Il Natale di Calabria non è la Calabria a Natale

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il Natale di Calabria, non è la Calabria a Natale. È di più. È per esempio il sudore serafico delle donne, che scende giù dalle loro fronti durante l’impasto delle curujcchie, mentre l’olio caldo già bolle; è la fatica docile delle madri che preparano per i figli le nacatole attorcigliate alla canna; è l’autorevolezza mistica della famiglia. E non un’appiccicaticcia nuvola di zucchero filato nell’aria melanconica della città, ma una perfetta spolverata di zucchero a velo sopra i tetti timidi dei paesi. Quell’agglomerato di casettine con la propria anima viva. Con all’ingresso una porticina di legno che porta al grande presepe di Natale. 

Nel racconto del Natale, la Calabria, intenerisce la sua rude corazza, si immedesima in sé stessa, e si presenta, sfidando la sua secolare timidezza, nella più naturale e antica forma presepiale. La terra si trasforma magicamente in un presepe. Con tutta la sua santità. Le montagne cariche di neve, l’acqua fredda dei torrenti, le luci soffuse delle case, i fuochi caldi dei camini, il calore tipico delle famiglie, le focaggine in mezzo alle piazze dei paesi, il torrone di Bagnara sopra le tavole nude. 

A Natale la magia della Calabria è sorprendente. Coinvolge i passanti e i residenti. Con le radici della sua storia che sanno di oro, di incenso e di mirra. Perlustrando l’anima santa che la mantiene.

La storia della Calabria, è la storia tipica dell’umanità, con i rovesci e i contrari di madre natura, i fatti e i misfatti dei suoi uomini. Una narrazione mite, sostenuta da un forte incipit tradizionale, che nessuna generazione ha provato mai di cambiare, né altre lo faranno in avvenire. “Camina ca ti camina”. 

Tanto ha camminato la Madonna prima di partorire il suo bambino, e tanto cammina ancora la gente di Calabria prima di allocare in un posto fisso la sua quotidiana natività.

Camina ca ti camina…, così cominciano le fiabe a Natale, nella terra di Calabria, dove se solo i bambini si distraggono un pò, camina ca ti camina, e l’attenzione torna lì dov’era s’era perduta. Nella storia di un Bambino cullato al petto di sua madre. E di cui il nome lo conoscono tutti. I nonni, gli zii, gli amici, i compagni, i bambini, anche il torrone. “Bambineju”.

A Natale, mentre altrove è la meccanica che movimenta i pastori e le pastore, in Calabria è la fede che li accompagna nel viatico antico aperto da Giuseppe e da Maria. Nella scalata dell’Aspromonte e del Pollino. Lungo i sentieri delle Serre e della Sila. Nella notte coi lupi, lungo i greti delle fiumare tuonanti, sotto la chiaranza del un cielo trapunto di splendide stelle.

La Calabria è il tempo forte dell’avvento. La terra potente della perenne attesa, che non si scompiglia mai i capelli né si straccia le vsti, quando tarda verso di sè la vita, né si abbatte i suoi loricati, quando l’alba fa ancora un pizzico di buio. 

Il Natale in Calabria ha più forza che altrove. Essa è piantata nella terra, e qui vi cresce come i pini, i lecci, le vetuste. E protegge, mantiene i sogni, sostiene le speranze. Non sarebbe Natale, in Calabria, senza gli addobbi tradizionali del cuore. Un rito fedele che si svolge dentro le vecchie case dei nonni che, mentre altrove, il Bambino del presepe si presenta infiocchettato nel cellofan, alla luce del focolare delle piccole residenze pastorali calabresi, resiste ancora nudo e di cera. 

Il Natale non rende mai avaro il tepore dell’aria in mezzo al gelo di dicembre. Il bue e l’asino quaggiù vivono ancora, e resistono d’estate per arrivare all’inverno, a fiatare in mezzo alla paglia della natività.

Se Cristo si è fermato a Eboli, il Bambino no.

In Calabria ha la sua culla, il figlio di Maria. Nei cuori dei calabresi la sua dolce naca. Che mentre altrove prende casa Babbo Natale, quaggiù prende messa il Santo Bambino. 

Il Natale in Calabria non è un semplice racconto orale, di tramando dalla vecchia storia, ma la visione reale di una vita dalla quale nessuno ha intenzione di sottrarre la propria. E così tutti si accostano a lui. Tutti partecipano al presepe, la notte di Natale. (gsc)

Dal racconto di Natale di Saverio Strati

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI Per un ragazzo del nord il Natale corrisponde certamente a vetrine illuminate e zeppe di giocattoli e di robe di ogni genere, all’albero dove sono appesi dei regali; e forse non avverte la preoccupa¬zione dei genitori per la mancanza di soldi o di lavoro o addirittura del pane quotidiano. Per un ragazzo del sud, al contrario, il Natale prende un altro aspetto, gli si presenta con altra faccia. C’è il presepe, che ripete pari pari la storia della nascita del figlio di Dio. Ma il presepe in casa è segno di ricchezza: cioè vien fatto nelle case dei ricchi. Nelle case dei contadini o degli operai e artigiani non si fa il presepe. Lo si prepara in chiesa. Ed è opera popolare, costruito, messo su dall’abilità e spesso dalla genialità dei più bravi ragazzi; e concesso al godimento dei poveri attraverso la Chiesa, sempre mediatrice tra Dio e popolo. Certo anche Gesù Bambino sarà andato a piedi nudi per le vie del suo paese, e anche lui avrà avuto i calzoni a brandelli, visto che anche lui era figlio di gente povera. Suo padre era un povero falegname. Cosa poteva guadagnare? Ma certo Gesù era scalzo perché voleva”. (Saverio Strati)

Se i tempi cambiano inseguendo le mode, la letteratura, che conserva l’identità delle cose, potrebbe essere il giusto mezzo per rintracciare i tempi passati. Recuperarli e forse, perchè no, rimetterli in uso. Rivalorizzandone l’importanza, scoprendone la necessità. La letteratura di Saverio Strati fa un lavoro di ricognizione sulle tradizioni e di fermo immagine sul passato, dal valore inestimabile. Così accade nel Il Natale in Calabria, un racconto dedicato alla natività del Bambino, e con cui lo scrittore rappresentata la tradizione identitaria, e il vivere della civiltà contadina meridionale.

Il racconto sul Natale, diventa uno stato d’animo che vive nell’uomo. Nulla, infatti, egli esterna se non lo prova. 

Nell’illustrazione del Natale, Strati, conservandone la magia, esterna i vissuti non come ricordi, ma perfetta quotidianità. E lo fa tracciando una precisa mappa dei luoghi in cui celebra la festa. Saverio Strati, tra gli autori più importanti del ‘900 letterario italiano, pur dimorando in Toscana, vive il suo natale in Calabria. E proiettandosi nella realtà da cui proviene, non tralascia niente. Offre invece al lettore, i profumi, i sapori, i sentimenti e i valori. L’aria croccante della sera della vigilia, quella pungente del giorno di Natale. E poi la casa, la famiglia, la tavola, il torrone e il fuoco. 

Strati, ne Il Natale di Calabria, racconta con la genialità dello scrittore e il valore dell’uomo, un Natale che forse non c’è più, ma che basta cercare dentro ognuno di noi per ritornare a vivere. Un tempo che non è vero che passa, ma semplicemente, come uomini distratti, non riusciamo più a vivere appieno.

Il Natale in Calabria, pubblicato da Strati nel 2006, è un piccolo libro, con illustrazioni, di pochissime pagine. Un’opera letteraria dal valore inestimabile che, per ridare considerazione alla festa, bisognerebbe ritornare a leggere. In Calabria e in capo al mondo. Potrebbe tornare a essere ogni giorno Natale. 

[…] Natale era veramente la festa del focolare, dell’unione della famiglia, della rinascita, della speranza e della vita che è eterna nella successione delle generazioni. Era una festa amata, desiderata: pareva che la natura vi partecipasse per la luce e un senso di tepore e di pace che si manifestavano nel cielo in quei giorni generalmente luminosi e sereni.

Allora più che oggi le feste natalizie erano più autentiche nel Sud che nel Nord: erano più vicine al racconto evangelico. L’albero, per esempio, che è di origine nordica e che non ha nulla da vedere col racconto evangelico, ossia con la nascita di Gesù, era quasi totalmente ignorato. C’era il presepe che ripeteva pari pari la storia della nascita del figlio di Dio: Ma il presepe era un segno di ricchezza: veniva allestito nella casa dei pochi ricchi.

Nella casa dei contadini, degli artigiani, dei lavoratori non c’era il presepe. Lo si preparava in chiesa ed era popolare, costruito e messo su dall’abilità e spesso genialità dei più bravi ragazzi, e concesso al godimento di tutti attraverso la chiesa che è mediatrice fra Dio e popolo. […]

La chiesa per via della gente e delle lumiere in qualche modo si riscaldava e cominciava la celebrazione della messa e nel bel mezzo da fuori cominciavano ad arrivare grida festose. Erano le grida dei giovani che erano andati in cerca di fasci di rami e di legna e avevano acceso il fuoco, un gran fuoco che lingueggiava allegramente e illuminava la piazza e la facciata della chiesa.[…]

Le fiamme si alzavano vigorose e lingueggianti al cielo e destavano in tutti i presenti una gioia irrefrenabile, tanto che molti si mettevano a ballare come se fossero eccitati dalla forza del fuoco, che è simbolo di vita. […]

E rubare fasci di rami o ceppi non era vergognoso, non era reato, anche se la donna derubata qualche volta arrivava strillando e minacciando di denunciare i ladri ai carabinieri.

La messa finiva, il fuoco si spegneva e i contadini partivano per i campi lontani. Spuntava il giorno e con esso i ragazzi si riversavano per le strade e giocavano pazzamente alle noccioline, pensando alla mattina della veglia di Natale quando la mamma si alzava dopo la mezzanotte, per preparare «cose fritte»: zeppole e nacatole. […]

Generalmente ci si riuniva, anzi ci si riunisce ancora oggi, nella casa dei nonni che vogliono avere la «consolazione» di stare, forse per l’ultimo Natale, tra i loro figli: Vogliono averli lì in quella casa dove son nati e cresciuti, dove hanno avuto tante preoccupazioni in comune che ora rievocano ed è come se leggessero un libro scritto da tutti loro. Peccato che qualche figlio è assente: Vincenzo si trova in Australia, il marito di Maria in Brasile.

– Ma sono con noi in spirito –, dice con antica saggezza il nonno. – Beviamo alla loro salute. […]” (S.S.)  (gsc)

Chiamatemi Giusina

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Sono nata di settembre che ero di appena tre chili. Mia madre dice sempre che avevo gli occhi come due olive. Grandi e sgargiati

Sono cresciuta in fretta. Mia madre sostiene che ero in continua corsa contro il tempo. Un passo lui, dieci io.  E perbacco, lo battevo!

Sono diventata una bambina vispa e vivace in un battibaleno. E, abracadabra, mi sono ritrovata donna come, passata la sera, ci si ritrova già il mattino. Da vispa a testarda; da docile a ostinata. Resistente e resiliente contemporaneamente. 

Mi chiamo Giusy. Al paese, sono Giusina per tutti. Ho 43 anni, quattro figli e una montagna di sogni da realizzare. Ché attenzione, non è merda ma sogni.

Sono moglie, madre, zia, e da quando sono nata continuo a essere figlia e sorella. 

Sono una buona amica, almeno credo. Basta interrogare la mia amica del cuore Cetty Greco , ma non approfittate, vi potrebbe raccontare vita, morte e miracoli. 

Fino a diciassette anni ho amato molto le passerelle. Sono stata Miss Provincia Vibo Valentia nel 1998. 

Poi sono rinata. Nel senso che sono diventata grande. 

Ho intrapreso la strada verso quella vita che mi ha portata fino a qui. Alla maturità. 

Sono tante cose oggi, ma soprattutto, tra tutte, prima di tutte le altre, sono una donna. 

Una donna libera con troppe idee e forti ideali, progetti, lotte, pensieri, e anche abbastanza coraggio. A scrivere ce ne vuole tanto.

Sono una donna con le palle, dice mio padre, e quando lo contraddico: – con la testa (di cazzo) papà -,  lui sorride. 

Sono una scrittrice di provincia dico io, vivo a Briatico, in provincia di Vibo Valentia. – Ma mai provinciale –  aggiunge qualche altro. E vabbè, questa la passo. È vero. E dalle verità non si prescinde. 

Non bevo fino a ubriacarmi se non qualche buon bicchiere di vino fatto da vitigno autoctono calabrese. Non fumo, non gioco d’azzardo se non al centro scommesse della vita, dove Calabria è protagonista. Lo sono il mio, il suo, e il futuro dei calabresi. 

Ho tante passioni. Ho ballato sulle punte di gesso per tanti anni. Avvolta nei veli di un tutù, mia madre mi dice sempre, ancora adesso, che ero bellissima. Canto per non dimenticare quando me ne viene voglia, e amo con la sfrontatezza di un’adolescente il mare dentro cui mi immergo come Scilla e Cariddi. D’estate e di inverno. Quando è corrucciato e solo. Una passione e un vizio per cui potrei essere perseguibile e condannata. Come quando mi sento tremare le vene non appena mi giunge nitido il suono della tarantella. Da ovunque provenga. Dall’Aspromonte o dal Pollino.

Ho fatto tante cose, sicure 43. Una per ogni anno di vita. Alcune buone, altre pessime. Ho fatto una marea di cazzate, addirittura minchiate… Tante altre temo le farò nel corso della vita. Ma che ci volete fare, il gioco della vita stessa ha le sue regole irregolari da rispettare. O sei con lei o sei contro di lei. E, aperta e chiusa parentesi,  non sono stata né mai sarò un profeta in patria. Una strafiga certezza. 

Sono scesa in politica come una folle, senza guardami né avanti né indietro, con spirito di  servizio ed esagerato senso di responsabilità, esattamente dopo i 40, ma non ho sbarcato il lunario, anzi… Ma questo cazzo di vizio che ho a insistere e a crederci mi tormenta, e guardo ancora  comunque e costantemente alla Calabria come la super polis da salvaguardare. Il mio presepe di Natale è qui che è allestito tutto l’anno. Nel cuore di questa terra santissima.

Insomma sono io, una calabrese in un tempo sbagliato rispetto a quello consigliabile per quelli come me, che non corrisponde più  né a quello di quando ero bambina, né a quello di quando sono diventata donna. Ché io, scemunita come sono, alle soglie del 2022, rifiuto l’opportunismo e miro alle opportunità. Peccato non abbia un lanternino per cercare, in Calabria, quelle occasioni che, tutto sommato, presuntuosamente, penso mi spetterebbero. Ma va là, Giusina, sveglia!

Una lunga appendice questa, ma urgente per pregare certuni ad  astenersi dal fare apprezzamenti del cazzo sulla figura o sull’idea che hanno su di me, se non riescono a guardare oltre. Dentro.

C’è sempre qualcos’altro dietro una semplice fotografia. Una sognatrice per esempio.

Alfredo Garro di Cosenza: missione Luna

di PINO NANO – Storia passata, direte. Forse sì, ma procediamo per ordine.

Era esattamente il 20 luglio del 1969, ed erano le 02,56 del mattino quando dagli schermi dell’unico TG nazionale che allora la RAI mandava in onda il giornalista Tito Stagno annunciò il primo sbarco dell’uomo sulla luna. Un racconto emozionate e coinvolgente che ruotava soprattutto attorno alla storia alla figura e ai movimenti dell’astronauta statunitense Neil Armstrong che per primo mise piede sulla crosta lunare, primo uomo in assoluto nella storia ad essere “allunato”. Poi dopo di lui arrivò Buzz Aldrin, mentre Michael Collins, il terzo astronauta dell’equipaggio, era rimasto in orbita attorno al satellite.

Bene, esattamente cinquant’anni dopo, quindi meno di due anni fa, Jim Bridenstine, storico e mitico amministratore delegato della Nasa, torna davanti alle telecamere dei grandi network americani per spiegare al mondo internazionale della ricerca scientifica che tra «i prossimi obiettivi degli scienziati di Houston ci sarebbe stata di nuovo la Luna e Marte».

«Torneremo sulla Luna entro i prossimi dieci anni – dice – e lo faremo con nuove tecnologie e sistemi innovativi, per esplorare molto più della sua superficie di quanto si pensava fosse possibile in passato». 

Poi aggiunge: «Andremo sulla Luna per restarci, e per farlo useremo tutte le conoscenze che apprenderemo per fare il passo successivo, che sarà quello di mandare i nostri astronauti su Marte».

Dopo le dichiarazioni del numero-uno della Nasa Jim Bridenstinem, gli scienziati di tutto il mondo si affrettano a sottolineare che da questo momento “Sarà dunque necessario, ripensare da zero l’approccio all’esplorazione sulla luna”. 

L’America di Obama, prima, e di Trump, dopo, assegna al progetto un budget di 21 miliardi di dollari. “E’ quanto basta per pensare di poter finalmente portare gli esseri umani sulla Luna”. Ma il vero grande problema -precisano gli esperti- sarà ora la costruzione dei lander, e cioè delle navicelle e delle stazioni di rifornimento necessarie a “rendere l’esplorazione della Luna un’impresa duratura nel tempo”.

Vi chiederete, ma cosa c’entra la Calabria con tutto questo?

Nessuno ci crederebbe, ma parte di questo progetto così straordinario e per noi  anche ancora quasi inverosimile e impossibile, certo immaginifico, porta oggi anche i colori del Campus Universitario di Arcavacata, e lo è per via di una collaborazione importante e concreta al Programma aerospaziale Artemis tra la Nasa e l’Università della Calabria, dove oggi vive lavora e insegna il professor Alfredo Garro, che è uno dei ricercatori italiani che per quasi un anno ha lavorato a questo progetto tra Houston e Cape Canaveral a stretto contatto di gomito con i ricercatori statunitensi, per poi proseguire nella collaborazione dall’Italia. Storia la sua di una meravigliosa “Eccellenza Italiana” che oggi “segna” in maniera profonda il lungo viaggio della ricerca scientifica in Calabria, e che proietta il lavoro e la fatica dei ricercatori calabresi dell’Università della Calabria nel grande circuito internazionale. 

«È per me una soddisfazione davvero enorme. Dopo cinque anni di duro lavoro, spesi ricoprendo il ruolo di vicepresidente del comitato internazionale di standardizzazione, sapere che lo Space Reference Federation Object Model costituisce e costruirà un tassello importante per la realizzazione del programma Artemis della NASA, che ci permetterà di tornare sulla Luna e colonizzarla nel prossimo decennio affinché rappresenti un avamposto per l’esplorazione umana di Marte, tutto questo è motivo di grande orgoglio per tutti noi».

Il programma Artemis utilizza dunque lo SpaceFOM, che sta per Space Reference Federation Object Model, altro non è che lo standard immaginato ideato e definito dal team del professor Alfredo Garro e che «consente a moduli diversi di una missione di comunicare tra loro». Questo vuol dire che il programma Artemis – avviato dalla Nasa per portare sulla Luna «la prima donna e il prossimo uomo» entro il 2024 per partire da lì poi alla conquista di Marte – si realizzerà anche con il contributo del team dei ricercatori dell’Università della Calabria che fanno capo al professor Alfredo Garro.

I dati forniti dalla Nasa parlano di un programma ambizioso, dal costo stimato di 35 miliardi di dollari, che vede oggi una forte collaborazione tra la NASA e le principali agenzie spaziali di tutto il mondo, da quella Europea (ESA) a quella Italiana (ASI), da quella Giapponese (JAXA) a quella Britannica (UK Space Agengy) e infine a quella Canadese (CSA). 

Edwin Zack Crues, che attualmente è a capo del team di simulazione dello Human Landing System Crew Compartment Office al NASA Johnson Space Center di Houston, non ha nessun dubbio. Lui è l’uomo che nei fatti ha progettato e sviluppato centinaia di modelli e simulazioni per veicoli spaziali della NASA, tra questi lo Shuttle, l’International Space Station (ISS), l’Orion, l’Altair, Morpheus e il Multi-Mission Space Exploration Vehicle. 

Ora Edwin Zack Crues dice: «Il nostro obiettivo è di portare la prima donna e il prossimo uomo sulla Luna. Lo faremo entro il 2024, creando una base lunare stabilmente abitabile che sia avamposto verso le future esplorazioni marziane. Ma riportare l’uomo sulla luna e poi portarlo su Marte – aggiunge lo scienziato statunitense- significa realizzare missioni di una complessità senza pari e senza confini, per le quali è necessario disporre di avanzate tecnologie di simulazione che si baseranno sullo standard SpaceFOM per consentire ai moduli di missione (razzi, lander, rover, sonde, satelliti, moduli abitabili, etc.), realizzati dai diversi partner distribuiti su tutto il Globo, di inter-operare efficacemente tra loro». 

Per il gruppo dei ricercatori calabresi è il massimo riconoscimento possibile. 

«Il coronamento di un sogno», si lascia sfuggire Alfredo Garro.

Un lungo viaggio quello di SpaceFOM, iniziato nel 2016 quando il professor Garro, insieme al suo collaboratore, l’ingegner Alberto Falcone, divenne il primo europeo ad essere ospitato, in qualità di “visiting scientist”, presso la Divisione Software, Robotics and Simulation (ER) del Nasa Johnson Space Center (JSC) di Houston a seguito di uno specifico Visiting Research Agreement tra l’Unical ed il quartier generale della NASA. 

«In realtà la storia dello SpaceFOM è una storia molto lunga, perché è il risultato di una collaborazione con la NASA che io ho avviato molti anni fa».

– Professore lei parla dei suoi nove mesi trascorsi al Centro spaziale di Huston?

«Questa storia incomincia ancora prima per la verità. Qualche anno prima partecipai ad una conferenza in Florida, a Orlando, e nel corso di questa conferenza internazionale in una sala di questo grande albergo americano stavano presentando un progetto guidato da NASA, chiamato SEE, Simulation Exploration Experience, rivolto proprio alle varie Università sparse per il mondo, che aveva l’obiettivo di stimolare sia la cooperazione, sia la competizione tra le diverse università per realizzare una simulazione di una base lunare. Più esattamente, un insediamento lunare. E ricordo che un professore dell’Università di Genova, Agostino Bruzzone, con cui ero già in contatto, quella mattina mi invitò ad andare a capire meglio ciò che si diceva in quella sala. Fu lui per primo a suggerirmi che al progetto avrei potuto partecipare come Università della Calabria con un team tutto calabrese. Io in realtà non avevo preso in considerazione tale possibilità».

– Come andò a finire?

«Che appena rientrato in Italia, mi misi al lavoro per mettere in piedi il team necessario per partecipare a quel concorso di idee. Inizialmente formammo un unico team con i due dipartimenti di ingegneria DIMES e DIMEG, e poi alla fine nacquero due team distinti, che si occuparono di entità diverse. L’idea di base era appunto quella di simulare un insediamento lunare, e ogni Università coinvolta nel progetto avrebbe dovuto sviluppare un modulo che contribuisse all’intero scenario. C’era insomma chi si occupava di un rover, chi invece doveva occuparsi dell’apparato di comunicazione, magari un satellite, o un sistema sul suolo lunare, chi invece doveva modellare un astronauta, e il suo comportamento all’interno della base. Immaginiamo dunque un insediamento futuribile lunare da costruire di sana pianta, e alle varie Università spettava dunque il compito di immaginare e progettare pezzo per pezzo la costruzione di questo progetto. Cosa che nei fatti accadde da lì a poco. Ogni Università si mise a lavorare su un modulo diverso dagli altri e che fosse utile all’obbiettivo finale. Moduli, badi bene, che si sarebbero dovuti realizzare attraverso delle linee guida e delle strategie che aveva già deciso NASA per la realizzazione di un insediamento lunare-tipo. Parliamo di uno standard che tecnicamente si chiama HLA».

– Quale fu poi il ruolo dell’Unical in questa avventura?

«Già al primo anno di partecipazione noi calabresi ricevemmo vari attestati di stima e consensi generali. L’anno successivo, nel 2015, alla nostra seconda partecipazione, il team che io supervisionavo come docente, perché allora ero già professore associato, ricevette due premi diversi. Il primo premio, per l’eccellenza tecnologica, direttamente assegnatoci dal comitato NASA che gestiva il progetto, e il secondo premio “Wow”, esclamazione di entusiasmo tipica nel linguaggio parlato inglese, da parte di chi poi assistette alla simulazione che noi avevamo presentato».

– Quale era la novità sostanziale della vostra ricerca?

«Noi come Unical avevamo progettato e presentato un approccio che riduceva i tempi di realizzazione e di sviluppo del progetto stesso, e NASA si rese conto della grande utilità della nostra soluzione. Parliamo di tempi di realizzazione che da alcune settimane si riducevano a solo qualche giorno, e questo ha fatto della nostra soluzione e tecnologia un must di quella edizione, utilizzata successivamente da altri team partecipanti al progetto».

– Professore, per favore mi semplifica questo concetto?

«Le missioni spaziali, quali quelle che hanno per oggetto l’esplorazione della luna, devono essere accuratamente pianificate e simulate, soprattutto perché coinvolgono molti partner. Noi abbiamo sviluppato una tecnologia che la NASA ha valutato tra Cape Canaveral e Houston e rispetto ai partecipanti a quel concorso di idee siamo stati segnalati come i migliori in assoluto. E da qui ne è scaturito ufficiale l’invito per me e per Alberto Falcone a ritornare da loro a Houston, e questa volta in forma stabile per almeno un anno, e sviluppare il nostro progetto direttamente sul campo al Centro Spaziale insieme ai ricercatori statunitensi. Immagini la nostra gioia e il senso di orgoglio che ci portavano dentro. Era la prima volta che la NASA ospitava dei ricercatori europei a casa propria per un lavoro così importante e strategico. Poi noi siamo stati assegnati alla divisione Software, Robotics, and Simulation, ma prima di arrivare a Houston è stato necessario ottenere una serie di pass e di autorizzazioni speciali da parte del Governo americano, anche per via del nostro impegno al Centro Spaziale, e che riguardava per certi versi problemi e tematiche care alla privacy di Stato e alla sicurezza nazionale». 

Dopo un periodo di nove mesi trascorso al centro di Houston, il professor Alfredo Garro, tornato al Campus di Arcavacata, ha proseguito con continuità nei successivi cinque anni la collaborazione scientifica con la Nasa assumendo la vicepresidenza del comitato internazionale di standardizzazione che ha portato nel febbraio 2020 alla pubblicazione dello standard SpaceFOM e, poco più di un anno dopo, alla sua adozione ufficiale da parte della NASA nell’ambito del programma Artemis.

– Professore, ma la notizia più importante è un’altra oggi?

«Si è vero. Siamo già stati contattati da importanti aziende italiane ed europee che partecipano al programma Artemis per essere supportate nell’utilizzo della tecnologia scelta dalla NASA che abbiamo contributo a sviluppare, e un primo accordo di collaborazione tra il nostro Dipartimento universitario ed una grande realtà europea del settore Aerospazio è stato firmato allo scopo proprio pochi giorni fa».

Copertina dunque dedicata a lui oggi, nel giorno in cui i bambini di tutto il mondo aspettano che arrivi Babbo Natale, e porti loro nel sacco dei regali uno spicchio di Luna o un regalo da Marte. 

Copertina dedicata alla conquista dello spazio, ai nostri astronauti, e alla magia che 52 anni fa ci regalò Neil Amstrong lasciando la sua prima impronta sul suolo lunare, meravigliosamente commentata in Rai da un indimenticabile Tito Stagno.

Copertina dedicata alla ricerca scientifica, che a quanto pare è possibile fare anche in Calabria, nel posto spesso percepito come il più sperduto del mondo. 

Copertina, infine, dedicata alla storia e alla vita di questo straordinario ricercatore calabrese di cui oggi si parla alla NASA, e che a Huston ha lasciato tracce indelebili del suo passaggio.

46 anni appena compiuti, educato a pane e matematica, cosentino a 360 gradi, nato cresciuto e formatosi a Cosenza, città dove di fatto ha percorso i tratti salienti di gran parte della sua vita privata e anche professionale, sposato con Concetta De Paola, ingegnere anche lei, padre di un figlio, «Antonio, porta il nome di mio padre», una famiglia “molto presente” alle spalle, la mamma Maria storica maestra alla Scuola Elementare di Via Negroni, il padre Antonio professore di matematica, «insegnava ai Corsi di Formazione Post Laurea della Regione Calabria», e un fratello “bocconiano”, Maurizio, «che oggi vive a Londra dopo una laurea brillantissima a Milano e un master in Economia che lo ha poi portato a lavorare per i più grandi gruppi bancari italiani ed europei» 

Una famiglia importante, dunque, sotto il profilo dell’educazione e della formazione iniziale, che ha fortemente condizionato la sua infanzia e quella di suo fratello Maurizio. Ed è in questo clima di letture, libri, enciclopedie e compiti da correggere per tutta casa, «abitavamo in via Lazio», che Alfredo assorbe dal padre la passione per la matematica, e dalla madre l’amore per la letteratura e la logica filosofica. Alla fine del liceo scientifico, la scelta di fare ingegneria all’Università diventa dunque la decisione più scontata e più naturale di questo mondo.

Dopo la maturità scientifica, conseguita con il massimo dei voti nel Luglio 1994 presso il Liceo Scientifico Statale “Enrico Fermi” di Cosenza, Alfredo si iscrive all’Università della Calabria dove per cinque anni – ricordano i suoi vecchi maestri – è stato uno degli studenti migliori di tutto il corso, un vero e proprio numero uno, predestinato a far parlare di sé e soprattutto già proiettato verso traguardi professionali di grande respiro internazionale.

«Ho scelto ingegneria informatica, perché sapevo che era il futuro, e che avrebbe rappresentato una scelta vincente per gli anni che sarebbero venuti dopo, e quindi per la mia vita. Io già da ragazzo sentivo che il mondo informatico avrebbe riempito il resto della mia esistenza. Poi nei fatti è stato così».

Predestinato, dunque, a diventare da grande un numero uno. Ma già alle scuole elementari Alfredo dimostra di essere “molto più avanti degli altri”, e a lamentarsi di lui con “mamma Maria” saranno le colleghe di istituto.

«La sera a casa vedevo in TV insieme a mio padre e a mio fratello Maurizio, le varie puntate di Quark, il famoso programma di informazione scientifica di Piero Angela che era appena partito in quegli anni, e ricordo che in un paio di quelle puntate iniziali Angela aveva raccontato le galassie, e aveva spiegato i tanti misteri dell’universo. La cosa mi aveva letteralmente affascinato, e mi aveva preso così tanto che l’indomani a scuola, davanti ai miei compagni di classe, bombardai la mia insegnante di domande legate alla puntata che avevo visto la sera prima a casa mia. Quante sono le galassie? Quanto distano da noi? Come si fa a distinguerle? La maestra naturalmente non capì il senso delle mie domande e il giorno dopo avvertì mia madre di questo “figlio che era a caccia di risposte complesse e non facile da dargli”. Ma da allora io non ho mai più smesso di pensare all’universo, al sistema fantastico dei satelliti, e a tutto quello che circolava per il cielo. Non solo, ma da bambino sognavo di poter lavorare per la NASA e magari di poter fare da grande l’astronauta. In realtà da grande ho fatto e faccio ben altro, ma la cosa di cui oggi sono davvero fiero è che gli astronauti alla fine li ho visti davvero da vicino, li ho conosciuti personalmente a Houston e Cape Canaveral, ho visto come si preparano ad affrontare il loro viaggio verso l’ignoto, e nel mio lavoro oggi contribuisco a progettare e costruire moduli in cui ognuno di loro in futuro potrebbe vivere o viaggiare. Per mesi ho vissuto alla NASA passando ogni giorno davanti ai moduli del Programma Apollo, o davanti al Centro Controllo Missione di Huston che per anni avevo visto solo in televisione da casa mia, e a lavorare con le menti più brillanti della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica nel mondo, perché alla NASA di questo si parla e di questo si tratta. Tutto questo è bellissimo, mi creda».

Alfredo Garro è un fiume in piena, gli chiedi una cosa e parte da lontano, il suo racconto è ricco di dettagli, di riferimenti precisi, ha una memoria di ferro e lo cogli con mano negli anni che ricostruisce, tassello dopo tassello, dei suoi trascorsi universitari ricorda il nome di tutti i suoi insegnanti, dei suoi compagni di corso, degli addetti ai laboratori, una vera e propria macchina da guerra, un mostro informatico dai lineamenti accattivanti e cortesi, ma con un grande cuore dentro, capace di convincerti che il mondo è pieno di favole e di menestrelli felici, ma soprattutto con un senso dell’appartenenza verso il Campus che lo ha visto crescere davvero invidiabile e assolutamente raro.

«Credo che l’Università della Calabria oggi non abbia nulla da invidiare ad altri Campus universitari italiani o europei. Abbiamo energie, uomini, strutture e laboratori in grado di competere con i grandi centri di ricerca internazionali. Dobbiamo solo convincerci di questo, e dobbiamo investire sempre di più sui nostri ricercatori più capaci. Mi creda ne abbiamo tantissimi. I miei corsi sono pieni di ragazzi in gamba, che sono in grado di fare cose che noi alla loro età non avremmo mai saputo fare, ma quello che li blocca forse è l’indolenza che forse la nostra generazione non ha conosciuto. A differenza di noi loro sono più fatalisti. Per noi invece arrivare in alto era fondamentale, perché allora si studiava per diventare migliori, non per fare i gregari. Forse i giovani di oggi sono troppo invasi e distratti da mille messaggi inutili o superficiali, e rischiano di perdere la visione globale del proprio futuro. Moltissimi di loro sprecano i loro talenti sommersi da mille sollecitazioni e informazioni confuse. Ma il Campus di Arcavacata, mi creda, è tra i migliori d’Italia e in futuro sarà ancora più competitivo e più attrezzato di quello che oggi appare sotto gli occhi di tutti».

– Professore non crede sia un tantino esagerato questo suo ottimismo in questa fase così delicata per la vita dell’Università?

«Assolutamente no. Lei provi a immaginare una Calabria senza la nostra Università, e provi a immaginare cosa sarebbe oggi la città di Cosenza, e anche quella di Rende, senza il nostro Ateneo. Sarebbe la morte spirituale e reale di intere generazioni di ragazzi calabresi che oggi invece frequentano felicemente i nostri corsi e le nostre aule e da cui dipenderà il futuro reale di questa regione. Costretti altrimenti ad emigrare giovanissimi in cerca di atenei diversi e lontani da casa propria. Guai a dimenticare la grande visione dei padri fondatori della nostra Università, e qui penso al primo rettore dell’Ateneo, Beniamino Andreatta. Era stato il primo a immaginare il ruolo strategico del nostro Campus universitario nella dinamica generale della crescita sociale della Calabria, ed era stato il primo a parlare dei grandi successi che l’Ateneo avrebbe prima o poi raggiunto. Noi tutti oggi siamo il risultato concreto di quella sua visione e di quella sua intuizione politica. Ricordo che il professore Andreatta in ogni suo discorso non faceva altro che ricordare quale fosse il ruolo reale del Campus, e secondo lui sarebbe stato uno strumento di crescita dell’intero sviluppo regionale. Sembrava un visionario, ma lui aveva visto il futuro meglio di chiunque altro. Oggi, 50 anni dopo c’è qui una Università che sta ottenendo risultati eccellenti e riscontri di valore internazionale in termini di qualità davvero impensabili e inimmaginabili che arricchiscono il territorio. Questo è il vero dato storico con cui dobbiamo fare i conti”.

Per il suo valore professionale e la qualità altissima delle sue ricerche oggi Alfredo Garro è membro dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica “Francesco Severi”, e per chi frequenta questo mondo della matematica sa che siamo ai massimi livelli europei.

Ma partiamo dall’inizio.

Siamo nel 2000, quando Alfredo si laurea in Ingegneria Informatica all’Università della Calabria con il massimo dei voti e una Tesi svolta presso il Centro Studi Laboratori Telecomunicazioni del gruppo Telecom Italia di Torino su un tema di grande interesse scientifico, Progetto e sviluppo di un sistema real-time interattivo per teleformazione su reti IP, relatori il Prof. Domenico Saccà, l’Ing. Mario Cannataro (ISICNR), e la Dottoressa Stefania Lisa (CSELT S.p.A.). A questo punto vince senza colpo ferire il suo primo Dottorato di Ricerca in Ingegneria dei Sistemi ed Informatica, con risultati anche qui a dir poco strabilianti per uno studente che non si era mai mosso da casa e che non aveva ancora mai lasciato l’Italia.

Oggi Alfredo Garro è Professore Associato di Sistemi di Elaborazione presso il Dipartimento di Ingegneria Informatica, Modellistica, Elettronica e Sistemistica (DIMES) dell’Università della Calabria, e Presidente di Associazione Italiana di Systems Engineering (AISE) – Chapter “Italia”, dell’International Council on Systems Engineering (INCOSE), dopo esserne stato Vice Presidente nel biennio 2018-2019 e Direttore Tecnico nel biennio 2016-2017.

– Professore qual è il ricordo più intenso che ha della sua vita accademica?

«Se c’è una cosa che mi porterò per sempre dentro il cuore è l’incontro con il Presidente Sergio Mattarella a Houston, quando il Presidente venne in visita al Johnson Space Center. Era il 12 febbraio del 2016 e il Presidente volle incontrare gli astronauti che allora si preparavano alle loro rispettive missioni e con gli astronauti volle incontrare e conoscere anche i ricercatori italiani che in quel momento erano impegnati al centro di Houston. Ricordo con commozione l’incontro che il Presidente ebbe con i nostri astronauti Luca Parmitano, Paolo Nespoli, Samantha Cristoforetti, Roberto Vittori, Walter Villadei e l’italo-americano di origini calabresi Mario Runco. E quando ci fu detto che il Capo dello Stato ci teneva a salutare gli italiani che in quel momento lavorano al Centro NASA ci siamo ritrovati in sei davanti al Presidente, ma gli unici due che lavorano per conto della NASA in realtà eravamo io e il mio compagno di lavoro Alberto Falcone. Gli altri erano al Centro Spaziale per conto delle varie agenzie internazionali e grandi aziende. Indimenticabile, esperienza davvero indimenticabile».

– Professore ma non fu quello il suo unico incontro con il Presidente della Repubblica?

«Si è vero, ho poi ritrovato il Presidente Mattarella in Calabria, quando l’anno successivo venne al Campus di Arcavacata per inaugurare l’Anno Accademico, e ricordo che in quella occasione mi avvicinai per salutarlo e gli dissi “Presidente si ricorda di me? Ci siamo già visti un anno fa a Houston”. Lui si ricordava perfettamente tutto, anche la nostra chiacchierata al Centro Spaziale sullo stato dei ricercatori italiani all’estero, e in questa seconda occasione mi ripeté il grazie che mi aveva già rivolto a Houston. “Grazie per quello che ognuno di voi rappresenta all’estero in nome dell’Italia, confrontandosi a pieno titolo con i massimi ricercatori stranieri. Tutto questo, mi disse Mattarella ancora una volta ad Arcavacata, fa bene al Paese”. Io provai allora a ricordargli che in Italia la ricerca scientifica ha ancora molta strada da percorrere, va adeguatamente finanziata e supportata dallo Stato centrale, e lui senza peli sulla lingua mi rispose che se ne sarebbe fatto carico “anche se lei sa – mi disse – che il Presidente della Repubblica in questo Paese può sollecitare alcuni provvedimenti, ma poi deve essere il Governo a farli propri e a realizzarli”. E ricordo anche con altrettanta emozione la serata di gala che il Console Italiano a Houston organizzò in nostro onore. Il Console allora era una donna molto capace, Elena Sgarbi, e anche in quella occasione ci fu detto “grazie” a nome del Paese per il lavoro che stavano facendo per conto dell’Italia. Sono queste le cose che poi contano di più e che ti porterai dentro per il resto della vita» 

Ad ottobre del 2016 partecipa al Training Programme presso il CERN di Ginevra, che lui ricorda come un «grande privilegio personale» essendo tra i primi dieci Ingegneri Italiani appositamente selezionati dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri su 539 candidati. Ma in questi settori così altamente specialistici la qualità paga sempre.

Ancora prima, però da Settembre del 1999 a Settembre del 2001 Alfredo era stato Ricercatore presso il CSELT di Torino, e dal 2001 al 2005 ha collaborato invece con l’Istituto di Calcolo e Reti ad Alte Prestazioni (ICAR) del Consiglio Nazionale della Ricerca (CNR), mentre da Gennaio 2005 a Dicembre 2011, era stato anche Ricercatore di Sistemi di Elaborazione presso il Dipartimento di Ingegneria Elettronica, Informatica e Sistemistica (DEIS) dell’Università della Calabria. 

Insomma, un percorso professionale da primo della classe, sempre comunque e dovunque.

Autore di oltre 100 pubblicazioni su riviste internazionali, e protagonista di decine di conferenze, il giovane ricercatore calabrese vanta anche una lunga serie di collaborazioni scientifiche nazionali ed internazionali avviate con il NASA Johnson Space Center (Houston, TX), e proseguite poi con l’Università tecnica di Darmstadt (Germany); l’Università di Brunel (London, UK), L’Università di Linköping (Sweden),“Programming Environment Laboratory”; l’Università di Stoccarda (Germany), “Institute of Statics and Dynamics of Aerospace Structures”; l’Università di Liverpool (UK); l’ICAR-CNR , “Istituto di Calcolo e Reti ad Alte Prestazioni” del CNR; il Dipartimento di Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale del Politecnico di Torino; il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, delle Infrastrutture e dell’Energia Sostenibile dell’Università di Reggio Calabria; il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università degli Studi di Parma; il Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino; il Dipartimento di Dipartimento di Informatica – Scienza e Ingegneria dell’Università di Bologna; il Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica, Gestionale e dei Trasporti dell’Università di Genova; e infine  il Dipartimento di Ingegneria dell’Impresa dell’Università di Roma – Tor Vergata.

– Professore c’è uno slogan che oggi può meglio condensare la sua vita e il suo successo personale?

«Non uno slogan, ma un concetto che considero fondamentale certamente si, c’è. Ai miei studenti la prima cosa che cerco di insegnare e di instillare nelle loro intelligenze è questa: “Non bisogna mai sognare il possibile. Bisogna invece sognare l’impossibile”. Perché se io mi pongo un obiettivo, la differenza qual è? Non deve essere utopia, deve essere speranza. Un sacerdote che mi è molto caro, don Giacomo Tuoto, perché ho con lui un rapporto speciale, mi dice sempre “Alfredo, sai quale è la differenza tra speranza e utopia? L’utopia è sognare una vigna florida. La speranza è piantare un vitigno e sognare una vigna florida”. È bello sognare qualcosa, ma bisogna anche avere la pazienza di piantare il vitigno perché quel sogno si realizzi. Altrimenti è pura utopia, e il sogno rimane irrealizzabile. Sognare dunque l’impossibile ma con un’ottica di speranza, non di utopia. È questo il vero segreto del successo di un uomo. Qualunque cosa egli faccia. L’importante è avere degli obbiettivi chiari e precisi da perseguire, evitando di distrarsi, ma dedicandosi e impegnandosi con costanza per realizzare poi i propri sogni».

Nel 2014 Alfredo Garro fonda il Laboratorio di Ricerca Dipartimentale System Modeling and Simulation Hub (SMASH Lab) di cui è attualmente responsabile, una vera eccellenza del settore.

– Professore, di cosa si tratta in realtà?

«Lo SMASH Lab svolge attività di ricerca finalizzata alla definizione, sviluppo, sperimentazione e diffusione di modelli formali e metodi quantitativi per la modellazione e simulazione di sistemi ingegneristici complessi, e la valutazione delle loro prestazioni. Il Laboratorio offre, inoltre, supporto all’attività di didattica erogata su tali tematiche. Le attività dello SMASH Lab sono condotte e supportate dalla partecipazione a progetti di ricerca di livello nazionale ed internazionale e si focalizzano, attualmente, sulla rappresentazione virtuale di sistemi cyber-fisici al fine di supportarne l’intero ciclo di vita, dalla concezione ed analisi, alla progettazione, operatività e dismissione: il paradigma di riferimento è quello del Digital Twin, ossia un “gemello digitale”, fedele riproduzione di un sistema ingegneristico reale».

– Chi ci lavora oggi?

«Allo SMASH Lab afferiscono professori, ricercatori e personale tecnico-amministrativo del Dipartimento di Ingegneria Informatica Modellistica Elettronica e Sistematica (DIMES) dell’Unical. Una squadra meravigliosa, mi creda».

Non finisce qui. Alfredo Garro è stato anche Coordinatore Nazionale per l’Italia e membro dell’Executive Committee del “Progetto Europeo ITEA2 MODRIO”, “Model Driven Physical Systems Operation”, e oggi è membro del Laboratorio Nazionale di Cyber Security del CINI, il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica, e del Distretto Tecnologico di Cyber Security (DCS). E infine troviamo il suo nome e il suo curriculum anche come Senior Member dell’IEEE, l’Institute of Electrical and Electronic Engineers, e come membro delle seguenti Società, la IEEE Computer Society, la IEEE Reliability Society, la IEEE Aerospace and Electronic Systems Society.

– Professore mi fa un esempio di innovazione tecnologica che sia da ritenersi oggi all’avanguardia in Calabria?

«Noi oggi abbiamo in Calabria una serie di esperienze importanti e di assoluta eccellenza che operano nel settore delle ICT. Pensi per esempio al polo di ricerca di NTT Data che ha tre poli in tutto il mondo, Palo Alto in California, Tokio, la casa madre in Giappone, e poi il terzo polo qui in Calabria a Rende, appena a ridosso dell’Unical. Parliamo di una realtà industriale che oggi impiega a Rende oltre duecento ingegneri, forse anche duecentocinquanta, gran parte dei quali laureati tutti da noi e quasi tutti calabresi. Il 92 per cento di loro sono cresciuti praticamente nel nostro Campus nei corsi di laurea in ingegneria. E poi parliamo di un polo di ricerca internazionale che lavora e si confronta ogni giorno con le dinamiche degli altri poli satellite di Palo Alto e Tokio. Ma chi l’avrebbe mai immaginata appena 20 anni fa una realtà come questa? Un centro di ricerca puro, non di semplice gestione commerciale e per la storia di questa regione è davvero un tuffo nel futuro. Qui parliamo senza ombra di smentita di innovazione pura e di strategia industriale che non ha pari al mondo. Pensi anche che tra Palo Alto, Tokio e Rende hanno cicli di lavoro sulle 24 ore giornaliere perché riescono a coprire tutte e tre le macro-zone di fuso orario, e questo in termini reali vuol dire produrre innovazione da immettere poi sul mercato internazionale. Ecco allora che comunicare questi risultati diventa fondamentale per tutti, soprattutto per il territorio, perché queste informazioni, che non tutti sempre conoscono, sono utilissime per spiegare quanto l’Università abbia dato e continui a dare giorno per giorno al territorio su cui è sorta e sviluppata, superando così una sorta di diffidenza reciproca che spesso il territorio ha alimentano nei confronti del nostro Campus universitario».

– Posso chiederle a chi sente oggi di dover dedicare il suo lavoro e il suo successo?

«Certamente sì. Non avrei potuto svolgere alcuna attività di ricerca e raggiungere alcun risultato senza il supporto della mia famiglia di origine, di quella nata dall’unione con mia moglie Concetta, e di tutti coloro, parenti, amici e colleghi, che mi hanno sostenuto e supportato nel mio percorso. Le sembrerà scontato ma la mia prima dedica non può non andare che a loro. Chi si impegna nella ricerca lo fa però con lo scopo di far progredire con il proprio lavoro l’umanità stessa nel cammino che ha intrapreso “per seguir virtute e canoscenza”, tutto ciò che noi facciamo è quindi, in ultima analisi, dedicato all’Uomo inteso come frammento e specchio dell’intero Creato. La ricerca è impegno costante che non comporta “rinunce” ma direi “scelte consapevoli” che richiedono sacrificio, impegno e dedizione; scelte ripagate, tuttavia, dall’enorme gioia che si prova quando si ottiene qualcosa che ci sopravvive e diventa parte della storia della nostra Specie: questo, credo, sia ciò che ogni ricercatore profondamente sogna».

– E il sogno segreto che c’è ancora invece nel cassetto di Alfredo qual è?

«Non sorrida per favore, ma il mio cassetto non contiene un solo sogno. Contiene invece ancora un intero libro di sogni, e guai se tutte le pagine fossero già state strappate, ce ne sono ancora tante, e di nuove se ne aggiungono di continuo. Per restare in tema, alcune volte mi piace chiudere gli occhi e sognare di poter un giorno passeggiare con mio figlio Antonio sulla Luna, guardare verso la Terra, la nostra casa nel cosmo, vederla così meravigliosamente bella ma anche così fragile. Gli racconterei della riflessione che fece il grande astronomo Carl Sagan quando nei primi anni Novanta chiese alla Nasa di scattare un’immagine della Terra vista dalla sonda Voyager 1, che allora si trovava a sei miliardi di chilometri di distanza dal nostro Pianeta: “La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora. Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere questo pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto».

Buon Viaggio allora professore.  (pn)

Il Natale di Calabria. E la terra si trasforma in un grande presepe

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il Natale di Calabria, non è la Calabria a Natale. È di più. È per esempio il sudore serafico delle donne, che scende giù dalle loro fronti durante l’impasto delle curujcchie, mentre l’olio caldo già bolle; è la fatica docile delle madri che preparano per i figli le nacatole attorcigliate alla canna; è l’autorevolezza mistica della famiglia. E non un’appiccicaticcia nuvola di zucchero filato nell’aria melanconica della città, ma una perfetta spolverata di zucchero a velo sopra i tetti timidi dei paesi. Quell’agglomerato di casettine con la propria anima viva. Con all’ingresso una porticina di legno che porta al grande presepe di Natale. 

Nel racconto del Natale, la Calabria, intenerisce la sua rude corazza, si immedesima in sé stessa, e si presenta, sfidando la sua secolare timidezza, nella più naturale e antica forma presepiale. La terra si trasforma magicamente in un presepe. Con tutta la sua santità. Le montagne cariche di neve, l’acqua fredda dei torrenti, le luci soffuse delle case, i fuochi caldi dei camini, il calore tipico delle famiglie, le focaggine in mezzo alle piazze dei paesi, il torrone di Bagnara sopra le tavole nude. 

A Natale la magia della Calabria è sorprendente. Coinvolge i passanti e i residenti. Con le radici della sua storia che sanno di oro, di incenso e di mirra. Perlustrando l’anima santa che la mantiene.

La storia della Calabria, è la storia tipica dell’umanità, con i rovesci e i contrari di madre natura, i fatti e i misfatti dei suoi uomini. Una narrazione mite, sostenuta da un forte incipit tradizionale, che nessuna generazione ha provato mai di cambiare, né altre lo faranno in avvenire. “Camina ca ti camina”. 

Tanto ha camminato la Madonna prima di partorire il suo bambino, e tanto cammina ancora la gente di Calabria prima di allocare in un posto fisso la sua quotidiana natività.

Camina ca ti camina…, così cominciano le fiabe a Natale, nella terra di Calabria, dove se solo i bambini si distraggono un po’, camina ca ti camina, e l’attenzione torna lì dov’era s’era perduta. Nella storia di un Bambino cullato al petto di sua madre. E di cui il nome lo conoscono tutti. I nonni, gli zii, gli amici, i compagni, i bambini, anche il torrone. Bambineju.

A Natale, mentre altrove è la meccanica che movimenta i pastori e le pastore, in Calabria è la fede che li accompagna nel viatico antico aperto da Giuseppe e da Maria. Nella scalata dell’Aspromonte e del Pollino. Lungo i sentieri delle Serre e della Sila. Nella notte coi lupi, lungo i greti delle fiumare tuonanti, sotto la chiaranza del un cielo trapunto di splendide stelle.

La Calabria è il tempo forte dell’Avvento. La terra potente della perenne attesa, che non si scompiglia mai i capelli né si straccia le vsti, quando tarda verso di sé la vita, né si abbatte i suoi loricati, quando l’alba fa ancora un pizzico di buio. 

Il Natale in Calabria ha più forza che altrove. Essa è piantata nella terra, e qui vi cresce come i pini, i lecci, le vetuste. E protegge, mantiene i sogni, sostiene le speranze. Non sarebbe Natale, in Calabria, senza gli addobbi tradizionali del cuore. Un rito fedele che si svolge dentro le vecchie case dei nonni che, mentre altrove, il Bambino del presepe si presenta infiocchettato nel cellofan, alla luce del focolare delle piccole residenze pastorali calabresi, resiste ancora nudo e di cera. 

Il Natale non rende mai avaro il tepore dell’aria in mezzo al gelo di dicembre. Il bue e l’asino quaggiù vivono ancora, e resistono d’estate per arrivare all’inverno, a fiatare in mezzo alla paglia della natività.

Se Cristo si è fermato a Eboli, il Bambino no.

In Calabria ha la sua culla, il figlio di Maria. Nei cuori dei calabresi la sua dolce naca. Che mentre altrove prende casa Babbo Natale, quaggiù prende messa il Santo Bambino. 

Il Natale in Calabria non è un semplice racconto orale, di tramando dalla vecchia storia, ma la visione reale di una vita dalla quale nessuno ha intenzione di sottrarre la propria. E così tutti si accostano a lui. Anche il mare che confonde il suono rumore al suono delle ciaramelle. Tutti partecipano al presepe. Anche Turuzzu, che in dono al Bambino, la notte di Natale, non porta niente. (gsc)


LA NOTTE DI NATALE (da Terra Santissima)

Una notte d’inverno, fredda e scura, tre bambini, tutti figli di pastori, s’incamminarono sotto la luce grande di una stella, che se ne stava a brillare sfavillante in mezzo al cielo, più di tutte le altre, sopra di un vecchio paese, tenuto di peso sopra la schiena della montagna come un nido di terracotta sopra una pietra. La cometa, portava verso il Bambino che gli angeli avevano annunciato quella notte di Natale. Chi portava una capra, chi una pecora e chi niente. Turuzzu non portava niente. Le sue mani, sporche di terra e di pianto, erano fredde e vuote. E si vergognava della sua miseria, l’orfanello della montagna. Era povero. Era nato al freddo e al gelo. Senza capre, né pecore né pane. Turuzzu non portava niente. Nemmeno il ricordo di una madre, il nome da pastore di suo padre.

Giunti alla capanna, i pastorelli si smarrirono la stella. Un Bambino, bianco e rosa, tutto ricciolino, se ne stava tra la paglia nudo, al seno di sua madre, con Giuseppe il falegname, un bue e un asinello,

al freddo e al gelo. Quanto era dolce, quanto era bella mamma sua!

Il pastorello ripensò a sua madre. Una madre che non ce n’era. I bambini, pastorelli uguali a lui, si chinarono a Gesù, e pure Turuzzu s’inginocchiò al cospetto del Bambino. Chi dava una capra, chi una pecora e chi niente. Turuzzu non dava niente. E quella madre, che cullava il Bambino tra le sue braccia belle, per accogliere i doni dei pastori, diede il figlio suo a Turuzzu che non portava niente. Turuzzu portava in braccio, caro mio, Gesù Bambino. 

Quella era la notte di Natale!”

 

(da Terra Santissima, di Giusy Staropoli Calafati, Laruffa editore, 2021)

Walter Pedullà: la politica può nutrire o soffocare la letteratura

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se per conoscere l’Italia bisogna conoscere l’Italia meridionale, allora è dalla voce del Mezzogiorno che bisogna lasciarsi affascinare. E di voci il Sud ne ha avute tante, e tutte brillanti ed eloquenti. 

L’Italia è nella sua vera identità che riscopre l’importanza del Meridione. Nella sua storia, il valore dei meridionali. I geni che con il loro pensiero hanno contribuito al elevare il valore sociale, politico e culturale del paese. Walter Pedullà è una voce geniale, sperimentalista dell’Italia letteraria del ’900. Allievo di Giacomo Debenedetti;  compagno di studi  di Carmelo Filocamo e Saverio Strati; Presidente Rai dal 1992 al 1993; professore di Storia della Letteratura moderna e contemporanea all’Università La Sapienza di Roma dal 1958 al 2005; Presidente del Teatro di Roma dal 1995 al 2001. Abile narratore e giornalista professionista. Pedullà traccia con la sua stessa vita, un percorso identitario esemplare, nella vita dell’Italia novecentesca e anche oltre. E si impone come voce narrante di un processo culturale e letterario, a cui il Mezzogiorno partecipa da protagonista, con i suoi più grandi esponenti. 

Da Corrado Alvaro a Saverio Strati.

– Walter Pedullà diventa testimonial ufficiale del primo piano italiano di ripresa e resilienza che, seppur inconsapevolmente, sono i giovani meridionali, che a partire dagli anni Settanta in poi, attuano, conquistando prima la laurea e poi il lavoro, entrambi con duri sacrifici e altrettante rinunce. Da Siderno è stata dura, ma non impossibile. Walter Pedullà in Calabria nasce, cresce e si forma. 

Quanto ha influito e come, la miseria culturale e la povertà umana della Calabria della sua adolescenza, nella sua formazione di uomo e intellettuale? 

«Grazie della presentazione, ma è troppo generosa e troppo impegnativa. Spero almeno di dare risposte sensate alle intelligenti domande. Non un testimonial, bensì un testimone oculare  delle vicende della mia regione dal 1930, quando aperti gli occhi ho visto la Calabria e me ne sono innamorato. Un amore che dura da 90 anni e che non diminuisce quando ne sto lontano.

«Dunque: la Calabria era socialmente la più povera regione italiana nel ventennio che comprende gli Anni Trenta e Quaranta, cioè il periodo che va dalla mia nascita in epoca fascista alla rinascita del secondo dopoguerra. Temo di farla troppo lunga, perciò mi affretto a dire che la spinta più vigorosa ci è venuta dalla ricchezza mentale. Ci dissero che la cultura sfama e noi sotto a gozzovigliare con libri di storia, di politica e di letteratura. I nostri genitori si indebitarono per mantenerci agli studi e noi li ripagammo diventando professori o  medici o ingegneri o funzionari statali o manager, pronti a trovar lavoro dovunque ci fosse, che fosse la Calabria, Roma o Milano».

– Avere la possibilità di studiare, vuol dire avere l’occasione di realizzare i propri sogni, avere le competenze di riuscire in qualcosa in cui si crede, e lei è riuscito. Ce l’ha fatta. Da calabrese e da studente pendolare. Con ostinazione e perseveranza. All’università di Messina è arrivato fin dentro l’aula del professore Giacomo Debenedetti. Lo considera un caso questo, o quell’incontro ha segnato il suo destino? Ci racconta com’è cominciato tutto e com’è andata a finire?

«L’incontro con Debenedetti avvenne per caso, ma sembrò  destino, che mi segnò. Nello stesso giorno ho conosciuto il professore di cui sarei stato il successore alla Sapienza di Roma e Saverio Strati, che sarebbe  diventato uno dei maggiori narratori italiani del secondo Novecento. “Andate ad ascoltare quel professore piemontese”, consigliò Saverio a me e a Filocamo, “mai sentito nulla di simile, parla di Svevo ma l’argomento è la letteratura mondiale”. Noi andammo e non ci saremmo mai alzati dai banchi. Era una magia, fu una malia. Fascinazione e devozione. Nella  facondia di Debenedetti la letteratura diventava  storia e scienza della materia, della psiche e della parola scritta».

– Le amicizie e gli incontri fatti ai tempi dell’università, sono generalmente quelli che più di altri rimangono per sempre. Qual è l’incontro più bello fatto da studente ai tempi di Messina e che non ha mai dimenticato?

«Come dimenticare che Debenedetti mi avviò a un’avventura intellettuale inimmaginabile per uno studente la cui massima ambizione era diventare professore liceale di latino e greco? A Messina ho conosciuto Santo Mazzarino, il maggiore storico dell’antichità, che anni dopo a Roma avrei avuto come collega e amico. Nell’Università siciliana ho avuto come professori Galvano Della Volpe, il grande filosofo marxista che ha rivoluzionato l’estetica del XX secolo, e Lucio Gambi, che ci dimostrava quanta storia ed economia covano nella geografia».  

– In Italia chi conia medaglie, chi gloria. La letteratura del ‘900 conia il trittico delle lettere. Cos’è, chi include, e di che cosa si tratta esattamente?

«Non so rispondere in poche righe, il discorso sarebbe così ampio che il lettore girerebbe pagina. Ma faccia domande più facili, mi faccia vincere una medaglia. In quanto alla gloria, vedo piuttosto vanagloria, marchio del nostro tempo di neon e plastica».

– “Avevamo tra noi uno scrittore e non lo sapevamo”. Così inizia una della lezioni di Giacomo Debenedetti all’Università di Messina. A chi si riferiva esattamente? E perché?

«Saverio gli aveva dato in lettura i racconti che nel 1956 avrebbero formato la raccolta pubblicata con il titolo La marchesina. Io e Filocamo, che ne eravamo entusiasti, lo incoraggiammo a sottoporli al giudizio di Debenedetti, che era già uno dei maggiori critici nazionali in attività. Il responso fu positivo, e il Maestro dette in diretta l’annuncio: Saverio era un narratore maturo per la pubblicazione. Debenedetti lo segnalò a Vittorini impegnandosi a scrivere un’introduzione, che non accompagnò la raccolta per veri motivi. Il ’56 è un anno orribile per la politica progressista. Ci sarà una svolta, ma il talento di Strati non temeva le tempeste della storia: le avrebbe rappresentato con il suo linguaggio spugnoso o  prensile. Qualunque cosa scrivesse, era un racconto».

– Con Saverio Strati nasce un’amicizia che vi legherà per sempre. Chi era questo suo compagno di studi? Da dove veniva, e che cosa ricorda di lui in particolare? 

«Ricordo il viaggio in Italia grazie a un  biglietto circolare che con undici mila lire ci consentì nel 1954 di visitare Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Genova, Torino, Milano, Vicenza, Venezia, Trieste e ritorno. Una lettera di Debenedetti favorì l’incontro con Pampaloni, Fortini, Solmi, Vittorini, Diego Valeri e altri poeti e narratori tra i maggiori dell’epoca. I nostri bagagli erano pieni di libri d’arte con cui ci preparavamo all’incontro con la più celebre pittura, scultura e architettura della nostra tradizione. Passavamo da un museo all’altro, da uno scrittore all’altro. Erano tutti molto cordiali e incuriositi dai due viaggiatori calabresi. A Roma parlammo con Alvaro, che ci accolse con simpatia e stupore. Come se tornasse alla propria giovinezza. Aveva seminato e ora vedeva germogli  da coltivare. In quanto ai frutti, Strati ha portato a maturazione più di un racconto degno del Maestro di San Luca. Quell’incontro fu una lezione che non dimenticammo. E pensare che a parlare erano tre taciturni cui la parola usciva di bocca per estrazione».

– Quale valore attribuisce, il critico Walter Pedullà, all’opera letteraria dello scrittore Saverio Strati? Potrebbero i suoi libri, letti nelle scuole, ritornare a ragazzi e docenti, il valore dell’identità? Potrebbe essere questa un’opera urgente da fare, volta a riesumare i valori perduti della società moderna?

«Ho recensito tutte le sue opere dal ’59, anno in cui ho esordito come critico di  giornale e titolare della rubrica letteraria per il settimanale Mondo Nuovo e dal ’61 al ’93 dell’Avanti. Ho scritto l’introduzione al Nodo, da editore ho pubblicato per Lerici suoi libri di favole, gli ho affidato la cura del volume dedicato a Basile nella collana di classici italiani da me fondata e diretta “Cento libri per mille anni”, l’ho aiutato a vincere parecchi premi letterari. Contava più dell’amicizia fraterna la stima per un narratore che non riguarda solo la Calabria o soltanto il Sud. Due suoi romanzi, Tibi e Tascia e Il selvaggio di Santa Venere sono dei capolavori. Memorabili fra gli altri buoni sono  La marchesina, Gente in viaggio, Noi lazzaroni. Il canto, la fiaba, la conversazione, l’ira e l’angoscia. Uno che trasformava in lirica il dialogo con la gente. Il selvaggio di Santa Venere è il romanzo espressionista in cui brilla la cifra stilistica che lo colloca accanto ai maggiori narratori dagli Anni Cinquanta ai Settanta ma è Tibi e Tascia l’opera toccata dalla grazia. Da leggere nelle scuole? Spero che lo facciano già. Lo ha fatto di persona Saverio Strati, che girava la Calabria per leggere e spiegare le proprie opere. Saverio rompeva il silenzio solo per parlare di letteratura, con netta preferenza per la propria. Era cosciente del proprio valore e non si nascondeva sotto una falsa umiltà».

– Sul Gazzettino dello Jonio del 1953, lo scrittore Francesco Perri, annota come in tanti studi panoramici, inchieste, dibattiti e consuntivi critici riguardanti la narrativa del Novecento, i nomi e le opere degli scrittori calabresi sono completamente ignorati. Da allora nulla è cambiato. E la Calabria, continua a rimanere indietro anche rispetto la Sicilia di Verga e  Pirandello. Perché? È forse colpa di una genialità malamente espressa, non compresa? O è semplicemente colpa dei luoghi in cui “sfortunatamente” nasce?  Cosa bisognerebbe fare per riportare l’attenzione della letteratura, e non sulla Calabria, ma sui calabresi che sono stati autori di grandi capolavori letti e tradotti in tutto il mondo, e con una forte influenza nella letteratura italiana del ‘900?

«In effetti Perri era un narratore calabrese dimenticato proprio in quel decennio di neorealismo che il suo romanzo maggiore aveva anticipato. Emigranti l’ho ristampato io negli Anni Settanta per le edizioni Lerici. Nel ’53 tuttavia Alvaro era al vertice della gerarchia letteraria nazionale, Einaudi pubblicava opere di Seminara e La Cava. De Angelis era un autore noto, stimato e recensito. Repaci redigeva la graduatoria  dei valori artistici  attraverso il Premio Viareggio. Strati pubblicherà i suoi testi con Mondadori, Mimmo Gangemi pubblica con Einaudi. Abate, don Luca Aprea, Fortunato, Guarnieri, Occhiato, Guerrazzi, Bonazza, Adele Cambria, Familiari, Carbone, Mario Strati, Altomonte, Lazzaro, Comandè e Criaco hanno avuto come editori Mondadori, Bompiani, Rizzoli, Feltrinelli, Marsilio, Sellerio, Rubbettino, Dedalo, Gangemi  e Rusconi. Nessuno ti regala niente, quanto chiedi te lo devi meritare, e questi nostri corregionali così hanno fatto. A noi non mancano gli autori, bensì i lettori. Forse siamo la maglia nera nella corsa all’acquisto di un libro, cosa di cui risentono gli scrittori calabresi. Non è un caso, è storia: quando si accende la questione meridionale, l’attenzione dei lettori italiani ed europei si indirizza al Sud. È successo col verismo nell’Ottocento  e col neorealismo nel Novecento, poi si entra in zona d’ombra, che per i meridionali è la regola. La storia dobbiamo crearla noi e narrarla col linguaggio che la rende diversa dalle precedenti. Se il linguaggio non va a trovare la storia in incubazione, deve essere la storia ad andare a trovare il linguaggio adatto. Ce l’abbiamo noi una storia da raccontare al resto del mondo ? Tiriamola  fuori: non manca la genialità agli eredi di Campanella e di Alvaro. Aspettiamo il salto strutturale dal quale si vede che il Sud è un punto cardinale basilare della vicenda umana. Talvolta basta cambiare prospettiva per constatare che non abbiamo saputo cogliere l’occasione».

– Ci sono narratori e poeti come Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava, Raoul Maria De Angelis, Fortunato Seminara, Francesco Perri, Leonida Repaci, Franco Costabile, Lorenzo Calogero, che hanno almeno un libro necessario per intendere all’italiano cosa è il Sud e cosa l’Italia. Perché allora nessuno di questi autori viene mai consigliato dai programmi ministeriali, non viene studiato  a scuola, e nessuna antologia scolastica ne riporta alcuna opera?

«L’Italia ha molti scrittori ma sono pochi i posti in un’antologia scolastica. Le antologie sono tendenziose e forse ci sono casi in cui ha pesato la prevenzione antimeridionalista. La congiura ai danni degli autori calabresi non la vedo. Una volta Alvaro era onnipresente magari col celebre incipit di Gente in Aspromonte che recita “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte…”. Ora non so, dovrei documentarmi. Comunque non mi scandalizzerei se mi si dicesse che i professori calabresi hanno boicottato le antologie che per manifesta ostilità o indifferenza o ignoranza escludono autori della nostra regione. Non farei per ritorsione un’antologia che penalizzi scrittori settentrionali meritevoli. È pur sempre letteratura italiana, la spartizione fra regioni sarebbe paradossale. Noi calabresi amiamo Gadda non meno di Alvaro e Calogero.

– La letteratura salverà la Calabria. Una mia provocazione che sarebbe bello diventasse realtà. In fondo una buona politica nasce anche delle idee dei pensatori, dei grandi intellettuali, e dagli uomini con forti valori morali e identitari. Se è sul sapere che si giocano il presente e il futuro delle generazioni, la letteratura potrebbe essere la chiave di volta essenziale in grado di permette a una società miope di ritornare a vedere? A una classe politica e dirigente inetta, di ritornare ad agire? E potrebbe impedire a una società civile anche solo di pensare che vivere rettamente sia inutile?

Aderisco volentieri al vaticinio, profezia o auspicio che sia e condivido le motivazioni  politiche e morali, ma come arrivare a sentenza? Certamente non con la vecchia letteratura, che ha fatto molto nel trentennio dagli Anni Quaranta ai Settanta, cioè neorealismo, neosperimentalismo e nuovo realismo. Nuova letteratura significa nuova scienza e nuova antropologia, insomma una nuova cultura. Non basta la nostalgia, cioè il passato come futuro, cosa che la storia non accetta. Servirebbe una nuova moralità,  ma non  è aria. Qui torniamo al caso: per avere una nuova letteratura ci vuole un’imprevista iniziativa della vita. La paura, la disperazione, il senso di soffocamento? Vedo invece troppa euforia. Non sarà che ci piace questa paralisi che sembra pace ma è stagnazione? Teniamoci comunque  in disponibilità e alleniamo le idee e le parole. Epoche che parevano sterili erano invece incinte

– De Sanctis definiva la letteratura l’’insieme delle opere variamente fondate sui valori della parola e affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà, a un’epoca o a un genere. Ad essa viene infatti affidato il compito di ricostruzione e/o  d’indagine storico-critica di un popolo. E la Calabria rischia di andare perduta, se il resto del paese non si ritorna ad innamorare e al più presto della sua storia, della sua arte, ma soprattutto della sua letteratura. Il processo con cui da anni viene indebitamente ignorato il  pensiero dei grandi autori calabresi, priva l’Italia e le nuove generazioni di studenti, di una formazione completa, che non penalizza esclusivamente il capitale umano della scuola del Sud, ma quello di tutta la nazione. Perché si continua a negare alle nuove generazioni, l’occasione straordinaria di un mondo visto da sotto? A chi può giovare il disorientamento culturale di un paese intero?

«La domanda è già una potente risposta con la forza della passione intellettuale e con l’energia che, cara Giusy, alimenta le sue battaglie culturali, tutte ispirate dalla necessità e urgenza di un intervento politico  consapevole della gravità del momento storico. Mi auguro che il suo entusiasmo contagi migliaia di calabresi, tanto più se esso aiuta a individuare gli obiettivi da perseguire con coraggio,  tenacia e realismo. Sia visionario: la vista non basta».

– Un popolo per capirsi veramente deve conoscere i suoi artisti, altrimenti rimane indietro, diceva Saverio Strati. Ma cosa intendeva esattamente? E potrebbe essere questa una soluzione alla società liquida di Bauman, in cui anche il Sud ormai viene fortemente coinvolto? 

«Non basta la ragione dei pensatori e nemmeno le scoperte della scienza, ci vuole la fantasia degli artisti per rompere il cerchio che imprigiona la mente dei cinici. Serve audacia con spirito di sacrificio per andare “oltre la realtà”, come proponeva Corrado Alvaro ai suoi contemporanei. Oltre che sui mutamenti precari, tocca insistere sui principi fondativi che risultano insostituibili per ogni progressista. Un po’ di liquidita fa bene alla tolleranza, ma se è troppa ci si annega. Non tutto il passato merita di essere affogato. La memoria mi aiuta ricordandomi che le condizioni sociali della mia remota Calabria erano vistosamente peggiori della Calabria attuale. Le grandi battaglie hanno obiettivi massimi, ma solo così si realizza  la metà del totale desiderato».

– A maggio 2021, la sottoscritta, quale promotrice del progetto “Studiare gli Autori Calabresi a Scuola”, ha fatto pervenire al Ministero della Pubblica Istruzione, nella persona del Ministro Patrizio Bianchi, un manifesto pubblico (senza alcuna risposta), sottoscritto da vari esponenti della cultura e della società civile e del mondo della scuola italiane, con cui si chiede venga consigliato lo studio degli autori calabresi a scuola. Walter Pedullà potrebbe essere il testimone di questa battaglia. Cosa ne pensa professore? 

«Il protezionismo non mi piace e tuttavia giudico legittima la proposta di far leggere nelle scuole calabresi il romanzo o saggio di argomento e autore calabrese. È l’occasione per riflettere sulla società che lo studente ha sotto gli occhi. Potrebbe venir voglia di cambiarla, come succedeva a noi dopo la caduta del fascismo. L’amore per le differenze evita le ripetizioni di cui si nutrono i fatalisti, questi conservatori. Facciamo capire che i nostri narratori parlano di Calabria perché l’Italia intenda». 

– Lei scrive tutto un libro sui narratori meridionali del ‘900, Il mondo visto da sotto, edito da Rubbettino. Cosa si sentirebbe di dire, da parte sua, al Ministro, affinché valuti, unitamente alla mia proposta, l’idea di consigliare ai docenti italiani, di studiare accanto a Verga e Pirandello anche Corrado Alvaro e Saverio Strati? Quali valide ragioni presenterebbe affinché l’Italia attui e finalmente questa sorta di riforma culturale e anche geografica?

«Naturalmente la coppia siciliana Verga-Pirandello è più forte di quella calabrese, ma mentre i primi due sono molto noti e letti in ogni regione italiana, Alvaro e Strati non sono letti molto nemmeno in Calabria. Perciò largo alla coppia calabrese! Spero che la sua proposta sia una profezia post eventum. Anzi credo di aver letto antologie che contengono testi  di Verga e Alvaro. Noi dobbiamo limitarci a combattere perché Strati li raggiunga dove svettano. Vedo che Rubbettino ha già pubblicato alcuni volumi dell’opera omnia. Chissà che se ne accorgano gli italiani, ma siamo certi che  i l calabresi stanno facendo il loro dovere? Forse bisogna battersi non perché aumentino gli scrittori bensì i lettori». 

– Il Sud è una terra dura. La Calabria di più di molte altre. Quella che prima era la questione meridionale, oggi è rimasta solo una questione calabrese. Cosa un intellettuale come Pedullà, avrebbe ancora da proporre alla Calabria e all’Italia, per una ripresa unitaria?

«Troppo difficile rispondere per me, tanto più perché da decenni vivo lontano dalla Calabria, rivolgiamo la domanda ai calabresi residenti, ne sanno certamente di più. Magari le proposte che potrei fare ora l’hanno già respinte perché non puntuali e troppo generiche. Forse nessuno, non solo io, è in grado  di risolvere la questione sociale di una regione incapace di tenere il passo delle altre regioni meridionali. Mantenendo fede alla mia fama di sperimentalista, proporrei di tentare altre strade, quelle che nel resto dell’Italia hanno condotto a obiettivi sorprendenti. Io per esperienza so che i calabresi hanno tutte le doti di intelligenza, immaginazione e tenacia necessarie all’impresa. Le hanno dimostrate coloro che sono andati via, li possiedono i calabresi che sono rimasti giù. Si faccia attenzione a un allarmante  dato di fatto, se  è vero che la Calabria è rimasta isolata nel Sud. La questione calabrese ha  forse una peculiarità che chiede una reazione peculiare, unica, singolare? Domandi lei ai corregionali di spiegare come ciò possa succedere. Confessino, siano oggettivi, mettano tra parentesi fenomenologicamente i luoghi comuni, le lagne, gli alibi, lo scaricabarile e si riavvi il processo di ripresa dalla realtà effettuale. Secondo me, non ci diciamo la verità: ci vergogniamo di essere il fanalino di coda, ma intanto il treno parte senza di noi. Per favore: non diciamo che è solo colpa degli altri».

– Fosse rimasta solo un’ultima occasione di ripresa per il Sud, quale potrebbe essere? La Calabria da dove dovrebbe ripartire?

«L’eco risponde partire, partire e di nuovo partire. Deve partire da se stessa, anche nel senso di sapere spendere meglio i finanziamenti governativi. L’Europa è un’occasione non solo per chi volesse trovare lavoro comunque ma anche perché oggi sostiene concretamente gli investimenti produttivi. Questo è un treno da non perdere. Altrimenti c’è quello che trasporta emigranti».

– Ne Il mondo visto da sotto, scrive che è proprio nei momenti in cui la politica ha perso la strada che l’ha resa un fattore di rinnovamento e di sviluppo la letteratura chiede di dire la sua, rivolgendosi direttamente alla vita. Cosa significa esattamente? Quale ruolo essenziale ha dunque la letteratura nella società civile e in quella politica? 

«Storia lunga e annodata, mi limito ad accenni, stiamo parlando di una questione centrale della modernità, il cui inizio potrebbe essere l’illuminismo, che è il padre di una letteratura capace di fare una rivoluzione politica e sociale. La politica può nutrire o soffocare la letteratura, ma succede anche il contrario. Nel Novecento c’è stato un patto d’acciaio redatto dalle avanguardie futuriste, che furono fasciste in Italia e comuniste in Russia. Si parlò di estetizzazione della politica e di politicizzazione dell’arte. Quando domina la politica, la letteratura adegua realisticamente il linguaggio al suo scopo pratico, quando la politica fallisce, è la letteratura a creare i linguaggi capace di cogliere realtà in formazione. Il problema è più complesso di così, ma per essere più concreti diremo che oggi la politica latitando lascia l’iniziativa alla letteratura che si è liberata di lacci ideologici e di catene partitiche. Manca oggi una politica dell’arte e pullulano le invenzioni individuali che miniaturizzano la realtà sociale e morale. Che fare? Hegel consigliava: andiamo avanti e alla fine del viaggio vedremo dove stavamo andando». 

– Se con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si muore.  Investire sulla sanità è un diritto e un dovere; investire sui trasporti e sulle le infrastrutture, è necessario. Investire sulla cultura, salva il presente e garantisce il futuro. In Calabria l’industria cinematografica nell’ultimo tempo è decisamente in crescita, tanto da essere un settore innovativo su cui puntare. L’unico capace di racchiudere in sé la magia dell’arte, l’importanza della cultura e il valore della progettualità. Se il cinema calabrese, pensasse di avviare un progetto in grado di associare alla forma d’arte cinematografica, quella letteraria, proponendo pellicole volte a raccontare, con qual si voglia tecnica innovativa, in termini di narrazione, le opere scritte dai grandi autori del ‘900, inclusa la vita e le vicende, attraverso le quali proiettare una Calabria finalmente protagonista e non più figurante nella storia italiana,  potrebbe secondo lei essere un trampolino di lancio, da cui far tuffare la Calabria direttamente in Europa? Potrebbe essere questa una proposta di rilancio, non semplicemente dei luoghi come comunemente accade, ma della grandezza di quella Magna Grecia a cui a tutt’oggi apparteniamo, e da cui, diceva Saverio Strati, prima o poi qualcosa di buono sarebbe dovuta venire fuori?

«Non ho nulla da aggiungere, anch’io sono un ottimista, credo nel futuro della Calabria. Chiamo a testimoniare il suo passato, l’ho visto al lavoro. Ha fatto miracoli».

– Walter Pedullà di giovani ne ha formati tanti, e molti degli studenti presenti alle sue lezioni saranno stati senz’altro meridionali. Cosa vorrebbe dire oggi, professore, ai giovani di questo tempo nuovo, lei che ad appena 91 anni, ha  dentro di sé la storia italiana come il cuore nel petto?

«Essendo un professore, faccio il professore. Perciò a loro dico: studiate, studiate, studiate. Naturalmente l’invito non è a studiare solo la letteratura, anche se è il necessario  supporto di ogni arte e mestiere. Fa bene studiare ciò per cui uno ha vocazione, che è uno stimolo possente a crescere sulle doti naturali. E meglio ancora fa studiare discipline che offrono prospettive reali di occupazione, le scienze fisiche. Siano concreti, studino, si aggiornino i poeti, i pittori, i musicisti confrontandosi col mondo che cambia fatti, tecniche e lingue. E studino i medici, gli architetti, gli ingegneri, i farmacisti: i saperi invecchiano trattando come scienza efficace terapie mortali. A 91 anni io studio per impedire alla mia cultura di dare risposte fasulle. Ogni anno muoiono verità culturali che parevano eterne». 

– Dovesse consigliare un libro di letteratura a un politico, per salvare la Calabria, quale sceglierebbe? E per Salvare l’Italia? E a un giovane calabrese per consentirgli di salvarsi da solo?

«Ripartiamo? Ripartiamo  dalla scuola, magari chiedendo aiuto a nuovi  maestri. Ricordarsi di cambiare i vecchi  Maestri». 

Grazie, professore. Grazie per questa meravigliosa ed esclusiva intervista, che pur trattando la Calabria e i calabresi, racconta una storia universale. Grazie per avermi dato la possibilità, con le sue riflessioni, di ricordare a me stessa e agli altri, che non c’è speranza per il futuro se non ci diciamo la verità sul passato.

Gianni Versace, il reggino più famoso al mondo

di PINO NANO – Gianni Versace nasce a Reggio Calabria il 2 dicembre del 1946. Oggi avrebbe compiuto i suoi primi 75 anni. Se non fosse morto prematuramente, e fosse invece ancora tra di noi, non avremmo pensato due volte a dedicargli una delle nostre copertine. Ma l’altra sera Santo Strati mi sveglia e mi chiede un pezzo sul famoso stilista reggino. “Pino, ma perché non gli dedichiamo una delle nostre cover? È vero, lui non c’è più, ma la sua storia personale è ormai nei fatti il vero grande Molok della moda in tutto il mondo”. 

Una favola moderna quella di Gianni Versace, e del suo impero, della sua infanzia e della sua famiglia, Gianni Santo e Donatella, testimoni del nostro tempo in tutti i sensi possibili e immaginabili, ma soprattutto testimoni autentici e dichiarati di una “Calabritudine” senza tempo e senza confini spaziali. 

La loro è una favola bellissima, che alla fine si trasforma in tragedia, quasi una sceneggiatura cinematografica perfetta, attentamente studiata e costruita a tavolino per emozionare, coinvolgere, avvolgere, appassionare, e impazzire. Dentro questa storia c’è proprio tutto, la vita, la morte, la speranza di un mondo migliore, la costruzione di un progetto a prima vista impossibile, i sogni di intere generazioni di stilisti italiani, la crisi economica del Paese, la rinascita italiana, l’affermazione del made in Italy, e poi ancora la tradizione, il rispetto, l’onore, e l’innovazione di una terra come la nostra, la Calabria, dove tutto scorre molto lentamente e anni luce dagli algoritmi delle nano tecnologie. Illusioni, delusioni, malinconie, solitudini, lutti e resurrezioni, riscatti e rancori, rabbia e dolore, fatica e successo, amore e odio, amicizia e legami familiari indissolubili e atavici. 

Gianni Versace, e la sua dinastia, è tutto questo, ed altro ancora.

L’uomo sembrava imbattibile, invincibile, inossidabile, quasi immortale, attorniato sempre da donne bellissime, top model che hanno segnato la vita di quasi un secolo, donne che lui guardava e trattava con un garbo estremo, quasi con soggezione, perché le considerava creature leggiadre e ideali per dare corpo vita ai suoi tessuti e ai suoi abiti di alta moda più belli. Donne da amare in passerella, donne da difendere, donne da rispettare, donne da preservare, donne del cuore. Era questa la sua filosofia più intima. 

Donne come sinonimo di purezza e di bellezza insieme. 

Gianni Versace dunque e le donne, un legame fortissimo, indissolubile, quasi magico, ma lo era perché tutta la sua vita in realtà era stata fortemente condizionata dalle tre “femmine” di casa Versace.

«Le mie tre donne di riferimento – diceva – erano mia madre, perché, al di là di qualche incomprensione legata al fatto che ogni madre è gelosa del proprio figlio, è stata la mia maestra. Mia madre mi ha aiutato a capire la moda. Poi mia sorella Donatella, perché mi dà un formidabile aiuto ad andare avanti, insieme a suo marito, Paul Beck. Infine, la loro bambina, Allegra. Allegra di nome e di fatto, perché in lei, nel suo senso estetico già sviluppatissimo, intravedo fin da ora il futuro». 

Gianni e le donne di casa, dunque. Gianni e sua madre, soprattutto.

«Mia madre, nata a Reggio Calabria nel 1920 – racconta suo fratello Santo Versace in una intervista rilasciata nel 2006 a BusinessPeople – voleva fare il medico, ma nel 1930, dopo aver conseguito la licenza elementare, mio nonno le disse: «Cara Francesca, basta andare a scuola, perché nella scuola ci sono gli uomini e non è un luogo per bene. Adesso vai a imparare un mestiere». E lei si scelse quello di sarta, andando a bottega dalla “parigina”, che era una sarta che aveva lavorato a Parigi. Prima della Seconda guerra mondiale aprì il suo primo negozio. Gianni nacque nel 1946, io sono del ’44, Donatella del ’55, Tinuccia, morta a dieci anni, del ’43. Vivevamo in via dei Muratori a Reggio Calabria dove c’era il laboratorio della mamma. Sembra un destino segnato: se mio nonno avesse mandato mia madre a scuola forse Gianni non sarebbe diventato un genio della moda. Tutta colpa, anzi tutto merito del nonno! Gianni ha da sempre respirato quest’aria, mentre io respiravo quella di mio padre, commerciante e atleta di valore: ciclista e corridore con diverse vittorie all’attivo ma anche calciatore nella Reggina in serie C».

Era questo il mondo vero di Gianni Versace, il suo “piccolo mondo antico” che lui custodirà nel suo corpo per tutto il resto della sua vita.

«Nostra madre – ha ricordato la sorella Donatella a Silvia Nucini di Vanity Fair – era una donna che veniva da una famiglia povera. Aveva sposato un uomo ricco ma si è data talmente da fare che, grazie alla sua sartoria, è diventata più ricca e più importante di lui. Ogni matrimonio da Roma in giù era suo. Faceva l’abito alla sposa, e a tutte le altre invitate. Così, di matrimonio in matrimonio, ha iniziato ad aprire boutique, a girare per comprare i tessuti, è diventata anche amica di Karl Lagerfeld. Ricordo però che tutte le mamme dei miei amici li accompagnavano a scuola, e lei non c’era mai. Mi mancava. E anche se era una donna calabrese dell’inizio del Novecento, mi diceva sempre: non pensare al matrimonio. Perché se credi che un marito ti possa risolvere la vita, hai sbagliato tutto. Ma questo mi ha reso una donna caparbia, e ha reso forti tutti noi».

Ai suoi amici più cari Gianni non faceva altro che ripetere quello che poi diventerà il suo slogan più eccentrico e forse anche più romantico.

«Non sono mai caduto – diceva – Ho sempre volato». 

E così poi è stato. 

Ma aggiungeva: «Io non sono un disegnatore di moda. Sono soltanto un sarto. È questo il mio vero mestiere. I vestiti li so tagliare e cucire, cosa questa che non tutti però sanno fare».

È suo padre Antonio a regalargli il suo primo biglietto di ingresso a teatro della sua vita. Gianni è ancora un bambino, ma i colori del Cilea di Reggio Calabria colpiscono la sua immaginazione e la sua fantasia.

“Insieme padre e figlio – ricostruisce Esquire, la rivista maschile statunitense, fondata da David A. Smart e Arnold Gingrich nel 1933 – vanno a vedere Un ballo in maschera al Teatro Cilea, e sebbene Gianni sia ancora troppo piccolo per apprezzarne il contenuto, rimane affascinato dal contorno, dalle poltrone rosse, dalle signore eleganti, dai costumi colorati e maestosi. Tornato a casa raccoglie ritagli di tessuto e realizza dei burattini che fa muovere nel teatro della sua fantasia. Una immagine destinata a diventare realtà nel 1982 durante la stagione di balletto del Teatro alla Scala a Milano, quando accetta di disegnare i costumi per Josephslegende di Richard Strauss, la scenografia curata da Luigi Veronesi». 

Reggio fortissimamente Reggio, insomma. Reggio Calabria, la città che Gianni Versace ha amato per tutto il resto della sua vita, nonostante poi si sia trasferito prima a Milano e poi in America, lui cittadino del mondo, ma apolide dovunque, con la sua Reggio nel cuore…

«Nel 1959-60 convinse mia madre a vendere anche gli abiti confezionati, oltre a quelli su misura. A neanche 14 anni – ricorda Santo – aveva già capito che si andava verso quel tipo di consumi. Insieme al talento di stilista dimostrava di avere anche il senso del mercato. Poco dopo la convinse ad aprire il negozio che c’èra in via Tommaso Gulli. Cominciò a farsi conoscere nell’ambiente. Un produttore di Martinafranca, in Puglia, capì subito che Gianni aveva talento e cominciò a commissionargli alcuni abiti. A quell’epoca i produttori erano pochi e si conoscevano tutti tra loro, perché era un’industria che stava nascendo. Negli anni ’60 Renato Balestra mandava a Gianni gli schizzi delle nuove collezioni e si confrontava con lui, un rapporto più di amicizia che di lavoro». 

Il mondo “fantastico” di Gianni Versace era tutto quello che in realtà ruotava attorno a lui. Sembrava, il suo, un mondo quasi irraggiungibile, un satellite senza meta, che avevo perso la sua traiettoria inziale, un’isola abitata da vip, nomi altisonanti, grandi titoli sui giornali, mega show, rassegne internazionali di ogni tipo, concerti, interviste, teatri sempre pieni, eleganza, glamour, suggestioni mediatiche di ogni genere, e soprattutto grandi artisti estrosi e geniali eternamente per casa, come solo lui sapeva circondarsi. 

La sua vita è stata attraversata e percorsa dai ritratti e dai manifesti dei grandi fotografi di tutti i tempi. Da Richard Avedon a Helmut Newton, da Irving Penn a Bruce Weber, da Herb Ritts a Doug Ordway, a Steven Meisel. Ma anche dalle top model più famose del mondo. Erano gli anni delle Fab Four, da Linda Evangelista a Naomi Campbell, da Claudia Schiffer a Christy Turlington, da Carla Bruni a Stephanie Seymour, da Cindy Crawford ad Helena Christensen, da Yasmeen Ghaur a Karen Mulder a Nadja Auermann.

«Quando hanno incominciato a posare per noi- raccontava spesso Gianni Versace – erano solo delle ragazzine. Christy Turlington, per esempio, una sera mi chiese, “Posso portare con me un’amica?”. Quell’amica era la giovanissima Naomi Campbell».

“L’imperatore dei sogni”, titolò il New Yorker pochi giorni dopo la sua morte. 

«Gianni – ricorda suo fratello Santo –  era davvero venerato come un imperatore. Ogni angolo del mondo lo ha pianto perché lui ha rivoluzionato il modo di pensare la moda. Era un artista a tutto tondo, e non solo uno stilista. Ha disegnato abiti per il teatro, per l’opera, era questa la sua autentica passione. E poi c’era la casa. La “home collection”, perché chi compra Versace ne deve restare avvolto. Ci si deve svegliare, deve viverne lo stile, lo deve respirare, ne deve acquisire il modo di pensare. Questo ci ripeteva Gianni continuamente. Mi diceva sempre anche sorridendo: “‘Non preoccuparti io continuerò a disegnare stracci”. Ma lui è sempre stato oltre, avanti. D’altronde è così che il suo talento ha trovato la luce: Era troppo luminoso per non venire fuori».

Successi dopo successi, trionfi dopo trionfi, Versace diventa un must in tutto il mondo. Dovunque e comunque si parla di lui e dei suoi colori sgargianti, delle sue figure mitologiche, delle sue meduse, dei suoi tessuti, dei suoi abiti d’alta moda, della sua raffinatissima e  sfrontata genialità nel vestire sia donne che uomini. 

A dicembre del 1997 viene inaugurata al Metropolitan Museum of Art di New York la “Grande Esposizione Gianni Versace” e fu un trionfo planetario. Nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo. L’esposizione, curata da Richard Martin, è la prima vera retrospettiva dedicata alla carriera dello stilista italiano dopo la sua morte, in mostra ci sono oltre cinquanta abiti tratti dalle sue collezioni più sofisticate e dalle sue continue collaborazioni teatrali. 

Alla serata inaugurale – riferisce la stampa newyorkese – partecipano quasi tremila persone. Molti intervengono per salutare lo stilista calabrese e per tessere le sue lodi, indimenticabili e superbe le testimonianze di Anna Wintour, celeberrima direttrice di Vogue America, quella di Franca Sozzani direttrice di Vogue Italia, dello stilista Karl Lagerfeld, del grande coreografo francese Maurice Béjart, dei suoi amici cantanti Elton John, Sting e la moglie di Sting, Trudie Styler, di Cher, e infine delle sue top model preferite, Naomi Campbell, Eva Herzigova e Valeria Mazza. 

L’anno successivo, nel giugno del 1998 viene inaugurata in Italia, a Como, la mostra “Gianni Versace, La reinvenzione della materia”, rassegna imponente sotto tutti i profili, divisa in due sedi separate, Villa Olmo e la Fondazione Ratti. Nella prima sede, a Villa Olmo, vengono esposti 120 abiti di tutta la carriera dello stilista, “illustrati” ed esposti – ricorda Santo Versace – in un percorso espositivo che raggruppava le creazioni in modo tematico e non cronologico.

Dall’altra parte invece, nella prestigiosissima Sede della Fondazione Ratti, vengono esposti, sempre in un percorso diviso per temi, alcuni dei materiali e dei tessuti che lo stilista utilizzava per le sue creazioni. Per la prima volta questi “materiali” che Gianni usava sin da ragazzo vengono qui affiancati dalle immagini delle campagne pubblicitarie e dei cataloghi degli abiti poi realizzati e che hanno raccontato il mito-Versace in tutti i continenti.

Ma fu tale il successo di questa nuova rassegna a lui dedicata che venne poi replicata nel 1999 al Museum of Modern Art di Miami, diventato oggi uno dei tempi sacri dell’arte moderna in tutto il mondo.

Sono i corsi e ricorsi della storia.

I suoi idoli preferiti erano i grandi maestri della pittura contemporanea, da Picasso a Kandinsky, ma anche della composizione e dell’allestimento, da Bob Wilson a Erté, da Pierre Le Pautre a Jean Bérain, la stessa architettura di Petitot lo avvolgeva e lo affascinava. Fino ai grandi maestri della canzone e della musica internazionale, da Elton John a Eric Clapton, a Sting.

L’amore tra Gianni Versace e Elton John, in particolare, amore che andava inteso esclusivamente come ammirazione viscerale dell’uno vero l’altro, nasce per caso, sull’orlo quasi di un incidente diplomatico che Elton John ricorda ogni qual volta gli si chiede di Versace.

«Una domenica a Woodside, depresso e strafatto, scrissi un brano strumentale che rifletteva il mio umore, cantandoci sopra un unico verso: ‘Life isn’t everything’, “La vita non è tutto”. L’indomani mattina seppi che un ragazzo di nome Guy Burchett che lavorava per la Rocket (la casa discografica di proprietà di Elton, ora chiusa) era morto in un incidente di moto quasi nello stesso momento in cui stavo scrivendo il brano. Decisi di intitolarlo “Song For Guy”, “Canzone per un ragazzo”. Non avevo mai composto nulla di simile: la mia casa discografica americana si rifiutò di pubblicarlo come singolo – mandandomi su tutte le furie –, ma in Europa fu una hit clamorosa. Anni dopo, quando conobbi Gianni Versace, mi disse che era la sua preferita fra le mie canzoni. Non faceva che ripetermi quanto la trovava straordinariamente coraggiosa. Secondo me esagerava un po’. Era insolita, certo, ma non l’avrei mai definita ‘coraggiosa’. Poco dopo scoprii invece che Gianni aveva capito male il titolo, “Song for a Gay”, “Canzone per un gay”».

Gli anni passano e Versace diventa sempre più famoso. Il suo nome diventa simbolo di una Italia che rinasce, e il suo marchio soprattutto diventa l’immagine forse più patinata ed esclusiva di un mondo, che è quello della moda italiana, e che grazie a lui non aveva eguali al mondo. Sono gli anni della Milano-bene, della Milano-internazionale, gli anni della grandi sfilate, dell’alta moda, del Made in Italy che conquista il mondo, gli anni in cui accanto a Gianni Versace crescono e diventano famosi ragazzi che come lui avevano incominciato dal basso, come Mariuccia Mandelli, Ottavio Missoni, Gianfranco Ferré, Laura Biagiotti, lo stesso grande grande Giorgio Armani. 

È quello che Gianni Versace chiamava il “Nuovo Grande Rinascimento Italiano”.

Indimenticabile una foto in bianco e nero di Claudio Luffoli, per AP Foto, che ritrae un Gianni Versace ancora giovanissimo, la barba incolta e nerissima, insieme agli stilisti Giorgio Armani, Valentino, Krizia e Gianfranco Ferré ricevuti al Quirinale dal presidente Francesco Cossiga, che consegnò ad ognuno di loro i massimi riconoscimenti istituzionali per il loro lavoro e il loro ruolo nel mondo dell’alta moda. Era esattamente il 24 gennaio 1986.

Gianni for ever, Gianni meravigliosamente Gianni, Gianni eternamente Gianni. La commozione di Santo nel ricordare il fratello scomparso è palpabile e immediata quanto mai.

«Nel ’78, io e Gianni, fondiamo, con Claudio Luti, la Maison Gianni Versace. Il 28 marzo 1978, Gianni presenta la prima collezione firmata con il suo nome e nasce un’icona alla prima sfilata al palazzo della Permanente di Milano, e il logo del brand. Una Medusa, che attira immediatamente il pubblico di tutto il mondo. Così mi trasferisco definitivamente a Milano. Anni pazzeschi, di lavoro e di dedizione assoluta al servizio della estrosità e del genio che albergava nel corpo di Gianni. Pensa che aveva vinto anche il cancro nel ‘94, e si sentiva invincibile. Nei prossimi anni, mi ripeteva in continuazione, finalmente ci divertiamo. Oggi mi manca lui, mi manca il suo genio. Ma Gianni manca alla moda, all’Italia. Manca a tutto il mondo».

Non a caso forse, ormai famoso amato ammirato e invidiato in tutto il mondo Versace “si diverte” investendo il suo immenso patrimonio in opere d’arte, e il collezionismo – racconta in una lunga intervista allo scrittore Mario Biondi – diventa la sua vera mission.

«Quando si guadagna molto, è facile che venga la tentazione di comperare, che so, un aereo o una grande barca. Io i soldi per cose del genere non li ho, ma in ogni caso penso sia meglio circondarsi di oggetti belli. Sculture romane, vasi etruschi, mappamondi., opere di orientalisti, lucerne d’argento. Mi diverto di più. E ora sto chiudendo il ciclo. Sto arrivando all’arte moderna. Sto facendo una collezione di opere di arte contemporanea realizzate su commissione per la Fondazione Versace. Opere di Pistoletto, Palladino, Cucchi, Warhol, Boetti, Santomaso, Schifano, Clemente, Arnaldo Pomodoro. Ciascuno di essi ha fatto un’opera idealmente o materialmente collegata con il mio lavoro. Di Pomodoro, per esempio, ho comperato alcune sculture realizzate per un lavoro che abbiamo fatto insieme in teatro. Palladino ha dipinto due mie ideali camere, quella da giorno e quella da notte, con dentro tutti i simboli che sa che amo. E così via. Io sono convinto che stia per presentarsi un nuovo rinascimento italiano. E perché ciò avvenga, deve rinascere il mecenatismo. Chi ha, deve mettersi a disposizione dell’arte. Dal canto mio, faccio quello che posso».

Tutte le sue case, almeno le tre case principali che Gianni Versace aveva e dove viveva regolarmente, tra Milano e Miami, erano diventate suo malgrado un meraviglioso museo d’arte moderna, e quando Mario Biondi lo va a trovare e trova la sua casa di Milano invasa di mappamondi rimane di sasso, ma Gianni Versace sornione sorridente ed eclettico come tutti i sognatori del suo mondo, gli racconta la favola bellissima della sua vita.

«Il mappamondo? Mi aiuta a sognare. Forse perché il mondo è una cosa talmente bella che mi piacerebbe possederla tutta, dal punto di vista visivo. Vedere, viaggiare, se fossi nato nell’antichità, come mi ha detto una volta Maurice Béjart, avrei fatto parte “della banda di Ulisse”. Sempre in giro. “Tu sei un amico di Marco Polo”, mi ha detto un’altra volta».

E alla domanda di BusinessPeople, “Vi aspettavate questo enorme successo”, Santo Versace risponde ancora oggi alla sua maniera, con questo suo sorriso disarmante e questa sua semplicità che è rimasta tutta intera calabrese, e meridionale, nella sua accezione più bella.

«Nel 1976 un amico mi disse: “Ma non ti basta quello che tuo fratello fa per gli altri marchi? Perché volete crearne uno vostro, con tutti i rischi che comporta?”. Gli risposi: “Guarda, se tutto va bene faremo meglio di Yves Saint Laurent”. Dirlo nel 1976 era una follia. La coscienza del nostro valore e il grande lavoro ci hanno poi permesso di raggiungere questo risultato. Quando presentammo la collezione uomo 1978 dicemmo agli amici della Genny e della Callaghan che Gianni avrebbe continuato a lavorare per loro sulla donna, ma sull’uomo avremmo fatto da noi. L’anno prima solo sull’uomo avevamo fatturato 700 milioni di lire. Il successo fu tanto grande quanto inaspettato, Nessuno dei fornitori si era preparato a quadruplicare il fatturato, per cui ci trovammo in difficoltà. Vendemmo 2 miliardi e 800 milioni di lire la prima stagione, ma non essendo attrezzati per produrlo, consegnammo meno del 70% dell’ordinato. Poi la crescita è stata esponenziale».

Il 15 luglio 1997 i giornali e le TV di tutto il mondo aprono i titoli di testa con una notizia che riporta in primo piano il nome di Gianni Versace, e che nessuno avrebbe mai voluto leggere. 

È una notizia di morte. Storia di una tragedia che si consuma a Miami proprio davanti alla villa in cui Gianni Versace viveva. Quella mattina di luglio, a Miami, Gianni Versace viene freddato sugli scalini della sua villa, “Casa Casuarina”, su Ocean Drive mentre stava tornando dal News Café a pochi isolati di distanza, dopo aver comprato i giornali del mattino. Ad ucciderlo, il giovane Andrew Cunanan, che nove giorni dopo l’omicidio viene ritrovato cadavere in una barca-abitazione a Indian Creek, “suicida” – dichiara la polizia americana- con lo stesso fucile con il quale aveva sparato a Versace. 

«La sua morte – ricorda il fratello Santo in una intervista rilasciata nel 2013 all’ Huffington Post – è stata un danno incalcolabile non solo per l’azienda. Per Milano, dove Gianni era il numero uno indiscusso. Per l’Italia intera che ha perso uno dei suoi geni assoluti e ha dovuto rinunciare alla nascita del primo Polo del Lusso, al quale Gianni e io stavamo lavorando prima di quel tragico 15 luglio del 1997».

Commovente il ricordo che ne fa la sorella, Donatella, a Paola Pollo sull’ultimo numero di 7 del Corriere della Sera.

«Dopo 20 anni, ho imparato a convivere, in automatico, con la sua assenza. All’inizio è stata dura, durissima. Ho vissuto il mio dolore sotto gli occhi del mondo, ma con il passare del tempo, soprattutto con il lavoro, ce l’ho fatta. Con la Tribute Collection, la collezione a 20 anni dalla morte di Gianni Versace, nel settembre del 2017, è stata una catarsi. È stata la svolta, e sempre davanti a tutti. Quel giorno in un certo senso ho affrontato i miei demoni, la perdita di Gianni, ma anche le mie insicurezze che mi bloccavano nel continuo confronto con mio fratello».

Miami e l’America non hanno mai dimenticato quella tragedia. 

Da allora ogni giorno, ancora oggi, a Miami centinaia di persone si fermano a fotografare l’ingresso del magnifico edificio che fu la casa di Versace, diventato dopo la sua morte un albergo extralusso.

Naturalmente, per Donatella e per suo fratello Santo – Santo sempre molto più riservato e più ritirato – “Gianni non è mai morto”.

«Lui è sempre nei miei pensieri- dice oggi Donatella –, in modo diverso rispetto ai primi anni, però c’è. Penso sempre a cosa direbbe sulle mie collezioni, il suo giudizio per me è importante, nonostante sia consapevole che non ci sia più. La gente non ha idea, se non quando lo prova, di cosa si attraversa quando perdi una persona che è la tua metà. Non sentivo più emozioni, nel bene e nel male, ero come intorpidita, ci sono voluti anni prima di ricrearle dentro di me, per vedere un orizzonte. E il dolore non passerà mai, ti adatti alla vita, ma quella cosa resterà per sempre».

Ma in realtà, anche per il resto del mondo, è come se Gianni non fosse mai morto.

Nel 1998 viene creato in suo onore il “Premio Versace Awards”, un premio in onore e alla memoria dello stilista, da assegnare durante i VH1 Fashion Awards alle personalità musicali “che avevano fatto dell’immagine e del costume una componente fondamentale della propria carriera”. E la prima grande artista mondiale a ricevere il premio è proprio Madonna. 

Due anni più tardi la regina della serata dedicata a Gianni Versace sarà invece Jennifer Lopez. Un tripudio di personaggi, di eventi, di manifestazioni e di location che fanno rivivere Gianni Versace in ogni momento importante della storia della moda e dello stile di ogni Paese.

Ma è solo l’inizio di tutta una lunga serie di carovane e di rassegne che dopo la morte dello stilista lo ricordano e lo ripropongono come icona dell’eleganza italiana nella storia internazionale della moda.

Santo Versace lo ricorda ancora con immensa commozione, ma alla fine la storia di Gianni Versace è anche la storia personale di Santo suo fratello e di sua sorella Donatella, storia di una dinastia ormai che sembra destinata a segnare ancora per tantissimi anni la strada maestra della moda.

Nell’ottobre del 2002 il “Victoria and Albert Museum” di Londra gli dedica una delle rassegne più complete dedicate alla sua attività. Con il titolo “Versace at the V&A” vengono esposti centotrenta pezzi diversi, rarissimi, selezionati direttamente della collezione privata di Gianni Versace, tra cui alcuni degli abiti di gala indossati nel tempo da Madonna, Lady Diana, che Gianni Versace adorava quanto sua sorella Donatella, e poi Elton John e l’indimenticabile mise con le spille da balia indossata da Elizabeth Hurley, accompagnati da foto e bozzetti originali dello stilista. 

A distanza di dieci anni dalla sua morte, il 15 luglio 2007, al Teatro alla Scala di Milano va in scena un balletto, ideato dall’amico Maurice Béjart, dal titolo Grazie Gianni con Amore, anche questo un trionfo di emozioni e di sentimenti che la stampa internazionale racconterà con toni enfatici e titoli di testa.

Un giorno Gianni capitò a Reggio Calabria e andò a cercare la sua vecchia sartoria al numero 13 di Via Tommaso Gulli, a due passi dal Duomo, e seduto davanti ad una tradizionale granita di caffè con panna si lasciò sfuggire quello che poi sarebbe diventato il suo vero testamento spirituale.

“Reggio è il regno dove è cominciata la favola della mia vita: la sartoria di mia madre, la boutique d’Alta Moda, il luogo dove, da piccolo, cominciai ad apprezzare l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, e dove ho cominciato a respirare l’arte della Magna Grecia”.

Gianni Versace, For ever. We love you. 

Leonzio Pilato, da Seminara al mondo i miti immortali

di SANTO GIOFFRÈ – Il 1° dicembre 1365, nella  baia di Venezia, muore Leonzio Pilato, il più grande studioso, intellettuale e letterato, mitografo meridionale  del Medioevo.  Nato a Seminara, verso il 1313.  Leonzio Pilato è il padre dell’Umanesimo occidentale. Mai, amor mi fu tanto caro!

Sigero, ambasciatore di Bisanzio a Venezia, comunica a Francesco Petrarca: “Leonzio Pilato, dopo aver tradotto la Fisica di Aristotele, decise di lasciare Costantinopoli.  Mentre si trovava vicino all’albero di trinchetto della nave, in vista del porto di Venezia, un fulmine lo uccideva. Fu allora, nel momento in cui la vita stava per abbandonarlo, che Leonzio raccolse le sue ultime forze e lanciò per aria i suoi preziosi codici per donarli agli Dei, perchè li custodissero e al vento tempestoso perchè li spargesse per il mondo. Io lo abbracciai, forte, ma Leonzio, ormai, apparteneva al mondo dei suoi amati Dei e, quando tentai di strigere la sua mano, udii il sospiro del vento sussurrare Irene, Irene…”

Fino a 40 anni fa, di Leonzio Pilato nulla si sapeva. Soffice piuma confusa, dal vento, tra le polveri di scarto. Francesco Petrarca, dicendo di Lui e del suo pessimo carattere di arcigno  greco meridionale, lo condannò alla damnatio memoriae, pur avendo visto, attraverso Lui, la luce della sapienza del mondo classico.

Allevato da Barlaam, secondo  Scuola e disciplina bizantina che regolava l’addestramento dei bimbi allo studio e alla traduzione dei codici antichi, si presume che Leonzio Pilato all’età di 7 anni, fosse stato addestrato da Barlaam a tradurre i codici classici dal greco in latino, come in uso nelle Scuole dentro i Monasteri Ortodossi. La prima notizia certa, su Leonzio adulto, ci viene riferita da Boccaccio quando apprende il significato del Mito di Proteo dalle parole di Paolo da Perugia, rettore della più fornita Biblioteca in Europa; quella  Napoletana di Roberto d’Angiò. Spiegazione che Paolo da Perugia aveva avuto da Leonzio Pilato, che a lui si era presentato come Auditor (allievo) del grande Barlaam. Ricordiamo, a chi mi legge, che Paolo da Perugia scrisse una grande opera sugli genealogia degli Dei le Collectiones.Ma pare, che, in effetti, gran parte della stessa opera fu scritta o dettata  da Barlaam. 

Come Leonzio Pilato scrisse gran parte dela Genealogia degli Dei Gentili che Boccaccio s’intestò. Dopo 10 anni che Leonzio era rimasto a Creta per perfezionarsi nella lingua greca, lo ritroviamo a Padova, il 5 dicembre 1358, straccione, senzatetto e mentre cercava l’elemosina in Piazza della Ragione, per mantenersi ai corsi di laurea presso lo Studium Padovano. Qui incontrò, perchè a Lui indirizzato, Francesco Petrarca, che era un Dio in terra e uno degli uomini più ricchi, egoisti, superbi e potenti di quel tempo. Petrarca, sapendo di questo straccione calabrese, (sporco, ostico, puzzolente, con i capelli in disordine, ma la più grande mente esistente nella conoscenza delle favole greche, come lo descrive, dettagliatamente, Giovanni Boccaccio nelle Genealogie,  libro XV) che recitava l’Iliade, in latino, dando consigli ad un avvocato per affrontare cause difficili, andò a trovarlo e gli propose di fare una cosa, mai tentata al mondo: la traduzione, dal greco in latino, dell’Iliade e dell’Odissea. Leonzio, pur riluttante, perche aveva in odio gli uomini col piglio padronale, accettò per fame e  con modesta mercede. Ma, poco durò il suo tempo col Petrarca! 

Per contrasti circa la sua tecnica antica di affrontare la Translatio, verbum de verbo, Katà podà, mentre Petrarca pretendeva la traduzione a senso,  arrivato alla traduzione del verso 3401 del V libro dell’Iliade, Leonzio, dopo l’ennesimo richiamo del Petrarca “fac citius, fac citius – fai presto, fai presto”, mandò, letteralmente affanculo, il Poeta Laureato. 

L’abbandonò, buttandolo nello sconforto totale perché, il Cantore di Laura, capì che, perdendo Leonzio, gli sarebbe venuta meno l’unica persona, in tutt’Europa, tra i traduttori, persino Bizantini di altissima cultura, capace di  maneggiare e tradurre i Poemi Immortali. 

Petrarca aveva e soffriva la pecca di non conoscere il greco e, da grande Intellettuale qual era, oltre ad essere sospettato  di finanziare  ladri e trafficanti di manoscritti, sapeva l’importanza, per lui, dell’entrare in possesso, prima di tutti gli altri al mondo, del fiume di notizie contenute nell’Iliade e nell’OdisseŒ. 

Fu Giovanni Boccaccio il quale, implorato da Petrarca, intercettò Leonzio Pilato sulla strada verso Avignone. Lo portò con sè a Firenze, facendolo mettere a stipendio dalla Repubblica Fiorentina come fondatore e insegnante presso la prima cattedra di Greco in Italia. 

Leonzio Pilato, tra il 1358 e il 1360, tradusse tutta l’Iliade e l’Odissea e l’Ecuba di Euripide. A Pisa, tradusse il Digesto, parte greca delle Pandette. 

Nel 1363, dopo un’ulteriore scontro con  Francesco Prtrarca, a Venezia, s’imbarcò per Costantinopoli dove, per campare, dava lezioni di greco ai giovani rampolli veneziani e tradusse la Fisica di Aristotele. 

Da un frammento ritrovato, risulta che Leonzio era un laureato. Cioè, a Padova, Leonzio Pilato raggiunse la massima onorificenza di studi, la Laurea. In Italia, allora, i laureati erano sì e no cinque.

Mario La Cava: una vita spesa per scrivere della Calabria

“…ho speso una vita per scrivere, per analizzare la Calabria, non so se bene o male; questo non tocca a me dirlo. Posso dire che ho fatto grandi sacrifici, sperando che questa terra potesse avere una sorte migliore, come credo che avrà“. (Mario La Cava)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Era Novembre. Per fortuna il 16 e non il 17, ma probabilmente non avrebbe fatto differenza.  Sapeva bene che quando la morte arriva non guarda in faccia né i giorni né i mesi né gli anni. Niente e nessuno. Ma ugualmente novembre sembrava essere un mese un po’ più modesto rispetto agli altri per compiere la dipartita. E per Mario La Cava andò proprio così. 

Il 16 novembre 1988, lo scrittore si spegneva nella sua casa di Bovalino, dove aveva trascorso la sua vita. Tra l’odore dei libri e quello dello Ionio. All’età di 80 anni, moriva il padre dei Caratteri del Sud. Intellettuale stimato dalla gente a apprezzato dalla critica. Uomo dal pensiero libero, da sempre impegnato nella lotta ai diritti civili. 

Sacrificio e abnegazione, legati agli anni duri di una Calabria povera, da cui però La Cava non fugge, anzi, appunta ogni cosa. Il dolore, la fame, il valore della terra, l’inettitudine umana. Una vita da scoglio in una Bovalino amatissima, ma che si scopre anche da mare aperto, nel racconto delle sue storie, dove La Cava viene fascinosamente sorretto dall’ardore della conoscenza. Gli anni di formazione, i viaggi, il rapporto con il resto del mondo. Uno scrittore che non falsa mai la sua identità, e resta uomo anche nei libri, rifacendosi a un’esistenza che non è mai agiata né ricca, né troppo ricercata. 

«Sono nato a Bovalino, un paese della Locride, sul mar Ionio, nel 1908. 

Sono uno scrittore ormai anziano, ma molto fortunato per aver vissuto così a lungo. Abbastanza fortunato se penso che i dispiaceri, i disturbi e le seccature che si hanno, non siano cose sempre perdute per l’animo umano. L’esperienza di dolore serve alla conoscenza. Ed io, alla mia età, non dico che mi rallegro di quello che è stata la mia vita, ma la posso accettare con notevole coraggio.

Scrivo. Ho cominciato a scrivere da giovane. La mia passione da principio è stata quella di fare qualcosa che fosse servita a farmi segnalare sugli altri, ma non sapevo che cosa.

Avevo da studente il complesso dell’inettitudine linguistica, dell’incapacità di esprimermi in un linguaggio corretto. Sono calabrese e non avevo dietro di me le glorie letterarie della Toscana. Il linguaggio che parlavo in famiglia era il dialetto, e credevo che il linguaggio delle lettere fosse fortemente lontano. Invece ho visto che il linguaggio letterario può fondarsi benissimo sulla lingua parlata, sul dialetto comune. 

Ho scritto varie opere. Molti sanno che sono uno scrittore, ma pochi mi hanno letto. In Calabria soprattutto, si legge poco, sono molti quelli che scrivono, poeti soprattutto. Tutti vogliono giudizi, chiedono di essere letti, ma nessuno è disposto a leggere gli altri. Noi che viviamo in Calabria, non possiamo dire di essere in luogo ideale per comunicare, avere chi ci voglia leggere e ascoltare, però è un luogo ideale per altri versi. È un luogo in cui la natura parla con la sua bellezza, in cui gli uomini sono, anche nel male, schietti, non falsati dall’estrema civiltà. Abbiamo stimoli culturali notevoli, pur vivendo qui, in questa regione, in un lembo della Calabria, come vivo io da tanti anni. 

Sono nato all’inizio del secolo, e sono stato fortunato, perché avrei potuto morire molto tempo prima. Ancora non sono morto, e spero di prolungare questa mia permanenza sulla terra più che sia possibile, purché abbia la capacità di una mente vigile, perché altrimenti non è vita. 

Questo volevo dirvi».

Mario La Cava, nella veste di romanziere e sopraffino meridionalista, dà un contributo unico ed inequivocabile alla letteratura italiana. Nelle sue opere viene raccontata, e con ricognizione reale, la tragicità della gente di Calabria. Il destino, quasi sempre avverso, di un popolo a volte incapace, altre  impossibilitato, a scegliere. Per questo, i libri dell’avvocato, come tutti riconoscevano Mario La Cava, laureato in Giurisprudenza a Siena, pur con una grande cultura umanistica, vengono considerati necessari alla vita. Pagine di trattati umani apprezzatissime persino da Leonardo Sciasca, il quale, su La Cava, ebbe sempre parole di grande merito. 

«Come quelli di Enrico Morovich, quelli di La Cava sono libri che stanno, che non si muovono, che non si rimuovono, che non conoscono ascese e cadute, cui né ombre né risalto danno il mutare dei gusti e delle mode».

Uno scrittore fortemente legato alla sua terra, Mario La Cava, quella Calabria che, scrive Repubblica, ricordandolo nel giorno della sua morte, ha fornito i prodotti più tipici del realismo meridionalista. Uno scrittore mite e incompreso, titola invece il Corriere della Sera, lo stesso giorno dello stesso anno, in un articolo firmato da Giuliano Gramigna.

«Piccolo, minuto, il cranio lucido, gli arguti e allarmati dietro gli occhiali, Mario La Cava appariva ciò che era, un uomo mite. Ma capitava che si animasse di colpo, per uno sdegno, un impegno civile o letterario: allora la sua voce un poco stridula si alzava per un momento a toni acuti, i gesti diventano fitti e frenetici».

Uno dei massimi autori calabresi, scrivono ancora Il Tempo e Il Giorno. Uno scrittore prolifico e raffinato, “Una voce scomoda del Sud”, Il Sole 24 Ore.

La Cava guarda il mondo attraverso i ritratti, gli scorci, i racconti autentici di una Calabria che è dentro di lui e dentro cui egli ha responsabilmente deciso di restare. Non avrebbe potuto, altrove, trovare ispirazione per i ritratti e i bozzetti dell’umanità che egli narra in Caratteri, la sua opera più celebre. 

Mario La Cava, resta uno dei pochi esclusi dalla categoria degli intellettuali meridionali delle partenze. Egli non lascia la Calabria, non parte per affermarsi altrove. Un calabrese intellettuale anomalo come Fortunato Seminara, i soli due rimasti in terra natia. La Cava deve alla sua restanza, l’autenticità della sua narrazione, sempre  geniale, sincera, mai falsata, e senza per nulla mai prendere in presto storie o situazioni altrui. 

Il professore Pasquino Crupi, uno dei più grandi meridionalisti e intenditori della letteratura calabrese, recandosi a casa di Mario La Cava, nel giorno dei suoi funerali, ai microfoni di una tv locale, fa un’analisi dello scrittore che è intima e altrettanto realista. «La Cava – dice Crupi – restando in Calabria, è consapevole di essere uno scrittore di provincia, lo ha scelto, ma mai, mai di La Cava nessuno potrebbe dire di uno scrittore provinciale. Uno scrittore progressivo, invece, di cui però molti si sono ricordati in morte. La Martin – aggiunge – diceva che la letteratura italiana è una letteratura dei morti, e aveva ragione. Dei nostri scrittori bisognerebbe ricordarsi quando sono in vita, per aiutare loro e al tempo stesso noi.

Ricordare La Cava, vuol dire ricordare gli ambienti e i personaggi della vita meridionale, che hanno dato senso e significato alle pagine dei suoi romanzi. I suoi libri infatti sono testamento di una Calabria spesso sconfitta, dentro la quale è lo stesso La Cava a essere trascurato e incompreso». 

«La scarsa fortuna commerciale dei suoi libri, – afferma Giuliano Gramigna – non aveva mai intaccato la sua dignità. Semmai si rammaricava appena di avere tanto lavorato e di trovarsi alla fine con quasi nulla in mano, soprattutto dal punto d vista pratico; e di avere i cassetti pieni di inediti, e ancora molto da raccontare».

La Cava fu maestro di un genere letterario, oltre che scrittore dal respiro europeo. La  sua letteratura ha avuto e a tutt’oggi ancora ha un compito importante nella società civile. Pur narrando una storia semplice, essa è una letteratura elevata, rivolta alla conoscenza piena dell’uomo. 

Oggi in pochi ricordano lo scrittore di Bovalino. A 33 anni dalla sua morte, molti hanno dimenticato il nome di Mario La Cava. Una disattenzione inaccettabile, che può essere riparata solo studiandolo e leggendolo (nelle scuole).

«…Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo». (Leonardo Sciascia).  (gsc)

Saverio Strati, la genialità postuma di uno scrittore straordinario

TUTTA UNA VITA: IL LIBRO INEDITO DELLO SCRITTORE CALABRESE, EDITO DA RUBBETTINO

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il percorso che intrapresi parecchi anni fa sulla letteratura calabrese, porta un nome ben distinto e preciso: Saverio Strati.

Ero ragazza quando lo incontrai a scuola. Facevo più o meno la quinta elementare. Un nuovo maestro, ci disse la maestra. Statura bassa, capelli bianchi, scarpe di suola e un paltò del colore della sabbia del mare. E sotto braccio un borsello di pelle. Fu da lì che estrasse Fiabe Calabresi e Lucane, che io e i miei compagni avevamo già letto in classe, e di cui l’autore era lui, insieme al professore, nostro compaesano, Luigi Maria Lombardi Satriani.

Da allora non lo rividi mai più. Anzi ne persi completamente le tracce. Ma solo fino a quando il caso decide di trasformarsi in destino, e Saverio Strati lo ritrovo, e proprio quando non me lo aspetto più. In libreria, in uno scaffale carico di libri, in mezzo ad altri autori. Lo ritrovo con uno dei suoi più grandi capolavori, Tibi e Tascia. Un caso sì, proprio un caso aver posato gli occhi su quel libro, e sicuramente un destino averlo fatto in quel preciso momento. Non passò moltissimo tempo infatti, e di Strati, dopo anni di lungo e assordante silenzio, incominciai a sentir parlare i giornali locali. Lo scrittore calabrese, che da quasi cinquant’anni abitava a Scandicci, in Toscana, vicino Firenze, balzava agli onori della cronaca letteraria per lo stato di indigenza in cui si trovava costretto a vivere.

Ma come era possibile tutto questo?

Mi ero documentata. Saverio Strati era stato uno dei più grandi autori del neorealismo italiano; aveva scritto una quantità eccezionale di libri; era stato letto e tradotto in tutto il mondo; aveva vinto il Campiello nel 1977 con Il Selvaggio di Santa Venere; era stato lui, ancora prima di Sciascia, il primo autore dell’Italia novecentesca, a parlare apertamente di mafia. Ma nel 1991, Mondadori, la casa editrice con cui aveva esordito e si era affermato, rifiutava il suo racconto Melina, e il romanzo Tutta una vita.

Un’uscita di scena ‘imposta’ che impatta bruscamente sullo scrittore, ma soprattutto annienta l’uomo. 

Entrambi provati moralmente, e col tempo anche economicamente. Strati, che vive con il mestiere di scrittore, attinge ai risparmi finché gli è possibile, ma quando anche questi saranno finiti, è ben altro quello a cui le necessità fisiologiche dell’uomo lo costringono. In una lunga e accorata lettera, il piccolo muratore calabrese, diventato grande scrittore nel mondo, si vede costretto, per poter vivere degnamente insieme alla moglie svizzera, Hildegard Fleig, gli ultimi anni della sua vita, a chiedere il sussidio previsto dallo Stato per gli artisti italiani, grazie alla legge Bacchelli.

Alle lettura di questa triste notizia, custode delle forti emozioni del giorno in cui Strati lo avevo visto e ascoltato, toccato con mano, ebbi al cuore uno stretta che ricordo ancora. E fu dolente.

Il mio interesse verso la letteratura calabrese era stato sempre forte, ma da quel momento ebbe, non una ragione in più, ma una precisa ragione. Saverio Strati aveva dovuto, schivo e introverso com’era, superare ogni genere di vergogna, per poter scrivere quelle righe. Sottomettere la sua dignità di uomo. Mettersi a nudo a quel modo non era stato certo facile. Non lo sarebbe stato per nessuno. In fondo, uno come lui, non avrebbe voluto altro se non che si leggessero i suoi libri. Questo infatti chiedeva. Non soldi, ma la pubblicazione delle sue opere. 

La Calabria, contrariamente a quanto aveva fatto prima, ignorando spesso la genialità di Strati, si mobilita a suo favore, e affinché almeno all’uomo fosse concesso di arrivare dignitosamente al tramonto della vita. E fu. Vi furono campagne di sensibilizzazione davvero importanti. E se anche alla fine i libri di Strati non vennero pubblicati, la Bacchelli gli fu praticamente concessa.

Non mi diedi comunque pace, e neppure per vinta, la struttura che era stata messa in piedi attorno a Saverio Strati, non era minimamente sufficiente se misurata sulla base della sua grandezza. Salvato l’uomo, ora bisognava salvare lo scrittore. 

Saverio Strati aveva dato alla letteratura italiana un grande impulso, e la mancata riconoscenza ch’essa le riservava, destinandolo all’oblio, la trovai davvero discutibile. Se Strati doveva pagare un prezzo, per non essere stato avvezzo ai salotti letterari dell’Italia del ‘900 come l’epoca richiedeva, ed essere stato comunque uno scrittore di successo, libero e indipendente, il conto che gli veniva presentato era decisamente troppo alto e ingiusto. 

Dovevo fare qualcosa, non potevo rimanere con le mani in mano. Dovevo almeno provarci. Provare a recuperare. Per il maestro, per la Calabria e per la letteratura italiana.

Scrissi a Saverio Strati – con la mano tremante e una miscellanea di emozioni che pur generandosi nello stomaco arrivavano fin dentro la gola per soffocarmi – almeno un paio di volte, ma non ebbi mai alcuna risposta.

È inutile insistere mi consigliò qualcheduno, datti pace. Il maestro non esiste più, non risponde più a nessuno. Né al citofono né al telefono. Tantomeno alle lettere. Il martirio a cui è stato condannato, non lo ha sopportato. E lo ha distrutto, ucciso prima ancora di morire davvero. Era il 2009.

Il 9 aprile 2014, quando mi giunse la nuova che il maestro era fisicamente morto, persi improvvisamente una parte importante di me. La voce, le parole. Impiegai diverso tempo a metabolizzare quel lutto. Strati moriva lontano, moriva da solo, ai margini della sua terra, e soprattutto, e io lo sapevo, moriva portando la gente di Calabria dentro di sé come il cuore nel petto dell’uomo. Con la sua morte, l’Italia perdeva uno dei suoi più grandi geni letterari, la Calabria uno dei suoi figli più illustri, io il mio grande maestro.

Avevo recuperato tutti i suoi libri, uno ad uno. Li avevo letti tutti, uno ad uno. Ero stata a Sant’Agata del Bianco, suo paese natale; nella sua casa, sulla collinetta di Cola, nella piazzetta di Tibi e Tascia; ad Africo, nella sua Terrarossa, dove da mastro muratore, Strati, aveva contribuito a edificare le scuole elementari volute da Umberto Zanotti Bianco, e lì avevo imparato cosa fosse una teda. E adesso toccava a me. Questo era il mio turno. La preparazione c’era, il coraggio e la grinta pure. Se la Calabria, che era la terra della quale con Strati condividevo il sangue e l’onore, aveva ancora una grande luce da accendere, o anche solo una piccola teda, era sul suo scrittore santagatese che andava puntata. 

Con i libri di Saverio Strati maturai l’esperienza che mi serviva, e mi formai profondamente come donna, come calabrese e come scrittrice. Tra il 2015 e il 2016, scrissi due saggi brevi (Saverio Strati – non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla / Saverio Strati – due racconti), entrambi  a lui dedicati. Lo scrittore dimenticato doveva riapprodare al più presto nella sua Itaca. E la Calabria lo era. Li destinai alle scuole. V’erano dentro la vita, il pensiero, le opere, e anche due racconti inediti. Di uno posseggo il manoscritto in originale, con le correzioni a penna fatte di suo pugno, le aggiunte, i tagli. 

La mia esperienza diventava quella di molti. Un viaggio a introspezione nella Calabria più vera e più autentica, nell’unica sua originale forma. Ma Strati era anche in un romanzo che doveva poter rivivere, in fondo era questa la forma di scrittura che più amava. 

Nel 2017 gli dedicai La Terra del ritorno, pagine intense e forti di cui altro non aggiungo, per quanto abbastanza possa già parlare il titolo.

Andai di scuola in scuola, di paese in paese. Attraversai la Calabria dall’Aspromonte al Pollino, dal Tirreno allo Ionio, e incontrai ragazzi di ogni età e di ogni estrazione sociale. Tra i banchi di scuola Strati ritornava come aveva desiderato, e ritornava con me, e io ne ero orgogliosa. Saverio Strati diventava il “nostro” scrittore. Affettuosamente nostro. Mio e di tutti i ragazzi, di tutti i maestri e le maestre, i professori e le professoresse che incontravo. Nei suoi libri non c’erano scritti i nostri nomi, no, ma la nostra storia sì. C’era tutta, ed era completa. C’eravamo noi, ognuno di noi. 

Partecipai a incontri, convegni, alcuni davvero emozionanti nel suo paese natìo. Era dalla genesi che bisognava partire. Perché in fondo la consapevolezza di ogni cosa, risiede lì dove la cosa nasce. Programmai finanche un viaggio verso la sua casa fiorentina. Scandicci, via Giotto, aria pregna di libri e di storie. Rapporti serrati con il figlio, i nipoti, e poi, poi come andò e come non andò, non è importante, le fatiche fatte, quando si avverano i sogni, non vanno proclamate, quel che conta è il risultato finale. E oggi, chiunque, recandosi in libreria, Saverio Strati potrà trovarlo, incontrarlo com’è accaduto a me. Gioire della sua ritrovata opera. Perché sì, i suoi libri sono stati ripubblicati. Tibi e Tascia, La Teda, il Selvaggio di Santa Venere. Ma la cosa straordinaria è che il suo romanzo inedito, è stato pubblicato anche quello. Tutta una vita, tanto ha dovuto attendere Strati, affinchè quest’opera vedesse la luce. Per i tipi di Rubbettino, la casa editrice calabrese di Soveria Mannelli, Strati torna sulla scena letteraria italiana e come il più moderno degli scrittori. 

Tutta una Vita è l’opera che forse da Strati non ci si saremmo mai aspettati, specie gli stratiani convinti. E se forse fosse stato pubblicato prima questo romanzo, neppure l’avremmo granché capito, né gradito. Ma se è vero che ogni autore ha una sua opera della maturità, allora ecco che Saverio Strati si presenta con una potenza narrativa davvero straordinaria. Uno scrittore maturo? Di più. La genialità dello scrittore.

Strati dà piena libertà al suo vero genio creativo. Se nei precedenti romanzi il focus dell’autore mira prepotentemente e unicamente a mettere in risalto la staticità della Calabria, dentro cui i calabresi si lasciano naturalmente trascinare, in Tutta Una Vita, l’attenzione assoluta è al movimento dei calabresi dentro cui, la Calabria, aprendosi all’Italia, si muove con loro. Una riforma che ci sono voluti anni affinché avvenisse, ma che era necessaria per l’autore e per il lettore. 

L’ordito viene intelaiato arrovescio; la storia comincia finendo, per finire cominciando. Pino Condello è un architetto che realizza i suoi sogni, tra sacrifici e fatiche, contrariamente ai personaggi narrati da Strati nelle sue precedenti opere. Egli infatti si discosta dalla mentalità meridionale “classica” secondo la quale i figli devono seguire i progetti dei padri. Pino, dalla facoltà di Ingegneria passa ad Architettura, il piglio del padre d’avere un figlio ingegnere da inserire nella ditta di famiglia, s’accorge d’essere un peso troppo grande per lui, davvero troppo da doverselo caricare addosso tutta la vita. 

E così, Strati, ricorda a sé e al lettore, attraverso le evoluzioni intime del protagonista, che i figli spesso hanno sogni che non corrispondono ai sogni dei padri, alle aspettative della famiglia. E il piacere di vivere liberamente la propria vita, è la forza nuova con cui costruisce il suo personaggio, permettendogli di fare esperienze diverse e consapevoli. A Pino è l’arte che lo attrae, la voglia di potersi esprimere che lo coinvolge, il desiderio di libertà che lo assale.

Tutta una vita, non è propriamente un romanzo e basta, esso appare sin dal principio la sintesi di qualcosa di più grande. Strati tratteggia la geografia umana dei personaggi e la storia delle loro condizioni sociali e morali, con un fare filosofico tale, da incominciare il romanzo come una sorta di trattato di filosofia. La storia è scissa precisamente in due parti; quella in cui Pino, martoriato dalla coscienza, al termine delle sue esperienze umane spesso sofferte, ripercorre i fatti e i misfatti, i corsi e i ricorsi di cui è stato protagonista, e dove Strati, oramai maestro di vita, inneggia un filosofare che lo magnifica: – […]A pensarci bene non si è mai del tutto soli. C’è qualcuno che ti controlla, che ti giudica, che ti rampogna: la coscienza. Essa è sempre desta, attenta, pronta e coraggiosa a rimproverarti le tue bassezze, le tue debolezze e falsità e vigliaccherie. […] È la tua Sibilla, la tua Madonna […]– ; e quella in cui, sempre Pino, vive direttamente il suo destino, e Strati torna a essere il narratore di sempre, ritorna insomma a fare il mestiere di tutta una vita.

La potenza della narrazione esplode ovunque, e si avverte soprattutto nei monologhi interiori, in cui Strati è il vero e unico protagonista. Egli non lo palesa, ma spesse volte mette da parte Pino e al suo posto presenta Saverio, il narratore e l’uomo, il calabrese e l’uomo del mondo. E lo fa alternando, con capacità espressiva unica, il discorso diretto a quello indiretto. 

La letteratura italiana, con Saverio Strati, ha avuto un grande maestro di architettura umana, eppure non se n’è mia completamente accorta. Strati si è sempre mostrato aperto alla vita, ma in questo romanzo lo fa in maniera inequivocabile. Si spoglia, o almeno cerca, pur rimanendo fermo sulla condizione umana del’individuo, dei limiti della condizione geografica che insistono invece nelle altre sue opere, e libera i personaggi nella dimensione che più gli è congeniale. A Nord e a Sud. Un percorso italiano in cui la contrapposizione dei due poli del paese non svanisce, ma non è neppure assoluta. L’Italia va cambiando e i personaggi si ambientano al cambiamento, seppur ognuno con una propria visione culturale ed economica. Pino si stacca dal paese, suo cugino Lino no. Pino resta a Milano, Lino no. Pino immagina di potersi esprimere altrove ed esprimersi meglio, Lino no. E non è questione di mentalità retrograda, ma è l’interior di entrambi che cambia. L’umano di cui è fatto Pino rispetto a quello con cui si è formato Lino. Strati presenta un Sud meno povero rispetto al suo solito, ancora non sufficientemente aperto, ma sicuramente più operoso (vedi la famiglia Condello), con ulteriori impulsi rispetto al passato, anche se con certamente ancora tanta strada da fare. Racconta di viaggi che si alternano, e non si sofferma mai particolarmente sulle partenze dal paese natio, quale forma assoluta di dolore e di nostalgia, ma racconta la vita nei suoi movimenti naturali. Traccia itinerari che si delineano sulla base delle prospettive e della ambizioni dei personaggi stessi. Cessa la lamentazione della Calabria, che invece racconta nella sua forma tipica, senza per forza dover mettere in competizione le periferie con la città. Concede a Pino possibilità di futuro e di lavoro tanto al Sud quanto al Nord, e non rimette nelle mani di alcuno i fallimenti o le vittorie dei personaggi, se non di essi stessi. Offre a chiunque la possibilità di scegliere, rendendo consapevoli tutti che una scelta fatta, equivale sempre e comunque a una rinuncia da fare. 

Saverio Strati non si pone mai come uno scrittore autobiografico nei suoi romanzi, più volte egli stesso intese precisare questo aspetto, ma racconta semplicemente storie vissute, che inevitabilmente rimandano il lettore alla vita dell’autore stesso.   

In Tutta una vita accade proprio così. È vivo il richiamo ai luoghi di formazione dello scrittore che in grande parte coincidono con quelli del protagonista: Messina, dove Saverio Strati proprio come Pino Condello approda come studente universitario dopo il diploma liceale a Catanzaro nel 1949, e si forma seguendo le lezioni del professore Giacomo Debenedetti; Firenze, i monumenti, l’arte, la geografia, la storia. Melo, questo nome curioso che appare una volta solo nella storia di Pino, e poi scompare, e che invece nella vita dello scrittore ha un’identità e un ruolo precisi: Carmelo Filocamo, suo compagno di studi, l’amico geniale che se non avesse fatto leggere al professore Debenedetti i racconti di Strati, forse oggi non saremmo qui a parlare di un grande scrittore. Poi, il professore Capaci, che in aula, durante una delle sue lezioni elogia il suo studente Condello, così come Debenedetti fece con Strati. Il passaggio da una facoltà universitaria all’altra, con cui Pino Condello (Ingegneria-Architettura) come Saverio Strati(Medicina-Lettere), si staccano dalle volontà familiari, per dare agio alle proprie. E infine l’amore viscerale per i libri che nasce e prende forma in Pino così come accadde a lui: Alle lezioni di fisica o calcolo, il mio pensiero assorbiva e basta; quando spinto dalla curiosità entravo a Lettere e mi accadeva di ascoltare una buona lezione, la mia fantasia si accendeva, la mia curiosità cresceva e la voglia di leggere libri di critica, di filosofia, romanzi importanti diventava veramente inquieta e avida. Avevo letto tanti libri di cui Lino ignorava autori e contenuti. Lino era come il treno che può camminare soltanto sulle rotaie, mentr’io divagavo e facevo tanti pensieri che erano pensieri sulla vita e sul mondo. Insomma c’è tanto di Saverio in Pino, ma l’uno non è sicuramente l’altro.

Tutta una vita, non lascia dubbi. Saverio Strati è uno scrittore nuovo, moderno, ma soprattutto giovane. Se di altri si leggono i romanzi saltando le pagine, i suoi non lo consentono. Tutta una vita meno che mai. Esso tiene incollato il lettore a lungo anche su una stessa pagina. E chiede di essere assaporato, interiorizzato lentamente. A me è accaduto. Non volevo che finisse mai, speravo che appunto, durasse tutta una vita.

Se Corrado Alvaro ebbe l’ingegno di regalarci Quasi una vita, con Strati, Tutta una vita doveva proprio arrivare. In fondo è lui l’autore che chiude quel ciclo letterario.

In Italia ci sono molti premi importanti in cui vengono premiati e riconosciuti romanzi altrettanto importanti, ma secondo quella certa logica che Strati non ha mai condiviso. Quando vinse il Campiello, nel 1977, notò finanche il pentimento di chi lo aveva votato. Non aveva vinto lo scrittore dei salotti letterari italiani, ma il calabrese; aveva vinto la purezza della letteratura e non il libro più venduto dell’anno. E quando ne ebbe coscienza, fu amara la constatazione. Ma nessuno poteva più tornare indietro.

Non credo vi siano attualmente in Italia premi con cui riconoscere il valore di Tutta una vita. Sulla scia del passato non basterebbe più neppure il Campiello. Strati è di più, molto di più. Ci vorrebbe un premio dei premi. E io che del maestro ho imparato a conoscere profondamente il pensiero, penso di sapere quale potrebbe essere, e credo di sapere bene anche quanto Saverio Strati lo renderebbe felice, ovunque esso sia. Felice assai, quasi quanto i giudizi positivi che riceveva dal suo maestro Giacomo Debenedetti quando leggeva i suoi racconti. Ecco, il premio dei premi a Saverio Strati, per Tutta una vita, sarebbe far studiare l’autore nelle scuole italiane. Un dovere verso di lui, un diritto per tutti gli studenti del paese. 

L’opera postuma di Saverio Strati, è un romanzo che va letto per necessità e con convinzione. E che si somma a quella sua sublime produzione libraria che tanto ha da offrire alla formazione dei giovani italiani. Un fondo di cultura preziosissimo a cui la scuola ha il dovere di attingere e con cui può fornire nuove indicazioni di vita ai propri studenti, placando altresì l’esigenza di conoscenza che questi anni hanno. L’occasione va colta, subito. Non si lasci passare ancora tutta una vita. (gsc)

[La fotografia è di Pino Colosimo]