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Giusy Staropoli Calafati

Giusy Staropoli Calafati: la Calabria che amo profuma di mare

“La mia vita parte da un piccolo paese della costa calabrese,
Briatico, dove il mare fa il suo verso guardando le Eolie.
Con una gioia dentro
che ha dimensioni
davvero incontenibili” 

di PINO NANO – Accade in Calabria, dove nuovi scrittori crescono. Nuovi scrittori si affacciano al mondo esterno, nuovi scrittori si ritrovano in testa alle classifiche delle vendite, nuovi scrittori tornano sui luoghi comuni dei vecchi maestri della letteratura meridionale e puntano la propria attenzione sulla grande magia delle nostre montagne e del nostro mare, dall’Aspromonte allo Stretto di Messina, dalla Costa Viola al mare Mediterraneo, così meravigliosamente raccontato finora in questi anni da un giornalista scrittore che risponde al nome di Mimmo Nunnari. 

La differenza questa volta è di genere. Perché, questa volta, a cimentarsi con il racconto di questa terra, che è sempre molto complicata, e della sua gente, che sembra ancora condannata all’eterna rassegnazione, è una giovane donna, di cui sentiremo molto parlare negli anni che verranno, e che oggi ha una dote rara, che è quella della scrittura. 

La scrittura come denuncia. Mai come in questo caso. 

La scrittura come strumento di riscatto sociale, la scrittura come ricerca del bello, la scrittura come testamento ideologico e morale del proprio dolore e della propria sofferenza.

La scrittura, soprattutto, come modello di speranza per un’intera comunità. 

Donna e scrittura, insieme. In questo caso, sono la stessa cosa. Sono il riflesso della stessa immagine, dove la donna ha un nome ben preciso, Giusy Staropoli Calafati, e dove la scrittura è la parte emozionale che più le appartiene. 

Scrittura come linguaggio moderno, scrittura come arma di confronto, scrittura in qualche caso come provocazione di massa, e che lei usa giornalmente anche per raccontare sé stessa, la sua vita, i suoi 43 anni portati in maniera sfrontata e quasi arrogante. Ma lo fa altrettanto bene con tutto il resto della sua vita, a partire dalla magia dei ricordi del nonno paterno, e l’incontro complicato e insieme dolcissimo con la nonna materna. Lei, figlia di una coppia che per coronare il proprio sogno d’amore ricorre alla classica “fuitina” d’altri tempi, lei alle prese oggi con quattro figli ancora da crescere e che non vedono l’ora di realizzare i propri sogni probabilmente altrove, lontani dalla terra che la loro madre ama in maniera così viscerale.

Lei, con un’azienda alle spalle a cui pensare per aiutare il marito, e poi ancora – sempre lei – alle prese con i mille dubbi esistenziali della piccola provincia italiana e i ricordi bellissimi dei tanti Natali diversi passati e vissuti con i nonni, quando d’inverno si aspettava la gelata per ammazzare il maiale, perché quella un tempo era la vera festa della famiglia e del paese che le stava stretto intorno. 

Il ricordo forse più prepotente che oggi Giusy Staropoli Calafati ha del suo passato è il colore verde oliva della macchina dei nonni, una 127 prima maniera, con cui i nonni di tanto in tanto scendevano alla marina dalla campagna e venivano a trovarla, in questa sua casa dove c’era sempre tanto da lavorare, soprattutto d’estate, e questo le pesa ancora per il solo fatto di non aver fatto tanti bagni al mare come facevano invece i suoi compagni di gioco. 

Estati negate, o meglio, estati fortemente desiderate e impossibili. Di questa sua storia personale e intima se ne potrebbe fare addirittura un film.

«Sono nata di settembre che ero di appena tre chili. Mia madre dice sempre che avevo gli occhi come due olive. Grandi e sgargianti. Sono cresciuta in fretta. Mia madre sostiene che ero in continua corsa contro il tempo. Un passo lui, dietro io. E perbacco, lo battevo! Sono diventata una bambina vispa e vivace in un battibaleno. E, abracadabra, mi sono ritrovata donna come, passata la sera, ci si ritrova già al mattino. Da vispa a testarda; da docile a ostinata, resistente e resiliente contemporaneamente. Mi chiamo Giusy. Al paese, sono Giusina per tutti. Ho 43 anni, quattro figli e una montagna di sogni da realizzare. Che, attenzione, non è merda ma sogni. Sono moglie, madre, zia, e da quando sono nata continuo a essere figlia e sorella. Sono una buona amica, almeno credo. Basta interrogare la mia amica del cuore Cetty, ma non approfittate, vi potrebbe raccontare vita, morte e miracoli». 

Giusy Staropoli Calafati, è oggi la provocazione più moderna di sé stessa. Lo cogli con mano quando la incontri per la prima volta, e la prima cosa che ti sbatte in faccia è l’impostazione di fondo della sua vita.

«Nascere in Calabria non si sceglie. Essere calabresi sì»

Donna coraggiosissima, senza orpelli di sorta, senza nessun remora nel dire le cose che pensa, per nulla timorosa di niente e di nessuno, neanche dello scrittore napoletano Roberto Saviano che proprio qualche giorno fa, a proposito dello speciale di Alberto Angela Stanotte a Napoli – trasmesso in prima serata da RAI Uno la notte di Natale – ha usato parole durissime contro la sua città natale.

“Le bellezze di Napoli – questo il commento di Roberto Saviano – non sono sfavillanti, ma piene di crepe e cicatrici… Napoli è come il Cristo nella Cappella Sansevero che, sebbene velato, palesa ogni vena, ogni spasmo, a riprova del fatto che non basta coprire per dimenticare, nascondere, cancellare. Usare le bellezze di una città per delegittimare il racconto di ciò che accade non è indice di ignoranza o superficialità, ma di cattiva fede…”.

– Giusy, la sua reazione contro Roberto Saviano è stata un pugno nell’occhio…

“Ho solo scritto quello che pensavo. Roberto Saviano, che oramai ha occhi solo per la sua Gomorra, mentre Napule è mille culture, altro non ha fatto che rendersi complice di un male ulteriore contro la tua stessa terra. Un popolo non si rende moralmente povero per essere, in esso, riconosciuti come profeti. Vorrei ricordare a Saviano che Cristo non lo riconobbe nessuno. Che il Battista fu scambiato per il Cristo. Tanto che, forse proprio per questo, a un certo punto della storia anche l’arte lo ha reso velato. Ma Napoli esiste, caro Roberto Saviano, resiste e vive, nonostante la tua ostinazione con cui tenti di rendere vana la sua grande bellezza. Il Cristo velato di Sanmartino, non sarai certo tu a svelarlo con i tuoi trattati di male oscuro. Nessuno potrà farlo. La bellezza non si fa mettere le mani addosso, non si concede per usi impropri né si lascia uccidere. Le tenebre in cui insisti vivacchia la meraviglia di Napoli, senza possibilità di redenzione, è una colpa che la storia non perdonerà a nessuno. Neppure al padre di Gomorra. Mi sono sempre chiesta chi è davvero Roberto Saviano. Certamente non è Napoli, così come Napoli non è Saviano. Napoli è l’Italia. È bellezza, Napoli. È arte, è cultura. È identità nazionale». 

– Giusy, mi spiega cosa rappresenta in realtà la scrittura per una donna, madre, scrittrice esordiente e anche di successo, come lei?

«La scrittura è la mia vita. È tutto quello che di più bello potessi sperare di avere e di coltivare. La scrittura per me è davvero mille cose diverse e insieme. È libertà, è rivoluzione, è provocazione, è dichiarazione dei sentimenti più riservati e più intimi, è una forma di confessione pubblica, senza rete, senza orpelli inutili, senza limiti, trasparente, severa, reale, quanto mai specchio di me stessa e delle cose in cui credo. Scrivere è come sognare ad occhi aperti, perché il linguaggio ti porta a scoprire l’anima, e quando trovi il coraggio di raccontare la tua anima allora hai raggiunto il grado massimo delle tua libertà. E scrivere è come sentirsi un passo avanti agli altri, non intendo dire “migliore”, ma un passo davanti a chi ti sta accanto questo sì, per via di una sensibilità e di una responsabilità che solo se scrivi per gli altri non puoi non avere».

– Qual è stata la sua prima prova d’autore? Il suo primo libro?

«Il mio primo vero libro era un libro di poesie. Lo aveva pubblicato la Edizioni Sabine e si intitolava La mia Terra. A questa prima opera ne sono seguite diverse altre, finché nel 2015 partecipai ad un concorso della RAI, il famoso Premio letterario La Giara, dove io inviai il mio primo vero romanzo. La terra del ritorno, si intitolava così quel mio primo lavoro. Con questo libro devo riconoscere, ho vissuto però un’esperienza straordinaria. 

Tantissimi altri premi e riconoscimenti. Letto e studiato in tantissime scuole, e non solo in Calabria. La Terra del Ritorno, edito dalla Pellegrini di Cosenza, dedicato allo scrittore Saverio Strati, mi ha permesso di realizzare un grande sogno, conoscere la Calabria diventando una vera scrittrice, mi ha consentito di visitare e toccare con mano le realtà più sperdute e più dimenticate della Calabria, da calabrese riconosciuta. Ho presentato questo romanzo ovunque, dall’Aspromonte al Pollino, contrada dopo contrada, quartiere per quartiere, ho incontrato davvero di tutto e di più, ho parlato con migliaia di giovani, ho finalmente capito cosa è oggi realmente la mia terra di origine e oggi sono fiera di esserne figlia e di farne parte integrante». 

– Cosa si porta dentro Giusy?

«Alla fine di questo lungo e infinito viaggio, nel mio zaino ho messo dentro di tutto. Dai dialetti così diversi incontrati per strada, alle tradizioni e agli usi di questa nostra terra contadina, alle storie di molti uomini e molte donne di Calabria. Mi creda, un sogno che è diventato realtà. Un’esperienza forte di cui io e la mia Calabria avevamo bisogno entrambe, e che abbiamo fortemente condiviso. Vede, da bambina e poi da ragazza, al di là di quelli che erano i miei libri scolastici non amavo molto leggere, e i romanzi a quel tempo non mi interessavano per nulla. Quando poi, conquistata la maturità, ho incominciato a divorare libri di ogni tipo, allora ho compreso e toccato con mano che leggere un libro significa viaggiare per il mondo pur stando seduti sempre in unico e solo posto fisico o geografico. La lettura ti apre il cuore, ti apre la mente, ti apre lo spirito, è una finestra continuamente aperta sui popoli e sulle loro mille storie diverse».

– È vero che nella sua vita ad un certo punto è entrata prepotentemente anche la passione per la danza?

«Si è verissimo, ho ballato sulle punte di gesso per tanti anni. Avvolta nei veli di un tutù. Mia madre mi dice sempre, ancora adesso, che ero bellissima. Dopo quella per i temi di italiano, la danza è stata la mia più grande passione. Ho incominciato a nove anni, e ho proseguito fino a quando Raffaele, il mio primogenito, ne aveva più o meno due. Poi ho lasciato. C’era altro da cui mi sentivo attratta. E non che la danza non l’amassi più, anzi. È rimasta il mio stimolo primordiale, un sentimento intimo, mi basta riascoltare, ancora adesso, la Carmen di Bizet o lo Schiaccianoci di TChajkovskij, e subito rinasce dentro di me la voglia di tornare a ballare. Con la stessa prepotenza dei miei nove anni. Da quando ho smesso di ballare non sono cambiata, mi sono semplicemente modificata, sono maturata. Sono una donna con le palle, dice mio padre. E quando lo contraddico, lui sorride. Sono una scrittrice di provincia dico io, vivo a Briatico, in provincia di Vibo Valentia. Ma mai provinciale – aggiunge qualche altro. Dalle verità non si prescinde. Non bevo fino a ubriacarmi, se non qualche buon bicchiere di vino fatto da vitigno autoctono calabrese. Non fumo, non gioco d’azzardo se non al centro scommesse della vita». 

– Non solo danza nella sua vita, però?

«È vero ho tante nuove passioni. Canto per non dimenticare, quando me ne viene voglia, e amo con la sfrontatezza di un’adolescente il mare che ho davanti casa, dentro cui mi immergo come Scilla e Cariddi. D’estate e di inverno. Quando è corrucciato e solo. Questa sì che è una passione e un vizio per cui potrei essere perseguibile e condannata. Come quando mi sento tremare le vene, non appena mi giunge nitido il suono della tarantella. Da dovunque provenga. Dall’Aspromonte o dal Pollino. Ho fatto tante cose, di sicuro ne ho fatte 43. Una cosa per ogni anno della mia vita. Alcune buone, altre pessime».

– Giusy, ma lei non sbaglia mai?

«Ho fatto anche una marea di cazzate, inutili e irripetibili. Tante altre, temo, le farò nel corso della vita che mi aspetta. Ma che ci volete fare, il gioco della vita stessa ha anche le sue regole irregolari da rispettare. 0 segui la scia, o sei contro di lei. E, aperta e chiusa parentesi, non sono stata né mai sarò un profeta in patria. Questa sì che è una strafiga certezza, che mi porto sempre dentro». 

– Giusy, ma come si fa a scrivere così tanto come fa lei, con una famiglia pesante come quella che ha, quattro figli e mille problemi da risolvere per ognuno di loro? 

«Sono diventata madre, la prima volta, che avevo solo 22 anni. “Sticazzi”, direbbe qualcuno. Ma che dire? Raffaele mi aveva scelta alla velocità della luce, e io lo accoglievo, incosciente certo, ma facendolo diventare subito la parte più preziosa del mio corpo prima, e della mia vita poi. A 25 anni ho avuto Roberta. Nel fiore della mia giovinezza mi raggiungeva anche lei. Diventavo madre per la seconda volta. Anziché giocare con le bambole, giocavo con i figli. La soddisfazione della carne. Li avevo scelti alla carriera. Per fare successo è sempre tempo, mi sono detta, ma per fare i figli no. Carpe Diem!».

– Quattro figli, una vita piena di tante cose, ma se l’aspettava una vita come questa?

“Non ero mai riuscita a dare un volto preciso ai miei figli, neppure la notte durante i sogni che facevo, eppure corrispondevano sempre esattamente ai miei desideri. Erano perfetti, insomma, proprio così come li avrei voluti. Con Roberta è stato straordinario. Vivevo quello che mia madre aveva vissuto con me. La stessa natura, soprattutto. A 28 anni, senza se e senza ma, è nato Antonino. Spacchiosissimo. Tris di cuori. Madre per la terza volta. Le mie amiche non erano neppure sposate, tante non lo sono ancora adesso, io invece avevo già un figlio di sei anni, una di tre e un altro appena nato. Non è che io avevo immaginato la mia vita vedendomi solo madre in questo mondo, anzi, ma una madre una volta che comincia questa strana ma straordinaria avventura non finisce più di partecipare al gioco dei suoi figli, neppure morta. Se è uno o sono tre».

– Avevamo detto quattro figli, non tre?

«Non ero sicura di essere nata per essere madre, ma di sicuro ero in missione speciale sulla terra. Tra gli umani. A 32 anni, e questa volta all’improvviso, per caso, un caso inatteso, è arrivato anche Nazareno, segnando definitivamente il ‘mio’ ciclo dei figli. 32 anni e 4 figli. Diventare madre non è scontato, non è detto che sempre accada. A me accadeva. Grazie al cielo. Non ero diventata maestra come avevo scritto nel mio tema di quinta elementare, ma mamma. Ed era super meraviglioso. Oltre il sogno».

– Mi sembra una madre molto felice.

«Sono cresciuta con i miei figli. Siamo cresciuti vicendevolmente, insieme. Oggi i ragazzi hanno rispettivamente 21/18/15/11 anni. Io ne ho 43. L’età giusta per fare oggi, quello che le mie amiche hanno fatto a 22 anni, sapendo che loro a 43, non possono fare più quello che io ho fatto allora. Non so bene se la vita è più un caso o più un destino. Magari è semplicemente un caso destinato. Quello di cui oggi mi piace scrivere la storia. La sola che comincia, come diceva mia nonna, con “fermalocchju”».

Oggi Giusy Staropoli Calafati torna in libreria con una sua nuova storia, un nuovo libro, Terra Santissima – Laruffa editore – un romanzo dai toni forti che parla della Calabria, che racconta l’Aspromonte, e che spiega soprattutto come mai la Calabria sia, da una parte, una terra bellissima da conoscere e da visitare, ma dall’altra, una terra ancora piena di insidie e di vecchi rancori. Un romanzo decisamente destinato a scalare le classifiche nazionali delle vendite. 

– Che libro è?

«Terra Santissima è un libro importante, a cui tengo particolarmente, che dedico a chiunque si sente di appartenere a un pezzo di paese o a uno spicchio di terra, a una altissima vetta di montagna, o a un lido di mare, in qualunque parte del mondo. Presentare l’Aspromonte come centro del mondo è stato davvero emozionante, far conoscere il viaggio di Simona Giunta e l’amore per la sua identità segreta, è stata un’esigenza».

La scrittrice calabrese in questo suo nuovo romanzo supera sé stessa, soprattutto quando prova a raccontare la terra che ama e la gente che la vive.

“Il destino bastardo e irregolare di questa terra che è la Calabria, mai disposto a svelare se la strada intrapresa è quella dell’inferno o del paradiso. E chi cammina vicino a te è un Dio o un diavolo”. 

– Partiamo, prima di tutto, dalla storia principale? 

«Simona Giunta, è la protagonista del romanzo. Vive a Milano. È una giornalista. Segno particolare di riconoscimento: è figlia di emigrati calabresi in Lombardia. È una donna caparbia e ostinata, con un lavoro che ha sempre desiderato di fare e un assillo che la tormenta, un pugno di nocciole lasciate in Aspromonte vent’anni prima. Una trasferta di lavoro la riporta sulle tracce della sua vita passata, nel cuore della valle delle grandi pietre, dentro i luoghi intimi di Francesco Perri e Corrado Alvaro. A Polsi, sotto lo sguardo materno della Madonna della montagna, in mezzo al volo dei falchi pellegrini, ma soprattutto dentro le braccia forti di un pastore dell’Aspromonte. Quelle soffocanti della Santa ‘Ndrangheta».

Quasi magistrale la prefazione che ne fa invece lo scrittore di Seminara Santo Gioffrè. 

“La bellezza e il fascino dei paesaggi che si presentano agli occhi di Simona è indicibile, conciliata dai ricordi di Alvaro, Perri, e di altri ancora, che affiorano alla memoria come brina dopo una fresca pioggia estiva. Pecore, mandriani, cicale, fiumare, alberi e canti antichi. Le visioni, i suoni e i profumi sembrano reali e immaginari assieme, naturali e mistici, proprio come le sensazioni provate in questa Terra Santissima, incantevole e fatale nel contempo, muovendosi all’interno della quale pare di trovarsi altrove, un po’ dentro e un po’ fuori di sé”. 

Simona Giunta, prosegue il suo viaggio sfidando la sorte, per scoprire e tradurre nei caratteri a stampa la lingua e i misteri della terra dei briganti. Ma il sentiero che le si apre innanzi è tutt’altro rispetto a quello sperato.

Santo Gioffrè conosce le terre Aspromontane come le sue tasche, le ha vissute sofferte e attraversate tutte, da cima a fondo, con la tempesta e con il sole cocente dell’estate, e nessuno meglio di lui avrebbe potuto spiegare ai lettori di Giusy Staropoli Calafati cos’è realmente la sua “montagna sacra”.

“L’Aspromonte “è una via nuova, ignota, piena di curve, di ostacoli e di scoperte al limite dell’immaginazione che condurranno Simona a vivere esperienze impensabili e a ritrovare le sue origini, profondamente legate a un Sud che soltanto adesso, per la prima volta, conosce per davvero, mettendo a nudo i suoi segreti anche quelli nascosti nella propria carne”. 

Vi suggerisco, e vi prego di leggere insieme a me, la bellezza di questo passaggio del medico-scrittore Santo Gioffrè.

“In Terra Santissima – commenta Gioffrè – Giusy Staropoli Calafati ci accompagna in una passeggiata attraverso una delle terre più belle e feroci della Calabria, l’Aspromonte, evidenziando gli usi, i costumi, le tradizioni, i saperi, i sapori, le feste e gli stili di vita che qui permangono, così com’erano anticamente, resistendo alle mode e alle tecniche innovative e perennemente cangianti della società. Grazie a un linguaggio semplice e vicino a quello della quotidianità, il lettore vedrà coi propri occhi scenari bradi e seducenti ma anche realtà misere e brutali, al limite tra l’attendibile e l’inverosimile. Scorgerà usanze e modi di pensare impossibili da decodificare in lingua alcuna e tuttavia più forti, più antichi, più concreti di quelli propagandati dagli strumenti di comunicazione di massa e dai consumi. Focalizzerà persone vere, reali, modeste e tuttavia capaci di qualunque cosa, di fare del male così come di innamorarsi, come chiunque altro”. 

Ne viene fuori un libro controcorrente, che racconta la Calabria dal di dentro mettendo a fuoco quel velo di magia che sembra incantare i suoi abitanti, coscienti e inconsapevoli a un tempo delle regole di vita non scritte in nessun codice, e tuttavia da tutti rispettate e praticate. 

– Un libro importante, dunque?

«Vede, da calabrese, incluso il mio ruolo di donna e di madre, sento di avere oggi una grossa responsabilità verso questa terra, nell’avviare una nuova buona politica del fare. Da scrittrice e giornalista, ho forse anche una responsabilità maggiore, che mi obbliga moralmente ad agire. In Calabria, per la Calabria, e nel cuore della Calabria, con ostinazione, con perseverazione. Soprattutto con senso altissimo dell’onore. Sento che il 2022 mi richiama all’ordine, con un metro più preciso del solito. E avverto che la Calabria si associa a questo mio progetto fantastico, con una voce sempre più forte, decisa e potente».

Forse non a caso Terra Santissima è anche un libro di protesta, ci avverte Santo Gioffrè.

“Da un lato, contro la pretesa e il pregiudizio di conoscere la Calabria dal di fuori, soltanto per mezzo del sentito dire, e delle pagine scritte da chi non vi mai è nato. Dall’altro lato, contro quel modo di pensare criminale che caratterizza alcuni dei suoi abitanti, i quali condizionano la vita di tutti gli altri, scatenando faide per affari oltre oceanici”. 

– Come se ne esce? 

“Leggendo Terra Santissima il lettore – conclude Santo Gioffrè – proverà la stessa inquietudine che Simona Giunta percepisce quando, appena arrivata, l’Aspromonte comincerà a dischiuderle i suoi segreti; ma inizierà anche ad amare una terra bella e incontaminata, quasi paradisiaca, abitata da persone vere, e a odiarla, nel contempo, a causa della permanenza di quell’unica sovrastruttura, invisibile e sempre presente, che alimenta sangue, morte e disperazione: la ‘ndrangheta. L’Aspromonte ti cambia, ti lascia il segno nel bene e nel male. Non è una terra facile da conoscere ma neanche semplice da dimenticare. È un luogo in cui ognuno può ritrovare sé stesso ma anche perdersi, in cui ci si può salvare o dannare per sempre, in cui vivere per sempre o morire. Per questo l’Aspromonte è una Terra Santissima”. 

Giusy Staropoli Calafati ce la mostra così com’è questa terra, che ci appartiene sin dalla nascita, nella sua ambivalente bellezza e tragicità. 

– Giusy, che effetto le fa leggere che il suo libro piace tantissimo soprattutto ai giovani?

«Non avevo mai partecipato a un contest con un mio romanzo. Terra Santissima si è ritrovato a essere inserito tra i libri da decretare come miglior libro Calabria 2021, in maniera inaspettata.  È partito tutto così, per caso. In pochissimo tempo si è scatenato l’inferno, direbbe qualcuno. Io invece dico una specie di cerchio magico, che sul punto di chiudersi, si riapriva continuamente. Un voto dopo l’altro, come fossero cormorani in volo. Un crescendo di numeri che, in questi giorni, oltre a farmi compagnia, ha fatto crescere in me la forte consapevolezza di essere riuscita, nel tempo, con la mia scrittura, a entrare in picchiata nel cuore di tantissima gente. Uomini e donne, grandi e piccini di ogni parte della Calabria, dell’Italia e del mondo. E credetemi, non c’è premio che possa dare gratificazione più grande, rispetto a quella che arriva direttamente dal popolo dei lettori».

Non so se si può dirlo, ma alla fine del romanzo noi abbiamo percepito la sensazione netta di avere tra le mani un romanzo di grandissimo impatto mediatico, giovane, veloce, immediato, scritto con un linguaggio freschissimo, di facile lettura, e soprattutto un racconto firmato da una grande scrittrice esordiente, e di cui certamente sentiremo parlare nei mesi e negli anni che verranno. Il risultato è immediato.

– Mi pare che l’anno 2022, per lei Giusy sia incominciato abbastanza bene?

«Il 2022 sarà l’anno in cui alla Calabria vorrò dare una nuova ennesima occasione. Mettendole a disposizione tutto ciò di cui dispongo. Più di quanto già sto facendo? Sì, decisamente molto di più. Sono ormai diversi anni che, quotidianamente, con la mia scrittura, cerco di fare bella mostra della Calabria. Saggi, Romanzi, poesie, articoli di giornale, ma anche, forse soprattutto, azioni quotidiane sul lavoro e nella vita politico-sociale a cui costantemente mi dedico. Sono queste le cose di cui oggi vado più fiera». 

– Giusy procediamo per ordine, per favore. Come immagina concretamente questa sua rivoluzione culturale?

«La risposta le sembrerà quasi banale, ma io ci credo moltissimo. Basta mettere in bella mostra, una volta per tutte, senza falsi proclami, ma con reale identità, la nostra terra e la nostra storia di figli di Calabria. Questo vuol dire che il nostro imperativo deve essere promuovere i luoghi, la storia, l’arte, la letteratura… La stessa cultura legata ai luoghi. Dalla montagna ai lidi del mare, dalle zone interne ai paesi costieri. È arrivato il momento di portare allo scoperto la componente migliore di una terra troppo spesso criticata, ma anche ancora del tutto misconosciuta. Solo promuovendo la bellezza si potrà finalmente avviare un serio progetto di ripresa e resilienza. In fondo, sono nate qui le stagioni del pensiero. Credo sia proprio questo il lavoro che ho sempre desiderato fare in Calabria. È il motivo vero per cui sono rimasta qui. Per raggiungere certi obiettivi però, serve sempre una buona esperienza, e i tempi, lasciatemelo dire, per me sono decisamente maturi. La Calabria deve ritornare a credere in se stessa, i calabresi pure. Sviluppo, crescita, idee, ideali, valori, progetti, da qui parte quella che lei chiama la mia sfida culturale».

– Come era Giusy da ragazza?

«Fino a diciassette anni ho amato molto le passerelle. Sono stata Miss Provincia Vibo Valentia nel 1998. Poi sono rinata. Nel senso che sono diventata grande. Ho intrapreso la strada verso quella vita che mi ha portata fino a qui. Fino alla maturità. Sono tante cose insieme oggi, ma soprattutto, tra tutte, prima di tutte le altre, sono una donna. Una donna libera, con troppe idee e forti ideali, progetti, lotte, pensieri, e anche abbastanza coraggio. A scrivere di certe cose di coraggio ce ne vuole davvero tanto». 

– Qual è la cosa che oggi più le manca?

«Mi mancano i nonni, le sembrerà strano ma è così. Mi manca soprattutto nonna Peppa, la mia nonna paterna che non ho mai conosciuto. In compenso sono cresciuta con mio nonno e con le sue eterne paternali, i suoi infiniti consigli, un uomo carismatico e indimenticabile. Un punto di riferimento insostituibile, onnipresente, insistente, avvolgente in tutti i sensi. Lui era rimasto vedovo ancora giovane, mia nonna è morta quando aveva 59 anni, e lui è rimasto solo in tutti questi anni in attesa che i figli tornassero dalla Germania dove erano emigrati e dove lavoravano il bitume. I nonni, che meraviglia, la vita non poteva regalarci cosa più bella».

– E la sua famiglia Giusy?

«Morta la nonna, i suoi quattro figli hanno lasciato la Germania per sempre per stabilirsi a Briatico definitivamente. Mio padre ha sempre avuto accanto mio nonno Carlo. Al rientro dalla Germania mio padre ha aperto un negozio di abbigliamento e ricordo che mio nonno era costantemente insieme a lui, a consigliarlo o a guidarlo. Si sposò anche giovanissimo. Mia madre aveva poco più di sedici anni quando salì sull’altare e la loro fu davvero la classica storia d’amore. Solo che mio padre aveva dodici anni più di mia madre e allora per sposarla fecero ricorso alla “fuitina”, sparirono per una notte e poi si ripresentarono il giorno dopo pronti per il matrimonio. Allora si faceva così, o meglio, molti allora ricorrevano a questo stratagemma per coronare la propria storia d’amore. I genitori di mia madre, avendo a casa altre figlie femmine ed essendo mia madre ancora una bambina non avevano accettato la proposta di mio padre. Mio padre organizzò allora un finto rapimento e che i giornali del tempo, ricordo la Gazzetta del Sud, raccontarono come un “rapimento a mano armata”. Poi per fortuna i miei nonni materni ritirarono la denuncia contro mio padre e le cose si avviarono verso una normalità più o meno apparente. Mia madre, infatti, poté tornare a casa sua solo dopo diverso tempo, non essendo stata mai perdonata sul serio per quello che aveva combinato. Io invece non ho mai finito di ringraziare mio padre e mia madre per quella “fuitina”, perché se non fossero scappati io non sarei nata e non sarebbero nati né i miei fratelli né mia sorella. Neppure i miei figli». 

– E il rapporto con i nonni materni?

«È arrivato tardi, ma è arrivato. Io ho scoperto i nonni materni quando già ero cresciuta, mia nonna in particolare era già una donna anziana, ma questo non ci ha impedito di discutere di tante cose, di confrontarci e di raccontarci a nostro modo la propria vita. Anche questo è stato molto bello. Nonna poi l’ho persa due anni fa, era il primo di luglio ed è stata un’esperienza durissima. La sua scomparsa ha lasciato in me un vuoto incolmabile. Quando lei scoprì questa mia passione per la scrittura pensò che dietro di me ci fosse la mano di Nostro Signore, così lo chiamava, che mi aiutasse e mi chiedeva continuamente “Ma chi ti detta queste cose? Chi ti ha raccontato queste storie così belle? Ricordo che quando pubblicai il libro di poesie dedicato a Natuzza Evolo, mi chiese se ci fosse qualcuno dal cielo che mi aveva ispirato e mi aveva guidato in questo percorso di fede, lei era molto religiosa e credeva, come del resto diceva la stessa Natuzza Evolo, che dietro ognuno di noi ci fosse un angelo a guidarci o il signore a vegliare su di noi».

– Che infanzia ricorda Giusy?

«Un’infanzia bellissima. Se potessi tornare indietro la rivivrei così come l’ho vissuta. Con gli occhi sempre pieni del mio mare, e la mia vita più bella trascorsa in campagna. I miei nonni prima di partire per la Germania avevano occupato un appezzamento di terra, che hanno ripreso a coltivare una volta rientrati a Briatico. E mio padre aveva fatto la stessa cosa. All’ora di pranzo chiudevano il negozio di abbigliamento che avevamo e fino alle quattro e mezza andavano in campagna, la nostra terra si chiamava “Gaio”, e da qui il nomignolo dato in paese alla mia famiglia, i “Gaioti”. Sembrava quasi una ingiuria, certo era un soprannome, ma di cui non mi sono mai sentita offesa: Tutto questo era la mia terra natale, tutto questo mi apparteneva fino in fondo, e nulla sarebbe stato in un altro modo. Penso ai tanti Natali trascorsi tutti insieme in campagna, penso al maiale che si ammazzava tutti insieme durante le gelate d’inverno, penso alle feste trascorse tutte in famiglia e con tanta gente intorno, penso al dolore dei lutti e dei funerali che in un paese come questo sono ancora corali e di tutti». 

– Ad un certo punto della sua vita lei decide anche di fare politica?

«Sono scesa in politica con una forza e una consapevolezza che non credevo di avere. L’ho fatto senza guardami né avanti né indietro, con puro spirito di servizio ed esagerato senso di responsabilità. È accaduto esattamente dopo i miei primi 40 anni. Ma non ho sbarcato il lunario, anzi, sono solo un consigliere di opposizione. Comunque, un’esperienza esaltante, mi creda…».

– Giuseppe Conte era ancora Presidente del Consiglio, lei un giorno prese carta e penna per raccontargli lo stato di degrado della sanità in Calabria. Cosa gli scrisse?

«Gli ho scritto da una regione la cui tunica veniva giocata a sorte per l’ennesima volta. E le folle insistevano a voler scegliere Barabba, a conferma che Cristo davvero si è fermato a Eboli. La Calabria ancora una volta terra di conquista. Si continua a succhiarle il sangue da ogni parte del suo corpo nudo, mentre con occhi fragili e agonizzante, chiede aiuto. Si vuol rendere sazio solo chi ha sete di potere, di quattrini e di vendetta. Si continua a violentarla con la pratica immorale della ripetizione, senza farle neppure prendere fiato, mentre con voce fioca, grida aiuto. Si vuol soddisfare la smania di chi ha il “disio” di provar piacere. Così, nella minimizzazione di una terra voluta sempre serva, ogni atto di violenza carnale alla Magna Grecia, ha il suo complice. E verrà scritto sui libri di storia il suo nome. E saranno più d’uno quelli a cui verrà chiesto il conto. Più d’uno, saranno i banditi pronti a levarle via la purezza degli ulivi, il volo casto della rondine marina, il candore dei bianchi calanchi. Dopo che con il nostro sangue abbiam fatto l’Italia, caro Presidente, insistete a volerci privare dei diritti essenziali, calpestandoci la dignità, ed eliminandoci dalla nostra stessa storia. Ma se cadiamo noi, cadrà l’Italia intera. Siamo gli arti inferiori su cui si regge la Nazione. Se si piegano le gambe, viene giù tutto il corpo. Nessuno si salva da solo. Proprio così, nessuno si salva da solo».

– Di tutto di più, insomma?

«Al premier Conte, ho scritto semplicemente tutto quello che pensavo in quel momento. Vorrei tanto che per un solo attimo Cesare Pavese, forestiero al confino nella desolata Brancaleone, le dicesse, come fece con sua sorella Maria, chi sono i calabresi e quanto vale la terra di Calabria. Amata e dannata, terra. Vorrei che glielo dicessero Umberto Zanotti Bianco, Edward Lear, Paolo Orsi. Nessuno può operare, curare, dirigere e tanto meno commissariare una terra che non conosce. Un popolo che poco o niente rispetta. Che non gli è né conoscente, né affine. Corrado Alvaro diceva il calabrese va parlato, ascoltato, voluto bene. Ma nessuno lo ha fatto. Eppure, il maestro insegna e gli allievi imparano. Voi no. Ci avete sempre costretti, per fame, e ora anche per salute, a essere briganti. A emigrare. E continuate a farlo. A volte con sdegno, altre solo per un piglio. Peggio dei signori, gli gnuri, che torturavano la vita dei coloni, schiavizzandoli per il pane o magari per la penicillina. Ma son finiti quei tempi, caro Presidente. È finita l’ignoranza, l’analfabetismo… Ora anche qui ci sono i libri, quelli che li scrivono. Ci sono l’intelligenza, la scelta, le idee, i valori, il coraggio e anche il doppio della lotta di ieri. I Calabresi non ci stanno più alle barbarie di un’Italia che ha sempre approfittato del suo Sud. L’era del latifondo è ormai passata. L’abbiamo combattuta e anche vinta. E ora, questa in cui liberamente vorreste bivaccare, e con maggiore forza di prima lo ribadisco, è terra nostra, non di nessuno. I Proci hanno finito le risa porche e maledette, e pure la pacchia antica dei calici e del vino. Ulisse torna a Itaca. Ulisse è il nostro orgoglio, caro signor Presidente, Itaca, la nostra terra».

– Le ha mai risposto nessuno?

«Intanto mi preme precisare che quella stessa lettera dopo che a Conte la inviai anche al Capo dello Stato, il Presidente Mattarella. Sentivo che, come Presidente della Repubblica, garante assoluto della nostra Costituzione, quelle parole anche a lui dovevano essere indirizzate. Il Presidente Conte no, non mi rispose, ma nella cassetta della posta, una mattina con grandissima sorpresa trovai invece una missiva proveniente direttamente dal Quirinale. Era il Presidente Mattarella che rispondeva alla mia accorata lettera, scrivendo la risposta di suo pugno. Poche righe in cui, ringraziandomi, invitava me e i calabresi a non perdere la speranza e continuare. Quello fu uno dei giorni più belli e anche importanti della mia vita».

– C’è sempre tempo per ricominciare in una terra come la sua?

«Personalmente non so come quale e come sarà il futuro della Calabria e dei calabresi, preferisco per ora non pensarci, io amo fortemente il presente. Credo che senza il futuro sarebbe una semplice utopia. Per quanto mi riguarda, so soltanto che questo vizio che ho, di insistere su alcune cose e di crederci fortemente, mi tormenta in continuazione. Guardo comunque e costantemente alla Calabria, come la super polis da salvaguardare. Il mio presepe di Natale è qui, ed è qui che è allestito tutto l’anno. Nel cuore di questa terra santissima. Insomma, io a volte penso di essere una calabrese fuori dal suo tempo, piombata sulla terra nel momento sbagliato rispetto a quello consigliabile per quelli come me, che non corrisponde più né a quello di quando ero bambina, né a quello di quando sono diventata donna». 

– Non c’è giorno in cui lei sui suoi canali social o sulle riviste dove scrive non fa che esaltare la letteratura calabrese…

«Lo faccio semplicemente perché sono sempre più convinta che la letteratura può salvare la Calabria». 

– In che senso Giusy?

«Nessuno è finito finché avrà un libro da leggere nelle mani. E nei libri degli autori meridionali, sono raccolte le più grandi verità del paese. È lì che sono riportate le giuste indicazioni da seguire per riconquistare in maniera completa e con una visione inequivocabile, da Nord a Sud, la nostra identità. Con sapienza, con consapevolezza e soprattutto con grande senso di responsabilità. Per questo ho elaborato un documento scritto, sottoscritto da scrittori, intellettuali, docenti, giornalisti, professionisti e studenti italiani, presentato al Ministero dell’Istruzione, in cui sono state riportate con espliciti riferimenti ai nostri autori, le ragioni di carattere culturale, morale e civile che impongono di procedere, con ufficialità, al coinvolgimento della scuola dell’obbligo nello studio dei più influenti autori calabresi del ‘900 italiano».

– Non crede che sia una scelta velleitaria, o comunque rischiosa?

«Assolutamente credo il contrario. La cultura è un bene prezioso, collettivo, per cui è necessario ci si spenda tutti e si investa tutto quello che è spendibile. In altro caso, un paese anziché crescere, rischia di rimanere nano. Nicola Giunta scriveva: “iddi su nani e vonnu a tutti nani”. Ma la Calabria, forse più di altre regioni italiane, con le sue menti, le sue eccellenze e i geni immensi della cultura e delle lettere, palesa ormai da tempo un forte desiderio di crescita, che non può più permetterle di rimanere indietro. Un popolo per capirsi veramente deve conoscere i suoi artisti, altrimenti rimane indietro, scriveva Saverio Strati. Per questo, l’assenza dei calabresi nella storia della letteratura italiana novecentesca, diventa un’assenza quasi tragica. Un danno culturale e sociale che non può più essere perpetrato. Gli studenti mancano ormai da tempo, di un pezzo di storia importante che non può più essere tralasciata alla passione “responsabile” di qualche buon docente. È sul sapere che si gioca il presente e il futuro di una generazione. Conoscere Alvaro, Strati, Perri, La Cava, Seminara, Repaci, Calogero, Costabile, De Angelis, Zappone e molti altri, potrebbe essere per l’Italia intera una vera chiave di volta».

– Lei lo scrive spesso, è vero che Saverio Strati è stato il punto fermo della sua grande passione per la letteratura?

«Assolutamente sì. Ero ragazza quando incontrai Saverio Strati per la prima volta. Accadde a scuola. Facevo più o meno la quinta elementare. Un nuovo maestro, ci disse la maestra. Statura bassa, capelli bianchi, scarpe di suola e un paltò del colore della sabbia del mare. E sotto braccio un borsello di pelle. Fu da lì che estrasse Fiabe Calabresi e Lucane, che io e i miei compagni avevamo già letto in classe, e di cui l’autore era lui, insieme al professore, nostro compaesano, Luigi Maria Lombardi Satriani. Da allora non lo rividi mai più. Anzi ne persi completamente le tracce, ma solo fino a quando il destino ci rimise sulla stessa strada, e ritrovandoci non ci siamo più lasciati. A Strati dedico il mio percorso letterario. È lui il mio più grande maestro delle lettere. E finché avrò voce parlerò del maestro ai giovani, consiglierò i suoi libri, diffonderò il suo pensiero e la sua poetica».

– Come lo racconterebbe lei oggi Saverio Strati ai ragazzi delle scuole?

«Mi sono battuta affinché Strati venisse ripubblicato. Oggi, finalmente, le sue opere tornano a essere disponibili in libreria. Strati ai ragazzi già lo racconto. Lo faccio da diversi anni ormai. In Calabria sono diventata un po’ un punto di riferimento per quanto riguarda Saverio Strati. Dopo la sua morte pubblicai due saggi a lui dedicati, con alcuni suoi racconti inediti, fino a tracciarne la sua importante figura ne La Terra del Ritorno. Strati, ai ragazzi, lo racconto leggendo loro i suoi libri, raccontandogli la sua opera. Per quello che lui è stato. Saverio Strati è stato uno dei più grandi autori del neorealismo italiano. Ha scritto una quantità eccezionale di libri, è stato letto e tradotto in tutto il mondo, ha vinto il Campiello nel 1977 con Il Selvaggio di Santa Venere; ed è stato lui, ancora prima di Sciascia, il primo autore dell’Italia novecentesca, a parlare apertamente di mafia. Ma nel 1991, Mondadori, la casa editrice con cui aveva esordito e si era affermato, rifiutò il suo racconto Melina, e il romanzo Tutta una vita. Un’uscita di scena ‘imposta’ che impatta bruscamente sullo scrittore, ma soprattutto annienta l’uomo. Entrambi provati moralmente, e col tempo anche economicamente. Strati, che vive con il mestiere di scrittore, attinge ai risparmi finché gli è possibile, ma quando anche questi saranno finiti, è ben altro quello a cui le necessità fisiologiche dell’uomo lo costringono. In una lunga e accorata lettera, il piccolo muratore calabrese, diventato grande scrittore nel mondo, si vede costretto, per poter vivere degnamente insieme alla moglie svizzera, Hildegard Fleig, gli ultimi anni della sua vita, a chiedere il sussidio previsto dallo Stato per gli artisti italiani, grazie alla legge Bacchelli. Alle lettura di questa triste notizia, custode delle forti emozioni del giorno in cui Strati lo avevo visto e ascoltato, toccato con mano, ebbi al cuore una stretta che ricordo ancora. E fu dolente. Con la sua morte, l’Italia perdeva uno dei suoi più grandi geni letterari, la Calabria uno dei suoi figli più illustri, io il mio grande maestro». 

Di Saverio Strati, Giusy Staropoli Calafati sa esattamente tutto, per averlo studiato a fondo e per averlo soprattutto amato come se fosse stato uno di famiglia. «Lo studiavo e lo consideravo parte della nostra casa. Lo raccontavo e lo racconto come se io ci avessi vissuto con lui tutta la sua vita”.

– C’è un altro scrittore calabrese che avrebbe voluto incontrare nella sua vita e conoscere meglio?

«Mi sarebbe molto piaciuto conoscere Mario La Cava, l’avvocato, lo scrittore originario di Bovalino. Se lo avessi incontrato sono certa che avrei trascorso ore e ore intere a parlare della Calabria che lui ha tanto bene raccontato nei suoi libri e di cui io mi sono innamorata profondamente. In tutti i suoi scritti si coglie questo senso della rivalsa, della crescita sociale della sua terra, cosa che poi non si è realizzata, ma in cui La Cava credeva immensamente».

– Cosa fa oggi nella vita quotidiana la scrittrice Giusy Staropoli Calafati, quando non scrive?

«Aiuto l’impresa di famiglia. Ad un certo punto della mia vita ho deciso di interrompere i miei studi universitari e di dedicarmi a tempi pieno alla famiglia che stava crescendo. Noi abbiamo a Vibo Valentia un’impresa che realizza tubi di plastica per l’agricoltura, e siamo i primi a farlo, forse anche i soli in Calabria. Sembra un gioco del destino, io che incontro mio marito, che insieme a lui metto mano ad un’impresa di questo tipo, per realizzare alla fine prodotti necessari alla terra, e tutto questo mi creda non ha fatto altro che legarmi ancora di più alla terra, e quindi alla Calabria e alla gente che ci vive».

– C’è una persona nella sua vita e nei suoi ricordi che lei considera il suo vero grande maestro?

«Senza nessuna ombra di dubbio, mio padre. Ho uno strano rapporto con lui. Io non sono capace di esternare i miei sentimenti, ma con mio padre ho un rapporto speciale, diverso, viscerale. Mi creda non so come spiegarglielo bene. Ma mio padre è stato il mio primo lettore, il mio primo fan, il mio primo giudice, anche severo e intransigente, ma è lui che mi spinge ad andare avanti, è lui che mi ha convinto a non mollare, a credere nelle mie capacità e nella mia voglia di scrivere di tutto e di più. 

Lui è una forza della natura, lui mi ha insegnato cos’è la vita, da che parte stare, e da che parte guardare il mondo esterno, la mia guida, la mia icona, la mia passione più insana, la mia coscienza il più delle volte, lui per primo mi ha spiegato cos’è il lavoro, il sacrificio, il dolore, la sofferenza, le privazioni, la morte. 

E se io ho una famiglia forte e sana come quella che credo di avere il merito è suo, per avermi trasmesso i valori fondamentali della casa, della comunità, della condivisione, della solidarietà, l’essenzialità della famiglia, tutto questo porta il nome di mio padre”.

– Giusy le è mai capitato di provare vergogna delle sue origini? Magari lontana da casa, le chiedono da dove viene e deve rispondere “sono calabrese”?

«No mai, assolutamente mai. Anzi, sono sempre stata fiera delle mie origini. Può capitare forse un momento di disagio generale, arrivi a Milano, ti chiedono da dove vieni, rispondi che vieni dalla Calabria, e qualcuno magari accenna a qualche commento non sempre positivo. Ma è appena un momento. Poi spieghi loro cosa fai, cosa pensi, dove vai e da dove vieni, e dal racconto che ne fai viene fuori un mondo quasi magico, fatto di bellezze naturali e di popoli fieri di sé stessi, educati al rispetto degli altri, amanti dell’onestà e del lavoro, e la tua vita non viene più giudicata negativamente. Anzi, apri agli altri una prospettiva che non potevano neanche lontanamente immaginare, e la tua vita diventa per molti di loro motivo di desiderio, c’è sempre più gente a cui racconto la mia Calabria che ha voglia di venire fin quaggiù e toccare con mano quello che io ho raccontato loro. Ma lei ha mai visto al tramonto il mio mare e la vecchia torre saracena alla marina di Briatico? C’è gente che va ai Caraibi per vedere cose meno belle e meno suggestive di quello che è il nostro piccolo mondo antico». 

– Giusy il suo prossimo libro? Ci sta già lavorando? Progetti per il futuro? 

«I progetti per il futuro sono tanti, forse troppi. Un sogno è quello di riportare la Calabria al Premio Strega sulle tracce di Corrado Alvaro. Farla ritornare al Premio Campiello su quelle di Saverio Strati. Più che progetti sogni, e pure abbastanza ambiziosi. Ma mio padre mi ha insegnato che bisogna sempre sognare in grande. Per il resto mi piacerebbe, e lo proporrò a breve come progetto alla Regione Calabria, dare vita a un ente regionale per la tutela del patrimonio letterario calabrese, che mi veda ovviamente personalmente coinvolta. Quanto al mio prossimo libro. Sono già al lavoro. E sarà una bella sorpresa. L’obiettivo futuro è valicare il Pollino».

Lascio Briatico con una certezza nel cuore. Che di questa donna, così passionale e cocciuta, sentiremo parlare molto nei mesi e negli anni che verranno. (pn)