la lotta contro l’indifferenza, esaltando la necessità non solo di concorrere al bene comune ma anche l’esigenza di condivisione dei valori cristiani opposti alla non-curanza: il paradigma sociale della concuranza (termine coniato dal prof. Mauro Alvisi in un voluminoso trattato costato 10 anni di lavoro) era nel percorso indicato da Francesco: curare insieme, occuparsi degli altri, spendere la vita guardando anche a chi non porge la mano per vergogna, pur avendo bisogni estremi.

È una traccia importante dell’eredità di Papa Francesco, come la sua personale “guerra” contro tutte le guerre, in nome dello spirito cristiano, in nome di Dio in tutte le sue declinazioni. Il dialogo interreligioso è stato una costante di Francesco, un Papa che, non a caso, ha scelto il nome del poverello d’Assisi e ne ha mutuato gli insegnamenti, portandoli a diventare un modello di vita.

La sua stessa fine – pur paventata, temuta e consapevolmente avvertita come prossima – ci indica la caducità della nostra stessa esistenza: domenica di Pasqua era – pur malato e affaticato – tra i fedeli, a scorrere in piazza San Pietro a far vedere che il Papa c’era. Qualche attimo dopo, Dio l’ha chiamato a sé. Questo ribadisce – per chi ancora non se n’è fatto una ragione, da credente o no – che siamo niente. Stamattina siamo forti e ci sentiamo invincibili, trascurando le vere cose della vita (amore e sentimenti), stasera possiamo non esserci più.

Muore il corpo – è vero – secondo la dottrina cristiana – ma non lo spirito: povere ossa che andranno a diventare cenere e con esse superbia, ambizione, indifferenza, passioni, amore e corsa verso la ricchezza e il potere. Tutte cose che non serviranno più: potere e ricchezza saranno dilapidati in un modo o nell’altro) da chi rimane, ma i sentimenti d’amore (come si raccomandava di insegnare Francesco) sono un’eredità inalienabile per chi sente e avverte l’assenza fisica della persona cara, ma ne accoglie la vitale essenza spirituale.
Francesco lascia questo in eredità a tutto il mondo: tornare a ragionare con la testa e far prevalere il sentimento sull’indifferenza.

È un’indicazione per il futuro pontefice, ma soprattutto per il popolo cristiano che, troppo spesso, ormai usa la religione a corrente alternata. La fede è un dono che lo spirito cristiano deve saper utilizzare in tutte le sue opportunità. La vita si è allungata, ma si sono ristretti i sentimenti di altruismo e il desiderio (innato) di fare del bene, seguendo gli insegnamenti di Cristo: non sappiamo se ha saputo Francesco risvegliare le tante coscienze sopite, ma sicuramente ha acceso tante lampadine che sembravano fulminate.

Grazie Papa Francesco per quanto ci hai donato e perdona chi non ha capito. E come hai sempre chiesto, pregheremo per te, questa volta, però, con gli occhi lucidi di lacrime. Quelle sì, vere, autentiche, meglio di tante parole intrise d’ipocrisia che hanno accompagnato il tuo ultimo viaggio terreno. (s)

Francesco, un Papa non sempre compreso

di PINO NANOCon la morte di Francesco se ne va via, per sempre, un grande Papa. 

Francesco, come lui amava essere chiamato da noi cronisti che frequentavamo la sala Stampa Vaticana, era soprattutto un Papa buono. 

Era un Papa cresciuto a pane e sacrifici, un Papa che arrivava a Roma da molto lontano, un Papa che aveva conosciuto e attraversato il dolore della terra Argentina fino in fondo, un Papa che aveva sofferto in prima persona l’atmosfera soffocante dei regimi totalitari del suo popolo, un Papa che per tutta la vita aveva sognato un mondo finalmente libero da ogni forma di condizionamento o di legacci ideologici.

Francesco era un Papa che aveva un innato un profondo senso del rigore, un Papa attentissimo a non calpestare mai gli altri, un Papa rispettoso del mondo degli ultimi, un Papa che sapeva essere pastore responsabile e insieme guida carismatica dei suoi fedeli, apostolo e testimone del suo tempo come nessun altro prima di lui forse era riuscito ad esserlo.

Francesco era il Papa dei contrasti, il Papa delle rotture, il Papa dei dubbi, il Papa degli eccessi, il Papa che conosceva i mille conflitti esistenti all’interno delle mura vaticane e che fino all’ultimo aveva provato a cambiare le cose. 

Autorevole, assolutamente consapevole del suo peso e del ruolo del suo magistero, Francesco avrebbe potuto dimettersi molto prima di morire, ne avrebbe avuto mille ragioni serie per farlo, e invece è rimasto al suo posto, fino all’ultimo, difendendo le ragioni della pace rispetto ad una guerra atroce e violenta come quella che ha messo in ginocchio il popolo ucraino.

Mi chiedo, ma come si farà a dimenticare l’immagine tristissima, e quasi patetica, di questo Pontefice in carrozzella che domenica di Pasqua trova ancora la forza di un respiro, per salutare per l’ultima volta il suo popolo?  

Come si farà a dimenticare l’abbraccio tenerissimo che Francesco, ormai sfinito e quasi imbalsamato, riserva e dedica al bimbo che domenica di Pasqua i suoi uomini di scorta gli poggiano tra le braccia? 

E come si farà a dimenticare il volto quasi impassibile di questo Papa che da lì a poco sarebbe salito al cielo, e che durante la sua lunga malattia non ha mai pensato un solo istante a se stesso, e al dolore che lo aveva reso schiavo e dipendente per sempre?

Ricordo che all’inizio del suo Pontificato, faceva quasi impressione immaginare la sua vita all’interno delle sue stanze sistemate e adattate per lui a Santa Marta, ma Francesco aveva voluto rompere con il passato. Lo aveva fatto di proposito, scientemente.

Voleva dimostrare al suo mondo, più che all’esterno, che era finalmente finito il tempo dei privilegi, o il tempo delle esagerazioni assurde, dimostrando invece con i fatti che un Papa poteva sopravvivere lo stesso nel chiuso di due stanze.

Ricordo ancora con immensa commozione il giorno in cui le telecamere della Rai lo inquadrano mentre sale sull’aereo per una delle sue prime missioni all’estero e l’obiettivo fa vedere in maniera davvero impietosa e irriverente al mondo intero le sue scarpe bucate. O lui, in una occasione diversa, che sale sulla scaletta dell’aereo portandosi per mano e trascinandosi dietro il suo sacco da viaggio. 

Era il senso del cambiamento. Era l’immagine forte della novità. Era la prova provata che il Papa argentino avrebbe rivoluzionato i tempi e i modi di vivere dei Palazzi Vaticani.

In giro per il mondo, eternamente avvolto e accarezzato da milioni di persone, poi un giorno lo ritroviamo solo con sé stesso, solo con la sua croce, abbracciato al legno del crocefisso, lui da solo, al centro della Piazza di San Pietro, negli anni in cui il mondo è oppresso dal Covid, e lo ritroviamo più forte di prima, più convincente che mai, più determinato che mai. 

Un Papa di cui sentiremo parlare negli anni che verranno, ne sono certo, per il coraggio di certe sue posizioni e di certe sue affermazioni. 

Francesco è il Papa che scende per un giorno in Calabria e che nel cuore infuocato della Piana di Sibari lancia il suo anatema contro la ‘ndrangheta, duro, feroce, diretto, quasi un pugno nello stomaco di una società per anni sonnolenta ed educata al silenzio. E per un giorno, Francesco diventa l’apostolo dei Sud del mondo, il difensore dei diritti civili, il passionario dei valori tradizionali della famiglia, il confessore pubblico di un popolo che non sa più in cosa credere e in cosa sperare.

E che dire delle sue ultime volontà? 

«Il giorno della mia morte riportatemi ai piedi della Madonna che tanto ha aiutato la mia vita e la mia missione pastorale». Francesco aveva già scelto da tempo il luogo della sua sepoltura, e per la prima volta nella storia ecco che un Papa lascia le mura Vaticane per riposare sotto la cripta della Basilica di Santa Maria Maggiore. 

È la discontinuità con il passato. È la voglia di riaffermare la sua libertà personale. È il desiderio soprattutto di riaffrancare se stesso difronte al mondo che lo guarda. E nel suo caso, sarà ancora una volta il linguaggio del corpo a tramandare di lui il ricordo più tenero e più bello, avvolto per questo suo ultimo viaggio terreno dalla Basilica di San Pietro alla Basilica di Santa Maria Maggiore da una semplice bara di legno e zinco priva di fregi e di inutili orpelli.  

Cosa sarà dopo di lui? È difficile dirlo, difficile immaginarlo, ma una certezza credo di averla e di poterla anche esprime in pubblico a tutti voi. 

Nulla sarà più come prima. Perché l’esempio di Papa Francesco ha già profondamente segnato la via maestra della Chiesa moderna, sempre più aperta e votata ai valori spirituali dell’uomo, e sempre più nemica dichiarata degli interessi materiali di una società educata all’ opulenza e alle tentazioni del corpo.

Ma è proprio questa forse la vera grande vittoria morale e finale di questo Papa non sempre compreso e non sempre amato per come avrebbe invece meritato di essere. (pn)

[Courtesy BeeMagazine]

Francesco, un Papa nell’umiltà del mistero divino

di PIERFRANCO BRUNI – «Chi non soffre con il fratello sofferente, anche se è diverso da lui per razza, per religione, per lingua o per cultura, deve interrogarsi sulla sincerità della sua fede e sulla sua umanità. Sono stato molto toccato dall’incontro con i rifugiati Rohingya e ho chiesto loro di perdonarci per le nostre mancanze e per il nostro silenzio, chiedendo alla comunità internazionale di aiutarli e di soccorrere tutti i gruppi oppressi e perseguitati presenti nel mondo», (Papa Francesco).

La misericordia di Papa Francesco. Un uomo in Cristo. Un Pontefice in carità. Ci fu la misericordia in parole di fede e di amore. Assunse subito San Francesco d’Assisi come riferimento di apostolato e seppe coniugare con amore e benevolenza i gesuiti e i francescani. Un camminamento. La fede è cammino.

Lunedì dell’Angelo. Papa Francesco non c’è più. Ovvero Papa Bergoglio in un giorno particolare ha lasciato il viaggio terreno. Oltre al cordoglio resta il vuoto di un pontefice che ha rivoluzionato non solo la Curia e il sistema “pontificale” ma ha cambiato il modo di pensare la fede.

Sì, anche se la fede è un mistero unico con lui la fede stessa è diventata un credo “popolare” tra le genti scavando nei cuori e nelle Genti. Un cammino che è stato attraversato soprattutto da un uomo di Dio che ha saputo ben comprendere non il tempo che cambia ma il mondo cambiato da un tempo pieno di contraddizioni e di lacerazioni.

Un uomo che ha fatto del papato la vera sede della accoglienza e del Vangelo. Non era facile dopo due papati importanti e “ingombranti” nelle civiltà del mondo inserirsi in quella Tradizione innovativa di Giovanni Paolo II e in quella Tradizione conservatrice di Benedetto XVI. Eppure Francesco, dopo i primi inizi un po’ incerti, ha colto l’Essenziale. Quale è l’Essenziale? È aver proiettato nell’uomo moderno la parola di Maria e la parola forte di Cristo.

L’Essenziale è in modo apostolico non la forma orante della Chiesa, bensì la preghiera dell’umiltà. Quel «pregate per me…» suonava come il pregare per tutti noi, ovvero un pregare per l’uomo. Eppure ha vissuto diverse problematiche. Un gesuita che portava sempre con sé la lingua di Sant’Ignazio.

La innovazione della rivolta rispetta a una Chiesa in attesa. Francesco ha superato l’attesa perché ha saputo cogliere proprio quell’essenziale che vibra in ogni uomo e che a volte resta velato. Ha saputo disvelare il buio delle crisi con un umanesimo cristiano.

Infatti ci sono stati messaggi politici e messaggi escatologici. Quello politico è il superamento della storia e insistere nella centralità dell’anima. Quello escatologico è il Dio che decide e al quale affidarsi proprio attraverso la preghiera. Direi un uomo maestoso che ha usato la parola dell’agorà. Un Pontefice singolare per aver messo al centro il dialogo tra l’uomo del nostro tempo e l’universalità di Dio.

Credo che sarà molto difficile vivere una continuità oltre Francesco. Tra Giovanni Paolo e Benedetto c’era una condivisione sul piano religioso e teologico. Francesco è stato un darsi agli altri con la consapevolezza che gli altri ci sono sempre e possono essere l’espressione della carità. Carità che proviene dal francescanesimo. Mi restano sulla pelle alcune sue parole quando disse: «A me fa male quando vedo un prete o una suora con un’auto di ultimo modello: ma non si può! Non si può andare con auto costose. La macchina è necessaria per fare tanto lavoro, ma prendetene una umile. Se ne volete una bella pensate ai bambini che muoiono di fame».

Una visione profondamente spirituale che ci lascia come testamento. Da consegnare a tutta la comunità dei fedeli e dei cristiani laici e al mondo sacerdotale. Il tutto in misericordia di gesti e di linguaggio. Tutto si innova nel nome dell’abbraccio misericordioso. Ovvero nella speranza. Mai perderla. Mai disconoscerla. Sempre offrirla.
Ora si apre non un capitolo nuovo. Ma un’epoca diversa. Mi auguro che non si vada verso discussioni sterili.

Ma verso una Chiesa che sappia comprendere i tre ultimi pontificati con pazienza e umiltà per dare un senso a una Santità di cui gli uomini di un tempo di intelligenze artificiale hanno necessariamente bisogno. (pb)

Papa Francesco, in Calabria cenacoli di preghiera ovunque

di PINO NANOIl 21 giugno del 2014 Papa Francesco sbarcava in Calabria e a Cassano allo Jonio tenne una delle sue omelie più forti contro la ‘Ndrangheta. Per ricordare quel giorno, siamo andati a cercare uno dei giornalisti che più ha parlato e ha scritto di lui e di quella visita, e che il 18 marzo prossimo ha festeggiato i suoi primi 25 anni di sacerdozio.

Don Enzo Gabrieli, sacerdote e giornalista di vecchia data, è stato Vicepresidente della Federazione Italiana dei Settimanali cattolici (Fisc) e membro del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria. Oggi lui è direttore del settimanale diocesano di Cosenza-Bisignano “Parola di Vita” e dell’annessa radio Jobel InBlu. Scrittore e parroco di Mendicino, è un personaggio di grande cultura e di grande modernità.

– Don Enzo come ricorda lei l’arrivo del Papa a Cassano, in Calabria?

«Lo ricordo come un grande evento di Chiesa ovviamente. La notizia della sua visita lasciò tutti a bocca aperta. Fu una grande sorpresa, e ancor più divenne un evento di benedizione e di grazia per la nostra terra. Cassano resterà nella memoria dei calabresi e dell’intera chiesa perché nella spianata di Sibari si è ripetuta l’azione profetica dei grandi pontefici contro la malavita organizzata contro la ‘ndrangheta. Così come aveva fatto San Giovanni Paolo Secondo ad Agrigento, gridando contro i mafiosi, così Francesco con quella omelia nella quale scomunicò gli uomini appartenenti alla criminalità organizzata».

«Fu un grande sussulto all’interno e all’esterno della Chiesa e diede una grande spinta all’episcopato Calabro e a quanti silenziosamente, laicamente, o in maniera religiosa, ogni giorno alzano argini educativi e di bene in questa terra che dopo qualche mese i vescovi definirono “bella ed amara”».

– Nessuno meglio di lei credo conosca all’interno della Chiesa calabrese la portata dei tanti documenti prodotto e sottoscritti contro la mafia…

«Ho avuto il dono in quel periodo di poter lavorare alla raccolta di tutti i documenti che nell’ultimo secolo l’episcopato calabrese ha prodotto contro la criminalità, imbattendomi in pagine di profonda riflessione e non solo di denuncia, alcune delle quali mostrano una graduale presa di coscienza dell’intera società di un fenomeno difficile da interpretare ancor più difficile da combattere. Dove solo l’alleanza tra le istituzioni può fare d’amore».

«I vescovi vollero titolare quella raccolta con una frase forte, ovviamente in linea con le sollecitazioni del Santo Padre: la ‘ndrangheta è l’anti Vangelo. Già dal titolo, una evidente chiara presa di posizione.  Da quell’appuntamento che è diventato ormai una pietra miliare per il cammino formativo della Chiesa e dell’impegno sociale e politico dei cristiani sono nati dei laboratori che richiedono ovviamente tempo sia sul fronte della pietà popolare, sia sul fronte della formazione dei futuri sacerdoti, che dall’impegno in parrocchia e delle associazioni nel territorio».

«Se qualche dubbio poteva manifestarsi a causa del comportamento ambiguo, connivente o superficiale di alcuni uomini di chiesa che storicamente o nella cronaca hanno mostrato fragilità e debolezze, dopo la visita del Santo Padre non ci sono più spazi per una qualsiasi forma di connivenza o giustificazione. La strada è stata tracciata».

– Posso chiederle perché la scelta fu Cassano e non Cosenza?

«Il Papa sceglie personalmente dove andare. Quella fu una visita pastorale ad una chiesa, non alla Regione Calabria come fece Giovanni Paolo secondo nel 1984. Scelse Cassano perché forse il vescovo aveva chiesto la presenza del Santo Padre in quella chiesa. Va anche ricordato che c’erano stati dei fatti molto brutti legati alla morte di un bambino e alla violenza perpetrata contro un sacerdote».

«Ma penso che la visita del Papa venga sempre organizzata nell’ambito di un progetto pastorale più grande, e non solo legata ai fatti di cronaca, che però possono essere un’occasione per dare un indirizzo hai credenti all’intera società. Penso alla sua prima visita pastorale, la sua prima uscita, che volle fare proprio a Lampedusa per ricordare come il Mediterraneo sia diventato un cimitero ed un mostro che inghiotte i suoi figli che cercano speranza e futuro scappando dalla disperazione, dalla povertà e dalla guerra».

– In che modo il suo giornale ha raccontato l’evento?

«Ovviamente abbiamo dato tanto spazio all’evento e ci siamo cimentati nell’esperienza degli inviati. Erano i primi anni di lavoro sistematico del nostro settimanale che si andava collocando in uno spazio di narrazione attraverso la penna e la voce di giovani giornalisti in erba. Giovani che avevano ereditato un grande patrimonio, e che è quello di parola di vita che sta per compiere i suoi 100 anni.  Ci siamo cimentati anche nella preparazione di interviste alle persone e non solo a riportare la cronaca dagli eventi. Penso che fu uno dei primi reportage che ci ha visti coinvolti come squadra del giornale diocesano».

– Che Papa ricorda e che Papa ha incontrato a Cassano?

«Erano i primi anni di pontificato Di Francesco e lo ricordo, come tutti gli osservatori calabresi ma anche come sacerdote, nella sua energia più piena e nella sua passione di pastore. Ricordo i fotogrammi di quella omelia profetica, ma anche la decisione di far fermare il corteo papale per poter salutare delle persone che da ore lo attendevano sulla strada. Il Papa della gente. Il Papa che ha toccato e continua a toccare il cuore della gente e dei semplici. Le persone si sentono capite da questo Papa e attualmente, in questo momento di sofferenza e di malattia, il Santo Padre ci sta insegnando a riportare tutto al cuore».

– La visita in carcere, la visita dal piccolo Cocò. Una omelia contro la mafia, la Calabria se l’aspettava?

«Probabilmente i calabresi si aspettavano tutte queste diverse visite, così come fa di solito il Papa, che inserisce nei suoi viaggi sempre un appuntamento con chi è nella sofferenza, con chi è in carcere, con chi ha sbagliato nella vita. Le sue visite sono sempre state, e sono ancora, anche il momento di richiamo e di attenzione ai grandi fenomeni sociali come le migrazioni e le povertà. Ma non ci si aspettava forse il forte intervento del Papa a Cassano contro la mafia, perché essendo stata annunciata come una visita ad una chiesa e non alla terra di Calabria sembrava una visita più legata ad un momento pastorale e di incontro con una porzione del popolo di Dio che è in Cassano all’Jonio».

– Andò tutto in altro modo?

«Ma Papa Francesco riesce a meravigliare sempre, a stupire, e questo non per creare l’evento ma perché come pastore della Chiesa universale sa bene di quello che ha bisogno un territorio in quel determinato momento storico. E poi, ogni azione e ogni insegnamento del Papa, aprirsi a livelli diversi, è sempre un atto di magistero per la Chiesa intera. Non è mai un fatto isolato, è legato strettamente ad un determinato territorio soltanto. Il Papa quando parla lo fa a tutti i credenti, e anche ai non credenti».

– Dopo 11 anni da quella visita cosa è rimasto nella gente del luogo?

«Alla chiesa di Cassano è rimasta sicuramente la memoria grata ed un tesoro di insegnamento che rimane come un monumento storico innalzato per tutta la Calabria. Ai calabresi è rimasta la grande denuncia contro quella piovra che stritola la nostra terra e che estende i suoi tentacoli verso il mondo. È rimasta la chiara presa di posizione alla quale si possono ancorare i credenti per purificare la religiosità popolare, sentirsi confortati e aiutati nei no che vanno detti, non solo alla criminalità organizzata ma anche ad una cultura mafiosa e a strutture sociali di peccato e di ingiustizia che possono stritolare il nostro territorio facendolo cadere nel fatalismo e nella rassegnazione. Quella visita è stata una visita di grande speranza per la terra di Calabria».

– Il ricovero del papa al Gemelli coincide anche con il suo venticinquesimo di sacerdozio…

«Sì, la mia vocazione è nata sotto Giovanni Paolo II del quale conservo sempre una grande memoria grata e una profonda devozione. Si è alimentata con gli insegnamenti di Papa Benedetto e trova una grande spinta pastorale nella testimonianza di Papa Francesco. Uno stimolo a fare meglio, a fare bene, a volgere lo sguardo alle povertà e agli ultimi. Questa tappa del mio sacerdozio è un’occasione per dire, come più volte ha detto lui, che guardando indietro rifarei la strada percorsa, tra luci e ombre, fragilità e sofferenze, fra attese e tantissimi doni di Dio, fatti di incontri, di volti e di provvidenza, perché non ricordo niente in cui non ci sia il Signore».

– Le faccio una domanda irriverente: se lei potesse tornare indietro rifarebbe il prete?

«Certamente. Ma non come mia scelta, ma perché mi sento scelto e chiamato a qualche cosa di molto più grande, ma allo stesso tempo immerso all’interno di un dono e di un mistero che mi supera, che mi sovrasta, che mi avvolge e che mi dà tanta gioia. Sono felice di essere stato chiamato a fare il sacerdote e di avere risposto, nonostante le mie fragilità, con il mio sì a Cristo nella Chiesa. Posso testimoniare che ci sia anche qualche rinuncia, qualche scelta l’ho dovuta fare, così come si fa in ogni scelta di vita, ma  ho ricevuto già il centuplo quaggiù, come ha promesso Gesù, a quanti hanno deciso di seguirlo».

– A chi deve questa scelta?

«La mia vocazione è nata in una famiglia religiosa di emigranti calabresi rientrati con la mia nascita in Italia. Devo la mia vocazione alla fede dei miei genitori, semplice e profonda, senza fronzoli e senza troppe parole. Fatta dalla testimonianza di mio papà che oggi dal cielo continua a seguirmi, dalla mia mamma che posso dire che insieme al latte mi ha donato la fede e mi hai insegnato a pregare, a credere e a sperare, ma soprattutto a donare. La devo anche alla mia famiglia numerosa e alla mia parrocchia dove ho incontrato sacerdoti appassionati del Vangelo. Non posso dimenticare anche i due vescovi che mi hanno accompagnato all’altare. Monsignor Dino Trabalzini, che mi ha seguito negli anni di formazione e seminario, e poi monsignor Giuseppe Agostino che mi ha accolto come suo segretario e mi ha ordinato sacerdote, dandomi tanta fiducia».

– Qual è stato il suo giorno più felice da prete?

«Non voglio essere finto oppure dare una risposta d’occasione. Ma posso testimoniarle che non c’è stato giorno al quale io non sia stato felice di essere sacerdote. Nei momenti faticosi proprio il sacerdozio mi ha permesso di fare un passo in più e di gioire. Di sentirmi amato da Dio e accompagnato dalla materna presenza di Maria. Quanti innumerevoli doni mi ha fatto il Signore!Anche quando sembrava che la vita riservasse delusioni, tradimenti e qualche momento di Croce».

– E il giorno invece più triste?

«No. Non ci sono stati giorni tristi. Ci sono stati giorni faticosi, questo sì, ma posso dire che alla sera, ogni volta che sono rientrato a casa, nella mia stanza, sono rientrato stanco ma felice. Mai prostrato e mai triste. Posso dire che qualche prova alla mia vita, dopo un piccolo quarto di secolo, c’è stata. Quando la giornata è stata un po’ più dura il Signore mi ha sempre regalato un Cielo stellato da contemplare, un sorriso incoraggiante, una parola che mi ha toccato il cuore. Gesù non mi ha mai lasciato solo, anche perché accanto al discepolo che Lui ama, ha messo la sua mamma. E Maria mi ha accompagnato e mi accompagna sempre. Sento la sua mano, sento la sua carezza, insieme a quella dei tanti santi e dei tanti testimoni della fede». (pn)

Il racconto calabrese della malattia del Papa

di PINO NANONon ci crederebbe nessuno, ma a raccontare la lunga malattia di Papa Francesco al Policlinico Gemelli di Roma ci sono, da due settimane ormai, tre giornalisti calabresi.

Ognuno di loro viene da esperienze diverse, ma nel racconto che traspare dai loro collegamenti in diretta ne viene fuori l’immagine fiera di tre giovani professionisti pieni di ammirazione per Padre Bergoglio e soprattutto profondi conoscitori della vita e della storia del Papa. 

Sono, in ordine rigorosamente alfabetico: Rosario Carello, Franceso Paravati, ed Enzo Romeo

Enzo Romeo è il volto nazionale del TG2, racconta la vita del Vaticano e dei Papi da quasi 30 anni, ha girato il mondo al seguito di almeno tre pontefici diversi, e ogni giorno continua a seguire l’evoluzione della malattia del Santo Padre in diretta dalla piazza centrale del Policlinico Gemelli, davanti alla grande statua dedicata a Papa Giovanni Paolo Secondo.

Lo fa con il suo garbo di sempre, vaticanista amatissimo dallo stesso Pontefice, ma non poteva essere altrimenti, soprattutto per via del suo carattere, il classico “ragazzo della porta accanto” a cui ognuno di noi affiderebbe le chiavi di casa propria. Classe 1959, originario di Siderno, Enzo Romeo ha raccontato i pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco; da inviato è stato su alcuni dei principali fronti di tensione e teatri di politica internazionale degli ultimi decenni. Fa parte del comitato editoriale della editrice Ave e del comitato di direzione di Dialoghi, rivista culturale dell’Azione Cattolica. Collabora alle riviste Credere e Jesus. Ha scritto numerosi saggi su temi letterari, ecclesiali e di attualità internazionale, tradotti in varie lingue. E’ quello che in Vaticano considerano “uno dei nostri”.

Francesco Paravati è, invece, l’inviato speciale al Gemelli della TGR, la Testata Giornalistica Regionale, anche lui un cronista attentissimo alla forma e al linguaggio, rigoroso, sobrio, documentatissimo. Nato a Catanzaro il 28 aprile 1973, laureato in giurisprudenza all’Università di Bologna “Alma Mater”, avvocato esperto in materia di diritto del web, tutela diritto d’autore, privacy e protezione dati personali, diritto dei minori e dei new media, è giornalista professionista dal 9 settembre 2011.

In passato portavoce dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, dal 1998 al 2002 è stato redattore del quotidiano “Il Domani della Calabria”, quindi collaboratore dell’Editoriale Domus, del magazine “Diario”, delle riviste d’Arte contemporanea Inside Art e Drome, dei siti Panorama.it e Calabriaweb, dei quotidiani Il Domani della Calabria, Calabria Sera, Quotidiano della Calabria, Il Sole 24 Ore. Assunto alla Rai di Cosenza, oggi lavora al TG regionale del Lazio e, insieme a Rosario Carello, segue le cronache sulla salute del Papa per tutte le altre redazioni regionale della Testata. 

Ma altrettanto rigorose sono le “dirette” di Rosario Carello, che conosce il mondo Vaticano come pochi, per essere stato lui per lunghi anni una delle facce ufficiali del programma che oggi è di Lorena Bianchetti “A Sua Immagine”. Rosario Carello è nato a Catanzaro nel 1973. Giornalista professionista, prima di condurre A Sua Immagine, dov’è è stato anche autore, ha fatto parte della redazione giornalistica di SAT2000, lavorando al TG, ai programmi culturali, ai servizi religiosi e conducendo per un anno il talk quotidiano Formato Famiglia.

Autore e conduttore radiofonico per oltre dieci anni, ha scritto editoriali per Avvenire, diretto per l’Ave un dvd-reportage sull’Azione Cattolica in Italia, collaborato con numerose riviste. Suoi testi sono usciti per la Carello Editore e un suo saggio “La cronaca e altri racconti” è stato pubblicato nel 2008 dalla San Paolo. Anche lui, raccontano i retroscena vaticani, molto apprezzato e seguito da Papa Francesco.

Questo significa che se vi capita, per un motivo qualunque, di passare davanti al Policlinico Gemelli troverete, giorno e notte, perché i turni che fanno sono davvero massacranti, almeno uno di loro, e questo come calabresi francamente dovrebbe riempirci di orgoglio. (pn)

DA OGGI IL GIUBILEO 2025: LA CALABRIA
AMBASCIATRICE DI FEDE E CRISTIANITÀ

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quest’anno sarà una Vigilia di Natale speciale in tutto il mondo, e in particolare in Calabria, poiché Papa Francesco, questo pomeriggio, aprirà la Porta Santa nella Basilica di San Pietro, dando il via al Giubileo 2025.

Le origini del Giubileo risalgono all’Antico Testamento, in riferimento all’anno di riposo della terra e remissione dei debiti. Nel 1300, sotto papa Bonifacio VIII, il Giubileo acquista il significato attuale, legato all’indulgenza straordinaria che la Chiesa elargisce ai fedeli ogni 25 anni.

Ma il Giubileo – che si concluderà il 6 gennaio 2026 – non si aprirà solo a Roma, ma in tutte le Diocesi italiane, comprese quelle calabresi.

A Corigliano Rossano, l’Arcidiocesi di Corigliano Rossano, guidata dal vescovo mons. Maurizio Aloise, per domenica 29 ha organizzato una Solenne concelebrazione eucaristico

«Desidero – scrive nel decreto in cui vengono elencate le Chiese Mons Aloise – che queste chiese diventino luogo dove si sperimenta l’amore di Dio che consola, perdona e dona speranza. In tal modo questo tempo di Grazia può diventare per la nostra chiesa un momento di riconciliazione con Dio e tra di noi, un’occasione per continuare a ricevere e a donare la forza sanamente e liberatrice del Vangelo».

Mons. Claudio Maniago, Arcivescovo Metropolita di Catanzaro-Squillace, ha voluto sottolineare la profondità di questo momento con un messaggio di augurio che prepara i fedeli alle celebrazioni di apertura del Giubileo nella diocesi.

Nel suo messaggio, Mons. Maniago ha evidenziato come il Giubileo sia un tempo «straordinario di grazia e rigenerazione, un’occasione per riequilibrare i punti cardine della fede e ritrovare l’orientamento del cammino cristiano. Il simbolo della Porta Santa, che sarà aperta da Papa Francesco, rappresenta il passaggio verso una vita nuova, una chiamata a una rinnovata missione della Chiesa nel mondo come portatrice di speranza».

Il tema scelto dal Santo Padre, “Pellegrini di Speranza”, «invita ogni fedele a mettersi in cammino, a vivere l’Anno Santo in un andare verso l’altro. In questo pellegrinaggio spirituale, la meta sarà il volto dell’altro, il fratello, l’amico, la persona bisognosa. Il cammino giubilare ci deve portare a riconoscere il Signore negli altri e a dare loro la speranza che nasce dall’incontro con Cristo».

L’Arcivescovo darà avvio a questo grande cammino spirituale in diocesi con due solenni celebrazioni: domenica 29 dicembre 2024, alle 10.30, nella Basilica “Maria SS. Immacolata” di Catanzaro, con una celebrazione eucaristica che segnerà l’inizio ufficiale del Giubileo; lunedì 30 dicembre 2024, alle ore 17:00, nella Basilica Concattedrale “Santa Maria Assunta” di Squillace, dove si terrà un’altra celebrazione, per poter così abbracciare l’intera comunità diocesana.

Entrambi gli appuntamenti sono un invito caloroso rivolto a tutti i fedeli, affinché si uniscano come comunità pellegrina per accogliere questo anno di grazia in preghiera e in ascolto della Parola.

Mons. Maniago ha, inoltre, espresso il desiderio che questo Giubileo sia un’esperienza ricca di significato e capace di rimotivare il cammino di fede personale e comunitario: «Il Signore sarà pronto, nella sua ricchezza, nella sua generosità, una volta di più a spingere la sua Chiesa, a spingere noi ad essere testimoni nel mondo di qualcosa di veramente importante e nuovo».

L’Arcivescovo sarà al fianco dei fedeli, pellegrino tra i pellegrini, per vivere insieme con la comunità diocesana un’esperienza che rinnovi il cuore e apra la strada a una speranza condivisa e contagiosa.

Il Giubileo del 2025 non sarà solo un evento spirituale, «ma un’occasione per riscoprire la bellezza di essere Chiesa e la sua chiamata a testimoniare con gioia e fede il messaggio di speranza che Cristo vuole portare al mondo, una chiamata che ci invita a camminare verso l’altro con il cuore aperto e gli occhi rivolti al futuro».

Riprendendo le parole di mons. Maniago, effettivamente il Giubileo non sarà solo un’occasione “spiriturale”, ma anche un momento per scoprire e riscoprire il volto spirituale e mistico della Calabria, una terra storicamente legata al monachesimo, al culto mariano e ai santi. Una terra ideale in cui far convivere, devozione, tradizione, natura e bellezza artistica in ogni forma.

La regione, infatti, al secondo posto in Italia per numero di musei ecclesiastici e in prima linea nel percorso di valorizzazione del turismo religioso, come asset distintivo del sistema-Paese, è ambasciatrice del Giubileo, accogliendo  fedeli, turisti e visitatori con una serie di proposte ed esperienze appositamente pensate per valorizzare il ricco patrimonio artistico-religioso, gli itinerari, le principali feste e le manifestazioni immateriali della devozione locale.

Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, promotore di questa attività che ha definito «un ponte tra la Regione e le generazioni di tutte le età di calabresi e pellegrini nel mondo», ha coinvolto anche i presidenti della Conferenza Episcopale dell’Argentina, dell’Australia, del Brasile, del Canada, degli Stati Uniti d’America, nazioni dove è presente il maggiore il numero dei calabresi.

«La Calabria ha 7 milioni di Calabresi nel mondo che, in occasione del Giubileo, potrebbero venire in Calabria per conoscere la nostra storia, i luoghi e gli eventi religiosi, e per questo abbiamo messo in atto un gruppo di lavoro per coordinare l’attività di promozione di un territorio fortemente impegnato a costruire relazioni solide con i calabresi nel mondo», ha detto l’assessore regionale al Turismo Giovanni Calabrese, invitando tutte le comunità calabresi nel mondo a partecipare al Giubileo e, in questa occasione, a visitare la regione.

NON CHIAMATEMI EMINENZA: LA CALABRIA
HA UN CARDINALE: DON MIMMO BATTAGLIA

di PINO NANOCommovente. È quasi straziante l’immagine di questo giovane sacerdote di periferia che sta è diventato Cardinale. Don Mimmo Battaglia che è qui, oggi, nel cuore della Basilica Vaticana, ai piedi dell’altare della Confessione nella Cappella di San Sebastiano, appare più solo che mai. Fantasma di sé stesso, la modestia fatta persona, la semplicità dichiarata e quasi irriverente di chi arriva da molto lontano. Lui era qui in attesa del “giudizio universale” della sua vita futura. “Vi prego, non chiamatemi Eminenza”. Lo guardo da lontano. L’uomo avanza lentamente verso il Papa per ricevere da Francesco l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del Titolo. Lo vedo commuoversi più volte, ma chi non lo farebbe? Lo sguardo basso, le mani strette in cerca di aiuto, il volto tirato, ma la fierezza di sempre. Deve essere un’emozione forte, e anche difficile da tradurre in parole scritte. Quello che ha ricevuto da Francesco sull’altare di San Pietro è il frutto reale della riconoscenza di Santa Madre Chiesa per tutto quello che lui ha fatto in favore degli ultimi nella sua terra natale, dove gli ultimi sono ancora la stragrande maggioranza, e dove lui ha vissuto da povero come loro. Attorno a lui migliaia di fedeli, tantissimi sono napoletani, perché don Mimmo è anche il loro Arcivescovo, ma tantissimi sono venuti dalla Calabria, Satriano, Catanzaro, Soverato, Chiaravalle, insomma la sua gente di sempre, i suoi vecchi amici di allora, i “poveri di Calabria” che non hanno mai smesso di considerarlo il loro Messia.

«La fragilità non è mai una sconfitta, ma un’opportunità per aprire il nostro cuore all’azione di Dio, per permettere alla sua grazia di entrare e trasformare le nostre vite».

È la fragilità che ci rende più umani, e, allo stesso tempo, più capaci di comprendere e amare gli altri, fino a “sacrificare tutto in nome dell’amore”.

Non è forse questo l’insegnamento del Vangelo? Non è forse questo ciò che il martire Gennaro ha vissuto sacrificando la propria vita per la fede in Cristo e per l’amore verso i suoi fratelli? Non è forse questo il più alto esempio di amore? Un amore che non conosce limiti, che è disposto a dare tutto, anche la vita, per il bene degli altri, un amore che non è solo un sentimento, ma un impegno concreto, una scelta di vita».

Dopo mezzo secolo, la Calabria torna ad essere presente in Concistoro con uno dei suoi figli più illustri. Prima di don Mimmo c’era stato Giuseppe Maria Sensi, originario di Cosenza, nominato cardinale da Paolo VI il 24 maggio del 1976, e morto all’età di 94 anni il 26 luglio 2001, dopo essere stato Nunzio Apostolico in Costa Rica dal 1955 al 1957, delegato apostolico in Palestina dal 1957 al 1962 e, infine, Nunzio Apostolico in Irlanda e in Portogallo fino al 1976.

Non so se posso dirlo, ma questa di don Mimmo Battaglia sembra davvero la trasposizione della favola del brutto anatroccolo che diventa cigno bellissimo del grande lago della vita.

Nel cuore della Basilica, dove questa mattina il nuovo cardinale di Satriano celebrerà messa insieme al Pontefice, risuona forte la sua preghiera, che è una poesia bellissima, scritta credo l’altra notte, la notte “prima degli esami”, e che lo racconta meglio di qualunque altra nota letteraria o giornalistica che si possa immaginare su don Mimmo. Leggiamola insieme.

«Eminenza buongiorno». Guai a chiamarlo “Eminenza”. «Sono semplicemente don Mimmo, ti prego». E tu rimani interdetto, perché da piccolo ti hanno insegnato che un cardinale è un “Ministro di Dio” e come tale va salutato e va trattato. Ma è lui che ha stravolto ogni canone possibile di confronto e di relazione con gli altri. Povero tra i poveri. Figura di un pastore prestato alla società come strumento di redenzione e di dialogo, uno di quei sacerdoti che per tutta la sua vita ha inseguito i più poveri per aiutarli, e per dare loro conforto. Uno di quelli che pareva essere destinato a rimanere per sempre e soltanto, e per tutta la vita, un profeta del dolore e della miseria, lui figlio del Sud del mondo, in una regione lontana come la Calabria e in una città così piena di problemi come Catanzaro. E invece, un giorno per uno strano gioco del destino il profeta dei poveri diventa vescovo. Anzi, diventa Arcivescovo di Napoli-Capitale del Sud. Da oggi anche Cardinale.

Una delle Omelie più intense e più suggestive di quelle pronunciate a Napoli da don Mimmo, nella sua veste di Arcivescovo di Napoli è il discorso recentissimo dedicato ai sacerdoti della sua nuova Curia, “Preti, seminatori, pellegrini e testimoni di speranza”. Era il Plenum del clero diocesano, 5 novembre scorso, e in questa preghiera pubblica don Mimmo racconta nei fatti quella che è stata poi la sua vita vera e la sua straordinaria missione pastorale da sacerdote e da prete di campagna.

«Ha senso la mia vita? Ha ancora un significato essere prete oggi? In questa notte che a volte sembra non finire è utile ancora essere vigili come le sentinelle di Isaia? Ne vale ancora la pena? Fratelli miei sono certo che la mia risposta convinta è anche la vostra: si, ne vale la pena, eccome!».

«Essere prete in questo tempo e in questo spazio vale la pena perché il nostro servizio diventa ancora più prezioso, come una fiamma che resiste al vento e continua ad illuminare la strada e a scaldare i cuori di chi non resiste al freddo. In un mondo che spesso assume uno sguardo superficiale, dimenticando il desiderio profondo che abita nell’uomo, e la sete immensa di un amore eterno che lo abita, il prete è colui che si gioca la vita per annunciare la fedeltà di un Amore più forte perfino della morte e di un’eternità che inizia già qui, su questa terra, nella misura in cui viviamo secondo il comandamento nuovo di Gesù, il comandamento dell’amore».

«Essere prete in questo tempo vale la pena perché significa costruire la pace non solo in un mondo lacerato da guerre e dilaniato dai conflitti ma nel cuore dell’uomo, che oggi sappiamo essere così complesso, ferito, affamato, da vivere una continua sofferenza, indecisione, che solo una Parola ferma e certa può donare».

«Sì, vale la pena essere prete perché questo tempo, questa nostra terra ha bisogno più che mai di servi della Parola, persone capaci di camminare sulle strade polverose dell’umanità, portando con sé il mistero di un Dio che si fa vicino, in ogni respiro, in ogni sguardo. Ed è lì, nel donarsi silenzioso del presbitero, che la Parola non sdegna di prendere corpo, fino a diventare pane spezzato, capace di nutrire e ridestare la vita in coloro che se ne nutrono».

Grazie don Mimmo. Grazie Eminenza. (pn)

Dal Santuario della Madonna dello Scoglio mons. Oliva ringrazia Papa Francesco

di PINO NANO – «Il riconoscimento ufficiale di questo luogo mariano fa onore a tutta la Regione. Lo Scoglio è destinato ad essere centro di spiritualità aperto a tutti, anche a quanti provengono da altre regioni e nazionalità. Sono presenti gruppi di preghiera in Polonia, in Ucraina, in Germania ed in altri paesi. Dallo Scoglio può riflettersi l’immagine positiva di una Calabria accogliente, capace di far tesoro delle risorse e bellezze del suo territorio. Sono certo che d’ora in avanti si farà attenzione ad esso, rendendolo meglio accessibile attraverso scelte infrastrutturali e recettive, di largo respiro». 

Il vescovo di Locri, mons. Francesco Oliva torna al santuario della Madonna dello Scoglio di Placanica per ringraziare Papa Francesco che ha di fatto riconosciuto lo Scoglio di Placanica luogo sacro di preghiera.

«Siamo qui pellegrini riuniti sotto lo sguardo della Vergine Immacolata nostra Signora dello Scoglio. È il primo pellegrinaggio che facciamo come chiesa diocesana, dopo il riconoscimento ufficiale di questo luogo mariano da parte del Santo Padre. Questo incontro di preghiera è stato programmato di concerto con la santa Sede per ringraziare il Signore del dono ricevuto. Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ha fatto germogliare i fiori tra le rocce, in un deserto ha fatto sgorgare acqua pura, ha dispensato tante grazie spirituali, manifestando attraverso Maria la sua infinita misericordia. Tutta la nostra chiesa diocesana ringrazia papa Francesco per questo momento di grazia e di festa». 

Dall’altare di Placanica, davanti ad una folla strabordante e incontenibile il vecchio pastore di Locri si rivolge direttamente a Fratel Cosimo Fragomeni, l’uomo che viene ormai indicato dai media come il padre Pio di Calabria, e dice: «Oggi, forse come mai fatto prima, esprimiamo come chiesa diocesana la nostra gratitudine e vicinanza spirituale a Fratel Cosimo, che ha consacrato tutta la sua vita alla missione che Maria gli ha affidato. Siamo particolarmente uniti ai volontari del Santuario, alla Fondazione Madonna dello Scoglio, ai Testimoni del Rosario, a tutta la famiglia dello Scoglio ed al numeroso popolo dei devoti. Ci sentiamo tutti popolo mariano che davanti all’immagine della Vergine in questo santuario ed in tutti gli altri santuari loda il Signore per le meraviglie operate attraverso questa donna, che ha portato in grembo il Figlio dell’Eterno Padre».

Commovente l’abbraccio che Fratel Cosimo dedica al suo Vescovo, che nella sua omelia spiega in maniera chiarissima il mistero di Placanica: «In seguito al decreto di nulla osta approvato da papa Francesco, la chiesa ha riconosciuto che anche nell’esperienza mariana dello Scoglio c’è stata tanta ricchezza di vita e di grazia dispensata dallo Spirito Santo. Molti fedeli venuti allo Scoglio attraverso lettere, email, testimonianze dirette raccontano delle loro esperienze di conversioni dopo essersi allontanati dalla pratica religiosa, di riscoperta della vita sacramentale, del dono di una guarigione insperata. Il tutto grazie all’intercessione della Vergine Immacolata ed alle preghiere di Fratel Cosimo».

 Ma chi è oggi Fratel Cosimo per la Chiesa ufficiale?

Lo spiega davanti a tutti mons. Francesco Oliva: «Nel “poco” che abbiamo possiamo riconoscere l’esperienza dello Scoglio, l’umile e generosa testimonianza di Fratel Cosimo e di tanti uomini e donne, che frequentano lo Scoglio e qui hanno ritrovato conforto e pace. La Chiesa, dopo un lungo tempo di discernimento, ha confermato che in questo “poco”, allo Scoglio, s’è manifestata la grazia e la benevolenza di Dio. La nostra Chiesa diocesana gioisce per questo e ringrazia Dio che sceglie come interlocutori privilegiati i poveri e gli umili, le periferie esistenziali, i luoghi sperduti e solitari».

E il riferimento di Mons. Oliva va dritto a Fratel Cosimo: «Scopriamo che in questo luogo, a partire dall’11 maggio 1968 un umile figlio di questa terra, fratel Cosimo, s’è trovato al centro della benevolenza del Padre. Sulla grande pietra di calcare scuro (lo scoglio), s’è sentito avvolto in una luce folgorante. Come racconta egli stesso, “in quel momento ho sentito come un brivido attraversare il mio corpo, fui preso da un forte senso di paura e stavo per scappare, perché ho pensato si trattasse di qualche spirito, anche se dall’aspetto sembrava la Madonna…. Mi sono sentito come sconvolto, profondamente turbato, assalito dal dubbio se era veramente la Madonna oppure no. Quando improvvisamente mi vidi abbagliato da una luce accecante…».

Il santuario esplode in un applauso corale. Si coglie con mano una sensazione molto netta, e cioè che mons. Oliva sia davvero uno dei primi fedeli dello Scoglio.

«Tutto ha avuto origine – dice il vescovo – in una esperienza di fede semplice e spontanea. È una fede che esalta la relazione e il legame con Dio. Questa è la fede che Fratel Cosimo cerca di vivere nella Chiesa e con la chiesa, in piena sintonia col papa Francesco ed il vescovo. Questa fede possibile continuerà ad essere annunciata in questo luogo. Con l’avallo ufficiale della Chiesa sarà proposta a quanti qui cercano per sé e per gli altri, cose concrete, bisogni essenziali: il lavoro, l’amore, il perdono, il figlio che non arriva, la guarigione dalle influenze malvagie e dalle cattiverie. A questi bisogni e umane richieste Fratel Cosimo risponde con la preghiera, non illude né indica formule magiche, invita ad aver fede».

Ma dice molto di più il pastore di Locri: «La missione che Maria affida attraverso l’opera fondata da Fratel Cosimo è rendere questo luogo “una finestra verso il cielo”, un luogo dove attraverso la mediazione di Maria s’incontra la misericordia del Padre. Qui la Vergine Immacolata s’è resa vicina, ci ricorda che Dio non si è dimenticato di noi e che la nostra è benedetta da Lui. Chiede a tutti un sussulto di umanità, che lasci dietro di sé ogni rassegnazione, tristezza e scoraggiamento. Fratel Cosimo ci ha sempre ricordato che lo Scoglio ci appartiene, rendendoci partecipi della missione ricevuta da Maria».

«Non ci resta che farla nostra e impegnarci in questa opera mariana. Ce lo chiede non solo Fratel Cosimo, ma tutta la Chiesa dopo il riconoscimento ufficiale. Lo chiede a tutti i sacerdoti, al rettore del santuario ed ai confessori, chiamati ad esercitare in questo luogo il sacramento del perdono ed a spezzare e condividere il pane della vita. Lo chiede per il bene nostro e della nostra terra a tutti gli uomini e alle donne devoti dello Scoglio».