SVIMEZ: SVILUPPO, L’ITALIA DELLE REGIONI
PERCHÉ IL MEZZOGIORNO CRESCE DI MENO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dal 2025 il Sud torna a crescere meno del Nord. È quanto emerso dal Rapporto della Svimez in collaborazione con Ref Ricerche dal titolo “Dove vanno le regioni italiane. Le previsioni regionali 2024-2026”,  che ha rilevato come, di fronte a una crescita nazionale del Pil a +0,7% nel 2025 e dello 0,9% nel 2026, la Calabria – ma in generale il Sud – non cresce anzi, subisce una brusca frenata.

Un quadro sconcertante, considerando che, nel 2024, il Sud era un passo avanti rispetto al Nord ma, secondo le stime Svimez, il Pil del Mezzogiorno nel 2025 sarà + 5,4% e, nel 2026, + 0,68% contro il +1,04 del Nord-Est per il 2025 e 0,91% del Nord-Ovest. Ovviamente, anche la Calabria subirà questo brusco stop: se la differenza tra il 2024 e il 2025 è solo di qualche punto (nel 2024 era +0,62 e nel 2025 si stima sia allo 0,57), per il 2026 ci sarà un vero crollo: sarà al 0,54.

Per la Svimez «il rallentamento della crescita è la conseguenza di fattori comuni all’area euro, come il ripristino dal 2024 dei vincoli del Patto di Stabilità europeo, la recessione dell’industria dovuta a calo della domanda per beni durevoli, con la crisi di settori traino come l’automotive, la debolezza del commercio internazionale, l’aumento dei costi dell’energia».

Ma sono anche i fattori specifici del contesto italiano a incidere: un quadro di finanza pubblica nazionale che concentra la contrazione del deficit nel 2024-2025; un peso rilevante del settore automotive e un ruolo decisivo della domanda estera, con una forte interdipendenza con l’industria tedesca. Da sottolineare tuttavia, che le previsioni non tengono in considerazione la grande incertezza «Trump», provocata dalle ipotesi di inasprimento dei dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda le singole regioni italiane nel 2025 si prevede per il Veneto una crescita dell’1,2%, dell’1,1%, per la Lombardia, dell’1% per l’Emilia Romagna, regioni più strutturate capaci di compensare la debolezza dell’export con la tenuta della domanda interna, mentre arrancano l’Umbria con lo 0,2%, la Liguria 0,4%, Puglia e il Molise con lo 0,5% regioni meno esposte al rallentamento del commercio estero ma con meno elementi capaci di far decollare la crescita.

Il 2024 si dovrebbe chiudere con una crescita maggiore nel Mezzogiorno: 0,8% vs. 0,6% nelle regioni centro-settentrionali. Per il secondo anno consecutivo il Sud si muoverebbe così più velocemente del resto del Paese, anche se con un differenziale notevolmente ridotto (da un punto percentuale a due decimi). Sono due i principali elementi che concorrono al risultato previsto.

Nel 2024 l’evoluzione congiunturale risulta fortemente influenzata, in parte come l’anno precedente, dalla dinamica degli investimenti in costruzioni che verrebbero a confermarsi come una delle componenti più dinamiche della domanda. Per capire cosa ha significato negli anni recenti il boom osservato nel comparto immobiliare, si tenga presente che tra il 2021 e il 2023 la crescita registrata negli investimenti in costruzioni è stata di entità più che doppia rispetto a quella avvenuta nei dodici anni che vanno dal 1995 al 2007.

Dal lato dell’offerta, le nostre previsioni indicano un contributo negativo dell’industria in senso stretto alla dinamica del prodotto in entrambe le macroaree nell’intero periodo di previsione (con la parziale eccezione del Sud nel 2026). In primo luogo, ciò è riconducibile alla inusuale debolezza della domanda estera, che oramai influisce per circa la metà dell’intero output industriale delle regioni centrosettentrionali (specie in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto), dove si concentra quasi il 70% del valore industriale nazionale. A ciò si aggiunge una congiuntura complessivamente debole unitamente alle molteplici “crisi” aziendali indotte dai cambiamenti strutturali in atto (transizione ecologica e digitale su tutte) in assenza, anche a livello sovranazionale, di un quadro strategico e normativo certo, condizione imprescindibile per introdurre i necessari adeguamenti.

Con riferimento al biennio 2025-2026, l’evoluzione del Pil italiano è prevista permanere al di sotto dell’uno per cento, con un profilo in lieve espansione: +0,7% nel 2025; +0,9% nel 2026. In questo biennio il Centro-Nord dovrebbe risultare l’area più dinamica, con un differenziale di circa tre decimi di punto rispetto al Sud in entrambi gli anni. Sul piano estero, il tasso di crescita del Prodotto italiano nel biennio 2025-2026 verrebbe di nuovo a collocarsi nella fascia inferiore rispetto ai principali avanzati. Per crescita del Pil l’Italia scivolerebbe in fondo alla classifica europea, insieme alla Germania.

«Una decisa inversione di tendenza rispetto agli anni post Covid – ha rilevato la Svimez – quando la ripresa è stata sostenuta da politiche di bilancio dall’intonazione straordinariamente espansiva. Sul fronte interno, lo scenario previsivo ipotizza che dal 2025 si arresti il biennio di crescita più intensa, 2023-2024, sperimentato dal Sud, di per sé una circostanza abbastanza inusuale. Il differenziale Nord/Sud dovrebbe comunque mantenersi su valori molto più contenuti rispetto al ventennio pre-Covid: Centro-Nord +0,8%, Mezzogiorno +0,5% nel 2025; Centro-Nord +1%, Mezzogiorno +0,7% nel 2026. Le due aree dovrebbero perciò continuare a crescere a velocità simile come nella ripartenza post pandemica».

A contenere il differenziale di crescita Nord/Sud contribuisce in maniera decisiva il Pnrr i cui investimenti valgono il sessanta per cento della crescita del Mezzogiorno nel biennio 2025-2026. Se, quindi, la completa implementazione del Pnrr è un obiettivo nazionale, la realizzazione degli investimenti finanziati dal Piano sono decisivi per tenere il Sud agganciato al resto del Paese.

La spesa delle famiglie dovrebbe crescere a un saggio di entità quasi doppia al Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno in virtù di una analoga evoluzione del potere d’acquisto. Oltre che un differenziale di inflazione sfavorevole al Mezzogiorno, incidono su questo risultato alcuni provvedimenti governativi: l’indebolimento delle politiche a sostegno delle famiglie che impattano più pesantemente al Sud; l’intervento sul cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef che favoriscono consumi soprattutto al Centro-Nord dove si concentrano i redditi da lavoro dipendente.

La crescita del Pil verrebbe a essere prevalentemente sostenuta dai servizi di mercato (market services) e, in misura inferiore, da quelli della PA. Con riferimento ai market services, nel Report si portano evidenze relative al fatto che: a) la quota dei servizi con un elevato contenuto di conoscenza (KIS) è modesta in entrambe le macroaree (di poco superiore al 20 per cento); b) le restanti attività, prevalenti, presentano un gap di produttività significativo, più marcato al Sud.

Tale circostanza, in primo luogo, limita le potenzialità di sviluppo delle due macroaree, specie nell’attuale congiuntura quando sono proprio i market services nel loro insieme a crescere di più; vincolo maggiormente ostativo nel Sud. Inoltre, questo primo fattore si incrocia con una delle grandi “questioni” del nostro Paese, quella salariale, intesa come livello e dinamica più contenuta delle retribuzioni nazionali nel confronto europeo. Precisamente, i minori salari unitari che si riscontrano nel nostro Paese, in misura maggiore al Sud, svolgono, sempre nel confronto internazionale, un ruolo “equilibratore” al ribasso dell’equilibrio economico delle imprese.

A livello regionale, relativamente al biennio 2025-2026, dovrebbero mostrare una crescita più vivace le economie dalla base produttiva più ampia, strutturata e diversificata, più pronte a intercettare le opportunità derivanti da un rafforzamento della domanda interna. Prevarranno sentieri di crescita regionale più differenziati al Nord e al Centro, più omogenei nel Mezzogiorno.

Tra le diverse ripartizioni emerge nel Nord-Ovest il traino della Lombardia; nel Nord-Est, le regioni più dinamiche sono Veneto e Emilia dove, nonostante debolezza dell’export, la crescita è sostenuta dalla domanda interna; si conferma la divaricazione interna al Centro: da un lato, più dinamiche la Toscana, per la maggiore presenza di imprese strutturate, e il Lazio, trainata da Giubileo e service economy; dall’altro, Umbria e Marche, alle prese con crisi settoriali di lungo periodo e alla ricerca di un nuovo modello di specializzazione; il Mezzogiorno risulta un’area in rallentamento ma compatta, meno esposta al rallentamento del commercio estero ma dove mancano elementi che accelerano il cambiamento strutturale, nonostante il Pnrr che sostiene la dinamica del Pil nel 2025-2026.

Il ciclo dell’export si presenterebbe debole rispetto ad altre fasi di ripresa: pochissime regioni arriverebbero nel biennio 20252026 a cumulare incrementi dell’export di una certa consistenza. Fra i territori a maggiore vocazione all’export solo Emilia-Romagna e Toscana arriverebbero a superare una crescita del 3 per cento in termini cumulati nel biennio. Guardando alla dinamica della spesa delle famiglie nelle diverse regioni, il biennio 2025-2026 dovrebbe essere segnato da una relativa divergenza fra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno.

La differenza è riconducibile a due aspetti: gli effetti indotti dagli interventi fiscali in grado, almeno nel breve periodo, di salvaguardare maggiormente il potere d’acquisto delle regioni del Nord; la crescita dei consumi interni rifletterebbe anche l’evoluzione della spesa dei non residenti, con effetti positivi sul Lazio nel 2025 per effetto del Giubileo, e Lombardia, Veneto e Trentino Aldo-Adige per i giochi olimpici invernali. Infine, le regioni del Mezzogiorno, che negli anni scorsi avevano beneficiato del sostegno della politica fiscale, vedranno progressivamente inaridirsi il supporto del bilancio pubblico.

Questo cambiamento nelle politiche potrebbe ritardarne il recupero. Tuttavia, sempre le regioni del Sud risentirebbero maggiormente dell’effetto positivo degli investimenti del Pnrr. Grazie, soprattutto, al contributo delle opere pubbliche, il divario territoriale di crescita degli investimenti risulterebbe quindi contenuto.

Pnrr, Cassano All’Ionio tra i comuni più virtuosi in Calabria

Cassano All’Ionio, insieme a Lamezia Terme, Cotronei e Gerace sono i Comuni calabresi  che hanno saputo intercettare le risorse più significative per lo sviluppo del proprio territorio. È quanto emerso dall’ultima analisi condotta dalla Svimez sul Pnrr, in cui viene evidenziato come la città sibarita stia riuscendo a cogliere opportunità importanti, contribuendo a un processo di crescita che merita attenzione e riconoscimento.

Mentre alcuni detrattori politici tentano di costruire una realtà distorta e distante dalla verità, la fotografia offerta dai dati nazionali non lascia spazio a dubbi. La gestione delle risorse pubbliche e l’attuazione di politiche locali lungimiranti stanno dando risultati concreti e tangibili. Un riconoscimento che non si può ignorare.

«Lo stiamo dicendo da mesi – ha commentato il sindaco Giovanni Papasso, visibilmente soddisfatto – negli ultimi anni, Cassano ha saputo emergere in un contesto economico e sociale complesso, riuscendo ad attrarre finanziamenti e risorse per progetti cruciali per la modernizzazione della città e il miglioramento dei servizi».

«La capacità dell’amministrazione – ha spiegato – di intercettare fondi europei (e anche statali e regionali) ha permesso di avviare opere infrastrutturali fondamentali per il territorio, migliorando la qualità della vita dei cittadini e creando opportunità di lavoro per i giovani. Poi, purtroppo, tutto il Sud soffre, in primis, dei problemi di spopolamento per la mancanza del lavoro che non dipendono da noi. Anzi, noi stiamo facendo il massimo e non lo dicono i gruppetti di piazza che hanno trovato voce in vista della campagna elettorale, lo dice l’autorevole Svimez»

I dati Svimez e le evidenze concrete delle opere in corso e dei finanziamenti ottenuti smentiscono categoricamente queste narrazioni negative. Cassano è un esempio di resilienza, di capacità di rispondere alle sfide del momento e di interpretare le esigenze dei propri cittadini con progetti concreti. Le politiche di sviluppo adottate hanno portato a un utilizzo oculato delle risorse e a un miglioramento delle infrastrutture fondamentali per il rilancio del territorio.

La strada intrapresa da Cassano è quella giusta: i dati Svimez, infatti, non sono solo un riflesso di quanto è stato fatto, ma sono anche una promessa di crescita futura. I progetti in corso, e quelli in fase di progettazione, sono solo l’inizio di un percorso che, se proseguito con determinazione, renderà Cassano un modello di sviluppo per l’intera regione Calabria.

«Col Pnrr – ha concluso il primo cittadino – abbiamo messo in campo lavori per il potenziamento delle infrastrutture, la riqualificazione delle aree urbane e la valorizzazione del patrimonio naturale e storico. In particolare, l’impegno per la tutela e promozione delle risorse ambientali è stato un punto di forza, con progetti che mirano a preservare l’ambiente e a valorizzare una città più sostenibile e vivibile riqualificando interi quartieri e con un occhio di riguardo al turismo e alla messa in sicurezza dell’intero territorio. Siamo consapevole delle sfide che ancora ci attendono e continueremo a lavorare per garantire un futuro sempre più prospero per la nostra comunità». (rcs)

PNRR E OPERE PUBBLICHE, PER LA SVIMEZ
IL SUD IN RITARDO NELLA FASE ESECUTIVA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Il Sud è in ritardo nell’avvio della fase esecutiva dei lavori del Pnrr. È quanto emerso nel nuovo numero di InformazioniSvimez “Pnrr Execution: le opere pubbliche di Comuni e Regioni” della Svimez, a meno di un anno e mezzo dalla scadenza del 2026, evidenziando come nei Comuni sono avanzati i lavori per asili e infrastrutture scolastiche, mentre nelle Regioni si registra un rallentamento delle opere, soprattutto per la sanità territoriale.

La Svimez nel documento ha ricordato come le risorse che il Pnrr destina alla realizzazione di lavori pubblici sono pari a 65 miliardi. La quota di risorse Pnrr per interventi infrastrutturali è del 54,2% nel Mezzogiorno (26,2 miliardi), di circa 6 punti percentuali superiore al dato del Centro-Nord (48,5%; 38,8 miliardi).

«Per questa tipologia di interventi – si legge – almeno in termini di stanziamenti, si raggiunge appieno la “quota Sud” del 40%. Proprio gli investimenti in opere pubbliche rappresentano l’ambito di intervento del Pnrr funzionale al riequilibrio territoriale nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali e nella quantità e qualità dei servizi».

La distribuzione delle risorse Pnrr che finanziano la realizzazione di opere pubbliche per soggetto attuatore rivela il coinvolgimento primario delle amministrazioni decentrate, soprattutto nel Mezzogiorno.

L’incidenza delle risorse a gestione dei Comuni per opere da realizzare nell’area è del 33,2% nel Mezzogiorno e del 30,5% al Centro-Nord. Anche dai valori pro capite risulta il maggior sforzo attuativo a carico dei Comuni del Mezzogiorno: 440 euro di investimenti Pnrr per cittadino (302 euro il dato del Centro-Nord). Il dato relativo alle amministrazioni regionali è del 15% nel Mezzogiorno e di circa il 12% al Centro-Nord in termini di incidenza di risorse complessive; valutate in pro capite le risorse a gestione delle regioni meridionali raggiungono 197 euro per cittadino (118 euro il dato del Centro-Nord).

A fine dicembre 2024, i Comuni meridionali hanno avviato lavori per 5,6 miliardi, il 64% del valore complessivo degli investimenti a loro titolarità; per i Comuni del Centro-Nord il dato è di 9,7 miliardi, l’82,3% delle risorse Pnrr. Alla stessa data, per le amministrazioni regionali meridionali risultano avviati lavori per 1,9 miliardi di euro, il 50% del valore complessivo degli investimenti Pnrr a loro titolarità. Il valore dei progetti avviati per quelle del Centro-Nord si attesta a 3,5 miliardi, quasi il 76% delle risorse Pnrr.

Se da un lato emergono ritardi dei Comuni del Sud per quota di avviamento dei lavori, i dati in termini di risorse pro capite ribaltano la lettura con livelli di spesa avviata significativamente superiori: 440 euro di investimenti Pnrr per cittadino (302 euro il dato del Centro-Nord).  Va inoltre rilevato che i ritardi nell’apertura dei cantieri riflettono le difficoltà incontrate dalle amministrazioni nella fase progettuale, in quella di accesso competitivo alle risorse, e nell’espletamento delle procedure ammnistrative preliminari all’apertura dei cantieri.

Per le linee di investimento per asili nido e infrastrutture scolastiche, le percentuali di mancato avviamento lavori a gestione dei Comuni del Sud sono significativamente più contenute e si riduce la forbice sui tempi di apertura dei cantieri rispetto al resto del Paese. L’investimento “Costruzione di nuove scuole mediante sostituzione di edifici”, ricompresa nella missione M2C3, registra un valore di progetti non avviati del 9% (2% il dato medio dei Comuni del Centro-Nord). In aggregato, per la componente M4C1 dedicata al potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione, il valore dei progetti avviati è di quasi l’87% (94% il dato del Centro-Nord), per effetto di quote di progetti non in fase esecutiva comprese tra l’8% (Piano estensione del tempo pieno) e il 14% (Potenziamento infrastrutture per lo sport a scuola) delle diverse linee di investimento.

Ma perché le Regioni sono in ritardo rispetto ai Comuni? Per la Svimez è, in parte, a causa della sovrapposizione con gli impegni legati all’implementazione dei programmi della politica di coesione europea.

Il Pnrr ha individuato nella sanità l’ambito di intervento prioritario delle amministrazioni regionali, soprattutto per le misure orientate al rafforzamento della sanità di prossimità, adottando criteri perequativi di allocazione territoriale delle risorse per orientare gli investimenti verso le regioni a maggior fabbisogno. È proprio negli investimenti in sanità territoriale che le Regioni del Sud registrano i ritardi più preoccupanti.

La Svimez, di fronte a questo quadro, pone l’attenzione alla prossima rimodulazione del fondi del Pnrr, ricordando come la «precedente riprogrammazione ha già sottratto investimenti destinati al riequilibrio territoriale infrastrutturale, indirizzando i fondi verso gli incentivi alle imprese di più rapida spendibilità. Una scelta finalizzata a semplificare e accelerare l’attuazione del Piano che però ne ha indebolito le finalità di perequazione infrastrutturale territoriale».

Per questo «replicare quella scelta per motivi di efficienza rischia di penalizzare ulteriormente le finalità di perequazione territoriale dele Pnrr, soprattutto in ambiti fondamentali per la riduzione dei divari di cittadinanza, a partire dalla sanità. Se i fondi per le infrastrutture pubbliche venissero ulteriormente ridotti, il Mezzogiorno vedrebbe diminuire le opportunità di sviluppo e la possibilità di colmare i divari storici nei servizi essenziali, dalla sanità ai trasporti».

«La messa in sicurezza degli interventi orientati a ridurre i gap territoriali nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali a titolarità degli enti locali – si legge – dovrebbe, dunque, rappresentare una priorità in vista di nuove possibili nuove riprogrammazioni per: preservare le finalità di coesione territoriale del Pnrr; valorizzare l’inedito sforzo progettuale, attuativo e di spesa realizzato delle amministrazioni, soprattutto quelle comunali; non disperdere il patrimonio di capacità ammnistrativa maturato con l’occasione del Pnrr». (ams)

 

I DAZI AMERICANI DANNEGGIANO IL SUD
A RISCHIO L’EXPORT E L’OCCUPAZIONE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quanto peseranno i dazi americani sull’export del Mezzogiorno? A questo interrogativo risponde la Svimez con uno studio in cui ipotizza due scenari su cosa potrebbe succedere qualora venissero estese le restrizioni doganali anche all’Europa.

Secondo le stime della Svimez, nell’ipotesi in cui venissero applicati dazi ai prodotti importati dall’Italia (e dagli altri Paesi) al 10%, il Pil italiano subirebbe una contrazione di 1,9 mld (0,1 % del Pil): -1,6 mld al Centro-Nord e -257 mln al Mezzogiorno.

In termini occupazionali, «l’effetto misurato in unità di lavoro a tempo pieno sarebbe di circa 27mila posti di lavoro in meno, principalmente concentrati nelle regioni del Centro e del Nord (-23mila)».

«Il Sud, dunque, subirebbe un impatto maggiore in termini di contrazione dell’export verso gli Usa, ma più contenuto sul Pil e occupazione, per effetto del minor contributo delle esportazioni al valore aggiunto dell’area».

«Per il Mezzogiorno – si legge – il mercato statunitense è particolarmente rilevante: complessivamente la quota Sud dell’export italiano destinato agli Usa si attesta al 12,4%, superiore di circa 2 punti percentuali alla quota verso il mondo. In alcuni settori specifici, come Automotive ed Elettronica&Informatica, il contributo del Mezzogiorno alle esportazioni italiane verso gli Stati Uniti raggiunge percentuali del 28,4%».

«Nell’Agrifood, il dato si attesta al 22,6% e per le esportazioni della Farmaceutica il contributo del Sud è pari all’11,2%. Sugli Energetici, oltre il 64% delle esportazioni italiane verso il mercato statunitense registra come provenienza una regione del Mezzogiorno», ha rilevato la Svimez.

Gli scenari considerati dall’Associazione sono due: 1) dazi per tutti i Paesi al 10% e 2) dazi per tutti i Paesi al 20%. Il risultato è stato disaggregato sia per settore che per circoscrizione. A livello settoriale, l’intensità dell’impatto varia a seconda della minore o maggiore elasticità della domanda rispetto all’aumento del prezzo dei vari prodotti.

Per i beni indifferenziati, per i quali una piccola variazione di prezzo può determinare una significativa variazione nella domanda in ragione di una maggiore sostituibilità con altri prodotti, gli effetti sulla contrazione delle esportazioni sono più evidenti: è questo il caso dei beni agroalimentari, farmaceutici e chimici dove, nello scenario 2, la contrazione percentuale delle esportazioni è compresa tra -13,5% e -16,4%.

Per i beni meno sostituibili, nel cui commercio e produzione l’Italia si colloca su segmenti di mercato a maggiore valore aggiunto come nel caso del Made in Italy (Moda e Mobilio), si registra la minore variazione percentuale (-2,6% nello scenario 2).

Per questi casi, le preferenze dei consumatori risultano meno suscettibili alle variazioni di prezzo, con conseguenze meno evidenti anche sui flussi commerciali. In una posizione intermedia si collocano le variazioni percentuali di settori tipicamente manifatturieri – meccanica e mezzi di traporto – che potrebbero subire contrazioni in termini di export intorno al -10%.

In base alle stime Svimez, «l’export italiano verso gli Usa si ridurrebbe del 4,3% nel caso di dazi orizzontali al 10%, con una contrazione in valore di 2,9 mld di export, cifra che salirebbe a 5,8 mld di euro (-8,6%) nel caso di un dazio generalizzato al 20%. Gli effetti differenziati a livello settoriale – in ragione di una differente elasticità della domanda al prezzo dei beni – determinano impatti territoriali differenti in base alla specializzazione produttiva delle esportazioni».

«Come richiamato in precedenza – si legge nello studio – la composizione settoriale dell’export del Mezzogiorno verso gli Usa si concentra su Agroalimentare e Automotive, particolarmente esposti agli effetti dell’introduzione dei dazi.

Per questi motivi, il Mezzogiorno potrebbe essere l’area del Paese più esposta alla minaccia Trump: la contrazione complessiva dell’export verso gli Usa appare infatti più accentuata al Sud sia nello scenario 1 (-4,2% Centro-Nord; -4,7 Mezzogiorno) che nello scenario 2 (-8,5% Centro-Nord; -9,3% Mezzogiorno).

Questo potenziale shock negativo di domanda – la contrazione delle esportazioni verso gli Usa – determinerebbe a cascata effetti misurabili anche su Pil e occupazione, sottraendo produzione e lavoro all’economia nazionale.

Per la Svimez «l’impatto Trump sull’economia italiana si accentua nello scenario 2. In questo caso, la perdita di Pil raggiungerebbe i 3,8 mld: 3,2 mld al Centro-Nord e oltre -0,5 mld al Sud e i posti di lavori a rischio supererebbero i 54mila: -46mila nelle regioni centro-settentrionali e -7mila nel Mezzogiorno».

Nell’ipotesi in cui la strategia commerciale di Trump dovesse orientarsi verso misure protezionistiche estreme, introducendo dazi al 100% per l’Automotive importato, «le conseguenze per il Paese, e per il Mezzogiorno in particolare, sarebbero molto più gravi di quanto emerso negli scenari 1 e 2», ha evidenziato la Svimez, introducendo un terzo scenario, che considera un dazio al 100% per le auto, mantenendo al 20% i dazi per i restanti beni, la contrazione delle esportazioni passerebbe a livello nazionale a -8 mld (-12%), con un crollo dell’export di auto di -2,9 mld, riduzione concentrata per oltre un terzo nelle regioni meridionali».

«Sotto queste ipotesi – si legge – l’impatto negativo salirebbe a 0,3 punti di Pil (-5,4 mld): -4,4 mld al Centro-Nord e -1 mld al Sud. Il crollo dell’export metterebbe a rischio circa 76mila, di cui circa 14 mila occupati in una regione del Sud».

«In conclusione – si legge – se alle dichiarazioni di Trump dovessero seguire i fatti, questi metterebbero a rischio gli equilibri commerciali internazionali, con effetti non trascurabili anche sull’economia italiana e dei suoi territori».

«La partnership commerciale Italia-Usa è un nodo centrale nelle relazioni internazionali del nostro Paese e una deriva protezionistica oltreoceano può seriamente compromettere la tenuta dei settori più esposti, con potenziali ricadute occupazionali negative», scrive ancora la Svimez, evidenziando come «le stime presentate rilevano almeno tre criticità nella strategia di internazionalizzazione del Paese.

Da un lato, l’Italia presenta relazioni internazionali poco diversificate, commerciando con un numero di Paesi relativamente ristretto: situazione che non consente di diversificare il rischio derivante da misure protezionistiche nell’eventualità in cui uno di questi decida di introdurle o inasprirle. In secondo luogo, emerge un tema di specializzazione settoriale che inevitabilmente incrocia la dimensione territoriale del sistema produttivo italiano.

Concentrando il commercio estero su beni ad alta sostituibilità – alta elasticità alle variazioni di prezzo – si espone in misura maggiore la tenuta dell’export italiano, con effetti di spiazzamento più dirompenti su produzione e lavoro. Lo studio evidenzia, inoltre, come beni a maggior valore aggiunto (es. Made in Italy) siano meno esposti alle oscillazioni di domanda indotte dalle misure protezionistiche.

E che quindi investire per rafforzare questi settori rappresenta un’azione concreta per preservare la tenuta complessiva dell’economia. Infine, la concentrazione territoriale dei settori più vulnerabili all’introduzione e all’inasprimento dei dazi determina effetti particolarmente rilevanti per il tessuto industriale meridionale.

In uno scenario caratterizzato dal rischio di crescenti tensioni commerciali a livello globale appare, dunque, sempre più necessario definire strategie di politica industriale che sostengano la diversificazione della composizione settoriale del tessuto produttivo e il rafforzamento e la diffusione dei processi di internazionalizzazione delle imprese, soprattutto nelle aree a maggior potenzialità di crescita del Mezzogiorno. (rrm)

SVIMEZ: LA FUGA DEI CERVELLI VERA PIAGA
FORMAZIONE E LAVORO PER LA CRESCITA

Una politica industriale «attiva» passa anche per la formazione. Nel contesto della nuova globalizzazione, segnata da una maggiore intensità dei conflitti economici e commerciali, la riconfigurazione delle global supply chain fornisce nuove opportunità di sviluppo al Mezzogiorno. Si tratta di opportunità che possono essere colte solo se le politiche saranno in grado di valorizzare le sue competenze – spesso inutilizzate e in fuga verso altre aree – e di avviare una riconfigurazione del tessuto produttivo, in particolare di quelle aree di specializzazione già presenti in settori strategici nel raggiungimento dei target dell’autonomia europea.

Se la doppia transizione – energetica e digitale – e le riconfigurazioni produttive globali implicano la nascita di nuove filiere strategiche, il cambiamento strutturale investe anche in settori di specializzazione tradizionale, che rappresentano la struttura portante dell’economia italiana e meridionale. Risulta dunque indispensabile sviluppare una nuova politica industriale e accompagnare la transizione a partire dal tessuto produttivo esistente. In questo contesto, serviranno competenze avanzate da formare e la politica industriale deve farsene carico.

Quello formativo deve necessariamente rientrare tra gli obiettivi della politica industriale, specialmente se consideriamo che il fenomeno delle migrazioni intellettuali ha assunto proporzioni preoccupanti. La perdita di capitale umano qualificato è questione italiana, come testimonia il dato di 138 mila laureati che nell’ultimo decennio ha lasciato il Paese, che diviene vera emergenza nel Sud, dove all’emigrazione estera si somma quella interna verso le regioni del Centro-Nord.. Dal 2002 al 2022, circa 500mila laureati, di ogni età, si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord, con un saldo negativo che supera i 320mila laureati nell’area (-250mila i giovani laureati). Negli stessi anni, la quota di emigrati meridionali con elevate competenze (in possesso di laurea o titolo di studio superiore) è quasi quadruplicata, passando da circa il 10 al 35%.

Uno degli elementi di novità delle nuove migrazioni, oltre alle elevate competenze, riguarda la crescente quota della componente femminile. I dati sulle emigrazioni verso l’estero delle laureate italiane evidenziano un ancor più rilevante disallineamento tra le competenze acquisite dalle ragazze e la domanda di lavoro espressa su base nazionale. Complessivamente, nel periodo 2002-2022, hanno lasciato il Paese 82 mila laureate, 58 mila dal Centro-Nord e 24 mila dal Mezzogiorno, per una perdita di quasi 50 mila “talenti” femminili, al netto dei flussi in entrata di giovani laureate con cittadinanza italiana provenienti dall’estero.

Le migrazioni intellettuali da Sud a Nord sono alimentate anche dalle scelte di mobilità studentesca che spesso anticipano la scelta migratoria. Nell’ultimo quindicennio, la capacità degli atenei del Mezzogiorno di immatricolare studenti residenti nell’area è diminuita. Due studenti meridionali su dieci (20mila all’anno) si iscrivono a una triennale al Centro-Nord, quasi quattro su dieci (18mila all’anno) a una magistrale in un ateneo settentrionale. Per alcune regioni meridionali il tasso di uscita degli studenti magistrali è nettamente superiore: in Basilicata l’83% lascia la regione, il 74% in Molise, più del 50% in Abruzzo, Calabria e Puglia.

Tra il 2010 e il 2023, il sensibile aumento del numero di laureati meridionali si è realizzato esclusivamente grazie ai titoli conseguiti presso atenei del Centro-Nord (+40mila), mentre è addirittura diminuito il numero di laureati presso gli atenei meridionali. Un’evidenza che segnala da un lato la diminuita capacità degli atenei meridionali di trattenere studenti, dall’altro il continuo drenaggio di capitale umano che favorisce il Centro-Nord.

tuali ha assunto proporzioni preoccupanti e interessa soprattutto il Mezzogiorno. Dal 2002 al 2022, circa 500mila laureati, di ogni età, si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord, con un saldo negativo che supera i 320mila laureati nell’area (-250mila i giovani laureati). Negli stessi anni, la quota di emigrati meridionali con elevate competenze (in possesso di laurea o titolo di studio superiore) è quasi quadruplicata, passando da circa il 10 al 35%.

I dati sulle emigrazioni verso l’estero delle laureate italiane confermano un disallineamento tra le competenze acquisite dalla componente femminile e la domanda di lavoro espressa su base nazionale. Complessivamente, nel periodo 2002-2022, hanno lasciato il Paese 82 mila laureate, 58 mila dal Centro-Nord e 24 mila dal Mezzogiorno, per una perdita di quasi 50 mila “talenti” femminili, al netto dei flussi in entrata di giovani laureate con cittadinanza italiana provenienti dall’estero.

Le migrazioni intellettuali da Sud a Nord sono alimentate anche dalla mobilità studentesca. Nell’ultimo quindicennio la capacità degli atenei del Mezzogiorno di immatricolare studenti residenti nell’area è diminuita. Due studenti meridionali su dieci (20mila all’anno) si iscrivono a una triennale al Centro-Nord, quasi quattro su dieci (18mila all’anno) a una magistrale in un ateneo settentrionale. Per alcune regioni meridionali il tasso di uscita degli studenti magistrali è nettamente superiore: in Basilicata l’83% lascia la regione, il 74% in Molise, più del 50% in Abruzzo, Calabria e Puglia.

Tra il 2010 e il 2023, il sensibile aumento del numero di laureati meridionali si è realizzato esclusivamente grazie ai titoli conseguiti presso atenei del Centro-Nord (+40mila), mentre è addirittura diminuito il numero di laureati presso gli atenei meridionali. Un’evidenza che segnala da un lato la diminuita capacità degli atenei meridionali di trattenere studenti, dall’altro il continuo drenaggio di capitale umano che favorisce il Centro-Nord.

Rimane il nodo cruciale delle risorse ordinarie destinate all’Università che, in termini reali, sono diminuite dagli inizi degli anni Duemila. Nel 2024, con un taglio dell’Ffo di circa il 5%, si è interrotta la fase espansiva del finanziamento iniziata nel 2019 e protrattasi fino al post-pandemia. Una tendenza che penalizzerà prevalentemente gli atenei periferici e soprattutto quelli del Mezzogiorno, già in sofferenza per il calo demografico e per i meccanismi di funzionamento del Fondo.

Il Sud vanta una dotazione di competenze e conoscenze troppo spesso inutilizzate e in fuga verso altre aree. Si tratta di un potenziale fattore di attrazione degli investimenti che solo un disegno di politica industriale prospettico può tradurre in effettivo vantaggio localizzativo per nuove iniziative in ambiti produttivi che generano domanda di lavoro qualificato e meglio retribuito.

In questo quadro, rimane il nodo cruciale delle risorse ordinarie destinate all’Università che, in termini reali, sono diminuite dagli inizi degli anni Duemila. Nel 2024, con un taglio dell’Ffo di circa il 5%, si è interrotta la fase espansiva del finanziamento iniziata nel 2019 e protrattasi fino al post-pandemia. Una tendenza che penalizzerà prevalentemente gli atenei periferici e soprattutto quelli del Mezzogiorno, già in sofferenza per il calo demografico e per i meccanismi di funzionamento del Fondo.

Il Sud vanta dunque una dotazione di competenze e conoscenze troppo spesso inutilizzate e in fuga verso altre aree. Si tratta di un potenziale fattore di attrazione degli investimenti che solo un disegno di politica industriale prospettico può tradurre in effettivo vantaggio localizzativo per nuove iniziative in ambiti produttivi che generano domanda di lavoro qualificato e meglio retribuito.

La sfida della crescita del sistema produttivo si gioca oggi sull’innovazione e sulla capacità di sviluppare e valorizzare le competenze avanzate delle persone. Implementare politiche in grado di accompagnare le transizioni digitali ed ecologiche vuol dire anche integrare il sistema di istruzione terziaria professionalizzante a quello della politica industriale.

Il Paese ha intrapreso negli ultimi anni un percorso di rafforzamento dei percorsi alternativi ai tradizionali curricula accademici e maggiormente orientati a rispondere alla crescente domanda delle imprese di profili con elevata specializzazione tecnica (Its Academy e Lauree professionalizzanti). Il sistema Its si sta configurando in misura crescente come un valido strumento ma, nonostante la sua costante crescita in termini di iscrizioni e capacità di occupare i suoi diplomati, permangono alcune criticità.

Con l’attuale trend di crescita della domanda di competenze tecniche, ancora prevalentemente concentrata al Nord del Paese, il rafforzamento degli Its può contribuire ad arginare i deflussi già consistenti di capitale umano dalle regioni meridionali.

A fronte dei circa 7mila diplomati del sistema Its, nel 2022 le imprese esprimevano una domanda di profili professionali coerenti pari a circa 47mila unità. Un evidente disallineamento tra domanda e offerta indicativa di un gap che divide l’Italia da molti dei paesi tecnologicamente più avanzati. In Italia, la quota di immatricolati a percorsi di istruzione terziaria professionalizzante sul totale degli iscritti al ciclo di istruzione terziaria si fermava nel 2021 all’1,1%, a fronte di un valore medio tra i paesi che hanno istituito la formazione terziaria di ciclo breve del 7,8% e quote superiori al 20% in paesi come la Francia, Spagna e Germania.

I tassi di occupazione dei percorsi Its si attestano all’88% al Centro-Nord e all’82% al Mezzogiorno. Il tasso di abbandono dei percorsi Its al Centro-Nord è il 20%, mentre al Mezzogiorno è il 40% circa. Incidono su queste performance le differenti strutture dei sistemi produttivi locali e i differenti modelli di partecipazione alla governance degli Its a livello locale.

Il potenziamento degli Its potrebbe incrementare la presenza di imprese nel Mezzogiorno stimolando anche la domanda di lavoro qualificato che riguarda i laureati dei percorsi accademici. Una maggiore presenza di imprese al Mezzogiorno non solo ridurrebbe il costante deflusso di capitale umano di laureati da Sud a Nord, ma migliorerebbe anche i tassi di immatricolazioni dell’area in virtù delle migliori aspettative occupazionali. (Courtesy Svimez)

ASSISTENZA SANITARIA, PER COLPA DELLA
SPESA STORICA IL SUD È SEMPRE IN AGONIA

di PIETRO MASSIMO BUSETTANel 2022, ultimi dati disponibili, i posti residenziali per l’assistenza alle persone che hanno più di 65 anni, delle strutture territoriali, per 1000 residenti anziani sono a Bolzano 42,6 a Trento 36,4 in Italia in media 15,2, in Basilicata 1,4  e in Sicilia 1,2, ultima in classifica.

Anche i pazienti in età pediatrica beneficiano di servizi di assistenza territoriale differenziati su base regionale. Numerosi studi mostrano che i bambini ricoverati frequentemente per asma tendono ad avere meno visite programmate a livello di assistenza territoriale e una minore aderenza alla terapia farmacologica.

Queste evidenze suggeriscono che una carente organizzazione dell’assistenza territoriale e una scarsa accessibilità alle cure possono essere responsabili di un aumentato ricorso alle cure ospedaliere. Su queste basi concettuali, il tasso di ospedalizzazione per asma può essere utilizzato per misurare la qualità dei servizi territoriali in termini di prevenzione, accesso alle cure e trattamento, presupponendo che, al migliorare di queste, diminuisca il ricorso al ricovero in ospedale.

Un argomento analogo vale per la gastroenterite, una malattia comune nei bambini, nei confronti della quale una tempestiva ed efficace cura a livello territoriale pare essere associata a una riduzione del rischio di ospedalizzazione.

E i dati seguono: il tasso di dimissione ospedaliere, per 1000 pazienti in età pediatrica 0-17 anni nel 2021, sempre ultimi dati disponibili, per affetti da gastroenterite vanno dallo 0,32 della Toscana al 2,07 dell’Abruzzo, evidenziando come la qualità dei servizi territoriali anche per i bambini è molto più scadente al Sud come al Nord. 

Questi dati potete trovarli nell’ultimo rapporto Svimez, che dedica un lungo capitolo alla sanità, con una serie di informazioni  a livello regionale che dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che il diritto alla salute è diverso a secondo da dove nasci e va diminuendo man mano mano che scendi lo stivale. Tutto ciò porta come è evidente ed è facile immaginare ad una speranza di vita diversa. 

Infatti nell’intera Penisola hanno l’attesa di vita maggiore le province di Trento (84,2 anni) e Bolzano (83,8 anni). Seguono Veneto e Lombardia (83,6 anni), Toscana e Umbria (83,4 anni), Emilia-Romagna e Marche (83,2 anni), secondo l’analisi Eurostat hanno un’aspettativa di vita di 83 anni: Valle d’Aosta, Liguria e Sardegna. Segue con un piccolo scostamento il Lazio, dove l’aspettativa è di 82,9 anni. Mentre sono in fondo alla classifica  l’Abruzzo (82,8 anni), Basilicata (82,7 anni), Puglia (82,2), Calabria (81,7 anni) e Sicilia (81,3 anni). 

Cioè se hai la fortuna di nascere in provincia di Trento in media vivrai  tre anni  in più che se nasci in Sicilia.  Per cui se qualcuno definisce lo Stato italiano ladro di vita dei meridionali nessuno potrà dire che non è vero. Certo ci sarà sempre chi dirà che la responsabilità di tale situazione è di coloro che gestiscono le strutture sanitarie, nella maggior parte dei casi individuati dalla politica. Riportando tutto alla colpa degli stessi meridionali che, come nella vulgata, confermano di essere incapaci, con una classe dirigente e politica corrotta e non adeguata. 

Poi si scopre che il commissariamento di 10 anni della sanità calabra, effettuata dal Governo centrale, non ha portato a grandi miglioramenti e che alla fine il lavoro di recupero lo sta svolgendo Roberto  Occhiuto, Presidente della Regione e calabrese Doc. 

E che i commissari scelti, alcuni emiliano-romagnoli, quindi senza il peccato originale di essere meridionali, non hanno migliorato per nulla la situazione. 

Forse se si smettesse di utilizzare anche in questo campo la spesa storica e si dessero meno risorse alla sanità privata anche di eccellenza, così presente nelle aree settentrionali, si eviterebbero non solo i tanti viaggi della speranza ma che le Regioni del Mezzogiorno li finanziassero, pagando i costi delle cure dei pazienti emigranti.  

Purtroppo il meccanismo della colonia interna, così come funziona nella formazione, visto che le università del Nord continuano a reggersi sulle rette, private o statali, dei ragazzi meridionali, nel ritenere il Sud un bacino dal quale attingere i giovani lavoratori, dal quale trasportare l’energia prodotta dalle raffinerie, dai rigassificatori o adesso dagli impianti solari o eolici, è perfetto anche nell’ambito sanitario. 

E sarà complicato convincere chi è abituato ad un percorso di sfruttamento a farne a meno. Anche gli inglesi che se ne andarono dall’India con un percorso di non violenza promossa dal Mahatma Gandhi furono cacciati con una lunga lotta politica che ha visto l’adozione di diverse strategie tra cui la disobbedienza civile non violenta, ma anche proteste  volente, divisioni interne e pressioni internazionali.

Ovviamente la situazione del Mezzogiorno non è paragonabile, ma non vi è dubbio che se non vi è una presa di coscienza e una consapevolezza diversa il meccanismo rimarrà quello che è sempre stato. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud –L’Altravoce dell’Italia]

IL PUNTO / Adriano Giannola: «Il Mezzogiorno è ancora vivo»

di ADRIANO GIANNOLANel corso del 2024 si è andata affermando un’immagine del Sud relativamente nuova e fortunatamente positiva, che ha fatto scalpore e stimolato qualche piccata reazione: una crescita del Mezzogiorno che supera il CentroNord e che macina record di occupati. Questo Sud si presta a comodo simbolo del successo della strategia governativa che lo rilancia quale ZES Unica. Si tratta di primati veri e apparenti allo stesso tempo: la contabilità scientifica, infatti, avverte che aumentano gli occupati ma diminuiscono le ore lavorate e si ingrossa la schiera dei lavoratori poveri. Ciò spiega la voragine della produttività stagnante dalla quale non si riesce ad uscire e che spiega il grigiore della stagnazione generale, più evidente al Nord, conclamata al Centro e che è invece persistente normalità al Sud. La Svimez i primati li documenta e lo battezza come lanno della crescita differenziata, un titolo che ironicamente fa il verso alla retorica leghista dell’Autonomia Differenziata della legge Calderoli, fatta a pezzi dallaccurata, chirurgica, dissezione della Corte Costituzionale.

I primati del Sud hanno una spiegazione molto semplice che prende il nome da una delle 7 opere della Misericordia dipinta a Napoli da Caravaggio: dar da mangiare agli affamati. La verità è che il Mezzogiorno è vivo, è sopravvissuto alla dieta alla quale alludeva nel 2018 l’ex ministro per la Coesione del governo Conte 2, in audizione alla commissione parlamentare di inchiesta sulla spesa storica: quando documentava che al Sud da molti anni mancano allappello circa 60 miliardi l’anno di risorse pubbliche, soprattutto in conto capitale.

C’è voluta la pandemia e il provvidenziale intervento straordinario Ue del Pnrr con le condizionalità, peraltro larvatamente rispettate, per far vedere che il Mezzogiorno è ancora vivo e chiede solo una dieta intelligente collegata ad una ancor più intelligente strategia: quella che consentirebbe di mettere a terra levidentissima opportunità per essere quel secondo motore indispensabile a rimettere in corsa il Paese. Dunque, dire che il Mezzogiorno è un problema in via di soluzione è un pio desiderio. Perché lemigrazione giovanile prosegue massiccia. Oltre 100 miliardi di risparmi del Sud emigrano ogni anno per essere impiegati dalle banche del Nord. Illudersi che la Zes unica possa fare miracoli, con o senza decontribuzione, e con risorse abbondanti per il credito di imposta, è un diversivo pericoloso: se assolverà al compito di mettere ordine e gerarchia nell’uso dei fondi per la coesione, realizzando una fisiologica programmazione Stato-Regione, il suo ruolo sarà utilissimo. E lo sarà ancor di più se consentirà ai porti meridionali di fare da detonatore alla reazione a catena dello sviluppo, che può innestare la combinazione logistica a valore, vie del mare, new manufacturing e zone doganali intercluse: una miscela che il Pnrr, quasi fuori tempo massimo, può ancora, davvero tardivamente, innescare. Se il 2024 è pieno di dubbi primati del Mezzogiorno, conseguiti soprattutto per demerito dellaconcorrenza, una perniciosa persistenza è invece l’assenza di un progetto semplice e chiaro che conferisca al Sud quella funzione che può svolgere per riconnettere il Paese sulla rotta del nostro ruolo Mediterraneo, non previsto dal Piano Mattei. (ag)

[Adriano Giannola è presidente della Svimez]

LEGA, IL PROGETTO DELLA MACROREGIONE
È UNA SERIA MINACCIA PER IL MERIDIONE

di PIETRO MASSIMO BUSETTAIl retro pensiero era “tanto poi di fronte ai Lep si fermerà tutto”. Ma con leggerezza avevano sottovalutato il tema e soprattutto la determinazione e la forza di impatto di Roberto Calderoli. Mi riferisco a Fratelli D’Italia, a Forza Italia e anche a Noi Moderati di Lupi. D’altra parte la conoscenza della legge era stata sempre molto approssimativa.

In realtà qualcuno lo aveva cominciato a dire in tempi non sospetti che il vero obiettivo erano le materie dove non erano previsti i Lep. Ma è rimasto un profeta inascoltato. Parlo di Adriano Giannola che da tempo sostiene che il vero disegno della Lega Nord, ma in realtà anche di un’aggregazione più ampia, anche di ricercatori e studiosi del Nord, appartenenti anche ad altri partiti, era quello di arrivare ad una macro regione del Nord, che in qualche modo sostituisse, peraltro con il vantaggio di continuare ad avere una colonia interna, che è il Mezzogiorno, il progetto iniziale che vedeva nella secessione il raggiungimento dell’obiettivo bossiano. 

Adesso che il disegno comincia ad essere chiaro, anche a chi riteneva che si chiudesse  la partita dando il contentino alla Lega, in modo da tenere unita e coesa la maggioranza, le preoccupazioni cominciano a nascere. Perché il contentino si sta rivelando estremamente pericoloso  per la coesione nazionale e, si teme, molto costoso per il consenso nei territori meridionali.

Sopratutto per i tre partiti della maggioranza che continuano ad avere lì una base elettorale importante. Inizialmente le voci contrarie del Centrodestra sono state molto isolate. Si pensi che solo tre deputati vicini a Roberto Occhiuto si sono rifiutati di votare a favore del ddl Calderoli. Cannizzaro,  Mangialavori e Arruzzolo.

E il Presidente della regione Calabria si trovava solo, anche all’interno del Partito, sulla posizione critica rispetto all’Autonomia che, dichiarava, sarebbe potuta  andare avanti solo quando i Lep sarebbero stati individuati e finanziati. 

Cosa estremamente difficile considerato che il costo dell’equità territoriale nei diritti di cittadinanza di base, come sanità, scuola infrastrutturazione è molto elevato.

Poi in un secondo momento fece  propria la posizione di Occhiuto anche il Segretario del Partito Antonio Tajani, che insediò un comitato per monitorare l’andamento di tale legge e non perdere di vista le problematiche che essa faceva sorgere.      

Ma approvata la legge, che in molti consideravano fosse solo una bandierina da sventolare per accontentare i leghisti più duri e puri, ci si rese conto invece che Zaia, Fontana, Cirio, insomma tutto il Nord di destra, facevano sul serio. Ed erano pronti a intavolare le trattative per alcuni temi che sembravano irrilevanti, ma che si sta vedendo che sono estremamente importanti. 

E allora vengono fuori i distinguo: Tajani che afferma che il commercio estero non può essere parcellizzato e gestito da 20 regioni. Ieri Musumeci che in una intervista, poi in parte sconfessata, evidenziava che la protezione civile ha esigenze di interventi che solo il Governo Centrale può consentirsi in termini di risorse ma anche organizzativi. 

Si potrebbe dire che i nodi vengono al pettine e che lo stupore di chi non capiva come mai Partiti come Fratelli D’Italia e Forza Italia, con un consenso  raccolto a livello nazionale e con una mission che valorizzava l’idea di Paese unito,  potessero accettare una legge che invece andava in una  direzione che molti hanno chiamata Spacca Italia,  era dovuto alla convinzione che in realtà si stesse facendo il gioco delle parti. 

 Da un lato la Lega aveva il suo contentino e la sua bandierina da sventolare sui campi di Pontida, a due passi da Bergamo, dall’altro rimaneva tutto invariato e quindi nessuno avrebbe disturbato il manovratore. 

Ora che gli inviti a stare calmi e ad aspettare vengono rinviati al mittente, in particolare dal gruppo Veneto con Zaia in testa, con una determinazione inaspettata, solo da alcuni, e con la motivazione che c’è una legge che va applicata, ci si trova davanti a difficoltà non previste e si invocano tavoli diversi da quelli previsti dalla legge, per fare in modo che i passaggi successivi non diventino quasi automatici. 

Ma l’affermazione di Salvini che dice: «indietro non si torna» evidenzia la volontà precisa di non interrompere il processo. Quindi intanto si va avanti con le materie dove non sono previsti i Lep. E per le altre si trova un sistema per cui il livello di tali servizi “essenziali” sia tale da essere compatibile  con la legge che prevede che avvenga tutto a costo zero per il bilancio dello Stato. 

L’obiettivo è quello che si dia valenza e importanza a un concetto assolutamente anticostituzionale, che è quello del residuo fiscale, unico modo per mantenere quella spesa storica che ha consentito finora l’esistenza di cittadini di serie A e di serie B, con spesa pro capite per ciascuno di loro, nella sanità, nella formazione, nella infrastrutturazione, diversa, e alcune volte dimezzata, rispetto alle Regioni più favorite.

È evidente che per avere gli stessi livelli di prestazione, meglio sarebbe livelli uniformi, che sono alla base di uno Stato unitario, nel quale l’equità territoriale è la base da cui partire, come quella della progressività del prelievo fiscale, che prescinde dal territorio in cui si nasce e e si lavora, sono necessarie risorse che questo Paese non ha e che non riuscirà ad avere se i tassi di crescita continuano ad essere di zero virgola qualcosa e si vorrà tenere il 40% del territorio ed il 33% della popolazione in una posizione ancillare rispetto alla cosiddetta locomotiva, che a stento trascina se stessa. 

D’altra parte impegnarsi per far crescere veramente quella che alcuni con molta enfasi chiamano la seconda locomotiva, ma che in realtà rimane soltanto una un’area a sviluppo ritardato, dove lavora soltanto una persona su quattro, caratterizzata dai processi migratori tipici delle realtà sottosviluppate, è estremamente impegnativo. 

Perché bisogna infrastruttura bene il territorio, lottare la criminalità organizzata per evitare che sia di impedimento all’insediamento di nuove aziende, dare vantaggi fiscali assolutamente consistenti tali da far scegliere alla impresa che arriva dall’esterno, come Microsoft,  invece che Milano magari Cosenza, e  un cuneo fiscale da azzerare, che pesa  sul bilancio dello Stato in modo rilevante. 

Per far questo bisogna sottrarre risorse alle esigenze di un Nord industrializzato che, correttamente, vuole competere con la Baviera, con il Giappone, con la Cina, che oggi non ha più bisogno dell’alta velocità, già esistente, ma di un treno supersonico con tecnologia Hyperloop, del tubo che faccia spostare  a 1200 km orari. 

 E allora la via di fuga è quella di fissare i Lep  a un livello talmente basso da consentire l’attuazione del progetto, magari inventandosi un diverso costo  della vita tra Sud e Nord. Dimenticando che esso non passa attraverso una differenza tra  territori, quanto molto più probabilmente tra aree metropolitane e interne, aree agricole e turistiche. E non tenendo presente che alcune carenze di servizi di alcune aree anche se non entrano nel costo  della vita Istat appesantiscono i bilanci familiari in modo notevole. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

SVIMEZ: “IUS SCHOLAE” ATTO NECESSARIO
DI UGUAGLIANZA SOCIALE E INCLUSIONE

Lo Ius scholae di cui si sta parlando in quetsi giorni rappresenta, senza ombra di dubbio, uno strumento di coesione sociale e valorizzazione dell’integrazione di minori provenienti da Paesi extracomunitari (o molto spesso nati in Italia).

A questo proposito è di particolare rilievo lo studio realizzato dalla Svimez (l’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) che mette in evidenza il diritto alla cittadinanza dei bambini che studiano in Italia. C’è da sottolineare che nel Mezzogiorno la percentuale è abbastanza contenuta (in Calabria appena il 5,5 % contro il 23% della Lombardia), ma il problema riguarda tutto il Paese e il suo futuro.

Lo Ius Scholae – pensato per conferire la cittadinanza ai minori stranieri, nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni, che hanno frequentato regolarmente almeno cinque anni di studio in Italia – rappresenta un atto necessario di uguaglianza sociale nei confronti di bambini e ragazzi ai quali non è riconosciuto lo status giuridico di cittadini italiani pur condividendone cultura, educazione e appartenenza.

La riforma – emerge dalla Ricerca Svimez –  è anche un’opportunità concreta per costruire una società più inclusiva e coesa, che investe sull’accoglienza per il futuro del Paese. Legare l’acquisizione dei diritti di cittadinanza al completamento di un ciclo di studi potrebbe incentivare la permanenza in Italia dei giovani con background migratorio e delle loro famiglie, contribuendo a ringiovanire la popolazione, contenere la riduzione delle iscrizioni nelle scuole e la conseguente chiusura dei presidi scolastici.

I NUMERI. Considerando il solo ciclo della primaria, sulla base dell’attuale testo dello Ius Scholae, rientrerebbero a pieno titolo tra gli aventi diritto alla cittadinanza italiana i bambini stranieri di età compresa tra i 6 e i 10 anni che completano con successo l’intero percorso di studi nel Paese, iscrivendosi quindi al primo anno della secondaria di primo grado. Ma quanti sono i minori stranieri che studiano nelle scuole italiane della primaria? Gli ultimi dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) indicano un totale di 315.906, pari al 14% degli iscritti (i dati si riferiscono alla primaria statale e non includono la Valle d’Aosta e le Province Autonome di Trento e Bolzano). Di questi, 4 su 5 provengono da un paese extracomunitario.

LA GEOGRAFIA. La distribuzione di bambini stranieri nella fascia di età 6-10 anni non è uniforme sul territorio nazionale mostrando una maggiore concentrazione nelle aree del Nord Italia, più attrattive in termini di opportunità occupazionali e retributive per i genitori ma anche di accessibilità e qualità dei diritti essenziali per le famiglie. L’incidenza di stranieri sugli alunni della scuola primaria varia dal massimo del 23,2% dell’Emilia-Romagna al minimo del 3,2% della Sardegna. Tra le prime due regioni per numero assoluto di alunni della primaria, Lombardia (oltre 392mila) e Campania (228mila), la differenza è di circa 17 punti percentuali: 22% contro il 4,5%.

Le differenze si ampliano considerando le 14 città metropolitane, dove lo stacco tra Nord e Sud è ancora più evidente. Milano registra una percentuale del 24,5%, oltre 6 volte maggiore della città metropolitana di Napoli che si attesta a poco più del 3,6%. In generale, nessuna città metropolitana del Mezzogiorno supera la soglia del 6%, con valori compresi tra 3% (Palermo) e 5,7% (Reggio Calabria).

A livello comunale, il gradiente territoriale nell’incidenza di stranieri che frequentano la scuola primaria conferma la sostanziale spaccatura Nord/Sud, ma fa anche emergere profonde differenze nell’attrazione di popolazione immigrata all’interno delle diverse aree. Anche al Nord, la presenza di bambini stranieri si concentra, infatti, nelle città metropolitane e nelle aree a maggiore densità produttiva mentre tende a ridursi significativamente nei comuni delle aree interne (soprattutto in Piemonte e Liguria). Nelle regioni meridionali, caratterizzate mediamente da una bassa presenza di bambini stranieri, fanno eccezione alcuni comuni dell’entroterra calabrese e della provincia siciliana di Ragusa. In generale, i comuni delle regioni del Nord mostrano una presenza di bambini stranieri mediamente compresa tra il 10 e il 20%, mentre nei comuni del Centro e del Sud la percentuale non supera il 9%, risultando inferiore al 5% nelle maggior parte dei casi.

I COMUNI CON MENO DI 125 BAMBINI.

Nella Fig. 4 è riportata l’incidenza di bambini stranieri sugli alunni della primaria nei comuni con una sola “piccola scuola” (comuni con meno di  125 alunni) , dove l’unico presidio scolastico attivo rischia nei prossimi anni di chiudere per un numero insufficiente di iscritti. Si tratta di circa 3 mila comuni italiani, il 38% del totale (con quote che oscillano tra il 27% del Nord-Est e il 46% del Mezzogiorno), localizzati nella maggior parte dei casi nelle aree interne delle diverse regioni.

Complessivamente, i bambini stranieri che frequentano l’unica piccola scuola del proprio comune sono circa 20.000, il 10,6% degli alunni (6-10 anni) residenti. Le differenze territoriali si confermano anche in questa tipologia di comuni: tutte le regioni del Centro-Nord presentano una quota di alunni stranieri superiore al 10% (unica eccezione il Friuli-Venezia Giulia). Nel Mezzogiorno, il dato cala in media a 5 bambini stranieri su 100 alunni, in Sardegna a 2,5.

Sulla base di queste evidenze emerge il ruolo rilevante della partecipazione dei bambini stranieri alla scuola primaria anche nei comuni a maggior rischio di “degiovanimento”. L’attrazione di famiglie straniere già oggi rappresenta per molte aree del Paese una leva di contrasto al calo delle iscrizioni e al conseguente rischio di chiusura dei presidi scolastici. L’adozione dello Ius Scholae potrebbe rafforzare tale tendenza.

L’incentivo alla frequenza regolare e quindi alla permanenza dei bambini stranieri interesserebbe, ad oggi, una platea di beneficiari sensibilmente più ampia nei comuni del Centro-Nord, in particolare nei casi di Emilia-Romagna e Toscana, dove l’incidenza di stranieri si avvicina al 20%.

In altre parole, lo Ius Scholae potrebbe contribuire a scongiurare la chiusura di molte piccole scuole, assicurando continuità a un presidio culturale primario che, oltre a sviluppare le opportunità formative di bambini e giovani, consente di arginare i processi di spopolamento e invecchiamento. L’istruzione rappresenta un servizio essenziale la cui qualità e capillarità sono condizioni imprescindibili per uno sviluppo socialmente e territorialmente inclusivo, specialmente per le aree più deboli e remote. La granularità territoriale dell’offerta scolastica contribuisce a neutralizzare la condizione di svantaggio delle «periferie», salvaguardando le comunità che le abitano.

LE PROSPETTIVE DEMOGRAFICHE.

Garantire i diritti di cittadinanza ai bambini stranieri, oltre a costituire un fondamentale strumento di inclusione, permette di migliorare le prospettive demografiche dei prossimi anni. Le previsioni demografiche dell’ISTAT delineano un quadro in complessivo peggioramento per l’intera struttura demografica del Paese, con una riduzione importante della platea di giovani e un contestuale ampliamento delle fasce più anziane. Questi cambiamenti, senza correttivi immediati e scelte politiche ambiziose, produrranno effetti dirompenti sui sistemi sociali e sanitari di tutti i territori, anche all’interno di orizzonti temporali relativamente stretti.

Stando alle proiezioni al 2035, la popolazione di bambini di età compresa tra 5 e i 9 anni – fascia d’età che sostanzialmente corrisponde a quella dei bambini che frequentano la primaria – dovrebbe diminuire del 18,6%, passando dagli attuali 2,5 a poco più di 2 milioni. Le variazioni saranno più marcate nel Centro e nel Mezzogiorno, con la Sardegna che potrebbe subire perdite del 34%, seguita da Lazio e Abruzzo con valori rispettivamente del 24,8% e 24,4%. A registrare le variazioni più contenute dovrebbero essere Liguria (-9,7%) e Trentino Alto Adige (-11%), mentre in tutte le altre regioni settentrionali le perdite potrebbero superare il 13%.

IL QUADRO D’INSIEME. Sulla base delle statistiche illustrate, è possibile stimare il numero di bambini stranieri iscritti alla primaria che, con l’approvazione della riforma, avrebbero diritto alla cittadinanza italiana. Nel 2023 erano 60.000 gli alunni stranieri iscritti all’ultimo anno della primaria. Una stima prudenziale dei potenziali beneficiari dello Ius Scholae include: tutti i bambini stranieri nati in Italia (42.000), che verosimilmente hanno completato nel Paese l’intero percorso di studio; circa un terzo di quelli nati all’estero (6.000), ipotizzando che gli altri abbiano iniziato il percorso scolastico fuori dai confini nazionali, senza maturare il requisito richiesto dalla riforma.

Questa la ripartizione regionale dei 48.000 beneficiari così identificati: oltre 1 su 4 risiede in Lombardia, il 12,8% in Emilia-Romagna, l’11,6% in Veneto e solo il 12,5% in tutto il Sud, area del Paese in cui è presente il 35,3% degli alunni della primaria.

Dallo Ius Scholae possono quindi derivare rilevanti effetti positivi di giustizia e coesione sociale, tenuta del sistema scolastico, e, più in generale, sulle prospettive demografiche del prossimo futuro. L’efficacia della riforma dipende dalla volontà di inserire lo strumento in un più ampio programma di rafforzamento del welfare territoriale e sostegni effettivi ai redditi e alla genitorialità.

Da un lato, è necessario perseguire gli obiettivi di coesione territoriale che consentono di offrire pari opportunità lavorative e retributive, rendendo nella stessa misura attrattive tutte le aree del Paese e scongiurando il rischio di un ulteriore ampliamento dei divari sociali e economici, dei quali le differenze territoriali documentate nella distribuzione dei bambini stranieri sono solamente una delle tante manifestazioni.

In questo quadro, occorre ribaltare la percezione comune di un pericolo immigrazione, inserendo a pieno titolo le politiche di inclusione come parte integrante di un progetto che, attraverso il miglioramento dei servizi pubblici e l’accompagnamento alla localizzazione di attività produttive, riduca l’emigrazione dei giovani e favorisca l’attrazione di nuove famiglie. È proprio la presenza di questi nuclei che consente di contrastare le dinamiche demografiche avverse e di spezzare il circolo vizioso tra spopolamento e rarefazione dei servizi pubblici essenziali.

Per il direttore generale della Svimez, Luca Bianchi: «Lo Ius Scholae – pensato per conferire la cittadinanza ai minori stranieri, nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni, che hanno frequentato regolarmente almeno cinque anni di studio in Italia – rappresenta un atto necessario di uguaglianza sociale nei confronti di bambini e ragazzi ai quali non è riconosciuto lo status giuridico di cittadini italiani pur condividendone cultura, educazione e appartenenza.

«La riforma è anche un’opportunità concreta per costruire una società più inclusiva e coesa, che investe sull’accoglienza per il futuro del Paese. Legare l’acquisizione dei diritti di cittadinanza al completamento di un ciclo di studi potrebbe incentivare la permanenza in Italia dei giovani con background migratorio e delle loro famiglie, contribuendo a ringiovanire la popolazione, contenere la riduzione delle iscrizioni nelle scuole e la conseguente chiusura dei presidii scolastici”, conclude. (rrm)

LA “QUESTIONE ITALIANA” È L’EMIGRAZIONE
DEI GIOVANI DEL SUD, NON L’IMMIGRAZIONE

La “Questione italiana” è l’emigrazione, non l’immigrazione. È l’allarme lanciato dalla Svimez, nel corso del convegno FestambienteSud promosso da Legambiente e svoltosi in Puglia, evidenziando come «l’incremento delle diseguaglianze di genere, generazionali e territoriali è la principale causa del gelo demografico italiano».

Negli ultimi anni, infatti, il tasso di natalità sempre più basso e un’aspettativa di vita sempre più lunga hanno portato l’Italia tra i paesi più anziani in Europa e nel Mondo; ma le dinamiche naturali hanno avuto impatti territoriali differenziati, colpendo in maniera più rapida e severa il Sud. Anche la componente migratoria interna e internazionale ha contribuito ad ampliare gli squilibri demografici Sud-Nord.

Nelle regioni settentrionali si concentrano prevalentemente le comunità immigrate, contribuendo a ringiovanire una popolazione strutturalmente anziana. Il Mezzogiorno continua a soffrire di un deflusso netto di giovani (1 su 3 laureato) verso il resto del Paese e verso l’estero.

La Lombardia, ad esempio, registra una variazione netta positiva, intercettando i flussi migratori interni e esteri. Al contrario, la Puglia continua a perdere popolazione che si sposta nelle altre regioni (specialmente al Nord) e all’estero. Stando alle proiezioni Istat, al 2042 la Puglia perderà oltre 418mila cittadini (- 11%). 1/3 nei comuni delle aree interne (-100mila) in cui oggi risiede il 22% della popolazione. Le riduzioni maggiori si osservano nelle giovani fasce d’età, con la popolazione che si contrarrà di oltre il 30%, con picchi del 35% nelle aree interne. Si perde forza lavoro, si va verso una maggiore senilizzazione della società, si smantella progressivamente il sistema di servizi all’infanzia (se presente), si svuota la scuola.

Di fronte a questo quadro desolante, per la Svimez, una ripresa della dinamica demografica è conseguibile attraverso un riequilibrio delle condizioni di accesso ai diritti di cittadinanza, investendo in infrastrutture sociali per migliorare qualità dei servizi pubblici nei territori a maggior fabbisogno, a partire dalla scuola e dalla sanità, per migliorare il saldo naturale; attraverso un freno alla fuga delle competenze e creando domanda di lavoro qualificato; attraverso politiche in grado di attrarre migranti con misure di inclusione (servizi, borse di studio, accompagnamento e formazione al lavoro).

Per Luca Bianchi, direttore della Svimez, «l’autonomia differenziata determinerà un’ulteriore divaricazione dell’offerta di servizi e di conseguenza un incremento delle emigrazioni (sanitarie, universitarie, lavorative), rafforzando il trend di spopolamento dei territori marginali».

Un’ulteriore approfondimento sui divari territoriali e le difficoltà di accesso al credito l’ha fornito il presidente della Svimez, Adriano Giannola, intervenendo alla 15esima edizione della Conferenza Nazionale di Statistica: «la difficoltà di accesso al credito ostacola – non poco! – la convergenza territoriale. Oggi il dualismo è tornato prepotentemente dopo gli anni della convergenza (1951-anni ’80) e il tema creditizio merita grande attenzione».

«Nel 1972 Saraceno, fondatore con Morandi e Menichella della Svimez – ha ricordato Giannola – espresse una valutazione di grande attualità: “…quando iniziai la non facile ma interessante esperienza della Cassa dissi che tre erano gli indicatori che dovevamo monitorare attentamente perché erano quelli che sulla base degli investimenti che andavamo a realizzare avrebbero dovuto subire un sostanziale cambiamento; mi riferisco al reddito pro-capite, al tasso di disoccupazione e al costo del denaro. Dopo venti anni ci sono flebili segnali positivi sui primi due indicatori mentre sul terzo, purtroppo, non è accaduto nulla. E questo, devo essere sincero, è davvero preoccupante perchè rappresenta il riferimento determinante per un processo di crescita. Sono sicuro che…, il mondo bancario annullerà queste forme discriminanti nei confronti delle iniziative nel Mezzogiorno”».

«Alla luce delle evidenze successive al 1990 – ha aggiunto il presidente Svimez – un illustre analista commenta “…lo Stato… in tutti questi anni non ha mai dichiarato che quel rischio differenziale denunciato… possa essere assorbito ad opera sua”: è lampante in effetti che il drastico razionamento della spesa pubblica in conto capitale al Sud, il consolidamento bancario degli anni 1990, il passaggio della vigilanza da strutturale a prudenziale, sono fattori che non hanno attenuato il differenziale che condiziona il merito creditizio di famiglie e imprese del Sud».

«Lo Stato e la Banca Centrale – ha proseguito – hanno affrontato il problema con una terapia distillata da una diagnosi secondo la quale per incidere sul divario è prioritario puntare a recuperi di efficienza promossi a loro volta dall’ apertura del mercato “locale” al vento della concorrenza. Su queste basi l’ obiettivo dichiarato di eliminare oltre il 60% del dualismo creditizio ha legittimato il rapidissimo consolidamento che ha scientemente e inopinatamente spazzato via il sistema bancario meridionale. Che la terapia non fosse idonea, efficace e men che meno risolutiva lo dice la cronaca trentennale che, ormai è storia, conferma per mutuatari ed imprese del Sud che poco o nulla è cambiato: il dualismo consolidato, domina ora come allora».

«Cancellati con chirurgica rapidità i grandi banchi (gli Icdp) del Sud, aggiudicati a quelli del Nord alla cui gestione si affida il neonato mercato unico dei capitali, scompare la dimensione del fine tuning interbancario strategico per gestire il dualismo creditizio mentre la raccolta del Sud razionalmente impiegata sul mercato duale premia ovviamente, e più di prima, imprese e operatori del Centro Nord (100 mld/anno nel 2022) condizionando Pmi e clientela nel Mezzogiorno – ha detto ancora –. Né, in questo panorama, le grandi banche nazionali del mercato unico dei capitali vincono la sfida dell’ efficienza che invece perdono in assoluto e nel confronto specifico con quel che resta del sistema creditizio del Sud: le Bcc e il fragile retaggio delle Banche Popolari. Costringere la gestione operativa di un sistema ostinatamente duale nel mercato unico del credito, viola basilari regole grammaticali del dualismo perché atrofizza l’ azione tradizionalmente svolta sull’ interbancario dalla sapiente, più indipendente ed esperta gestione della Banca Centrale. Questa, abdicando al suo ruolo, senza cogliere l’ obiettivo consolida la patologia».

«L’ansia di prestazione suggerisce terapie frutto di cedimenti all’accademica nella lettura di un fenomeno ben noto proprio alla Banca Centrale che, La Banca Centrale non più sovrana a scala nazionale e al governo dell’Euro, potrebbe svolgere un ruolo di eccezionale rilevanza sul monitoraggio e gestione del dualismo – unico per intensità e storia nell’Unione proprio e su un terreno di sua stretta competenza –. È paradossale – ha concluso – che il più completo e prestigioso laboratorio di ricerca e analisi nazionale, patrimonio della Banca Centrale non contribuisca attivamente come avviene in altri contesti in modo sistematico ed operativamente incidente». (rcz)