;
Gerardo Sacco con i suoi tre figli

Gerardo Sacco: gioie e gioielli di una vita straordinaria

di PINO NANO

“…La mia casa è il mio rifugio,

anche qui ho il mio

laboratorio casalingo

dove sviluppo le mie prime idee,

quelle che non condivido

con gli altri finché

non sono certo che possano portare alla realizzazione

di un gioiello unico…”

La location è solenne, Roma Sala Zuccari, Palazzo del Senato della Repubblica, appena una settimana fa. L’occasione ufficiale è la conferenza sulla Pace e la consegna dei “Leoni D’Oro per la carriera, l’impresa e le arti”. Dietro tutto questo c’è la prestigiosissima Accademia Gran Premio Internazionale di Venezia in collaborazione con la Fondazione Foedus. E anche in questa occasione, c’è un figlio di Calabria che viene chiamato sulla ribalta e premiato per il suo valore, il suo, la sua genialità artistica. Moderno, innovativo, rivoluzionario, creativo in tutti i sensi, un manager sempre di più proiettato in avanti, con lo sguardo proteso sul futuro, e radici ben salde e mai rinnegate con la tradizione forte della terra che lo ha visto nascere.

È Gerardo Sacco, grande Maestro orafo italiano, figlio illustre della città di Crotone, personaggio di grandissimo carisma, che altrove sarebbe diventato più di Dior e di Dolce e Gabbana messi assieme, ma lui, a differenza di tanti altri nomi della moda dell’arte e del designer, non ha mai accettato l’idea di trasferirsi a Milano o a Parigi.

«Non immaginate che tutto sia stato sempre facile, ma per paradosso la mia vita è un “gioiello”! Ho avuto la fortuna di capire sin da ragazzino quale fosse il mio talento, creare oggetti unici legati alla Calabria, la mia terra, e alla cultura della Magna Grecia. Posso dire in tutta onestà che non ho mai lavorato un giorno della mia vita! La mia vita è il mio lavoro e la mia famiglia. Ho avuto una vita costellata da grandi viaggi e grandi incontri».

Due libri diversi oggi ricostruiscono la sua vita, e francamente non lo si poteva fare meglio di così. Scritti a quattro mani, Gerardo Sacco che si racconta a Francesco Kostner, il primo edito dalla Rubbettino Sono Nessuno, e il secondo dalla Pellegrini Come l’araba fenice, e in cui viene fuori prepotente il carattere, la vita, la solitudine, la rabbia, la disperazione e soprattutto la fierezza di un personaggio che per oltre mezzo secolo avrebbe poi incarnato nell’immaginario collettivo l’idea dell’uomo di successo nel mondo, e che sarebbe diventato, suo malgrado, egli stesso icona di opulenza in tutti i sensi.

Io oggi proverò a raccontarvelo così come lui si racconta in questi lunghi diari di bordo, e in cui ogni momento della sua vita è un misto di sensazioni le più varie, ma anche le più dolorose e le più svariate, e dove la sola certezza che se ne ricava è che l’uomo abbia vissuto gli ultimi 80 anni della sua vita esclusivamente con il cuore in mano. Storia di una infanzia negata. Storia di una infanzia disperata. Storia di immensa solitudine.

«Mi risuonano nelle orecchie ancora le raccomandazioni di mia madre, che non ho mai dimenticato: “Siamo poveri, ma abbiamo una ricchezza straordinaria: la dignità, l’onestà, il rispetto delle regole. È un patrimonio di inestimabile valore e, con il trascorrere del tempo, ne comprenderai sempre più l’importanza adoperandoti affinché diventi il riferimento della tua famiglia e dei tuoi figli”. Aveva ragione, mamma. Quante volte l’ho pensata, nei momenti difficili. Quando mi sentivo disperato. Senza vie d’uscita. Quando mi toccava prendere atto che la vita mi riservava amarezze, dispiaceri, delusioni, nonostante la correttezza dei miei comportamenti. Quando vicende inattese, e finanche strazianti, sembravano avere gioco su di me. Sopraffarmi. Ma ho tenuto duro, come mamma mi ha educato a fare».

Ricordo di averlo incontrato 40 anni fa a New York dove lui, già allora famoso, presentava alla stampa americana i gioielli del cinema, aveva accanto Franco Zeffirelli e Liz Taylor, e ricordo che gli americani avrebbero fatto carte false per averlo allora come direttore artistico delle proprie industrie orafe, lo avrebbero sommerso di dollari pur di averlo, ma lui su questo non ha mai tergiversato. Ha invece sempre ringraziato e declinato l’invito: “Excuse me, but I’m going back to my house”, “Scusi, ma torno a casa mia”. Ma questo, forse, lo ha reso ancora più famoso negli anni e tra la gente comune, e nei fatti tutto questo lo ha reso soprattutto il vero unico e grande ambasciatore calabrese vivente del Made in Calabria nel mondo.

«Ho sempre immaginato la mia vita come un viaggio nel vagone di un treno. All’inizio sfrecciava veloce, percorrendo migliaia di chilometri senza mai fermarsi. Poi piano piano la sua marcia ha perso ritmo. Continuità. Le soste sono diventate più frequenti. Ho visto scendere dal predellino tanti passeggeri, che non sono più saliti a bordo. Il mio viaggio continua, ma ho le valigie pronte perché, prima o poi, arriverò anch’io a destinazione. Ricongiungendomi con quanti non ci sono più, per l’eternità. Non mi manca nulla, a parte mia moglie Anna. E mia madre. Che mi aspettano da tempo. Tanti segnali mi inducono a pensare che la fermata finale della mia vita non sia troppo lontana. Il fine corsa di Gerardo Sacco è a un tiro di schioppo, o giù di lì. Ma sono felice. Soprattutto sono pronto. Quando sarà il momento saluterò tutti con un sorriso. E soprattutto dicendo grazie».

Nato a Crotone il 24 maggio del 1940, uomo dalla modestia davvero proverbiale, Gerardo Sacco è indiscutibilmente la semplicità fatta uomo, il rigore assoluto nel rispettare il suo prossimo, pesante nel fisico ma leggiadro nel modo di porsi, mai un gesto di troppo, mai una intemperanza, mai un sorriso di disgusto, e credo che non esista al mondo nessuno che possa dire di essere mai stato trattato male da lui, o anche semplicemente ignorato e tenuto lontano. Eleganza, educazione, sobrietà, rigore assoluto, oggi a 83 anni Gerardo è l’immagine fisica della saggezza fatta uomo.

«Ricordo che ero all’hotel Plaza di New York, in occasione di una festa della Niaf, l’associazione culturale che promuove la storia, la lingua e la cultura italiana negli Stati Uniti, alla quale erano invitate oltre cinquecento persone. Cantava, pensi un po’ Frank Sinatra! Ero al tavolo con il presidente degli orafi della provincia di Vicenza, Beppe Graser, e con Vasco Bonetto, che rappresentava gli artigiani del settore di Valenza Po. Notavo che il cameriere andava e veniva senza portar via il piatto. A un certo punto, Graser sbottò: “Sacco, allora, le posate!”. E io, quasi stizzito: “Che devo fare?”. Lui, di rimando, con la simpatia che lo caratterizzava: “Se non le metti diritte qui facciamo notte!”. Capii che il modo come avevo lasciato il coltello e la forchetta, significava che avrei continuato a mangiare. Le sistemai subito in modo corretto e la situazione si sbloccò. Molti anni dopo mi trovai al ristorante La Pergola, dell’hotel Hilton di Roma, con Al Bano, Romina Power, i figli della coppia, Franco Franchi e Bruno Oliviero, il grande fotografo che doveva realizzare un servizio sui miei gioielli. Un cameriere, che sulla giacca aveva tante decorazioni da fare invidia a un generale di corpo d’armata, stazionava davanti al nostro tavolo pronto a esaudire ogni richiesta. Memore di quanto accaduto a New York, ero stato attento a non sbagliare. “Il signore ha finito?”, mi chiese a un certo punto. E io, prontamente, anche un po’ seccato: “Non vede le posate?”. Annuì e si allontanò».

Credo di poterlo scrivere senza nessuna ombra di dubbio, Gerardo Sacco era “Gerardo” quando non era nessuno, ma lui è rimasto “Gerardo” ancora e soprattutto ora che potrebbe vivere di rendita su un’isola tutta sua. Un uomo dai mille ricordi, una memoria matematica, un computer vivente, una conoscenza degli uomini e delle cose al di sopra di ogni possibile immaginazione, e soprattutto una grande certezza nello sguardo, che è la luce di una famiglia serrata attorno, unita più che mai, e che in realtà è il cordone ombelicale tra Gerardo e il futuro.

«Il futuro sono loro, i miei figli, una famiglia bellissima, che hanno sopperito alle mie lacune e qualche volta anche ai miei errori. Conoscono la mia storia. Sanno di cosa è fatta. Quanto è stato difficile conquistare la fiducia di migliaia di persone. Loro sanno perché godo di considerazione e rispetto: ricchezze che si accumulano nel tempo e con sacrificio, ma che possono svanire in men che non si dica. È un patrimonio importantissimo, che oggi consegno ad Antonio, Viviana, e Andrea».

Eccola la Sacco-Dinasty, il sogno finalmente realizzato del vecchio Gerardo, una famiglia che oltre a difendere e rafforzare i propri legami di affetto e di comunanza, è diventata nei fatti la grande impresa di famiglia, un vero e proprio piccolo-grande impero manageriale a cui il “creativo di casa” ha affidato oggi la gestione di tutto il resto.

«Antonio, Viviana, e Andrea, sono la luce dei miei occhi. La ragione della mia vita. Continueranno loro il mio lavoro. Riusciranno a valorizzarlo, più di quanto abbiano già dimostrato di saper fare. Ma a loro non faccio che ripetere un principio fondamentale, dovranno essere umili, stare sempre insieme, uniti, consapevoli di ciò che ogni persona ha davanti a sé… Mi viene in mente un meraviglioso pensiero di Rita Levi Montalcini: “Rare sono le persone che usano la mente, poche coloro che usano il cuore, uniche coloro che le usano entrambe”. È un insegnamento che chiedo ai miei figli, e ai miei nipoti, di tenere sempre presente. Sforzandosi di trovare la giusta sintesi tra ragione e sentimento. In fondo, è un obiettivo possibile!»

Un genio della comunicazione, un guru del marketing, un esempio rarissimo di artigiano che si è fatto da solo, ogni cosa che Gerardo toccasse diventava famosa, e ogni creatura che aveva la fortuna di stargli vicino alla fine riusciva a respirare il clima e lo charme del Made in Italy nel mondo.

Lo racconta benissimo Francesco Kostner nei due libri a lui dedicati. Donne famosissime, ambasciatori di varie generazioni, politici di altissimo profilo istituzionale, Capi di Stato, attori, attrici, musicisti, conduttori televisivi, scrittori, cantanti e professionisti di ogni genere, in tanti sono passati dal suo laboratorio di Crotone, dove ancora vive, per conoscerlo e ammirare i suoi capolavori.

«Quando penso ai ragazzi che lavorano nel mio laboratorio, a ciò che ho loro insegnato e che hanno imparato, si fa largo nella mia mente un’immagine che considero molto efficace ed importante: essere riuscito a tirare fuori tanti “pani” croccanti, profumati dal mio forno “dorato”. È il massimo che potessi desiderare e l’ho ottenuto. Al mio fianco lavorano autentici fuoriclasse, che mi fanno dormire sonni tranquilli. Lo ripeto: quando non ci sarò più, grazie a queste meravigliose persone, le mie idee, il mio stile, la mia storia continueranno a vivere».

Anche in Senato, nella sala forse più prestigiosa di Palazzo Madama, tra arazzi di immenso valore artistico e quadri d’autore, la sua modestia viene fuori palpabile come sempre è stato nella sua vita.

«È un onore aver ricevuto questo premio e sono grato alla mia famiglia e a mia figlia Viviana che oggi mi hanno accompagnato qui e che mantengono viva l’eredità dell’azienda, aiutandomi a innovare e rinnovare e permettendomi ancora, dopo 60 anni di attività, di poter formare giovani e creare ancora opere con la giusta emozione che serve».

Applausi a scena aperta. È lui la vera star di questa parata di stelle a cui viene consegnato il Leone d’Oro come massimo riconoscimento di laboriosità e di genio artigiano. Ma già un anno fa Gerardo Sacco aveva ricevuto il Premio dell’Innovazione, come testimonianza di una impresa artigiana dove linguaggi digitali e intelligenza artificiale sono più o meno di casa.

«Pensi che ho assunto un mago, sì davvero, il mago del 3D, Emiliano. Tutto quello che penso, tutto quello che mi passa per la mente, Emiliano lo realizza. Lui parla con le sue macchine, le solletica, le stuzzica, le mette in moto e in men che non si dica mi presenta il prototipo da toccare e valutare! Un miracolo, un mago vero! Ammetto che non sono un grande esperto di tecnologia, ma ne sono affascinato. Con me Emiliano è cresciuto molto professionalmente. Il rapporto si è intensificato nel tempo con una comunione d’intenti che sempre più spesso non ha bisogno di tante parole. Io conosco lui e lui conosce me, ed in questo sguardo comune nascono capolavori d’arte. Mi piace anche perché ha l’animo pittorico, ha fatto l’Accademia. Io sono molto sensibile agli studi. Non li ho fatti da piccolo, ma mi sono rifatto da grande, studiando e ricercando le bellezze e le storie della mia Calabria».

Dicevamo, manifestazione solenne in Senato, aperta dai saluti ufficiali del senatore Antonio De Poli, che ha promosso l’iniziativa, del Presidente del premio Leone d’Oro Sileno Candelaresi, e del Presidente della Fondazione Foedus e del premio Leone d’Oro per la Pace, onorevole Mario Baccini. E anche in questa occasione, affabile, sorridente, sornione, fasciato da un doppiopetto elegantissimo e raffinato, Gerardo affascina e accarezza il suo pubblico come un vecchio attore americano.

«Anche se ho superato l’età dei “quattro volte venti”, conservo l’energia di chi vuole e sente di poter realizzare sempre cose nuove. Continuo a mettermi in discussione. A sfornare idee. A elaborare progetti. A realizzare iniziative. I risultati, grazie al cielo, non mancano. Non mi riferisco solo alle nuove linee di gioielli che ho creato durante la pandemia. C’è qualcosa che per tanti aspetti è ancora più importante delle mie opere. Un approdo “mentale”, un cambiamento di prospettiva, che onestamente mai avrei immaginato di poter raggiungere. Non mi curo più di chi continua (diciamo così, ma edulcorando molto le mie parole) a “ispirarsi” ai miei manufatti. Realizzandone altri, esattamente uguali, e presentandoli come propri. Sono anni che va avanti così: studio, cercando di soddisfare la mia sete di sapere, mi industrio, produco, altri fingono di mettersi al “servizio” dell’arte. Posso dirlo con la sicurezza di chi sa di non poter essere smentito. Non ho mai copiato, niente e nessuno. Il talento, e la creatività, di cui il buon Dio mi ha fatto dono, mi hanno accompagnato in un costante viaggio “rigeneratore”. Attraverso la storia, le tradizioni, le identità di popoli e culture».

È Mario Baccini, ex ministro della Funzione Pubblica e per anni influente uomo di Governo, a sottolineare al pubblico presente che «questo prestigioso premio può essere il miglior veicolo della promozione della cultura, della solidarietà e dell’impresa al servizio della pace nel mondo». La scelta di uno dei Leoni d’Oro è caduta su Gerardo Sacco – spiega Baccini – «Perché volevamo premiare i suoi 60 anni di carriera, perché la sua è una storia bella, la storia di un gioielliere calabrese che ha realizzato gioielli preziosi per le dive del cinema del calibro di Liz Taylor, Sofia Loren, Maria Grazia Cucinotta, e per il teatro, accompagnando nella carriera il genio artistico di Franco Zeffirelli per cui ha realizzato i gioielli di scena e anche il francobollo commemorativo emesso pochi giorni fa».

Gerardo ringrazia, riesce ancora a commuoversi, e ogni cosa che racconta in pubblico ha sempre dietro una dedica personale molto speciale.

«Sono un uomo appagato, sereno, felice, ma, d’altra parte, come potrei sentirmi diversamente? Con gli splendidi figli che il Signore mi ha donato, il frutto meraviglioso dell’amore che mi lega a mia moglie Anna, anche se manca da tanti lustri; i quattro nipotini: Arianna, la gemellina di Chicca; Lorenzo e Anna, uno più bello e intelligente dell’altro, che hanno portato una ventata di gioia esplosiva nella mia vita; la “Gerardo Sacco” che va a gonfie vele, nonostante la crisi del settore, cinquanta splendidi dipendenti, che s’identificano pienamente nell’azienda, come potrei non sentirmi appagato?»

La sua vita è stata un successo dietro l’altro per il grande artista crotonese, che oggi all’età di 83 anni, dopo aver fatto il giro del mondo almeno venti volte diverse, conosce il gotha della moda e del cinema come le sue tasche, un personaggio di straordinaria forza fisica, che continua a girare come una trottola per dare corpo e anima alle sue “creature”, un genio trasvestito da uomo del Sud, oggi molto più curato di tanti anni fa, ma alla fine l’uomo è rimasto quella montagna di umiltà e di semplicità che da ragazzo era la sua vera forza motrice. È quasi commovente il bilancio che fa della sua carriera di successo nel suo ultimo libro dove Francesco Kostner lo identifica all’Araba Fenice.

«Non posso tacere la consapevolezza di essere vicino al traguardo della mia avventura. Umana e artistica. E di pensare spesso al treno della vita su cui sono salito tanti anni fa e dal quale, prima o poi, dovrò scendere anch’io. Non ho rimpianti, né paura di questo momento ineludibile. Quando penso all’attimo in cui la fiammella della mia esistenza si spegnerà, sono sereno. Non ho mai fatto del male a qualcuno, nonostante l’ingratitudine umana con me si sia esercitata parecchio. Abbia finanche giocato sporco. Ma serve poco ricordarlo. Anzi non m’interessa affatto. Sono in pace con me stesso. Con il mondo. È impagabile, straordinariamente bello, sentirsi in questo modo. Libero. Leggero. Ciò che ho vissuto, i pesanti zig-zag esistenziali con cui ho imparato a fare i conti, mi hanno arricchito così tanto da avere gettato alle ortiche anche il più comprensibile (e forse giustificato) rancore. Sono felice. Punto e basta. E questo conta».

Alle spalle, un’infanzia difficile. Carica di miseria. Piena di ricordi tristi. Fatta di lavoro, di sacrifici, di solo pane raffermo e qualche patata bollita. Non c’era spazio né per gli amici né per lo svago; la bella vita era solo un sogno, ma anche i sogni sembravano privilegio di pochi.

Nel mio primo libro che si intitolava Calabritudine, esattamente 40 anni fa, il capitolo forse più importante era dedicato proprio a lui, e dove lui mi raccontava delle sue origini poverissime, del suo primo lavoro come ragazzo apprendista barbiere, poi cacciato via e finito a fare il magazziniere, un frammento di Calabria d’altri tempi dove c’era solo da lavorare, e allora una giornata di lavoro durava per lui anche 18 ore consecutive. Erano altri tempi, ma grazie a quei sacrifici – mi raccontava – “oggi finalmente sono riuscito ad assicurare ai miei figli un’infanzia diversa dalla mia”.

«A pranzo, essendo io orfano, mangiavo alla mensa dei poveri, dietro il liceo classico Pitagora, dove sognavo di iscrivermi un giorno. Non solo. Dovevo per forza andare al mare in colonia. Stavo bene con i bambini della mia età, ma la lontananza da mia madre m’intristiva. Per il mio patrigno, invece, quella vacanza era un altro modo per tenermi lontano e segnare con chiarezza i confini entro i quali avrei dovuto intendere la mia appartenenza alla famiglia».

Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana nel 1989 su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la sua biografia ufficiale indica l’anno 1963 come l’inizio vero della sua produzione aziendale. All’interno del suo “laboratorio-bottega”, Sacco recupera i processi di lavorazione del passato e si specializza in uno stile che affonda le proprie radici nella cultura magno-greca, nonché nella tradizione contadina del Mediterraneo. E in quello stesso anno realizza il suo primo campionario, con il quale conquista il 1º premio alla mostra dell’artigianato orafo di Firenze e l’Oscar dell’Artigianato alla mostra di Sanremo.

Questi primi successi nazionali lo proiettano là dove nessun altro artigiano come lui, e prima di lui, era mai riuscito ad arrivare, dal Complesso del Vittoriano di Roma all’interno dei Musei Vaticani, i suoi manufatti trovano spazio in grandi eventi organizzati da diversi Istituti italiani di cultura all’estero, Bruxelles, Lisbona, Copenaghen, Madrid, Londra, Parigi, New York, e via di questo passo, capitale dopo capitale, paese straniero dopo paese straniero, una fantastica giostra del gusto e dello charme che non si è ancora fermata. Tutto questo grazie ad un team di professionisti che oggi sono i primi sulla piazza.

«È vero, è un privilegio avere una squadra come la mia. Bisogna credere nelle capacità dei giovani, istruirli, insegnargli. Solo così creiamo la continuazione a una tradizione di arte e mestieri, fiore all’occhiello di questa Italia che mai come in questo momento ha bisogno di questo: umiltà e lavoro. Solo così ci riprenderemo».

I suoi gioielli hanno esaltato il fascino femminile di grandi dive in svariate produzioni cinematografiche, teatrali e televisive: da Liz Taylor a Isabella Rossellini e da Monica Bellucci a Elena Sofia Ricci. Quella di Gerardo è anche per questo una storia emblematica, per certi versi iconica, che andrebbe raccontata ai bambini delle scuole, perché è nei fatti una bellissima favola moderna, e lui lo sa così perfettamente bene che all’Università della Calabria, invitato a raccontare sé stesso, trasforma la sua Lectio Magistralis in una sorta di testamento spirituale da affidare alle nuove generazioni.

«Parlavo nell’Aula Magna, davanti a mille persone, nella stessa prestigiosa sede che ha ospitato personalità̀ di grandissimo spessore scientifico, culturale, politico: il semiologo Umberto Eco, il fisico Ilya Prigogine, l’astrofisica Margherita Hack, il sindaco di New York Rudolph Giuliani, i presidenti del Consiglio Romano Prodi, Giuliano Amato, Enrico Letta. E ancora: i presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, lo scrittore Roberto Saviano, il regista Mario Martone, l’architetto Vittorio Gregotti, che ha progettato il Campus di Arcavacata. Vittorio Sgarbi. L’ambientalista indiana Vandana Shiva. Qui solitamente prendono la parola scienziati, ricercatori, uomini di cultura. Io sono una persona semplice che avrebbe voluto studiare. Non ho potuto farlo, sfruttando l’opportunità che per fortuna voi avete. C’era un silenzio surreale, che non riuscivo a decifrare. Alla fine, presi il coraggio a quattro mani e rinunciai a leggere il testo che avevo preparato. “Sono un pazzo”, dicevo tra me e me mentre i minuti passavano e, a braccio, aggiungevo considerazioni a considerazioni, su ciò che la mia esperienza insegna: è possibile farcela, anche in Calabria! Il che non significa affatto isolarsi, rimanere estranei al mondo. Ai cambiamenti. Alle innovazioni».

Oggi “Il Maestro” Gerardo Sacco è diventato protagonista di primissimo piano dell’industria orafa in Italia e nel mondo, e quando 40 anni fa gli chiesi per la prima volta che rapporto avesse con il mondo che lo circondava, e che già allora comunque incominciava a considerarlo un genio della oreficeria italiana, lui mi rispose con un candore e una leggerezza assolutamente fuori dal comune.

«Ci sono voluti 20 anni per cambiare la mia vita, Qualche volta mi guardo alle spalle e mi accorgo di aver fatto tanta strada, poi immagino il futuro e allora mi convinco che per crescere ancora serve lavorare come un negro. La gente immagina che io sia un miliardario, a Crotone spesso si gioca a fare i conti in tasca alla mia impresa, ma i soldi nel mio caso servono per creare sempre nuove idee, nuovi modelli, nuovi oggetti da esportare nel mondo, e tutto ciò che guadagno lo utilizzo per realizzare qui Calabria una grande scuola orafa. Per ora si tratta semplicemente di un sogno, ma io so che la cosa può diventare presto una realtà: bisogna crederci fino in fondo, il resto verrà da solo. Quando 20 anni fa, al mio vecchio maestro dissi che avrei portato a Crotone i segreti dei maestri di Valenza Po, mi sorrise, mi prese per un visionario, da allora non l’ho più rivisto, forse perché ho avuto troppo successo, ma la storia ha dato ragione alla mia testardaggine».

Oggi Gerardo Sacco ha 83 anni, meravigliosamente ben portati va detto. Incominciò a lavorare l’oro quando ne aveva soltanto 13. Orfano di padre sin dalla nascita viene costretto dalla vita a fare il manovale, è l’unico mestiere che gli assicura qualche lira e subito. Ma è un lavoro che non ama. A 25 anni decide di mettersi in proprio. Inventa una “bottega”, e in un vecchio sottoscala incomincia a creare i suoi primi gioielli. Ma nessuno li compra. Sono anni di miseria per tutti. A Crotone si vive ancora di quel poco che la terra riesce a dare, il resto è fatto di acquitrini e zanzare. Più volte gli amici più cari cercano di convincerlo che la strada intrapresa non è quella giusta, “Chi vuoi che compri questa roba? La gente lotta contro la fame, non ha la possibilità di pensare a queste cose…”.

Ma Gerardo insiste, lavora giorno e notte, inventa modelli e gioielli sempre più belli, poi un giorno decide di “emigrare”. E finisce a Valenza Po. Fa il giro delle fabbriche, chiede di poter “guardare”, trova anche molta generosità e molta attenzione per il modo garbato come si presenta, e quando viene invitato a “provare” quello che sa fare, uno dei grandi cesellatori di Valenza lo caccia via quasi indispettito: “Sai già fare tutto – gli dice – qui non hai più nulla da imparare, sai plasmare il metallo come solo i più vecchi di noi qui sanno fare…Non perdere altro tempo con noi”.

«Tornai allora a casa, e questa volta per sempre. C’era solo da aspettare tempi migliori. E presto arrivarono anche quelli. La gente incominciò ad apprezzare gli oggetti in oro, incominciò a comprare, ed incominciò a chiedermi cose sempre più particolari».

Gli anni 60 sono anni decisivi. La bottega di Gerardo Sacco diventa un vero e proprio atelier del metallo prezioso. Il suo laboratorio artigiano diventa presto una leggenda, e da ogni parte della Calabria vengono a conoscerlo, e man mano che gli anni passano arrivano da Firenze le prime “commesse” importanti. È il segno che il giovane Sacco aspettava da anni. Ordinare a lui una serie di oggetti preziosi, significava riconoscergli un carisma che nessuno potrà più negargli. Lo invitano dappertutto. In un paio d’anni il suo nome diventa un simbolo.

Con gli anni diventa soprattutto l’orafo delle dive. La “commessa” più importante gli arriva a casa a Crotone, una mattina come tante, inaspettata e inimmaginabile. Lo chiama Zeffirelli e gli ordina i gioielli del suo Otello. Alla fine di maggio di quell’anno li esporrà ai Campi Elisi, a Parigi, e insieme a lui ci saranno i 20 gioiellieri più famosi del mondo. E quando per il mio Calabritudine gli chiesi se si sentisse ormai arrivato mi rispose in un’esplosione di sorrisi che era appena all’inizio di una lunga maratona.

«Vuoi sapere se mi considero arrivato? Purtroppo, no. Sono appena rientrato dal Giappone e dagli Stati Uniti. Sono due paesi completamente diversi dal nostro, due paesi ricchi, dove l’oro è più o meno considerato il pane quotidiano: se avessimo, come calabresi, la possibilità di poter esportare gioielli preziosi diventeremmo nello spazio di cinque anni i più ricchi orafi del mondo. Tutto ciò che produco finisce sui mercati stranieri, ma è soltanto una piccolissima parte della domanda complessiva. Ho partecipato alcuni mesi fa ad una grande esposizione orafa a Copenaghen: se avessi portato con me un treno di roba avrei venduto persino le rotaie. Così è Giappone, in Germania, in Canada. Mentre qui da noi. la gente mette da parte e alla fine compra una casa, altrove la gente investe i propri risparmi in oro. Il lingotto è la vera filosofia delle economie forti. Se sapessimo interpretare questa tendenza, forse sapremmo anche come uscire dalla crisi che il nostro Paese attraversa».

Dopo quello ufficiale resogli in forma solenne dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, incontrato al Quirinale, il riconoscimento più bello di questi anni gli viene invece da un altro grande artista calabrese, Silvio Vigliaturo, lontano da Acri suo paese di origine ormai da mezzo secolo, famosissimo anche lui per l’arte del vetro e per il modo come dà vita e corpo alle più famose vetrate colorate del mondo, e che per i suoi 50 anni di attività artigiana ha forgiato per Gerardo una scultura piena di luce e di vita come solo Silvio sa fare con il vetro. Ma non solo questo.

Silvio Vigliaturo, dal Grande Museo di Acri che oggi porta il suo nome perché il MACA è una creatura tutta sua e che oggi è uno dei patrimoni più autentici della storia culturale della Calabria, per spiegare la scelta e la destinazione della sua opera d’arte usa nei confronti di Gerardo parole piene di ammirazione e di commozione personale.

“Questa scultura è per un uomo che ho imparato a stimare molto. Ho avuto con lui diversi incontri e, sempre, mi ha disarmato la sua semplicità e franchezza nel presentarsi e nel colloquiare. Sa parlare di sé stesso senza enfatizzare, sa parlare del suo lavoro con avvedutezza estremamente descrittiva ed affascinante, sa coniugare il suo lavoro con la vita, la famiglia e la gente. In questi anni, ho avuto modo di capire che Gerardo Sacco è il personaggio calabrese più conosciuto al mondo ed è stupendo pensare che lo è attraverso la sua grande capacità di maestro orafo, che attinge a un glorioso passato, quello ellenico, con rivisitazioni che rendono il suo lavoro contemporaneo. Questa scultura vuole raccontare tutto questo. È naturalmente costruita in vetro e le parti, all’interno della materia vetrosa, sono in oro zecchino, materia molto famigliare a un maestro orafo quale Gerardo Sacco”.

Le opere di Gerardo Sacco sono davvero oggi in ogni parte del mondo, e sono davvero sui tavoli del mondo che più contano. Al G8 de L’aquila, anno 2008, Barack Obama Presidente degli Stati Uniti riceve in omaggio dal premier italiano la miniatura in argento della fontana settecentesca, presente nel cortile d’onore di Palazzo Chigi, che era stata commissionata al Maestro Sacco dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ma l’opera viene donata anche ai primi ministri inglese, canadese e giapponese, Gordon Brown, Stephen Joseph Harper, Taro Aso; alla cancelliera tedesca Angela Merkel; ai presidenti russo e francese, Dmitry Anatolyevich Medvedev e Nicolas Sarkozy, al presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva, al presidente della Cina Hu Jintao, al primo ministro indiano Manmohan Singh, al presidente del Messico Felipe Calderón Hinojosa, e il presidente del Sudafrica Kgalema Motlanthe.

I suoi gioielli diceva Zeffirelli sono “figli del sole”: «Gerardo Sacco è stato il primo a cimentarsi in maniera consapevole e diretta con il registro ed il timbro del complesso linguaggio cinematografico. Riguardando le foto di scena, i primi piani, persino il movimento armonicamente convulso del passo cinematografico, mi pare di scorgere nel bagliore delle croci, degli scettri, delle corone, delle spille, degli orecchini, degli anelli e delle collane, l’irrompere di un segnale superiore ed indecifrabile che spezza, per un istante, le dense oscurità del dramma interiore. Mi viene voglia di affermare che i suoi gioielli sono figli del sole, preziose reliquie della quiete turbinosa del mondo, stelle marine raccolte sul fondale di un mare antico dove l’acqua cristallina è il lucidissimo specchio delle nostre anime».

Quanta gente lo ha incontrato in questi anni? Impossibile fare l’elenco di tutti coloro i quali hanno avuto modo di conoscerlo, incontrarlo, apprezzarlo, e anche volergli bene. È un elenco infinito di nomi e cognomi illustri, che sono l’essenza stessa del jet set internazionale. Mel Gibson, Glenn Close, Robert De Niro, Alberto Castagna, Pippo Baudo, Sophia Loren, Monica Bellucci, Luciano Pavarotti, Oliver Stone, Zeudi Araya, Ornella Muti, Laura Antonelli, Jean- Paul Belmondo, Fabrizio Frizzi, Enzo Mirigliani, Sergio Cammariere, Alberto Sordi, Renato Guttuso, Katia Ricciarelli, Placido Domingo, Gianni e Santo Versace, Michele Guardì, Mimmo Calopresti, Carmine Abate, Edwige Fenech, Marco Bellocchio, Colin Firth, Jafar Panahi, Francesco Alliata, Tarak Ben Ammar, Brooke Shields…

«Con Brooke Shields ci siamo frequentati per un lungo periodo; in senso artistico, sia chiaro! Una volta venne in Italia e praticamente non la lasciai un attimo. A New York – racconta Gerardo nel suo libro autobiografico – mi restituì la cortesia. Organizzò una festa alla quale erano presenti famosi attori. Pensavo fosse un’occasione come un’altra, in cui il mondo del cinema s’incontra; invece, era una serata in mio onore. Me ne resi conto solo quando Brooke, a un certo punto, mi presentò ai suoi amici parlando dei miei gioielli come di capolavori senza pari».

Ad un certo punto, continuamente in giro tra teatro, cinema e televisione, era così di casa dappertutto che qualcuno pensò di avere a che fare anche con un grande latin lover, e un giorno un settimanale di grande diffusione nazionale dedica la copertina a lui e Laura Antonelli insieme.

«Laura Antonelli, l’avevo conosciuta subito dopo la fine del lungo rapporto con Jean-Paul Belmondo. I giornali parlarono molto di noi, stravolgendo la realtà. Ero un orafo in sella, se così si può dire, e quindi un legame sentimentale, o un flirt, con la Antonelli, poteva starci. Ma non era vero. Un giorno, in piazza del Popolo a Roma, fummo fotografati da lontano mentre ammiravo un bellissimo anello che portava al dito. Quello scatto divenne la “prova provata” della nostra liaison alla quale, addirittura, un settimanale dedicò la copertina. Per rispetto della mia famiglia e per mettere fine ai pettegolezzi, decisi di non incontrarla più pubblicamente».

È bellissima invece la lettera privata che un giorno gli scrive il Presidente dell’Adn Kronos, Pippo Marra, giornalista fra i più famosi d’Italia, anche lui di origini calabresi, ma che la dice lunga sulla grandezza di Gerardo.

“Vorrei cogliere questa occasione per dirti quello che non ho mai detto per un certo pudore dei sentimenti, anche questo molto calabrese. Tu, mio fraterno amico, sei un’espressione reale della Calabria che sogno da sempre. Un uomo che, partendo da una terra povera di beni materiali ma ricca, ricchissima di ingegno, di capacità creative, celebra il bello nel mondo sapendo guardare al di là del proprio tempo e spazio. Dai tuoi gioielli si leva il profumo del Mediterraneo, e splendono le forme e i colori di antiche culture e grandi civiltà. E rivive quella storia e quella tradizione che noi calabresi non dovremmo mai ignorare perché lì affondano le nostre radici. A te pensavo, caro Gerardo, mentre visitavo le stanze del Museo egizio de Il Cairo. Da quelle vetrine si percepiva la prima parte ideale della tua arte. E si capiva come, partendo dalle sponde del Nilo e scavalcando tempo e spazio con la tua creatività, avevi raggiunto la tua Itaca con gioielli che, antichi e moderni al tempo stesso, si immergono ora con successo nella realtà dei nostri giorni non sempre segnati dal gusto del bello. Una volta aperto il mio cuore voglio dire ancora una cosa che non ti ho mai detto, e che non so se apprezzerai. Mi lascia perplesso lo slogan che ti accompagna di ‘orafo delle dive’. Mi lascia perplesso perché le dive sono ormai fantasmi discreti e il loro posto è stato preso da star vocianti. Le prime non si concedevano al mondo, le seconde si mostrano in vetrine illuminate notte e giorno e prive di mistero e magia. Invece la tua bottega, Gerardo, è in un quartiere esclusivo dell’Olimpo, abitato dalle Dee della nostra infanzia mitologica. In quella di Crotone che è un frammento della grande Grecia”.

Mi piace molto ricordarlo: 40 anni fa gli posi alcune domande, e le risposte che mi diede ALLORA sono ancora quanto mai attuali e sconvolgenti, ma l’uomo già allora non conosceva mediazioni di sorta. In questo, Gerardo è sempre stato più libero dei gabbiani che girano sul mare di Crotone.

– Maestro c’è qualcosa di cui vai particolarmente fiero?

«Mi prenderete per pazzo, ma la cosa di cui sono più fiero è questo mio distintivo. Sono un vecchio Rotaryano, e non tanto in Italia quanto invece all’estero, soprattutto in America, ma anche in Germania o in Inghilterra, questo mio far parte del Rotary diventa per gli altri un riconoscimento ufficiale in più alla mia arte. Voglio raccontarvi questa storia fino fondo. Prima da piccolo, poi da ragazzo ho sempre creduto che il far parte del Rotary significasse aver raggiunto il massimo della propria scala sociale. Soprattutto in Calabria. E ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto entrarvi a farne parte, ma questo mi appariva un sogno. Alla fine, ero un semplice apprendista, per giunta figlio della miseria. Quando i giornali presero ad interessarsi della mia storia e del mio lavoro, allora mi chiesero di iscrivermi al Rotary. Capii che la richiesta era legata al mio successo, ma non mi importava tutto questo: perché finalmente ero entra-to a far parte di un mondo che prima mi appariva così lontano e che oggi invece mi chiedeva di farne parte. Ecco, di questo vado fiero. Penso alla mia infanzia difficile, e ai sacrifici compiuti…».

– Che ruolo ha giocato la Regione in questa sua crescita?

«Direi proprio nessuno. Anzi, qualche volta l’apparato amministrativo mi ha creato seri problemi. Qualche anno fa mi proposero di organizzare nella mia azienda i famosi corsi di formazione professionale. Accettai, ma perché l’idea di insegnare ad altri i segreti del mio mestiere mi affascinava. Ricordo, la Regione mi diede 300 mila lire al mese per il fitto dei locali e 500 mila, co-me insegnante. Per il materiale usato altre 300mila lire. Quando il corso si concluse e chiesi di fare gli esami finali, mi risposero che non era necessario, e che si fidavano della mia parola. Dei 20 allievi che avevo ne assunsi regolarmente sei, per come la legge prescriveva, ma nessuno mai venne a controllare la serietà dei miei corsi. Da allora decisi di chiudere con i corsi di quel tipo».

– Ha mai utilizzato i vari aiuti che le leggi sull’imprenditoria prevedono per il suo settore?

«Non ho mai avuto una lira dallo Stato. Eppure, avrei potuto chiedere montagne di soldi, tanto per la ristrutturazione, tanto per questo, tanto per quest’altro. Ho scoperto, però, a mie spese, che per poter ottenere dei soldi dallo Stato bisogna passare gran parte del proprio tempo tra uffici amministrativi e scartoffie. Una parte dei finanziamenti poi finisce chissà dove. E questo, il mio lavoro non me lo consente. Ho provato, una volta: ma un giorno mi chiedevano un certificato, il giorno successivo me ne chiedevano un altro, poi un mese più tardi rivolevano il primo. Insomma, il caos. Una azienda come la mia dovrebbe assumere una persona che faccia solo questo lavoro, che tenga i contatti con la parte politica. Io non posso permettermelo».

– E il rapporto con le banche?

«È il rapporto di sempre. Con le banche non cambia mai nulla. Alle banche interessa sapere quante case hai, quanti beni possiedi, quanta garanzia puoi dare, tutto il resto non conta. O sei Gerardo Sacco, o sei un pincopallino qualunque, per loro è la stessa identica cosa. Né capiranno mai che per partecipare alla rassegna mondiale del gioiello a Parigi devi costruire delle cose che siano all’altezza della situazione, quindi hai bisogno di denaro, di fiducia: per loro conta solo quello che hai, non quello che puoi realizzare in prospettiva. E poi ti carica-no di interessi gravosi, per cui se ti infogni in un presti-to sei rovinato. Per la verità la Cassa di Risparmio, con mio grande stupore, mi ha concesso 200 milioni sulla parola, ma credo che per le altre banche sia una cosa impossibile. E questo naturalmente non gioca in favore della crescita e dello sviluppo di questa parte povera del Paese. All’estero è diverso, il coraggio e la fantasia di un giovane manager vengono premiati. Da noi, o hai i soldi per partire e per tentare la fortuna, o devi rinunciarci».

40 anni dopo queste riflessioni, oggi la sua è un’azienda modello, un fatturato di milioni di euro, una concezione del commercio assolutamente diversa da quella tradizionale, una proiezione internazionale che ne fa un’impresa orafa leader del Paese. Il nome di Gerardo Sacco è entrato ormai nel gotha della gioielleria mondiale. I giornali economici gli dedicano grossi titoli, la prima pagina più prestigiosa gliela dedica, proprio 40 anni fa, Les Jojoux la rivista giapponese specializzata in arte orientale, che lo definisce “il genio”.

Nel 1980 entra a far parte del Consiglio Nazionale orafi-argentieri, l’anno successivo lo chiamano a far parte, come consulente, dell’ICE, l’Istituto per il commercio con l’Estero. E quando il Presidente della Conferenza Episcopale Calabra, mons. Giuseppe Agostino, gli “ordina” una targa d’oro da regalare al Papa, in visita in Calabria, la grande stampa si occupa di lui come se si trattasse di un personaggio di prima grandezza.

Viene invitato a Singapore, a Madrid, a Belgrado, a Londra, ad Ottawa, ad Hong-Kong; a New York il Times gli dedica la sua terza pagina, riproponendo per intero la storia di questo ragazzo povero e la sua scalata alle grandi platee internazionali.

Dove il passato conta poco, il presente è l’unico metro di paragone possibile rispetto ad una società diseducata al culto dei miti, ma pur sempre affascinata da vicende come la sua.

Indimenticabili i suoi incontri con i vari pontefici che si sono succeduti in questo ultimo mezzo secolo, almeno tre Papi diversi, che lo hanno incontrato conosciuto e ricevuto in forma privata in Vaticano accogliendolo come una star, l’ultima volta un anno fa, il 4 marzo del 2022, per i 100 anni della Lega Italiana per la lotta contro i tumori, di cui Gerardo è storico testimonial.

«Non è la prima volta che vengo ricevuto da Papa Francesco. Questo, però, è stato un incontro davvero stupendo, particolare e sentito in maniera intima. Il Santo Padre in questo momento delicatissimo per il mondo si sta dimostrando un grande messaggero di pace e, allo stesso tempo, ha mostrato grande vicinanza ai malati oncologici. Purtroppo, tra la guerra e la pandemia la piaga del cancro rimane. In tanti hanno evitato controlli per paura, ma la prevenzione è fondamentale e insieme alla ricerca speriamo un giorno non tanto lontano si possa sconfiggere questo male orribile».

All’Opera di Parigi riceve gli onori della cultura francese e diventa il vero grande protagonista del galà pro-Mexico. I suoi gioielli vanno a ruba, la “Croce di Desdemona” viene pagata, allora, 270 milioni di lire. Ad indossarla è Katia Ricciarelli, la signora della lirica italiana. Altro trionfo in Vaticano, dove tra i tanti tesori del museo storico ci sono da oggi anche le sue sculture. Così ad Assisi, dove Angelo Donato a nome dei sindaci calabresi consegna agli eredi di San Francesco l’ampolla d’oro con dentro l’olio sacro.

Per non parlare di Crotone, la sua città natale, dove ridà volto alla Madonna di Capo Colonna, un oggetto di grandissimo valore, finito due anni prima in mano ai ladri.

Gerardo sorride: «Se 70 anni fa mi avessero detto che sarei diventato un personaggio famoso avrei risposto: sto facendo di tutto per diventarlo. Ho giurato a mia madre che i miei figli sarebbero cresciuti in un altro mondo, e così è stato».

«Il giorno della mamma mi piace trascorrere un po’ di tempo a leggere i post augurali su facebook. Immancabilmente mi commuovo. Sono centinaia, tutti belli. Sembrano scritti per conto mio: “Come mi pento di non averti detto ogni giorno che ti voglio un bene dell’anima”; “Darei tutto l’oro del mondo per accarezzarti ancora”; “La tua semplicità è stata la più bella conoscenza che ho fatto nella vita”. 184 Li faccio miei. Hanno un valore universale. E la capacità di riassumere quello che mi renderebbe felice, se queste parole diventassero realtà. Ma presto».

Una storia bellissima, commovente, coinvolgente, che ti spezza il cuore e ti lascia col fiato sospeso, ma questa è la vera favola di Gerardo Sacco.

Auguri Maestro, e lunga vita ancora.