Walter Pedullà: la politica può nutrire o soffocare la letteratura

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se per conoscere l’Italia bisogna conoscere l’Italia meridionale, allora è dalla voce del Mezzogiorno che bisogna lasciarsi affascinare. E di voci il Sud ne ha avute tante, e tutte brillanti ed eloquenti. 

L’Italia è nella sua vera identità che riscopre l’importanza del Meridione. Nella sua storia, il valore dei meridionali. I geni che con il loro pensiero hanno contribuito al elevare il valore sociale, politico e culturale del paese. Walter Pedullà è una voce geniale, sperimentalista dell’Italia letteraria del ’900. Allievo di Giacomo Debenedetti;  compagno di studi  di Carmelo Filocamo e Saverio Strati; Presidente Rai dal 1992 al 1993; professore di Storia della Letteratura moderna e contemporanea all’Università La Sapienza di Roma dal 1958 al 2005; Presidente del Teatro di Roma dal 1995 al 2001. Abile narratore e giornalista professionista. Pedullà traccia con la sua stessa vita, un percorso identitario esemplare, nella vita dell’Italia novecentesca e anche oltre. E si impone come voce narrante di un processo culturale e letterario, a cui il Mezzogiorno partecipa da protagonista, con i suoi più grandi esponenti. 

Da Corrado Alvaro a Saverio Strati.

– Walter Pedullà diventa testimonial ufficiale del primo piano italiano di ripresa e resilienza che, seppur inconsapevolmente, sono i giovani meridionali, che a partire dagli anni Settanta in poi, attuano, conquistando prima la laurea e poi il lavoro, entrambi con duri sacrifici e altrettante rinunce. Da Siderno è stata dura, ma non impossibile. Walter Pedullà in Calabria nasce, cresce e si forma. 

Quanto ha influito e come, la miseria culturale e la povertà umana della Calabria della sua adolescenza, nella sua formazione di uomo e intellettuale? 

«Grazie della presentazione, ma è troppo generosa e troppo impegnativa. Spero almeno di dare risposte sensate alle intelligenti domande. Non un testimonial, bensì un testimone oculare  delle vicende della mia regione dal 1930, quando aperti gli occhi ho visto la Calabria e me ne sono innamorato. Un amore che dura da 90 anni e che non diminuisce quando ne sto lontano.

«Dunque: la Calabria era socialmente la più povera regione italiana nel ventennio che comprende gli Anni Trenta e Quaranta, cioè il periodo che va dalla mia nascita in epoca fascista alla rinascita del secondo dopoguerra. Temo di farla troppo lunga, perciò mi affretto a dire che la spinta più vigorosa ci è venuta dalla ricchezza mentale. Ci dissero che la cultura sfama e noi sotto a gozzovigliare con libri di storia, di politica e di letteratura. I nostri genitori si indebitarono per mantenerci agli studi e noi li ripagammo diventando professori o  medici o ingegneri o funzionari statali o manager, pronti a trovar lavoro dovunque ci fosse, che fosse la Calabria, Roma o Milano».

– Avere la possibilità di studiare, vuol dire avere l’occasione di realizzare i propri sogni, avere le competenze di riuscire in qualcosa in cui si crede, e lei è riuscito. Ce l’ha fatta. Da calabrese e da studente pendolare. Con ostinazione e perseveranza. All’università di Messina è arrivato fin dentro l’aula del professore Giacomo Debenedetti. Lo considera un caso questo, o quell’incontro ha segnato il suo destino? Ci racconta com’è cominciato tutto e com’è andata a finire?

«L’incontro con Debenedetti avvenne per caso, ma sembrò  destino, che mi segnò. Nello stesso giorno ho conosciuto il professore di cui sarei stato il successore alla Sapienza di Roma e Saverio Strati, che sarebbe  diventato uno dei maggiori narratori italiani del secondo Novecento. “Andate ad ascoltare quel professore piemontese”, consigliò Saverio a me e a Filocamo, “mai sentito nulla di simile, parla di Svevo ma l’argomento è la letteratura mondiale”. Noi andammo e non ci saremmo mai alzati dai banchi. Era una magia, fu una malia. Fascinazione e devozione. Nella  facondia di Debenedetti la letteratura diventava  storia e scienza della materia, della psiche e della parola scritta».

– Le amicizie e gli incontri fatti ai tempi dell’università, sono generalmente quelli che più di altri rimangono per sempre. Qual è l’incontro più bello fatto da studente ai tempi di Messina e che non ha mai dimenticato?

«Come dimenticare che Debenedetti mi avviò a un’avventura intellettuale inimmaginabile per uno studente la cui massima ambizione era diventare professore liceale di latino e greco? A Messina ho conosciuto Santo Mazzarino, il maggiore storico dell’antichità, che anni dopo a Roma avrei avuto come collega e amico. Nell’Università siciliana ho avuto come professori Galvano Della Volpe, il grande filosofo marxista che ha rivoluzionato l’estetica del XX secolo, e Lucio Gambi, che ci dimostrava quanta storia ed economia covano nella geografia».  

– In Italia chi conia medaglie, chi gloria. La letteratura del ‘900 conia il trittico delle lettere. Cos’è, chi include, e di che cosa si tratta esattamente?

«Non so rispondere in poche righe, il discorso sarebbe così ampio che il lettore girerebbe pagina. Ma faccia domande più facili, mi faccia vincere una medaglia. In quanto alla gloria, vedo piuttosto vanagloria, marchio del nostro tempo di neon e plastica».

– “Avevamo tra noi uno scrittore e non lo sapevamo”. Così inizia una della lezioni di Giacomo Debenedetti all’Università di Messina. A chi si riferiva esattamente? E perché?

«Saverio gli aveva dato in lettura i racconti che nel 1956 avrebbero formato la raccolta pubblicata con il titolo La marchesina. Io e Filocamo, che ne eravamo entusiasti, lo incoraggiammo a sottoporli al giudizio di Debenedetti, che era già uno dei maggiori critici nazionali in attività. Il responso fu positivo, e il Maestro dette in diretta l’annuncio: Saverio era un narratore maturo per la pubblicazione. Debenedetti lo segnalò a Vittorini impegnandosi a scrivere un’introduzione, che non accompagnò la raccolta per veri motivi. Il ’56 è un anno orribile per la politica progressista. Ci sarà una svolta, ma il talento di Strati non temeva le tempeste della storia: le avrebbe rappresentato con il suo linguaggio spugnoso o  prensile. Qualunque cosa scrivesse, era un racconto».

– Con Saverio Strati nasce un’amicizia che vi legherà per sempre. Chi era questo suo compagno di studi? Da dove veniva, e che cosa ricorda di lui in particolare? 

«Ricordo il viaggio in Italia grazie a un  biglietto circolare che con undici mila lire ci consentì nel 1954 di visitare Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Genova, Torino, Milano, Vicenza, Venezia, Trieste e ritorno. Una lettera di Debenedetti favorì l’incontro con Pampaloni, Fortini, Solmi, Vittorini, Diego Valeri e altri poeti e narratori tra i maggiori dell’epoca. I nostri bagagli erano pieni di libri d’arte con cui ci preparavamo all’incontro con la più celebre pittura, scultura e architettura della nostra tradizione. Passavamo da un museo all’altro, da uno scrittore all’altro. Erano tutti molto cordiali e incuriositi dai due viaggiatori calabresi. A Roma parlammo con Alvaro, che ci accolse con simpatia e stupore. Come se tornasse alla propria giovinezza. Aveva seminato e ora vedeva germogli  da coltivare. In quanto ai frutti, Strati ha portato a maturazione più di un racconto degno del Maestro di San Luca. Quell’incontro fu una lezione che non dimenticammo. E pensare che a parlare erano tre taciturni cui la parola usciva di bocca per estrazione».

– Quale valore attribuisce, il critico Walter Pedullà, all’opera letteraria dello scrittore Saverio Strati? Potrebbero i suoi libri, letti nelle scuole, ritornare a ragazzi e docenti, il valore dell’identità? Potrebbe essere questa un’opera urgente da fare, volta a riesumare i valori perduti della società moderna?

«Ho recensito tutte le sue opere dal ’59, anno in cui ho esordito come critico di  giornale e titolare della rubrica letteraria per il settimanale Mondo Nuovo e dal ’61 al ’93 dell’Avanti. Ho scritto l’introduzione al Nodo, da editore ho pubblicato per Lerici suoi libri di favole, gli ho affidato la cura del volume dedicato a Basile nella collana di classici italiani da me fondata e diretta “Cento libri per mille anni”, l’ho aiutato a vincere parecchi premi letterari. Contava più dell’amicizia fraterna la stima per un narratore che non riguarda solo la Calabria o soltanto il Sud. Due suoi romanzi, Tibi e Tascia e Il selvaggio di Santa Venere sono dei capolavori. Memorabili fra gli altri buoni sono  La marchesina, Gente in viaggio, Noi lazzaroni. Il canto, la fiaba, la conversazione, l’ira e l’angoscia. Uno che trasformava in lirica il dialogo con la gente. Il selvaggio di Santa Venere è il romanzo espressionista in cui brilla la cifra stilistica che lo colloca accanto ai maggiori narratori dagli Anni Cinquanta ai Settanta ma è Tibi e Tascia l’opera toccata dalla grazia. Da leggere nelle scuole? Spero che lo facciano già. Lo ha fatto di persona Saverio Strati, che girava la Calabria per leggere e spiegare le proprie opere. Saverio rompeva il silenzio solo per parlare di letteratura, con netta preferenza per la propria. Era cosciente del proprio valore e non si nascondeva sotto una falsa umiltà».

– Sul Gazzettino dello Jonio del 1953, lo scrittore Francesco Perri, annota come in tanti studi panoramici, inchieste, dibattiti e consuntivi critici riguardanti la narrativa del Novecento, i nomi e le opere degli scrittori calabresi sono completamente ignorati. Da allora nulla è cambiato. E la Calabria, continua a rimanere indietro anche rispetto la Sicilia di Verga e  Pirandello. Perché? È forse colpa di una genialità malamente espressa, non compresa? O è semplicemente colpa dei luoghi in cui “sfortunatamente” nasce?  Cosa bisognerebbe fare per riportare l’attenzione della letteratura, e non sulla Calabria, ma sui calabresi che sono stati autori di grandi capolavori letti e tradotti in tutto il mondo, e con una forte influenza nella letteratura italiana del ‘900?

«In effetti Perri era un narratore calabrese dimenticato proprio in quel decennio di neorealismo che il suo romanzo maggiore aveva anticipato. Emigranti l’ho ristampato io negli Anni Settanta per le edizioni Lerici. Nel ’53 tuttavia Alvaro era al vertice della gerarchia letteraria nazionale, Einaudi pubblicava opere di Seminara e La Cava. De Angelis era un autore noto, stimato e recensito. Repaci redigeva la graduatoria  dei valori artistici  attraverso il Premio Viareggio. Strati pubblicherà i suoi testi con Mondadori, Mimmo Gangemi pubblica con Einaudi. Abate, don Luca Aprea, Fortunato, Guarnieri, Occhiato, Guerrazzi, Bonazza, Adele Cambria, Familiari, Carbone, Mario Strati, Altomonte, Lazzaro, Comandè e Criaco hanno avuto come editori Mondadori, Bompiani, Rizzoli, Feltrinelli, Marsilio, Sellerio, Rubbettino, Dedalo, Gangemi  e Rusconi. Nessuno ti regala niente, quanto chiedi te lo devi meritare, e questi nostri corregionali così hanno fatto. A noi non mancano gli autori, bensì i lettori. Forse siamo la maglia nera nella corsa all’acquisto di un libro, cosa di cui risentono gli scrittori calabresi. Non è un caso, è storia: quando si accende la questione meridionale, l’attenzione dei lettori italiani ed europei si indirizza al Sud. È successo col verismo nell’Ottocento  e col neorealismo nel Novecento, poi si entra in zona d’ombra, che per i meridionali è la regola. La storia dobbiamo crearla noi e narrarla col linguaggio che la rende diversa dalle precedenti. Se il linguaggio non va a trovare la storia in incubazione, deve essere la storia ad andare a trovare il linguaggio adatto. Ce l’abbiamo noi una storia da raccontare al resto del mondo ? Tiriamola  fuori: non manca la genialità agli eredi di Campanella e di Alvaro. Aspettiamo il salto strutturale dal quale si vede che il Sud è un punto cardinale basilare della vicenda umana. Talvolta basta cambiare prospettiva per constatare che non abbiamo saputo cogliere l’occasione».

– Ci sono narratori e poeti come Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava, Raoul Maria De Angelis, Fortunato Seminara, Francesco Perri, Leonida Repaci, Franco Costabile, Lorenzo Calogero, che hanno almeno un libro necessario per intendere all’italiano cosa è il Sud e cosa l’Italia. Perché allora nessuno di questi autori viene mai consigliato dai programmi ministeriali, non viene studiato  a scuola, e nessuna antologia scolastica ne riporta alcuna opera?

«L’Italia ha molti scrittori ma sono pochi i posti in un’antologia scolastica. Le antologie sono tendenziose e forse ci sono casi in cui ha pesato la prevenzione antimeridionalista. La congiura ai danni degli autori calabresi non la vedo. Una volta Alvaro era onnipresente magari col celebre incipit di Gente in Aspromonte che recita “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte…”. Ora non so, dovrei documentarmi. Comunque non mi scandalizzerei se mi si dicesse che i professori calabresi hanno boicottato le antologie che per manifesta ostilità o indifferenza o ignoranza escludono autori della nostra regione. Non farei per ritorsione un’antologia che penalizzi scrittori settentrionali meritevoli. È pur sempre letteratura italiana, la spartizione fra regioni sarebbe paradossale. Noi calabresi amiamo Gadda non meno di Alvaro e Calogero.

– La letteratura salverà la Calabria. Una mia provocazione che sarebbe bello diventasse realtà. In fondo una buona politica nasce anche delle idee dei pensatori, dei grandi intellettuali, e dagli uomini con forti valori morali e identitari. Se è sul sapere che si giocano il presente e il futuro delle generazioni, la letteratura potrebbe essere la chiave di volta essenziale in grado di permette a una società miope di ritornare a vedere? A una classe politica e dirigente inetta, di ritornare ad agire? E potrebbe impedire a una società civile anche solo di pensare che vivere rettamente sia inutile?

Aderisco volentieri al vaticinio, profezia o auspicio che sia e condivido le motivazioni  politiche e morali, ma come arrivare a sentenza? Certamente non con la vecchia letteratura, che ha fatto molto nel trentennio dagli Anni Quaranta ai Settanta, cioè neorealismo, neosperimentalismo e nuovo realismo. Nuova letteratura significa nuova scienza e nuova antropologia, insomma una nuova cultura. Non basta la nostalgia, cioè il passato come futuro, cosa che la storia non accetta. Servirebbe una nuova moralità,  ma non  è aria. Qui torniamo al caso: per avere una nuova letteratura ci vuole un’imprevista iniziativa della vita. La paura, la disperazione, il senso di soffocamento? Vedo invece troppa euforia. Non sarà che ci piace questa paralisi che sembra pace ma è stagnazione? Teniamoci comunque  in disponibilità e alleniamo le idee e le parole. Epoche che parevano sterili erano invece incinte

– De Sanctis definiva la letteratura l’’insieme delle opere variamente fondate sui valori della parola e affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà, a un’epoca o a un genere. Ad essa viene infatti affidato il compito di ricostruzione e/o  d’indagine storico-critica di un popolo. E la Calabria rischia di andare perduta, se il resto del paese non si ritorna ad innamorare e al più presto della sua storia, della sua arte, ma soprattutto della sua letteratura. Il processo con cui da anni viene indebitamente ignorato il  pensiero dei grandi autori calabresi, priva l’Italia e le nuove generazioni di studenti, di una formazione completa, che non penalizza esclusivamente il capitale umano della scuola del Sud, ma quello di tutta la nazione. Perché si continua a negare alle nuove generazioni, l’occasione straordinaria di un mondo visto da sotto? A chi può giovare il disorientamento culturale di un paese intero?

«La domanda è già una potente risposta con la forza della passione intellettuale e con l’energia che, cara Giusy, alimenta le sue battaglie culturali, tutte ispirate dalla necessità e urgenza di un intervento politico  consapevole della gravità del momento storico. Mi auguro che il suo entusiasmo contagi migliaia di calabresi, tanto più se esso aiuta a individuare gli obiettivi da perseguire con coraggio,  tenacia e realismo. Sia visionario: la vista non basta».

– Un popolo per capirsi veramente deve conoscere i suoi artisti, altrimenti rimane indietro, diceva Saverio Strati. Ma cosa intendeva esattamente? E potrebbe essere questa una soluzione alla società liquida di Bauman, in cui anche il Sud ormai viene fortemente coinvolto? 

«Non basta la ragione dei pensatori e nemmeno le scoperte della scienza, ci vuole la fantasia degli artisti per rompere il cerchio che imprigiona la mente dei cinici. Serve audacia con spirito di sacrificio per andare “oltre la realtà”, come proponeva Corrado Alvaro ai suoi contemporanei. Oltre che sui mutamenti precari, tocca insistere sui principi fondativi che risultano insostituibili per ogni progressista. Un po’ di liquidita fa bene alla tolleranza, ma se è troppa ci si annega. Non tutto il passato merita di essere affogato. La memoria mi aiuta ricordandomi che le condizioni sociali della mia remota Calabria erano vistosamente peggiori della Calabria attuale. Le grandi battaglie hanno obiettivi massimi, ma solo così si realizza  la metà del totale desiderato».

– A maggio 2021, la sottoscritta, quale promotrice del progetto “Studiare gli Autori Calabresi a Scuola”, ha fatto pervenire al Ministero della Pubblica Istruzione, nella persona del Ministro Patrizio Bianchi, un manifesto pubblico (senza alcuna risposta), sottoscritto da vari esponenti della cultura e della società civile e del mondo della scuola italiane, con cui si chiede venga consigliato lo studio degli autori calabresi a scuola. Walter Pedullà potrebbe essere il testimone di questa battaglia. Cosa ne pensa professore? 

«Il protezionismo non mi piace e tuttavia giudico legittima la proposta di far leggere nelle scuole calabresi il romanzo o saggio di argomento e autore calabrese. È l’occasione per riflettere sulla società che lo studente ha sotto gli occhi. Potrebbe venir voglia di cambiarla, come succedeva a noi dopo la caduta del fascismo. L’amore per le differenze evita le ripetizioni di cui si nutrono i fatalisti, questi conservatori. Facciamo capire che i nostri narratori parlano di Calabria perché l’Italia intenda». 

– Lei scrive tutto un libro sui narratori meridionali del ‘900, Il mondo visto da sotto, edito da Rubbettino. Cosa si sentirebbe di dire, da parte sua, al Ministro, affinché valuti, unitamente alla mia proposta, l’idea di consigliare ai docenti italiani, di studiare accanto a Verga e Pirandello anche Corrado Alvaro e Saverio Strati? Quali valide ragioni presenterebbe affinché l’Italia attui e finalmente questa sorta di riforma culturale e anche geografica?

«Naturalmente la coppia siciliana Verga-Pirandello è più forte di quella calabrese, ma mentre i primi due sono molto noti e letti in ogni regione italiana, Alvaro e Strati non sono letti molto nemmeno in Calabria. Perciò largo alla coppia calabrese! Spero che la sua proposta sia una profezia post eventum. Anzi credo di aver letto antologie che contengono testi  di Verga e Alvaro. Noi dobbiamo limitarci a combattere perché Strati li raggiunga dove svettano. Vedo che Rubbettino ha già pubblicato alcuni volumi dell’opera omnia. Chissà che se ne accorgano gli italiani, ma siamo certi che  i l calabresi stanno facendo il loro dovere? Forse bisogna battersi non perché aumentino gli scrittori bensì i lettori». 

– Il Sud è una terra dura. La Calabria di più di molte altre. Quella che prima era la questione meridionale, oggi è rimasta solo una questione calabrese. Cosa un intellettuale come Pedullà, avrebbe ancora da proporre alla Calabria e all’Italia, per una ripresa unitaria?

«Troppo difficile rispondere per me, tanto più perché da decenni vivo lontano dalla Calabria, rivolgiamo la domanda ai calabresi residenti, ne sanno certamente di più. Magari le proposte che potrei fare ora l’hanno già respinte perché non puntuali e troppo generiche. Forse nessuno, non solo io, è in grado  di risolvere la questione sociale di una regione incapace di tenere il passo delle altre regioni meridionali. Mantenendo fede alla mia fama di sperimentalista, proporrei di tentare altre strade, quelle che nel resto dell’Italia hanno condotto a obiettivi sorprendenti. Io per esperienza so che i calabresi hanno tutte le doti di intelligenza, immaginazione e tenacia necessarie all’impresa. Le hanno dimostrate coloro che sono andati via, li possiedono i calabresi che sono rimasti giù. Si faccia attenzione a un allarmante  dato di fatto, se  è vero che la Calabria è rimasta isolata nel Sud. La questione calabrese ha  forse una peculiarità che chiede una reazione peculiare, unica, singolare? Domandi lei ai corregionali di spiegare come ciò possa succedere. Confessino, siano oggettivi, mettano tra parentesi fenomenologicamente i luoghi comuni, le lagne, gli alibi, lo scaricabarile e si riavvi il processo di ripresa dalla realtà effettuale. Secondo me, non ci diciamo la verità: ci vergogniamo di essere il fanalino di coda, ma intanto il treno parte senza di noi. Per favore: non diciamo che è solo colpa degli altri».

– Fosse rimasta solo un’ultima occasione di ripresa per il Sud, quale potrebbe essere? La Calabria da dove dovrebbe ripartire?

«L’eco risponde partire, partire e di nuovo partire. Deve partire da se stessa, anche nel senso di sapere spendere meglio i finanziamenti governativi. L’Europa è un’occasione non solo per chi volesse trovare lavoro comunque ma anche perché oggi sostiene concretamente gli investimenti produttivi. Questo è un treno da non perdere. Altrimenti c’è quello che trasporta emigranti».

– Ne Il mondo visto da sotto, scrive che è proprio nei momenti in cui la politica ha perso la strada che l’ha resa un fattore di rinnovamento e di sviluppo la letteratura chiede di dire la sua, rivolgendosi direttamente alla vita. Cosa significa esattamente? Quale ruolo essenziale ha dunque la letteratura nella società civile e in quella politica? 

«Storia lunga e annodata, mi limito ad accenni, stiamo parlando di una questione centrale della modernità, il cui inizio potrebbe essere l’illuminismo, che è il padre di una letteratura capace di fare una rivoluzione politica e sociale. La politica può nutrire o soffocare la letteratura, ma succede anche il contrario. Nel Novecento c’è stato un patto d’acciaio redatto dalle avanguardie futuriste, che furono fasciste in Italia e comuniste in Russia. Si parlò di estetizzazione della politica e di politicizzazione dell’arte. Quando domina la politica, la letteratura adegua realisticamente il linguaggio al suo scopo pratico, quando la politica fallisce, è la letteratura a creare i linguaggi capace di cogliere realtà in formazione. Il problema è più complesso di così, ma per essere più concreti diremo che oggi la politica latitando lascia l’iniziativa alla letteratura che si è liberata di lacci ideologici e di catene partitiche. Manca oggi una politica dell’arte e pullulano le invenzioni individuali che miniaturizzano la realtà sociale e morale. Che fare? Hegel consigliava: andiamo avanti e alla fine del viaggio vedremo dove stavamo andando». 

– Se con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si muore.  Investire sulla sanità è un diritto e un dovere; investire sui trasporti e sulle le infrastrutture, è necessario. Investire sulla cultura, salva il presente e garantisce il futuro. In Calabria l’industria cinematografica nell’ultimo tempo è decisamente in crescita, tanto da essere un settore innovativo su cui puntare. L’unico capace di racchiudere in sé la magia dell’arte, l’importanza della cultura e il valore della progettualità. Se il cinema calabrese, pensasse di avviare un progetto in grado di associare alla forma d’arte cinematografica, quella letteraria, proponendo pellicole volte a raccontare, con qual si voglia tecnica innovativa, in termini di narrazione, le opere scritte dai grandi autori del ‘900, inclusa la vita e le vicende, attraverso le quali proiettare una Calabria finalmente protagonista e non più figurante nella storia italiana,  potrebbe secondo lei essere un trampolino di lancio, da cui far tuffare la Calabria direttamente in Europa? Potrebbe essere questa una proposta di rilancio, non semplicemente dei luoghi come comunemente accade, ma della grandezza di quella Magna Grecia a cui a tutt’oggi apparteniamo, e da cui, diceva Saverio Strati, prima o poi qualcosa di buono sarebbe dovuta venire fuori?

«Non ho nulla da aggiungere, anch’io sono un ottimista, credo nel futuro della Calabria. Chiamo a testimoniare il suo passato, l’ho visto al lavoro. Ha fatto miracoli».

– Walter Pedullà di giovani ne ha formati tanti, e molti degli studenti presenti alle sue lezioni saranno stati senz’altro meridionali. Cosa vorrebbe dire oggi, professore, ai giovani di questo tempo nuovo, lei che ad appena 91 anni, ha  dentro di sé la storia italiana come il cuore nel petto?

«Essendo un professore, faccio il professore. Perciò a loro dico: studiate, studiate, studiate. Naturalmente l’invito non è a studiare solo la letteratura, anche se è il necessario  supporto di ogni arte e mestiere. Fa bene studiare ciò per cui uno ha vocazione, che è uno stimolo possente a crescere sulle doti naturali. E meglio ancora fa studiare discipline che offrono prospettive reali di occupazione, le scienze fisiche. Siano concreti, studino, si aggiornino i poeti, i pittori, i musicisti confrontandosi col mondo che cambia fatti, tecniche e lingue. E studino i medici, gli architetti, gli ingegneri, i farmacisti: i saperi invecchiano trattando come scienza efficace terapie mortali. A 91 anni io studio per impedire alla mia cultura di dare risposte fasulle. Ogni anno muoiono verità culturali che parevano eterne». 

– Dovesse consigliare un libro di letteratura a un politico, per salvare la Calabria, quale sceglierebbe? E per Salvare l’Italia? E a un giovane calabrese per consentirgli di salvarsi da solo?

«Ripartiamo? Ripartiamo  dalla scuola, magari chiedendo aiuto a nuovi  maestri. Ricordarsi di cambiare i vecchi  Maestri». 

Grazie, professore. Grazie per questa meravigliosa ed esclusiva intervista, che pur trattando la Calabria e i calabresi, racconta una storia universale. Grazie per avermi dato la possibilità, con le sue riflessioni, di ricordare a me stessa e agli altri, che non c’è speranza per il futuro se non ci diciamo la verità sul passato.

Gianni Versace, il reggino più famoso al mondo

di PINO NANO – Gianni Versace nasce a Reggio Calabria il 2 dicembre del 1946. Oggi avrebbe compiuto i suoi primi 75 anni. Se non fosse morto prematuramente, e fosse invece ancora tra di noi, non avremmo pensato due volte a dedicargli una delle nostre copertine. Ma l’altra sera Santo Strati mi sveglia e mi chiede un pezzo sul famoso stilista reggino. “Pino, ma perché non gli dedichiamo una delle nostre cover? È vero, lui non c’è più, ma la sua storia personale è ormai nei fatti il vero grande Molok della moda in tutto il mondo”. 

Una favola moderna quella di Gianni Versace, e del suo impero, della sua infanzia e della sua famiglia, Gianni Santo e Donatella, testimoni del nostro tempo in tutti i sensi possibili e immaginabili, ma soprattutto testimoni autentici e dichiarati di una “Calabritudine” senza tempo e senza confini spaziali. 

La loro è una favola bellissima, che alla fine si trasforma in tragedia, quasi una sceneggiatura cinematografica perfetta, attentamente studiata e costruita a tavolino per emozionare, coinvolgere, avvolgere, appassionare, e impazzire. Dentro questa storia c’è proprio tutto, la vita, la morte, la speranza di un mondo migliore, la costruzione di un progetto a prima vista impossibile, i sogni di intere generazioni di stilisti italiani, la crisi economica del Paese, la rinascita italiana, l’affermazione del made in Italy, e poi ancora la tradizione, il rispetto, l’onore, e l’innovazione di una terra come la nostra, la Calabria, dove tutto scorre molto lentamente e anni luce dagli algoritmi delle nano tecnologie. Illusioni, delusioni, malinconie, solitudini, lutti e resurrezioni, riscatti e rancori, rabbia e dolore, fatica e successo, amore e odio, amicizia e legami familiari indissolubili e atavici. 

Gianni Versace, e la sua dinastia, è tutto questo, ed altro ancora.

L’uomo sembrava imbattibile, invincibile, inossidabile, quasi immortale, attorniato sempre da donne bellissime, top model che hanno segnato la vita di quasi un secolo, donne che lui guardava e trattava con un garbo estremo, quasi con soggezione, perché le considerava creature leggiadre e ideali per dare corpo vita ai suoi tessuti e ai suoi abiti di alta moda più belli. Donne da amare in passerella, donne da difendere, donne da rispettare, donne da preservare, donne del cuore. Era questa la sua filosofia più intima. 

Donne come sinonimo di purezza e di bellezza insieme. 

Gianni Versace dunque e le donne, un legame fortissimo, indissolubile, quasi magico, ma lo era perché tutta la sua vita in realtà era stata fortemente condizionata dalle tre “femmine” di casa Versace.

«Le mie tre donne di riferimento – diceva – erano mia madre, perché, al di là di qualche incomprensione legata al fatto che ogni madre è gelosa del proprio figlio, è stata la mia maestra. Mia madre mi ha aiutato a capire la moda. Poi mia sorella Donatella, perché mi dà un formidabile aiuto ad andare avanti, insieme a suo marito, Paul Beck. Infine, la loro bambina, Allegra. Allegra di nome e di fatto, perché in lei, nel suo senso estetico già sviluppatissimo, intravedo fin da ora il futuro». 

Gianni e le donne di casa, dunque. Gianni e sua madre, soprattutto.

«Mia madre, nata a Reggio Calabria nel 1920 – racconta suo fratello Santo Versace in una intervista rilasciata nel 2006 a BusinessPeople – voleva fare il medico, ma nel 1930, dopo aver conseguito la licenza elementare, mio nonno le disse: «Cara Francesca, basta andare a scuola, perché nella scuola ci sono gli uomini e non è un luogo per bene. Adesso vai a imparare un mestiere». E lei si scelse quello di sarta, andando a bottega dalla “parigina”, che era una sarta che aveva lavorato a Parigi. Prima della Seconda guerra mondiale aprì il suo primo negozio. Gianni nacque nel 1946, io sono del ’44, Donatella del ’55, Tinuccia, morta a dieci anni, del ’43. Vivevamo in via dei Muratori a Reggio Calabria dove c’era il laboratorio della mamma. Sembra un destino segnato: se mio nonno avesse mandato mia madre a scuola forse Gianni non sarebbe diventato un genio della moda. Tutta colpa, anzi tutto merito del nonno! Gianni ha da sempre respirato quest’aria, mentre io respiravo quella di mio padre, commerciante e atleta di valore: ciclista e corridore con diverse vittorie all’attivo ma anche calciatore nella Reggina in serie C».

Era questo il mondo vero di Gianni Versace, il suo “piccolo mondo antico” che lui custodirà nel suo corpo per tutto il resto della sua vita.

«Nostra madre – ha ricordato la sorella Donatella a Silvia Nucini di Vanity Fair – era una donna che veniva da una famiglia povera. Aveva sposato un uomo ricco ma si è data talmente da fare che, grazie alla sua sartoria, è diventata più ricca e più importante di lui. Ogni matrimonio da Roma in giù era suo. Faceva l’abito alla sposa, e a tutte le altre invitate. Così, di matrimonio in matrimonio, ha iniziato ad aprire boutique, a girare per comprare i tessuti, è diventata anche amica di Karl Lagerfeld. Ricordo però che tutte le mamme dei miei amici li accompagnavano a scuola, e lei non c’era mai. Mi mancava. E anche se era una donna calabrese dell’inizio del Novecento, mi diceva sempre: non pensare al matrimonio. Perché se credi che un marito ti possa risolvere la vita, hai sbagliato tutto. Ma questo mi ha reso una donna caparbia, e ha reso forti tutti noi».

Ai suoi amici più cari Gianni non faceva altro che ripetere quello che poi diventerà il suo slogan più eccentrico e forse anche più romantico.

«Non sono mai caduto – diceva – Ho sempre volato». 

E così poi è stato. 

Ma aggiungeva: «Io non sono un disegnatore di moda. Sono soltanto un sarto. È questo il mio vero mestiere. I vestiti li so tagliare e cucire, cosa questa che non tutti però sanno fare».

È suo padre Antonio a regalargli il suo primo biglietto di ingresso a teatro della sua vita. Gianni è ancora un bambino, ma i colori del Cilea di Reggio Calabria colpiscono la sua immaginazione e la sua fantasia.

“Insieme padre e figlio – ricostruisce Esquire, la rivista maschile statunitense, fondata da David A. Smart e Arnold Gingrich nel 1933 – vanno a vedere Un ballo in maschera al Teatro Cilea, e sebbene Gianni sia ancora troppo piccolo per apprezzarne il contenuto, rimane affascinato dal contorno, dalle poltrone rosse, dalle signore eleganti, dai costumi colorati e maestosi. Tornato a casa raccoglie ritagli di tessuto e realizza dei burattini che fa muovere nel teatro della sua fantasia. Una immagine destinata a diventare realtà nel 1982 durante la stagione di balletto del Teatro alla Scala a Milano, quando accetta di disegnare i costumi per Josephslegende di Richard Strauss, la scenografia curata da Luigi Veronesi». 

Reggio fortissimamente Reggio, insomma. Reggio Calabria, la città che Gianni Versace ha amato per tutto il resto della sua vita, nonostante poi si sia trasferito prima a Milano e poi in America, lui cittadino del mondo, ma apolide dovunque, con la sua Reggio nel cuore…

«Nel 1959-60 convinse mia madre a vendere anche gli abiti confezionati, oltre a quelli su misura. A neanche 14 anni – ricorda Santo – aveva già capito che si andava verso quel tipo di consumi. Insieme al talento di stilista dimostrava di avere anche il senso del mercato. Poco dopo la convinse ad aprire il negozio che c’èra in via Tommaso Gulli. Cominciò a farsi conoscere nell’ambiente. Un produttore di Martinafranca, in Puglia, capì subito che Gianni aveva talento e cominciò a commissionargli alcuni abiti. A quell’epoca i produttori erano pochi e si conoscevano tutti tra loro, perché era un’industria che stava nascendo. Negli anni ’60 Renato Balestra mandava a Gianni gli schizzi delle nuove collezioni e si confrontava con lui, un rapporto più di amicizia che di lavoro». 

Il mondo “fantastico” di Gianni Versace era tutto quello che in realtà ruotava attorno a lui. Sembrava, il suo, un mondo quasi irraggiungibile, un satellite senza meta, che avevo perso la sua traiettoria inziale, un’isola abitata da vip, nomi altisonanti, grandi titoli sui giornali, mega show, rassegne internazionali di ogni tipo, concerti, interviste, teatri sempre pieni, eleganza, glamour, suggestioni mediatiche di ogni genere, e soprattutto grandi artisti estrosi e geniali eternamente per casa, come solo lui sapeva circondarsi. 

La sua vita è stata attraversata e percorsa dai ritratti e dai manifesti dei grandi fotografi di tutti i tempi. Da Richard Avedon a Helmut Newton, da Irving Penn a Bruce Weber, da Herb Ritts a Doug Ordway, a Steven Meisel. Ma anche dalle top model più famose del mondo. Erano gli anni delle Fab Four, da Linda Evangelista a Naomi Campbell, da Claudia Schiffer a Christy Turlington, da Carla Bruni a Stephanie Seymour, da Cindy Crawford ad Helena Christensen, da Yasmeen Ghaur a Karen Mulder a Nadja Auermann.

«Quando hanno incominciato a posare per noi- raccontava spesso Gianni Versace – erano solo delle ragazzine. Christy Turlington, per esempio, una sera mi chiese, “Posso portare con me un’amica?”. Quell’amica era la giovanissima Naomi Campbell».

“L’imperatore dei sogni”, titolò il New Yorker pochi giorni dopo la sua morte. 

«Gianni – ricorda suo fratello Santo –  era davvero venerato come un imperatore. Ogni angolo del mondo lo ha pianto perché lui ha rivoluzionato il modo di pensare la moda. Era un artista a tutto tondo, e non solo uno stilista. Ha disegnato abiti per il teatro, per l’opera, era questa la sua autentica passione. E poi c’era la casa. La “home collection”, perché chi compra Versace ne deve restare avvolto. Ci si deve svegliare, deve viverne lo stile, lo deve respirare, ne deve acquisire il modo di pensare. Questo ci ripeteva Gianni continuamente. Mi diceva sempre anche sorridendo: “‘Non preoccuparti io continuerò a disegnare stracci”. Ma lui è sempre stato oltre, avanti. D’altronde è così che il suo talento ha trovato la luce: Era troppo luminoso per non venire fuori».

Successi dopo successi, trionfi dopo trionfi, Versace diventa un must in tutto il mondo. Dovunque e comunque si parla di lui e dei suoi colori sgargianti, delle sue figure mitologiche, delle sue meduse, dei suoi tessuti, dei suoi abiti d’alta moda, della sua raffinatissima e  sfrontata genialità nel vestire sia donne che uomini. 

A dicembre del 1997 viene inaugurata al Metropolitan Museum of Art di New York la “Grande Esposizione Gianni Versace” e fu un trionfo planetario. Nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo. L’esposizione, curata da Richard Martin, è la prima vera retrospettiva dedicata alla carriera dello stilista italiano dopo la sua morte, in mostra ci sono oltre cinquanta abiti tratti dalle sue collezioni più sofisticate e dalle sue continue collaborazioni teatrali. 

Alla serata inaugurale – riferisce la stampa newyorkese – partecipano quasi tremila persone. Molti intervengono per salutare lo stilista calabrese e per tessere le sue lodi, indimenticabili e superbe le testimonianze di Anna Wintour, celeberrima direttrice di Vogue America, quella di Franca Sozzani direttrice di Vogue Italia, dello stilista Karl Lagerfeld, del grande coreografo francese Maurice Béjart, dei suoi amici cantanti Elton John, Sting e la moglie di Sting, Trudie Styler, di Cher, e infine delle sue top model preferite, Naomi Campbell, Eva Herzigova e Valeria Mazza. 

L’anno successivo, nel giugno del 1998 viene inaugurata in Italia, a Como, la mostra “Gianni Versace, La reinvenzione della materia”, rassegna imponente sotto tutti i profili, divisa in due sedi separate, Villa Olmo e la Fondazione Ratti. Nella prima sede, a Villa Olmo, vengono esposti 120 abiti di tutta la carriera dello stilista, “illustrati” ed esposti – ricorda Santo Versace – in un percorso espositivo che raggruppava le creazioni in modo tematico e non cronologico.

Dall’altra parte invece, nella prestigiosissima Sede della Fondazione Ratti, vengono esposti, sempre in un percorso diviso per temi, alcuni dei materiali e dei tessuti che lo stilista utilizzava per le sue creazioni. Per la prima volta questi “materiali” che Gianni usava sin da ragazzo vengono qui affiancati dalle immagini delle campagne pubblicitarie e dei cataloghi degli abiti poi realizzati e che hanno raccontato il mito-Versace in tutti i continenti.

Ma fu tale il successo di questa nuova rassegna a lui dedicata che venne poi replicata nel 1999 al Museum of Modern Art di Miami, diventato oggi uno dei tempi sacri dell’arte moderna in tutto il mondo.

Sono i corsi e ricorsi della storia.

I suoi idoli preferiti erano i grandi maestri della pittura contemporanea, da Picasso a Kandinsky, ma anche della composizione e dell’allestimento, da Bob Wilson a Erté, da Pierre Le Pautre a Jean Bérain, la stessa architettura di Petitot lo avvolgeva e lo affascinava. Fino ai grandi maestri della canzone e della musica internazionale, da Elton John a Eric Clapton, a Sting.

L’amore tra Gianni Versace e Elton John, in particolare, amore che andava inteso esclusivamente come ammirazione viscerale dell’uno vero l’altro, nasce per caso, sull’orlo quasi di un incidente diplomatico che Elton John ricorda ogni qual volta gli si chiede di Versace.

«Una domenica a Woodside, depresso e strafatto, scrissi un brano strumentale che rifletteva il mio umore, cantandoci sopra un unico verso: ‘Life isn’t everything’, “La vita non è tutto”. L’indomani mattina seppi che un ragazzo di nome Guy Burchett che lavorava per la Rocket (la casa discografica di proprietà di Elton, ora chiusa) era morto in un incidente di moto quasi nello stesso momento in cui stavo scrivendo il brano. Decisi di intitolarlo “Song For Guy”, “Canzone per un ragazzo”. Non avevo mai composto nulla di simile: la mia casa discografica americana si rifiutò di pubblicarlo come singolo – mandandomi su tutte le furie –, ma in Europa fu una hit clamorosa. Anni dopo, quando conobbi Gianni Versace, mi disse che era la sua preferita fra le mie canzoni. Non faceva che ripetermi quanto la trovava straordinariamente coraggiosa. Secondo me esagerava un po’. Era insolita, certo, ma non l’avrei mai definita ‘coraggiosa’. Poco dopo scoprii invece che Gianni aveva capito male il titolo, “Song for a Gay”, “Canzone per un gay”».

Gli anni passano e Versace diventa sempre più famoso. Il suo nome diventa simbolo di una Italia che rinasce, e il suo marchio soprattutto diventa l’immagine forse più patinata ed esclusiva di un mondo, che è quello della moda italiana, e che grazie a lui non aveva eguali al mondo. Sono gli anni della Milano-bene, della Milano-internazionale, gli anni della grandi sfilate, dell’alta moda, del Made in Italy che conquista il mondo, gli anni in cui accanto a Gianni Versace crescono e diventano famosi ragazzi che come lui avevano incominciato dal basso, come Mariuccia Mandelli, Ottavio Missoni, Gianfranco Ferré, Laura Biagiotti, lo stesso grande grande Giorgio Armani. 

È quello che Gianni Versace chiamava il “Nuovo Grande Rinascimento Italiano”.

Indimenticabile una foto in bianco e nero di Claudio Luffoli, per AP Foto, che ritrae un Gianni Versace ancora giovanissimo, la barba incolta e nerissima, insieme agli stilisti Giorgio Armani, Valentino, Krizia e Gianfranco Ferré ricevuti al Quirinale dal presidente Francesco Cossiga, che consegnò ad ognuno di loro i massimi riconoscimenti istituzionali per il loro lavoro e il loro ruolo nel mondo dell’alta moda. Era esattamente il 24 gennaio 1986.

Gianni for ever, Gianni meravigliosamente Gianni, Gianni eternamente Gianni. La commozione di Santo nel ricordare il fratello scomparso è palpabile e immediata quanto mai.

«Nel ’78, io e Gianni, fondiamo, con Claudio Luti, la Maison Gianni Versace. Il 28 marzo 1978, Gianni presenta la prima collezione firmata con il suo nome e nasce un’icona alla prima sfilata al palazzo della Permanente di Milano, e il logo del brand. Una Medusa, che attira immediatamente il pubblico di tutto il mondo. Così mi trasferisco definitivamente a Milano. Anni pazzeschi, di lavoro e di dedizione assoluta al servizio della estrosità e del genio che albergava nel corpo di Gianni. Pensa che aveva vinto anche il cancro nel ‘94, e si sentiva invincibile. Nei prossimi anni, mi ripeteva in continuazione, finalmente ci divertiamo. Oggi mi manca lui, mi manca il suo genio. Ma Gianni manca alla moda, all’Italia. Manca a tutto il mondo».

Non a caso forse, ormai famoso amato ammirato e invidiato in tutto il mondo Versace “si diverte” investendo il suo immenso patrimonio in opere d’arte, e il collezionismo – racconta in una lunga intervista allo scrittore Mario Biondi – diventa la sua vera mission.

«Quando si guadagna molto, è facile che venga la tentazione di comperare, che so, un aereo o una grande barca. Io i soldi per cose del genere non li ho, ma in ogni caso penso sia meglio circondarsi di oggetti belli. Sculture romane, vasi etruschi, mappamondi., opere di orientalisti, lucerne d’argento. Mi diverto di più. E ora sto chiudendo il ciclo. Sto arrivando all’arte moderna. Sto facendo una collezione di opere di arte contemporanea realizzate su commissione per la Fondazione Versace. Opere di Pistoletto, Palladino, Cucchi, Warhol, Boetti, Santomaso, Schifano, Clemente, Arnaldo Pomodoro. Ciascuno di essi ha fatto un’opera idealmente o materialmente collegata con il mio lavoro. Di Pomodoro, per esempio, ho comperato alcune sculture realizzate per un lavoro che abbiamo fatto insieme in teatro. Palladino ha dipinto due mie ideali camere, quella da giorno e quella da notte, con dentro tutti i simboli che sa che amo. E così via. Io sono convinto che stia per presentarsi un nuovo rinascimento italiano. E perché ciò avvenga, deve rinascere il mecenatismo. Chi ha, deve mettersi a disposizione dell’arte. Dal canto mio, faccio quello che posso».

Tutte le sue case, almeno le tre case principali che Gianni Versace aveva e dove viveva regolarmente, tra Milano e Miami, erano diventate suo malgrado un meraviglioso museo d’arte moderna, e quando Mario Biondi lo va a trovare e trova la sua casa di Milano invasa di mappamondi rimane di sasso, ma Gianni Versace sornione sorridente ed eclettico come tutti i sognatori del suo mondo, gli racconta la favola bellissima della sua vita.

«Il mappamondo? Mi aiuta a sognare. Forse perché il mondo è una cosa talmente bella che mi piacerebbe possederla tutta, dal punto di vista visivo. Vedere, viaggiare, se fossi nato nell’antichità, come mi ha detto una volta Maurice Béjart, avrei fatto parte “della banda di Ulisse”. Sempre in giro. “Tu sei un amico di Marco Polo”, mi ha detto un’altra volta».

E alla domanda di BusinessPeople, “Vi aspettavate questo enorme successo”, Santo Versace risponde ancora oggi alla sua maniera, con questo suo sorriso disarmante e questa sua semplicità che è rimasta tutta intera calabrese, e meridionale, nella sua accezione più bella.

«Nel 1976 un amico mi disse: “Ma non ti basta quello che tuo fratello fa per gli altri marchi? Perché volete crearne uno vostro, con tutti i rischi che comporta?”. Gli risposi: “Guarda, se tutto va bene faremo meglio di Yves Saint Laurent”. Dirlo nel 1976 era una follia. La coscienza del nostro valore e il grande lavoro ci hanno poi permesso di raggiungere questo risultato. Quando presentammo la collezione uomo 1978 dicemmo agli amici della Genny e della Callaghan che Gianni avrebbe continuato a lavorare per loro sulla donna, ma sull’uomo avremmo fatto da noi. L’anno prima solo sull’uomo avevamo fatturato 700 milioni di lire. Il successo fu tanto grande quanto inaspettato, Nessuno dei fornitori si era preparato a quadruplicare il fatturato, per cui ci trovammo in difficoltà. Vendemmo 2 miliardi e 800 milioni di lire la prima stagione, ma non essendo attrezzati per produrlo, consegnammo meno del 70% dell’ordinato. Poi la crescita è stata esponenziale».

Il 15 luglio 1997 i giornali e le TV di tutto il mondo aprono i titoli di testa con una notizia che riporta in primo piano il nome di Gianni Versace, e che nessuno avrebbe mai voluto leggere. 

È una notizia di morte. Storia di una tragedia che si consuma a Miami proprio davanti alla villa in cui Gianni Versace viveva. Quella mattina di luglio, a Miami, Gianni Versace viene freddato sugli scalini della sua villa, “Casa Casuarina”, su Ocean Drive mentre stava tornando dal News Café a pochi isolati di distanza, dopo aver comprato i giornali del mattino. Ad ucciderlo, il giovane Andrew Cunanan, che nove giorni dopo l’omicidio viene ritrovato cadavere in una barca-abitazione a Indian Creek, “suicida” – dichiara la polizia americana- con lo stesso fucile con il quale aveva sparato a Versace. 

«La sua morte – ricorda il fratello Santo in una intervista rilasciata nel 2013 all’ Huffington Post – è stata un danno incalcolabile non solo per l’azienda. Per Milano, dove Gianni era il numero uno indiscusso. Per l’Italia intera che ha perso uno dei suoi geni assoluti e ha dovuto rinunciare alla nascita del primo Polo del Lusso, al quale Gianni e io stavamo lavorando prima di quel tragico 15 luglio del 1997».

Commovente il ricordo che ne fa la sorella, Donatella, a Paola Pollo sull’ultimo numero di 7 del Corriere della Sera.

«Dopo 20 anni, ho imparato a convivere, in automatico, con la sua assenza. All’inizio è stata dura, durissima. Ho vissuto il mio dolore sotto gli occhi del mondo, ma con il passare del tempo, soprattutto con il lavoro, ce l’ho fatta. Con la Tribute Collection, la collezione a 20 anni dalla morte di Gianni Versace, nel settembre del 2017, è stata una catarsi. È stata la svolta, e sempre davanti a tutti. Quel giorno in un certo senso ho affrontato i miei demoni, la perdita di Gianni, ma anche le mie insicurezze che mi bloccavano nel continuo confronto con mio fratello».

Miami e l’America non hanno mai dimenticato quella tragedia. 

Da allora ogni giorno, ancora oggi, a Miami centinaia di persone si fermano a fotografare l’ingresso del magnifico edificio che fu la casa di Versace, diventato dopo la sua morte un albergo extralusso.

Naturalmente, per Donatella e per suo fratello Santo – Santo sempre molto più riservato e più ritirato – “Gianni non è mai morto”.

«Lui è sempre nei miei pensieri- dice oggi Donatella –, in modo diverso rispetto ai primi anni, però c’è. Penso sempre a cosa direbbe sulle mie collezioni, il suo giudizio per me è importante, nonostante sia consapevole che non ci sia più. La gente non ha idea, se non quando lo prova, di cosa si attraversa quando perdi una persona che è la tua metà. Non sentivo più emozioni, nel bene e nel male, ero come intorpidita, ci sono voluti anni prima di ricrearle dentro di me, per vedere un orizzonte. E il dolore non passerà mai, ti adatti alla vita, ma quella cosa resterà per sempre».

Ma in realtà, anche per il resto del mondo, è come se Gianni non fosse mai morto.

Nel 1998 viene creato in suo onore il “Premio Versace Awards”, un premio in onore e alla memoria dello stilista, da assegnare durante i VH1 Fashion Awards alle personalità musicali “che avevano fatto dell’immagine e del costume una componente fondamentale della propria carriera”. E la prima grande artista mondiale a ricevere il premio è proprio Madonna. 

Due anni più tardi la regina della serata dedicata a Gianni Versace sarà invece Jennifer Lopez. Un tripudio di personaggi, di eventi, di manifestazioni e di location che fanno rivivere Gianni Versace in ogni momento importante della storia della moda e dello stile di ogni Paese.

Ma è solo l’inizio di tutta una lunga serie di carovane e di rassegne che dopo la morte dello stilista lo ricordano e lo ripropongono come icona dell’eleganza italiana nella storia internazionale della moda.

Santo Versace lo ricorda ancora con immensa commozione, ma alla fine la storia di Gianni Versace è anche la storia personale di Santo suo fratello e di sua sorella Donatella, storia di una dinastia ormai che sembra destinata a segnare ancora per tantissimi anni la strada maestra della moda.

Nell’ottobre del 2002 il “Victoria and Albert Museum” di Londra gli dedica una delle rassegne più complete dedicate alla sua attività. Con il titolo “Versace at the V&A” vengono esposti centotrenta pezzi diversi, rarissimi, selezionati direttamente della collezione privata di Gianni Versace, tra cui alcuni degli abiti di gala indossati nel tempo da Madonna, Lady Diana, che Gianni Versace adorava quanto sua sorella Donatella, e poi Elton John e l’indimenticabile mise con le spille da balia indossata da Elizabeth Hurley, accompagnati da foto e bozzetti originali dello stilista. 

A distanza di dieci anni dalla sua morte, il 15 luglio 2007, al Teatro alla Scala di Milano va in scena un balletto, ideato dall’amico Maurice Béjart, dal titolo Grazie Gianni con Amore, anche questo un trionfo di emozioni e di sentimenti che la stampa internazionale racconterà con toni enfatici e titoli di testa.

Un giorno Gianni capitò a Reggio Calabria e andò a cercare la sua vecchia sartoria al numero 13 di Via Tommaso Gulli, a due passi dal Duomo, e seduto davanti ad una tradizionale granita di caffè con panna si lasciò sfuggire quello che poi sarebbe diventato il suo vero testamento spirituale.

“Reggio è il regno dove è cominciata la favola della mia vita: la sartoria di mia madre, la boutique d’Alta Moda, il luogo dove, da piccolo, cominciai ad apprezzare l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, e dove ho cominciato a respirare l’arte della Magna Grecia”.

Gianni Versace, For ever. We love you. 

Leonzio Pilato, da Seminara al mondo i miti immortali

di SANTO GIOFFRÈ – Il 1° dicembre 1365, nella  baia di Venezia, muore Leonzio Pilato, il più grande studioso, intellettuale e letterato, mitografo meridionale  del Medioevo.  Nato a Seminara, verso il 1313.  Leonzio Pilato è il padre dell’Umanesimo occidentale. Mai, amor mi fu tanto caro!

Sigero, ambasciatore di Bisanzio a Venezia, comunica a Francesco Petrarca: “Leonzio Pilato, dopo aver tradotto la Fisica di Aristotele, decise di lasciare Costantinopoli.  Mentre si trovava vicino all’albero di trinchetto della nave, in vista del porto di Venezia, un fulmine lo uccideva. Fu allora, nel momento in cui la vita stava per abbandonarlo, che Leonzio raccolse le sue ultime forze e lanciò per aria i suoi preziosi codici per donarli agli Dei, perchè li custodissero e al vento tempestoso perchè li spargesse per il mondo. Io lo abbracciai, forte, ma Leonzio, ormai, apparteneva al mondo dei suoi amati Dei e, quando tentai di strigere la sua mano, udii il sospiro del vento sussurrare Irene, Irene…”

Fino a 40 anni fa, di Leonzio Pilato nulla si sapeva. Soffice piuma confusa, dal vento, tra le polveri di scarto. Francesco Petrarca, dicendo di Lui e del suo pessimo carattere di arcigno  greco meridionale, lo condannò alla damnatio memoriae, pur avendo visto, attraverso Lui, la luce della sapienza del mondo classico.

Allevato da Barlaam, secondo  Scuola e disciplina bizantina che regolava l’addestramento dei bimbi allo studio e alla traduzione dei codici antichi, si presume che Leonzio Pilato all’età di 7 anni, fosse stato addestrato da Barlaam a tradurre i codici classici dal greco in latino, come in uso nelle Scuole dentro i Monasteri Ortodossi. La prima notizia certa, su Leonzio adulto, ci viene riferita da Boccaccio quando apprende il significato del Mito di Proteo dalle parole di Paolo da Perugia, rettore della più fornita Biblioteca in Europa; quella  Napoletana di Roberto d’Angiò. Spiegazione che Paolo da Perugia aveva avuto da Leonzio Pilato, che a lui si era presentato come Auditor (allievo) del grande Barlaam. Ricordiamo, a chi mi legge, che Paolo da Perugia scrisse una grande opera sugli genealogia degli Dei le Collectiones.Ma pare, che, in effetti, gran parte della stessa opera fu scritta o dettata  da Barlaam. 

Come Leonzio Pilato scrisse gran parte dela Genealogia degli Dei Gentili che Boccaccio s’intestò. Dopo 10 anni che Leonzio era rimasto a Creta per perfezionarsi nella lingua greca, lo ritroviamo a Padova, il 5 dicembre 1358, straccione, senzatetto e mentre cercava l’elemosina in Piazza della Ragione, per mantenersi ai corsi di laurea presso lo Studium Padovano. Qui incontrò, perchè a Lui indirizzato, Francesco Petrarca, che era un Dio in terra e uno degli uomini più ricchi, egoisti, superbi e potenti di quel tempo. Petrarca, sapendo di questo straccione calabrese, (sporco, ostico, puzzolente, con i capelli in disordine, ma la più grande mente esistente nella conoscenza delle favole greche, come lo descrive, dettagliatamente, Giovanni Boccaccio nelle Genealogie,  libro XV) che recitava l’Iliade, in latino, dando consigli ad un avvocato per affrontare cause difficili, andò a trovarlo e gli propose di fare una cosa, mai tentata al mondo: la traduzione, dal greco in latino, dell’Iliade e dell’Odissea. Leonzio, pur riluttante, perche aveva in odio gli uomini col piglio padronale, accettò per fame e  con modesta mercede. Ma, poco durò il suo tempo col Petrarca! 

Per contrasti circa la sua tecnica antica di affrontare la Translatio, verbum de verbo, Katà podà, mentre Petrarca pretendeva la traduzione a senso,  arrivato alla traduzione del verso 3401 del V libro dell’Iliade, Leonzio, dopo l’ennesimo richiamo del Petrarca “fac citius, fac citius – fai presto, fai presto”, mandò, letteralmente affanculo, il Poeta Laureato. 

L’abbandonò, buttandolo nello sconforto totale perché, il Cantore di Laura, capì che, perdendo Leonzio, gli sarebbe venuta meno l’unica persona, in tutt’Europa, tra i traduttori, persino Bizantini di altissima cultura, capace di  maneggiare e tradurre i Poemi Immortali. 

Petrarca aveva e soffriva la pecca di non conoscere il greco e, da grande Intellettuale qual era, oltre ad essere sospettato  di finanziare  ladri e trafficanti di manoscritti, sapeva l’importanza, per lui, dell’entrare in possesso, prima di tutti gli altri al mondo, del fiume di notizie contenute nell’Iliade e nell’OdisseŒ. 

Fu Giovanni Boccaccio il quale, implorato da Petrarca, intercettò Leonzio Pilato sulla strada verso Avignone. Lo portò con sè a Firenze, facendolo mettere a stipendio dalla Repubblica Fiorentina come fondatore e insegnante presso la prima cattedra di Greco in Italia. 

Leonzio Pilato, tra il 1358 e il 1360, tradusse tutta l’Iliade e l’Odissea e l’Ecuba di Euripide. A Pisa, tradusse il Digesto, parte greca delle Pandette. 

Nel 1363, dopo un’ulteriore scontro con  Francesco Prtrarca, a Venezia, s’imbarcò per Costantinopoli dove, per campare, dava lezioni di greco ai giovani rampolli veneziani e tradusse la Fisica di Aristotele. 

Da un frammento ritrovato, risulta che Leonzio era un laureato. Cioè, a Padova, Leonzio Pilato raggiunse la massima onorificenza di studi, la Laurea. In Italia, allora, i laureati erano sì e no cinque.

Mario La Cava: una vita spesa per scrivere della Calabria

“…ho speso una vita per scrivere, per analizzare la Calabria, non so se bene o male; questo non tocca a me dirlo. Posso dire che ho fatto grandi sacrifici, sperando che questa terra potesse avere una sorte migliore, come credo che avrà“. (Mario La Cava)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Era Novembre. Per fortuna il 16 e non il 17, ma probabilmente non avrebbe fatto differenza.  Sapeva bene che quando la morte arriva non guarda in faccia né i giorni né i mesi né gli anni. Niente e nessuno. Ma ugualmente novembre sembrava essere un mese un po’ più modesto rispetto agli altri per compiere la dipartita. E per Mario La Cava andò proprio così. 

Il 16 novembre 1988, lo scrittore si spegneva nella sua casa di Bovalino, dove aveva trascorso la sua vita. Tra l’odore dei libri e quello dello Ionio. All’età di 80 anni, moriva il padre dei Caratteri del Sud. Intellettuale stimato dalla gente a apprezzato dalla critica. Uomo dal pensiero libero, da sempre impegnato nella lotta ai diritti civili. 

Sacrificio e abnegazione, legati agli anni duri di una Calabria povera, da cui però La Cava non fugge, anzi, appunta ogni cosa. Il dolore, la fame, il valore della terra, l’inettitudine umana. Una vita da scoglio in una Bovalino amatissima, ma che si scopre anche da mare aperto, nel racconto delle sue storie, dove La Cava viene fascinosamente sorretto dall’ardore della conoscenza. Gli anni di formazione, i viaggi, il rapporto con il resto del mondo. Uno scrittore che non falsa mai la sua identità, e resta uomo anche nei libri, rifacendosi a un’esistenza che non è mai agiata né ricca, né troppo ricercata. 

«Sono nato a Bovalino, un paese della Locride, sul mar Ionio, nel 1908. 

Sono uno scrittore ormai anziano, ma molto fortunato per aver vissuto così a lungo. Abbastanza fortunato se penso che i dispiaceri, i disturbi e le seccature che si hanno, non siano cose sempre perdute per l’animo umano. L’esperienza di dolore serve alla conoscenza. Ed io, alla mia età, non dico che mi rallegro di quello che è stata la mia vita, ma la posso accettare con notevole coraggio.

Scrivo. Ho cominciato a scrivere da giovane. La mia passione da principio è stata quella di fare qualcosa che fosse servita a farmi segnalare sugli altri, ma non sapevo che cosa.

Avevo da studente il complesso dell’inettitudine linguistica, dell’incapacità di esprimermi in un linguaggio corretto. Sono calabrese e non avevo dietro di me le glorie letterarie della Toscana. Il linguaggio che parlavo in famiglia era il dialetto, e credevo che il linguaggio delle lettere fosse fortemente lontano. Invece ho visto che il linguaggio letterario può fondarsi benissimo sulla lingua parlata, sul dialetto comune. 

Ho scritto varie opere. Molti sanno che sono uno scrittore, ma pochi mi hanno letto. In Calabria soprattutto, si legge poco, sono molti quelli che scrivono, poeti soprattutto. Tutti vogliono giudizi, chiedono di essere letti, ma nessuno è disposto a leggere gli altri. Noi che viviamo in Calabria, non possiamo dire di essere in luogo ideale per comunicare, avere chi ci voglia leggere e ascoltare, però è un luogo ideale per altri versi. È un luogo in cui la natura parla con la sua bellezza, in cui gli uomini sono, anche nel male, schietti, non falsati dall’estrema civiltà. Abbiamo stimoli culturali notevoli, pur vivendo qui, in questa regione, in un lembo della Calabria, come vivo io da tanti anni. 

Sono nato all’inizio del secolo, e sono stato fortunato, perché avrei potuto morire molto tempo prima. Ancora non sono morto, e spero di prolungare questa mia permanenza sulla terra più che sia possibile, purché abbia la capacità di una mente vigile, perché altrimenti non è vita. 

Questo volevo dirvi».

Mario La Cava, nella veste di romanziere e sopraffino meridionalista, dà un contributo unico ed inequivocabile alla letteratura italiana. Nelle sue opere viene raccontata, e con ricognizione reale, la tragicità della gente di Calabria. Il destino, quasi sempre avverso, di un popolo a volte incapace, altre  impossibilitato, a scegliere. Per questo, i libri dell’avvocato, come tutti riconoscevano Mario La Cava, laureato in Giurisprudenza a Siena, pur con una grande cultura umanistica, vengono considerati necessari alla vita. Pagine di trattati umani apprezzatissime persino da Leonardo Sciasca, il quale, su La Cava, ebbe sempre parole di grande merito. 

«Come quelli di Enrico Morovich, quelli di La Cava sono libri che stanno, che non si muovono, che non si rimuovono, che non conoscono ascese e cadute, cui né ombre né risalto danno il mutare dei gusti e delle mode».

Uno scrittore fortemente legato alla sua terra, Mario La Cava, quella Calabria che, scrive Repubblica, ricordandolo nel giorno della sua morte, ha fornito i prodotti più tipici del realismo meridionalista. Uno scrittore mite e incompreso, titola invece il Corriere della Sera, lo stesso giorno dello stesso anno, in un articolo firmato da Giuliano Gramigna.

«Piccolo, minuto, il cranio lucido, gli arguti e allarmati dietro gli occhiali, Mario La Cava appariva ciò che era, un uomo mite. Ma capitava che si animasse di colpo, per uno sdegno, un impegno civile o letterario: allora la sua voce un poco stridula si alzava per un momento a toni acuti, i gesti diventano fitti e frenetici».

Uno dei massimi autori calabresi, scrivono ancora Il Tempo e Il Giorno. Uno scrittore prolifico e raffinato, “Una voce scomoda del Sud”, Il Sole 24 Ore.

La Cava guarda il mondo attraverso i ritratti, gli scorci, i racconti autentici di una Calabria che è dentro di lui e dentro cui egli ha responsabilmente deciso di restare. Non avrebbe potuto, altrove, trovare ispirazione per i ritratti e i bozzetti dell’umanità che egli narra in Caratteri, la sua opera più celebre. 

Mario La Cava, resta uno dei pochi esclusi dalla categoria degli intellettuali meridionali delle partenze. Egli non lascia la Calabria, non parte per affermarsi altrove. Un calabrese intellettuale anomalo come Fortunato Seminara, i soli due rimasti in terra natia. La Cava deve alla sua restanza, l’autenticità della sua narrazione, sempre  geniale, sincera, mai falsata, e senza per nulla mai prendere in presto storie o situazioni altrui. 

Il professore Pasquino Crupi, uno dei più grandi meridionalisti e intenditori della letteratura calabrese, recandosi a casa di Mario La Cava, nel giorno dei suoi funerali, ai microfoni di una tv locale, fa un’analisi dello scrittore che è intima e altrettanto realista. «La Cava – dice Crupi – restando in Calabria, è consapevole di essere uno scrittore di provincia, lo ha scelto, ma mai, mai di La Cava nessuno potrebbe dire di uno scrittore provinciale. Uno scrittore progressivo, invece, di cui però molti si sono ricordati in morte. La Martin – aggiunge – diceva che la letteratura italiana è una letteratura dei morti, e aveva ragione. Dei nostri scrittori bisognerebbe ricordarsi quando sono in vita, per aiutare loro e al tempo stesso noi.

Ricordare La Cava, vuol dire ricordare gli ambienti e i personaggi della vita meridionale, che hanno dato senso e significato alle pagine dei suoi romanzi. I suoi libri infatti sono testamento di una Calabria spesso sconfitta, dentro la quale è lo stesso La Cava a essere trascurato e incompreso». 

«La scarsa fortuna commerciale dei suoi libri, – afferma Giuliano Gramigna – non aveva mai intaccato la sua dignità. Semmai si rammaricava appena di avere tanto lavorato e di trovarsi alla fine con quasi nulla in mano, soprattutto dal punto d vista pratico; e di avere i cassetti pieni di inediti, e ancora molto da raccontare».

La Cava fu maestro di un genere letterario, oltre che scrittore dal respiro europeo. La  sua letteratura ha avuto e a tutt’oggi ancora ha un compito importante nella società civile. Pur narrando una storia semplice, essa è una letteratura elevata, rivolta alla conoscenza piena dell’uomo. 

Oggi in pochi ricordano lo scrittore di Bovalino. A 33 anni dalla sua morte, molti hanno dimenticato il nome di Mario La Cava. Una disattenzione inaccettabile, che può essere riparata solo studiandolo e leggendolo (nelle scuole).

«…Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo». (Leonardo Sciascia).  (gsc)

Saverio Strati, la genialità postuma di uno scrittore straordinario

TUTTA UNA VITA: IL LIBRO INEDITO DELLO SCRITTORE CALABRESE, EDITO DA RUBBETTINO

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il percorso che intrapresi parecchi anni fa sulla letteratura calabrese, porta un nome ben distinto e preciso: Saverio Strati.

Ero ragazza quando lo incontrai a scuola. Facevo più o meno la quinta elementare. Un nuovo maestro, ci disse la maestra. Statura bassa, capelli bianchi, scarpe di suola e un paltò del colore della sabbia del mare. E sotto braccio un borsello di pelle. Fu da lì che estrasse Fiabe Calabresi e Lucane, che io e i miei compagni avevamo già letto in classe, e di cui l’autore era lui, insieme al professore, nostro compaesano, Luigi Maria Lombardi Satriani.

Da allora non lo rividi mai più. Anzi ne persi completamente le tracce. Ma solo fino a quando il caso decide di trasformarsi in destino, e Saverio Strati lo ritrovo, e proprio quando non me lo aspetto più. In libreria, in uno scaffale carico di libri, in mezzo ad altri autori. Lo ritrovo con uno dei suoi più grandi capolavori, Tibi e Tascia. Un caso sì, proprio un caso aver posato gli occhi su quel libro, e sicuramente un destino averlo fatto in quel preciso momento. Non passò moltissimo tempo infatti, e di Strati, dopo anni di lungo e assordante silenzio, incominciai a sentir parlare i giornali locali. Lo scrittore calabrese, che da quasi cinquant’anni abitava a Scandicci, in Toscana, vicino Firenze, balzava agli onori della cronaca letteraria per lo stato di indigenza in cui si trovava costretto a vivere.

Ma come era possibile tutto questo?

Mi ero documentata. Saverio Strati era stato uno dei più grandi autori del neorealismo italiano; aveva scritto una quantità eccezionale di libri; era stato letto e tradotto in tutto il mondo; aveva vinto il Campiello nel 1977 con Il Selvaggio di Santa Venere; era stato lui, ancora prima di Sciascia, il primo autore dell’Italia novecentesca, a parlare apertamente di mafia. Ma nel 1991, Mondadori, la casa editrice con cui aveva esordito e si era affermato, rifiutava il suo racconto Melina, e il romanzo Tutta una vita.

Un’uscita di scena ‘imposta’ che impatta bruscamente sullo scrittore, ma soprattutto annienta l’uomo. 

Entrambi provati moralmente, e col tempo anche economicamente. Strati, che vive con il mestiere di scrittore, attinge ai risparmi finché gli è possibile, ma quando anche questi saranno finiti, è ben altro quello a cui le necessità fisiologiche dell’uomo lo costringono. In una lunga e accorata lettera, il piccolo muratore calabrese, diventato grande scrittore nel mondo, si vede costretto, per poter vivere degnamente insieme alla moglie svizzera, Hildegard Fleig, gli ultimi anni della sua vita, a chiedere il sussidio previsto dallo Stato per gli artisti italiani, grazie alla legge Bacchelli.

Alle lettura di questa triste notizia, custode delle forti emozioni del giorno in cui Strati lo avevo visto e ascoltato, toccato con mano, ebbi al cuore uno stretta che ricordo ancora. E fu dolente.

Il mio interesse verso la letteratura calabrese era stato sempre forte, ma da quel momento ebbe, non una ragione in più, ma una precisa ragione. Saverio Strati aveva dovuto, schivo e introverso com’era, superare ogni genere di vergogna, per poter scrivere quelle righe. Sottomettere la sua dignità di uomo. Mettersi a nudo a quel modo non era stato certo facile. Non lo sarebbe stato per nessuno. In fondo, uno come lui, non avrebbe voluto altro se non che si leggessero i suoi libri. Questo infatti chiedeva. Non soldi, ma la pubblicazione delle sue opere. 

La Calabria, contrariamente a quanto aveva fatto prima, ignorando spesso la genialità di Strati, si mobilita a suo favore, e affinché almeno all’uomo fosse concesso di arrivare dignitosamente al tramonto della vita. E fu. Vi furono campagne di sensibilizzazione davvero importanti. E se anche alla fine i libri di Strati non vennero pubblicati, la Bacchelli gli fu praticamente concessa.

Non mi diedi comunque pace, e neppure per vinta, la struttura che era stata messa in piedi attorno a Saverio Strati, non era minimamente sufficiente se misurata sulla base della sua grandezza. Salvato l’uomo, ora bisognava salvare lo scrittore. 

Saverio Strati aveva dato alla letteratura italiana un grande impulso, e la mancata riconoscenza ch’essa le riservava, destinandolo all’oblio, la trovai davvero discutibile. Se Strati doveva pagare un prezzo, per non essere stato avvezzo ai salotti letterari dell’Italia del ‘900 come l’epoca richiedeva, ed essere stato comunque uno scrittore di successo, libero e indipendente, il conto che gli veniva presentato era decisamente troppo alto e ingiusto. 

Dovevo fare qualcosa, non potevo rimanere con le mani in mano. Dovevo almeno provarci. Provare a recuperare. Per il maestro, per la Calabria e per la letteratura italiana.

Scrissi a Saverio Strati – con la mano tremante e una miscellanea di emozioni che pur generandosi nello stomaco arrivavano fin dentro la gola per soffocarmi – almeno un paio di volte, ma non ebbi mai alcuna risposta.

È inutile insistere mi consigliò qualcheduno, datti pace. Il maestro non esiste più, non risponde più a nessuno. Né al citofono né al telefono. Tantomeno alle lettere. Il martirio a cui è stato condannato, non lo ha sopportato. E lo ha distrutto, ucciso prima ancora di morire davvero. Era il 2009.

Il 9 aprile 2014, quando mi giunse la nuova che il maestro era fisicamente morto, persi improvvisamente una parte importante di me. La voce, le parole. Impiegai diverso tempo a metabolizzare quel lutto. Strati moriva lontano, moriva da solo, ai margini della sua terra, e soprattutto, e io lo sapevo, moriva portando la gente di Calabria dentro di sé come il cuore nel petto dell’uomo. Con la sua morte, l’Italia perdeva uno dei suoi più grandi geni letterari, la Calabria uno dei suoi figli più illustri, io il mio grande maestro.

Avevo recuperato tutti i suoi libri, uno ad uno. Li avevo letti tutti, uno ad uno. Ero stata a Sant’Agata del Bianco, suo paese natale; nella sua casa, sulla collinetta di Cola, nella piazzetta di Tibi e Tascia; ad Africo, nella sua Terrarossa, dove da mastro muratore, Strati, aveva contribuito a edificare le scuole elementari volute da Umberto Zanotti Bianco, e lì avevo imparato cosa fosse una teda. E adesso toccava a me. Questo era il mio turno. La preparazione c’era, il coraggio e la grinta pure. Se la Calabria, che era la terra della quale con Strati condividevo il sangue e l’onore, aveva ancora una grande luce da accendere, o anche solo una piccola teda, era sul suo scrittore santagatese che andava puntata. 

Con i libri di Saverio Strati maturai l’esperienza che mi serviva, e mi formai profondamente come donna, come calabrese e come scrittrice. Tra il 2015 e il 2016, scrissi due saggi brevi (Saverio Strati – non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla / Saverio Strati – due racconti), entrambi  a lui dedicati. Lo scrittore dimenticato doveva riapprodare al più presto nella sua Itaca. E la Calabria lo era. Li destinai alle scuole. V’erano dentro la vita, il pensiero, le opere, e anche due racconti inediti. Di uno posseggo il manoscritto in originale, con le correzioni a penna fatte di suo pugno, le aggiunte, i tagli. 

La mia esperienza diventava quella di molti. Un viaggio a introspezione nella Calabria più vera e più autentica, nell’unica sua originale forma. Ma Strati era anche in un romanzo che doveva poter rivivere, in fondo era questa la forma di scrittura che più amava. 

Nel 2017 gli dedicai La Terra del ritorno, pagine intense e forti di cui altro non aggiungo, per quanto abbastanza possa già parlare il titolo.

Andai di scuola in scuola, di paese in paese. Attraversai la Calabria dall’Aspromonte al Pollino, dal Tirreno allo Ionio, e incontrai ragazzi di ogni età e di ogni estrazione sociale. Tra i banchi di scuola Strati ritornava come aveva desiderato, e ritornava con me, e io ne ero orgogliosa. Saverio Strati diventava il “nostro” scrittore. Affettuosamente nostro. Mio e di tutti i ragazzi, di tutti i maestri e le maestre, i professori e le professoresse che incontravo. Nei suoi libri non c’erano scritti i nostri nomi, no, ma la nostra storia sì. C’era tutta, ed era completa. C’eravamo noi, ognuno di noi. 

Partecipai a incontri, convegni, alcuni davvero emozionanti nel suo paese natìo. Era dalla genesi che bisognava partire. Perché in fondo la consapevolezza di ogni cosa, risiede lì dove la cosa nasce. Programmai finanche un viaggio verso la sua casa fiorentina. Scandicci, via Giotto, aria pregna di libri e di storie. Rapporti serrati con il figlio, i nipoti, e poi, poi come andò e come non andò, non è importante, le fatiche fatte, quando si avverano i sogni, non vanno proclamate, quel che conta è il risultato finale. E oggi, chiunque, recandosi in libreria, Saverio Strati potrà trovarlo, incontrarlo com’è accaduto a me. Gioire della sua ritrovata opera. Perché sì, i suoi libri sono stati ripubblicati. Tibi e Tascia, La Teda, il Selvaggio di Santa Venere. Ma la cosa straordinaria è che il suo romanzo inedito, è stato pubblicato anche quello. Tutta una vita, tanto ha dovuto attendere Strati, affinchè quest’opera vedesse la luce. Per i tipi di Rubbettino, la casa editrice calabrese di Soveria Mannelli, Strati torna sulla scena letteraria italiana e come il più moderno degli scrittori. 

Tutta una Vita è l’opera che forse da Strati non ci si saremmo mai aspettati, specie gli stratiani convinti. E se forse fosse stato pubblicato prima questo romanzo, neppure l’avremmo granché capito, né gradito. Ma se è vero che ogni autore ha una sua opera della maturità, allora ecco che Saverio Strati si presenta con una potenza narrativa davvero straordinaria. Uno scrittore maturo? Di più. La genialità dello scrittore.

Strati dà piena libertà al suo vero genio creativo. Se nei precedenti romanzi il focus dell’autore mira prepotentemente e unicamente a mettere in risalto la staticità della Calabria, dentro cui i calabresi si lasciano naturalmente trascinare, in Tutta Una Vita, l’attenzione assoluta è al movimento dei calabresi dentro cui, la Calabria, aprendosi all’Italia, si muove con loro. Una riforma che ci sono voluti anni affinché avvenisse, ma che era necessaria per l’autore e per il lettore. 

L’ordito viene intelaiato arrovescio; la storia comincia finendo, per finire cominciando. Pino Condello è un architetto che realizza i suoi sogni, tra sacrifici e fatiche, contrariamente ai personaggi narrati da Strati nelle sue precedenti opere. Egli infatti si discosta dalla mentalità meridionale “classica” secondo la quale i figli devono seguire i progetti dei padri. Pino, dalla facoltà di Ingegneria passa ad Architettura, il piglio del padre d’avere un figlio ingegnere da inserire nella ditta di famiglia, s’accorge d’essere un peso troppo grande per lui, davvero troppo da doverselo caricare addosso tutta la vita. 

E così, Strati, ricorda a sé e al lettore, attraverso le evoluzioni intime del protagonista, che i figli spesso hanno sogni che non corrispondono ai sogni dei padri, alle aspettative della famiglia. E il piacere di vivere liberamente la propria vita, è la forza nuova con cui costruisce il suo personaggio, permettendogli di fare esperienze diverse e consapevoli. A Pino è l’arte che lo attrae, la voglia di potersi esprimere che lo coinvolge, il desiderio di libertà che lo assale.

Tutta una vita, non è propriamente un romanzo e basta, esso appare sin dal principio la sintesi di qualcosa di più grande. Strati tratteggia la geografia umana dei personaggi e la storia delle loro condizioni sociali e morali, con un fare filosofico tale, da incominciare il romanzo come una sorta di trattato di filosofia. La storia è scissa precisamente in due parti; quella in cui Pino, martoriato dalla coscienza, al termine delle sue esperienze umane spesso sofferte, ripercorre i fatti e i misfatti, i corsi e i ricorsi di cui è stato protagonista, e dove Strati, oramai maestro di vita, inneggia un filosofare che lo magnifica: – […]A pensarci bene non si è mai del tutto soli. C’è qualcuno che ti controlla, che ti giudica, che ti rampogna: la coscienza. Essa è sempre desta, attenta, pronta e coraggiosa a rimproverarti le tue bassezze, le tue debolezze e falsità e vigliaccherie. […] È la tua Sibilla, la tua Madonna […]– ; e quella in cui, sempre Pino, vive direttamente il suo destino, e Strati torna a essere il narratore di sempre, ritorna insomma a fare il mestiere di tutta una vita.

La potenza della narrazione esplode ovunque, e si avverte soprattutto nei monologhi interiori, in cui Strati è il vero e unico protagonista. Egli non lo palesa, ma spesse volte mette da parte Pino e al suo posto presenta Saverio, il narratore e l’uomo, il calabrese e l’uomo del mondo. E lo fa alternando, con capacità espressiva unica, il discorso diretto a quello indiretto. 

La letteratura italiana, con Saverio Strati, ha avuto un grande maestro di architettura umana, eppure non se n’è mia completamente accorta. Strati si è sempre mostrato aperto alla vita, ma in questo romanzo lo fa in maniera inequivocabile. Si spoglia, o almeno cerca, pur rimanendo fermo sulla condizione umana del’individuo, dei limiti della condizione geografica che insistono invece nelle altre sue opere, e libera i personaggi nella dimensione che più gli è congeniale. A Nord e a Sud. Un percorso italiano in cui la contrapposizione dei due poli del paese non svanisce, ma non è neppure assoluta. L’Italia va cambiando e i personaggi si ambientano al cambiamento, seppur ognuno con una propria visione culturale ed economica. Pino si stacca dal paese, suo cugino Lino no. Pino resta a Milano, Lino no. Pino immagina di potersi esprimere altrove ed esprimersi meglio, Lino no. E non è questione di mentalità retrograda, ma è l’interior di entrambi che cambia. L’umano di cui è fatto Pino rispetto a quello con cui si è formato Lino. Strati presenta un Sud meno povero rispetto al suo solito, ancora non sufficientemente aperto, ma sicuramente più operoso (vedi la famiglia Condello), con ulteriori impulsi rispetto al passato, anche se con certamente ancora tanta strada da fare. Racconta di viaggi che si alternano, e non si sofferma mai particolarmente sulle partenze dal paese natio, quale forma assoluta di dolore e di nostalgia, ma racconta la vita nei suoi movimenti naturali. Traccia itinerari che si delineano sulla base delle prospettive e della ambizioni dei personaggi stessi. Cessa la lamentazione della Calabria, che invece racconta nella sua forma tipica, senza per forza dover mettere in competizione le periferie con la città. Concede a Pino possibilità di futuro e di lavoro tanto al Sud quanto al Nord, e non rimette nelle mani di alcuno i fallimenti o le vittorie dei personaggi, se non di essi stessi. Offre a chiunque la possibilità di scegliere, rendendo consapevoli tutti che una scelta fatta, equivale sempre e comunque a una rinuncia da fare. 

Saverio Strati non si pone mai come uno scrittore autobiografico nei suoi romanzi, più volte egli stesso intese precisare questo aspetto, ma racconta semplicemente storie vissute, che inevitabilmente rimandano il lettore alla vita dell’autore stesso.   

In Tutta una vita accade proprio così. È vivo il richiamo ai luoghi di formazione dello scrittore che in grande parte coincidono con quelli del protagonista: Messina, dove Saverio Strati proprio come Pino Condello approda come studente universitario dopo il diploma liceale a Catanzaro nel 1949, e si forma seguendo le lezioni del professore Giacomo Debenedetti; Firenze, i monumenti, l’arte, la geografia, la storia. Melo, questo nome curioso che appare una volta solo nella storia di Pino, e poi scompare, e che invece nella vita dello scrittore ha un’identità e un ruolo precisi: Carmelo Filocamo, suo compagno di studi, l’amico geniale che se non avesse fatto leggere al professore Debenedetti i racconti di Strati, forse oggi non saremmo qui a parlare di un grande scrittore. Poi, il professore Capaci, che in aula, durante una delle sue lezioni elogia il suo studente Condello, così come Debenedetti fece con Strati. Il passaggio da una facoltà universitaria all’altra, con cui Pino Condello (Ingegneria-Architettura) come Saverio Strati(Medicina-Lettere), si staccano dalle volontà familiari, per dare agio alle proprie. E infine l’amore viscerale per i libri che nasce e prende forma in Pino così come accadde a lui: Alle lezioni di fisica o calcolo, il mio pensiero assorbiva e basta; quando spinto dalla curiosità entravo a Lettere e mi accadeva di ascoltare una buona lezione, la mia fantasia si accendeva, la mia curiosità cresceva e la voglia di leggere libri di critica, di filosofia, romanzi importanti diventava veramente inquieta e avida. Avevo letto tanti libri di cui Lino ignorava autori e contenuti. Lino era come il treno che può camminare soltanto sulle rotaie, mentr’io divagavo e facevo tanti pensieri che erano pensieri sulla vita e sul mondo. Insomma c’è tanto di Saverio in Pino, ma l’uno non è sicuramente l’altro.

Tutta una vita, non lascia dubbi. Saverio Strati è uno scrittore nuovo, moderno, ma soprattutto giovane. Se di altri si leggono i romanzi saltando le pagine, i suoi non lo consentono. Tutta una vita meno che mai. Esso tiene incollato il lettore a lungo anche su una stessa pagina. E chiede di essere assaporato, interiorizzato lentamente. A me è accaduto. Non volevo che finisse mai, speravo che appunto, durasse tutta una vita.

Se Corrado Alvaro ebbe l’ingegno di regalarci Quasi una vita, con Strati, Tutta una vita doveva proprio arrivare. In fondo è lui l’autore che chiude quel ciclo letterario.

In Italia ci sono molti premi importanti in cui vengono premiati e riconosciuti romanzi altrettanto importanti, ma secondo quella certa logica che Strati non ha mai condiviso. Quando vinse il Campiello, nel 1977, notò finanche il pentimento di chi lo aveva votato. Non aveva vinto lo scrittore dei salotti letterari italiani, ma il calabrese; aveva vinto la purezza della letteratura e non il libro più venduto dell’anno. E quando ne ebbe coscienza, fu amara la constatazione. Ma nessuno poteva più tornare indietro.

Non credo vi siano attualmente in Italia premi con cui riconoscere il valore di Tutta una vita. Sulla scia del passato non basterebbe più neppure il Campiello. Strati è di più, molto di più. Ci vorrebbe un premio dei premi. E io che del maestro ho imparato a conoscere profondamente il pensiero, penso di sapere quale potrebbe essere, e credo di sapere bene anche quanto Saverio Strati lo renderebbe felice, ovunque esso sia. Felice assai, quasi quanto i giudizi positivi che riceveva dal suo maestro Giacomo Debenedetti quando leggeva i suoi racconti. Ecco, il premio dei premi a Saverio Strati, per Tutta una vita, sarebbe far studiare l’autore nelle scuole italiane. Un dovere verso di lui, un diritto per tutti gli studenti del paese. 

L’opera postuma di Saverio Strati, è un romanzo che va letto per necessità e con convinzione. E che si somma a quella sua sublime produzione libraria che tanto ha da offrire alla formazione dei giovani italiani. Un fondo di cultura preziosissimo a cui la scuola ha il dovere di attingere e con cui può fornire nuove indicazioni di vita ai propri studenti, placando altresì l’esigenza di conoscenza che questi anni hanno. L’occasione va colta, subito. Non si lasci passare ancora tutta una vita. (gsc)

[La fotografia è di Pino Colosimo]

Giusy Staropoli Calafati: Il caso Calabria si trasforma in destino

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se c’è un Mezzogiorno che vuole continuare a garantirsi la versione perpendicolare del sole sulla sua faccia, confermando che il sole bacia i belli, è senz’altro quello ostinato che trasforma il suo caso in un destino. È quel Sud caparbio che al suo destino contribuisce, e non lo accetta per rassegnazione. È quel Meridione risoluto in cui le coincidenze diventano perfette alchimie, pagine di storia ineluttabili. Le coincidenze sì, quelle situazioni che si intersecano nella casualità di gesti o ricorrenze, e che combinano fatti e circostanze. E al Sud vi si riempiono giornate intere di casualità. Che se dovessimo chiederlo agli anziani per esempio, l’occasione sarebbe certo buona per loro, per sciorinare all’uditore una vita intera. 

Le coincidenze sono manifestazioni di origine differente, che si generano però nella contemporaneità. E lasciano segni, forniscono ipotetiche indicazioni, diventano stimoli, insegnano tante volte, e molte altre invitano a ripartire. 

Si può ripartire quindi dalla coincidenza degli eventi, o anche solo dal tempo che gli eventi li fa coincidere?

Se è vero che l’anima di una terra collima con lo spirito del suo popolo, ed entrambi coincidono con ciò che accade all’interno delle comunità che in esso si generano, allora sì.

Dopo la notte profonda che la Calabria e i calabresi si ritrovano a dover tragicamente vivere con la prematura scomparsa del -primo- presidente – donna – di regione, Jole Santelli, lo scorso 15 ottobre 2020, rimanendo tutti contemporaneamente orfani, e dopo la più maccheronica delle storie sanitarie d’Europa, che vede la Calabria coinvolta in orge animate da balletti di governo e tarantelle commissariali, e dopo ancora le sottilissime tensioni generatesi all’interno del clero locale, non riescono non possono passare inosservati, i fatti che travolgono i calabresi e la Calabria, durante la prima decade ottobrina del 2021. Una serie di circostanze che, per fortuna, dopo il buio riportano il giorno, e vanno a riordinare lo spirito, ad assodare gli animi e a placare i tormenti delle genti di Calabria.

Ma facciamo ordine.

Il 3 e il 4 ottobre 2021, il popolo dei bruzi, viene chiamato al voto. La poltrona vuota della compianta Santelli, deve essere nuovamente occupata. Un nuovo governatore, è necessario per il diritto e i doveri dei calabresi. E il 5 ottobre 2021, Habemus Presidente! La poltrona di Jole Santelli, passa a Roberto Occhiuto.

Si riparte. E la ripartenza è politica, istituzionale, ma anche economica, sociale, culturale, e soprattutto umana e spirituale. 

Esiste anche una ripartenza spirituale? Certo che esiste. E la verità è che senza spirito non si va da nessuna parte. Serve urgentemente, sempre, anche quella. E poi la Calabria è quella terra prescelta che nasce e si consolida grazie soprattutto alla sua fede e al suo credo. Alla sacralità del cielo sopra la sua testa. Ma sono tempi bui per la chiesa calabrese. La condizione in cui verte è davvero poco entusiasmante. Una sorta di terremoto innaturale la agita discutibilmente. Una prova? Qualunque essa sia va superata.

Agosto 2021. Tra il sogno e il son desto, le dimissioni inattese del vescovo della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, Monsignor Luigi Renzo. Settembre 2021. Le dimissioni del tutto inaspettate di Monsignor Vincenzo Bertolone, presidente della Conferenza episcopale calabra. Due atti ufficiali stravolgenti, che disturbano l’equilibrio della comunità calabrese. Di quella religiosa, ma anche di quella civile e di quella politica. Ma Dio affligge e non abbandona. Il 4 ottobre 2021 è l’ora dello Spirito Santo. Mentre il popolo civile è impegnato a scegliere il suo rappresentante, il clero nomina il suo nuovo presidente. Monsignor Fortunato Morrone, arcivescovo metropolita di Reggio Calabria, succede a Monsignor Bertolone. 

Vuoto colmato dunque, e spazio riempito. Partita perfettamente chiusa. Uno a uno e palla al centro. Sacro e profano. Salvi il popolo degli uomini e quello di Dio.

Uomini di poca fede invece, i calabresi!

Ma secondo voi, il Creatore, dopo la dura fatica fatta nel cimentarsi con la creazione della Calabria, uscita dalle sue mani più bella che mai, si sarebbe davvero potuto fermare a così poco? Cristo non si è fermato a Eboli!

La diocesi lasciata da Monsignor Luigi Renzo, non può certo rimanere vacante. Attende il suo successore. Tutte le pecore hanno bisogno del proprio pastore. E Papa Francesco questa parabola la conosce molto bene. Così come sa bene le cose della Calabria, comprese quelle che la Calabria non si aspetta e i calabresi neppure.

Prima del 5 ottobre, ancora prima del 4, e precisamente il 2, del 2021, Monsignor Attilio Nostro, calabrese di Palmi, sacerdote della diocesi di Roma, nominato vescovo da papa, lo scorso 25 settembre, viene destinato alla guida della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea. 

Il caso Calabria si trasforma finalmente in un destino. 

Mileto ha il suo nuovo vescovo, la Calabria il suo nuovo presidente, e la conferenza episcopale dei vescovi pure. 

Ora sì che è possibile cambiare registro. O forse non ancora? In effetti, a pesarci bene, manca qualcosa. Anzi, forse manca proprio qualcuno. Manca il sigillo che sugellerà il nuovo tempo della Calabria. Ecco che cosa manca.

10 ottobre 2021. A Tropea, le campane suonano a distesa. Don Francesco Mottola, è beato. Il prete dei nuju du mundu, sale agli onori degli altari. Un calabrese che incontra direttamente Dio, erano anni che non si vedeva più. E adesso sì che il cerchio calabrese si può dire perfettamente chiuso.

Dieci giorni, dieci giorni tutti dello stesso mese e dello stesso anno, sono questi in cui la chiesa calabrese si infervorisce e la società civile pure. Sono questi in cui tutto cambia affinché tutto ricominci. L’uomo non finisce mai per sempre, si ritempra e riprende il suo cammino. E la Calabria si avvia alla sua seconda primavera. Con eventi coincidenti che sottoscrivono la svolta decisiva di una terra a cui non possono essere più concesse attenuanti. 

La Calabria è fatta, i calabresi pure. E questa non è certo coincidenza, ma una faccenda seria di cui prendere atto. Che racconta tutto quel che abbiamo sempre voluto, noi del Sud. Ma ci ricorda soprattutto che questo è il nostro turno. Nel nome della Calabria, dei calabresi, e dello spirito che ci mantiene. (gsc)

[La foto di copertina è di Calabria Avventura]

Buon compleanno a Walter Pedullà: il grande critico calabrese compie oggi 91 anni

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – 10 ottobre 1930. A Siderno, nasce Walter Pedullà. Il bambino del pallone di stoffa, a cui a fare da sponda ci sono lo Ionio e l’Aspromonte; il giovane studente di lettere all’università di Messina, a cui i libri cambiano la rotta; l’allievo modello di Giacomo De Benedetti, a cui la letteratura salva i sogni. L’intellettuale italiano, il professore delle lettere e della storia, il calabrese geniale che ha insegnato all’Italia a conoscere l’Italia meridionale. E poi l’amico di Melo(Carmelo Filocamo) e di Saverio (Saverio Strati): il primo, intellettuale gentile apprezzato da Calvino per i suoi anagrammi, l’altro, muratore contadino con il demone della narrazione, voce incessante del neorealismo italiano. Il professore universitario con lo scranno dell’identità e la voce più imprimente, totalizzante e longeva della letteratura italiana del ‘900.

Walter Pedullà nasce dalle favole. Quelle che la madre gli racconta sapientemente da bambino. Frutto di una “cultura orale”, che solo poi si depositerà nei libri.

Il padre è un grande affabulatore. Trasforma in favole la realtà. Ed è proprio la sua capacità di modificare un evento trascurabile in un racconto con la morale della favola, che persuade il giovane Walter quando è ancora un ragazzo. Quando Cuore, diventa il suo primo libro di letteratura.

A 13 anni, ha già letto tutto Shakespeare. Lo sottrae al fratello, insegnante di greco e di latino. In casa non vi sono libri di matrice diversa, e Pedullà, che legge ciò che trova, li passa tutti a memoria, e li deposita nella parte più profonda di sé.

La sua inclinazione non lascia dubbi. Ma prima che con il gusto e il piacere dei sogni, è con la realtà che deve fare i conti, Walter Pedullà. E lui lo sa bene. Ne ha piena coscienza. La condizione economica precaria, non ammette né sbagli né sprechi. Bisogna centellinare tutto. Anche il tempo.

Carmina non dant panem, ripete a sé stesso.

E allora cosa può dare il pane a un giovane desideroso di conoscere la vita, come lui?

Dopo il diploma liceale, si iscrive alla facoltà di Chimica Industriale a Messina. Con una laurea così avere un buon futuro, era pressoché certo. Ma è un ovvio ripiego, non è questo il pane di cui ha bisogno per nutrirsi, Walter Pedullà. A lui serve di più. Sono il suo spirito e la sua anima che hanno fame, non il suo stomaco. E insaziabile è il senso dell’umano che lo aggroviglia.

Matura immediatamente la scelta di passare a Lettere, un cambiamento da cui avrà origine la condizione esistenziale che accompagnerà parallelamente l’uomo e l’intellettuale per tutta la sua vita.

A Messina diventa uno degli allievi di spicco del professore Giacomo De Benedetti. A lui lo indirizza Saverio Strati, studente di lettere anch’egli,  calabrese come lui, che già segue le lezioni del professore torinese.

“C’è un grande professore che sta tenendo una lezione su Italo Svevo” gli dice, quando per la prima volta si incontrano nei corridoi dell’università. E vanno ad ascoltarlo insieme. Pedullà, Strati e Carmelo Filocamo. Il trittico delle lettere.

La Locride è sempre stata un crocevia di geni e di intelletti. Siderno con Pedullà, Locri con Filocamo, Sant’Agata del Bianco con Strati, e poi San Luca con Alvaro, Careri con Perri, Bovalino con Mario La Cava. Un fermento culturale di cui ha sempre goduto l’Italia intera. Narratori, poeti, docenti e critici letterari. E Pedullà è frutto di quel fermento.

La Calabria non offre molto negli anni della sua giovinezza, non esistono fabbriche e le terre non danno il sostegno sperato. Resta la cultura però. La conoscenza, il sapere, e soprattutto quella sottile consapevolezza che se con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si muore.

Le lettere hanno sempre contribuito, e in maniera attiva e concreta, alla sopravvivenza delle realtà meridionali precarie. Il sottosviluppo economico, politico sociale e culturale, vissuto e subito dai paesi del Mezzogiorno, sottomessi dai balordi sistemi dell’Italia progressista, ha sempre favorito l’annoso divario Nord/Sud. E mentre nell’Italia settentrionale nascono e si sviluppavano le aree industriali, con decine e centinaia di fabbriche, nel Mezzogiorno continua la lotta all’arretratezza e all’analfabetismo. Ma ci sono delle aree geografiche in cui l’uomo, forte del senso della sua esistenza, è più caparbio che in altre. La Locride, in Calabria, è la prima zona interna a insorgere con una vera e propria rivoluzione culturale. Una concentrazione di genialità che guardano all’Italia e all’Europa.

Con la laurea tanti giovani meridionali sono riusciti ad occupare la capitale, riempiendo quei posti che ancora oggi, raccontano la storia di un esercito di persone che tramite un appuntamento inconscio e silenzioso, come lo definisce il professore Pedullà, si sono ritrovate dove il lavoro non  era più una chimera, ed era finalmente possibile fermarsi. A Walter Pedullà è andata proprio così. Da studente pendolare, diventa professore fisso. Giacomo De Benedetti lo vuole con lui. A Roma, alla Sapienza. La sua preparazione può offrire agli studenti italiani forse più di quello che lo stesso De Benedetti, ha dato a lui.

Da allora sono passati tanti anni. Dal 1930, esattamente 91.Quelli che oggi il professore compie e che certamente si onora di contare. 91 anni, che se sommati a quelli di tutti gli studenti formati, dei tanti intellettuali e scrittori incontrati, letti, recensiti e criticati, originerebbero secoli di vita in cui la geografia e la storia, di cui Pedullà è testimone, varrebbero – e valgono – la psicologia di un intero popolo e di tutte le sue generazioni.

Auguri, professore. Auguri per i suoi anni, ma soprattutto per la sua tempra, l’ostinazione, la lealtà, la tenacia, la sapienza e la saggezza. Auguri per quella Calabria di cui non si è mai liberato e da cui ha sempre continuamente appreso.

Auguri, professore, per il suo compleanno, ma anche per la forza e il coraggio che ancora detiene, pari e mai impari a quelli con cui da giovane studente, pur di mantenersi agli studi, impartiva lezioni private, dall’alba a notte fonda.

Auguri, professore, per la sua esperienza letteraria trionfante, ma anche per aver saputo rinnovare ed elevare quotidianamente, con il suo intelligente operato, la forza della letteratura e quella delle parole. Per aver sempre ricordato ai suoi allievi, e al resto degli italiani, che è proprio nei momenti in cui la politica perde la strada che l’ha resa un fattore di rinnovamento e di sviluppo, che la letteratura chiede di dire la sua, rivolgendosi direttamente alla vita.

Auguri, professore, e non solo perché di stagioni oggi se ne contano 91, ma per lo spirito vivo che ancora la anima, e che è avanguardia, sperimentalismo, comicità e mutamento; indicatore di rotte che precisa che mai ci potrà essere speranza per il futuro, se non viene data la verità sul passato.

Auguri, professore, per il traguardo raggiunto che non si pone limiti e neppure ordini di tempo, ma chiede la costante revisione del processo di imbellettamento del passato. Come revisione e non revisionismo.

Grazie, professore, per il suo genio e per la sua genialità. Per aver dato modo di sapere, anche a quell’Italia e a quella Calabria, che non sempre hanno saputo comprendere il vero senso e il più profondo significato delle sue ricerche, che vi sono testi letterari in grado di essere utilizzati come materiale politico e come modello di comportamento. E grazie, glielo dico personalmente anch’io, per aver stimolato in me e nei giovani come me, il senso delle parole, il significato della letteratura. La capacità dei libri di creare indipendenza; la forza del pensiero intellettuale che permette di modificare sistemi, creandone nuovi.

Con i suoi 91 anni di storia oggi, l’Italia avrebbe dovuto concedere alla letteratura, lo stesso medesimo valore della Costituzione italiana. Ma c’è ancora tanta strada da fare.

In quest’epoca contemporanea assai inquieta e spesse volte anche inconcludente, dove la storia è frequentata dal Male, l’Italia deve tornare a sentire forte, nei suoi processi di sviluppo, la vocazione verso le lettere. Per diritto e per dovere.

“Le intelligenze che una volta generavano ingegnerei, magistrati, professori, medici, avvocati, direttori generali, presidenti, industriali, intellettuali, uomini politici di grande immaginazione oggi, in assenza degli incentivi attraenti del passato, figliano ingegnosi ndranghetisti, camorristi e mafiosi che figlieranno ingegneri, magistrati, ecc. ecc.?”

La letteratura ha il potere di sollevare questa cappa pietosa dalle nostre teste, sgomberando le nostre strade. Gli uomini come Walter Pedullà, l’intelligenza per dirci come fare. Ma bisogna essere disposti alla bellezza, predisposti alla signorilità della vita.

Oggi è un giorno felice, un bel giorno di festa che non va sciupato. Che racconta un itinerario letterario ed umano importante. I 91 capitano una sola volta nella vita. Da qui in poi i numeri non fanno che salire. Andare verso l’infinito. Dove, fluttuanti, diventano vocazione e non più calcolo. Dove arrivano le lettere, i libri, ma noi no.

Buon compleanno, professore! (gsc)

 

Diavolo d’un Sud, cambiare di può. Ma i calabresi sono studi delle tante promesse

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Cosa vuol dire SUD, mamma? – mi chiese mia figlia.

–È un punto cardinale – risposi io.

– Sì, ma che cosa significa esattamente questa sigla? – insistette.

– Non me lo sono mai domandato – risposi.

– Io invece lo so – ribatté lei.

– E allora dimmelo, che cosa aspetti?

– Sono Un Diavolo, ecco cosa vuol dire.

– Starai scherzando, non è vero?

– Niente affatto, mamma. Te lo spieghi perché dal SUD tutti partono? Fosse stato altro ci avrebbe trattenuti questo punto del mondo, invece no, ci lascia andare.

E poi, ricordi cosa scrisse Leonida Repaci ne Il giorno della Calabria? “Dio aveva dato forma alla sua più grande creatura, poi del suo riposo ne approfittò il diavolo. E della Calabria, incluse tutte le meraviglie che il Creatore le aveva attribuito, se ne impossessò”. Le diavolerie di questa terra, credimi, mamma, non hanno altre spiegazioni.

– E noi che cosa possiamo fare per salvarci?

– Possiamo cambiare, mamma. Trasformare questo inferno in paradiso.

Con il termine Sud, si identificano delle precise aree geografiche del mondo. Esso infatti interpreta uno dei quattro punti cardinali con cui l’uomo si orienta sulla faccia della terra. La parte bassa della bussola.

In Italia, il Sud, viene indicato con nomi precisi di regioni. Ed è Sud, Meridione o Mezzogiorno. Esse sono le micro aree del paese. Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna. Un agglomerato di montagne e intere distese di lidi e di mare. Campagne, pianure, colline e vulcani.

In una recente intervista, andata in onda sul secondo canale Rai, il ministro per il Sud e la coesione territoriale, Mara Carfagna, nell’elencare le regioni dell’area Meridionale, presa dal solito politichese italiano, ne dimentica giusto appunto una. E a subire il maltolto, indefinito dal tempo e definito dagli uomini, è proprio la Calabria. Sempre lei. Quella terra che volutamente sconfina davanti allo sguardo di un’Italia politica inconcludente, e che dopo Eboli, vira dritta verso l’Italia insulare. Ma la verità è che della Calabria se ne sono sempre lavati tutti le mani. E chi non ha coraggio non se lo può dare. Terre come questa hanno una tempra forte e sono prodigiose. E vanno sapute prendere e conquistare. Eppure l’Italia continua a scrivere il nome Calabria tra le penitenze di Dio, e la emargina, confinandola tra i suoi due mari. Poi però, all’occorrenza, come fosse un miraggio al più vicino orizzonte, la scova, e se l’accredita, come giusto che sia, tra le sue 20 italianissime regioni, e per far fronte alle sue più sfrontate conquiste. Perché in fondo tutti lo sanno, senza Calabria, nessuna Italia.

Quaggiù, nel profondo Sud, diavoli o no, passati gli uomini e le donne, i loro sacrifici e le dure fatiche, vi sono manciate importanti di voti, in grado riempiere, come le bucce dei mandarini a Natale, le caselle vuote di una tombola che altrimenti andrebbe persa. E ne svantaggerebbe tutto il paese. Ragion per cui, da Roma, e dalle altre somme regioni del potere d’Italia, si accede alla Calabria sfruttando l’antica e furba arte della manipolazione degli interni, pressando sul bisogno atavico dei luoghi, pur di arrivare alle sue succulenti risorse. Ché alla fine, riconosciuti i limiti, e tradotti abusivamente nell’incapacità del suo popolo, come fossimo nel giardino dei miracoli di Pinocchio, diventano sbrilluccicanti denari.

E in Calabria, per far crescere l’albero dei denari, vi è terra in abbondanza, e terra buona. Perché qui accade di tutto. E tutto accade davvero. E grazie a tutti quei Pinocchio che ancora credono al ciuccio che vola. Perché qui ci sono famiglie intere di Pinocchi. Pinocchio la madre, Pinocchio il padre, e Pinocchietti tutti i bambini. E soprattutto ci sono il gatto e pure la volpe. Ma mentre a Geppetto, alla fine della storia, Collodi gli concede di ritrovare il suo burattino, con cui vivere felice e contento, alle famiglie calabresi non concede niente nessuno, e perdono per sempre i propri figli.

Ed è per questo che nascono calabresi in ogni parte del mondo. I giovani partono, vanno via. Sacrificano la propria identità per trovare nel mondo lo spazio che la Calabria gli nega. Essa non sogna più, non ha aspettative, toglie tempo, e più che lottare per la sua rinascita, collabora al suo disfacimento. La calabresità di cui, al primo piscio, tutti si fregiano, senza neppure conoscerne il senso, seguendo come le pecore chi pure illecitamente se la vanta, non è certo un atto di remunerata propaganda, né una scimunita idea del paese di Jofà, ma uno stato d’animo preciso che quando i giovani, poco poco cominciano a provare, i grandi (politici e dirigenti, massoni e mafiosi) lo soffocano.

Dal 1861, il Sud, perdendo la propria indipendenza, ha sempre subito passivamente le decisioni dell’Italia, del Nord, e delle industrie. E come allora, ancora oggi, con l’avvallo mai negato, dei calabresi nemici dei calabresi stessi. Eppure, cosa può conoscere la politica capitale o cittadina d’oltre regione, delle necessità della politica territoriale? Nulla, non può conoscere nulla. È solo questione di potere, che tanto lo sanno tutti che lo scecco sempre scecco resta, e raglia oggi e domani pure. Ma i calabresi sanno anche che, benedetta Italia, la propria terra ha il tempo contato, e o campa o muore. E le sorti si giocano sempre nella cabina elettorale. Ancor più da quando al voto sono state incluse le donne, perché per chi ancora fatica a comprenderlo, la Calabria lo è. È fimmina!

I futuri candidati alla presidenza della Regione Calabria, in vista del voto del prossimo 3 e 4 ottobre 2021, prendano impegni con i calabresi e non con i partiti nazionali. Impegni seri. Impegni con le palle. Senza balle. E con i quali dare a questa regione una definitiva connotazione italiana. Se essere inferno o paradiso. Essere o non essere. E se la distanza tra Shakespeare e la Calabria appare troppa, allora rifacciamoci tranquillamente pure a Dante, nel suo settecentenario, che ha certamente appreso e compreso più d’altri, il nostro essere, dall’ abate Gioacchino da Fiore.

Decidere dunque, o calabresi, e sulla base della nostra pelle, che è amor proprio e sana morale, se prolungare i patti fatti con l’inferno di Francesca, o scendere a patti nuovi ed eterni, con il decantato paradiso di Beatrice.

Io, mi perdonerete, ma chiederei, in aggiunta, l’ausilio di Nosside. Ma forse questa è un’altra storia.

È necessario che i calabresi, sulla base delle esperienze passate e dei torti subiti, delle malefatte a loro danno continuamente perpetrate, e delle quanto mai mancate aspettative recenti e future che tergiversano, rimandando tutto sempre alle generazioni che verranno, riconoscano in ognuno degli ipotetici futuri presidenti, i reali obiettivi, responsabilizzando il proprio voto, e non per concessioni spinte da familismo amorale, ma seguendo i dettami della propria aurea coscienza che, contrariamente alle patrie galere, non sconta colpe, né perdona .

“La Calabria che l’Italia non si aspetta”, è questo lo slogan che accompagna la campagna elettorale di Roberto Occhiuto. Parole che fanno un certo effetto, ma che soprattutto surclassano il concetto di morte, a cui tutti sembrano destinare la Calabria e i calabresi.

Ma lo sa Roberto da Cosenza che, per presentare all’Italia la Calabria che non si aspetta, c’è un percorso da fare che è piuttosto lungo, impervio e tutto decisamente in salita, e che se dall’Italia non ci è riuscito prima, a esporre alla gran Patria, la patrietta dei bruzi, dalla Calabria sarà un susseguirsi di gattopardiane notti, in cui tutto sarà pronto a cambiare per non cambiare nulla?

E lo sa Amalia da Lamezia, che intende donarsi alla Calabria, con tutta la sua scienza, e per curare, dopo i suoi più di 13000 pazienti, il resto dei calabresi, che i calabresi non sono tutti malati, e per fortuna, e che molti stanno benissimo perché di sani principi?

Lo sa Mario da San Giovanni in Fiore, che quello che gli è sfuggito prima, probabilmente gli sfuggirà ancora, perché chi è miope oggi, lo sarà anche domani?

Lo sa Luigi da Napoli, che aver lavorato in Calabria non è la stessa cosa che vivere la Calabria nei suoi rovesci e nei suoi contrari, nelle sue bellezze e nei suoi compiacimenti, come chi, ostinatamente, si dona a questa terra geneticamente testarda, e nella sua quotidianità, che è famiglia ed è impresa, e pure rivoluzione? E lo sa che quaggiù non si viene solo a sconfiggere la ‘ndrangheta, ma per costruire sogni e solide realtà?

E i calabresi, lo sanno i calabresi che le promesse fatte in campagna elettorale non garantiscono l’asciutto alle barche di nessuno, e tutti noi, finché non verranno mantenute anche solo quelle opportunamente fatte, spesso troppo tardi e spessissimo mai, continueremo ad avere tra le mani la solita beata minchia di sempre?

Sarà che io di politica, forse, non ci capisco nulla, ma di Calabria sì. Di Calabria ci capisco eccome! Durante questo periodo di seconda estate calabrese, tra il sapore del mosto e l’odore del vino, per certi versi storico per la vita presente dei calabresi (giovani e meno giovani) e il futuro della Calabria, nessun sermone di esponenti di partito nazionale, dovrebbe essere permesso. Una scelta che all’unanimità mi sarei aspettata dai futuri presidenti. Serve indipendenza e concentrazione. E servono adesso. La Calabria non è una sede politica dove chi prima spara, prima piglia, ma una precisa scelta di vita ancora prima che politica. È al suo interno dunque che vanno fatte le discussioni sui programmi e discussi i problemi. Solo i calabresi possono risollevare la propria terra e mantenersi in equilibrio nella storia. È una sfida a cui non può partecipare nessun altro. E affinché avvenga tutto ciò, è necessario si parlino tra di loro, e senza le benché minime interferenze esterne. In intimità. A quattr’occhi. I padri con figli e la società civile con quella politica e istituzionale. Insomma un preciso rendez-vous aperto, tra l’Aspromonte e il Pollino, il Tirreno e o Ionio. Perché vedete, i guai da pignata, i sapi sulu a cucchjara chi riminija.

E se, detto fatto tutto ciò, allora sì che saremo pronti a sfoggiare e con orgoglio “La Calabria che l’Italia non si aspetta” . E poco importerà il nome di battesimo del presidente. Chiunque vincerà questa sfida, che a partire da subito diverrà immediatamente atto di coraggio, avrà il dovere di presentarsi e orgogliosamente all’Italia e al mondo, con il nome dei “suoi” calabresi. Riconoscendo a sè stesso e agli altri, che il bene della propria terra viene prima di tutte le inutili vanità politiche.

Nessuno dimentichi mai che Penelope non cercava marito, ma voleva Ulisse… (gsc)

[La fotografia della copertina è di Carmine Verduci]

Anniversari / Il compleanno di Mario La Cava (11 settembre 1908-16 novembre 1988)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATILa Calabria, nella sua lunga storia, sembra spesso far coincidere disgrazie e gioie E da sempre a tratti piange e altri sorride. Senza scomponimento, ma con accurata risolutezza. Essa infatti è proprio nella dualità dei sentimenti che prova e provoca, e che le circostanze le suscitano e originano negli altri, che trova la sua forza. E si ostina, risale, e con audacia procede.

Nel 1908 per esempio, le due sponde dello Stretto, furono interessate da uno degli eventi sismici più catastrofici del XX secolo. Il 28 dicembre di quell’anno, nell’arco di soli 37 secondi, fu danneggiata gravemente la città di Reggio Calabria. Ma appena tre mesi prima, esattamente l’11 di settembre, mentre le finestre delle case di Bovalino, se ne stavano ancora aperte sullo Ionio, donna Mariannina Procopio, dava alla luce uno dei più grandi geni letterari del ‘900 italiano. Mario La Cava. 

La Calabria ha sempre affrontato la sua storia, seguendo precise teorie di sopravvivenza. Mai si è lasciata spaventare o anche sottomettere, né dal dolore né dagli accadimenti, ché mentre la tribolazione e l’accoramento passano, le gioie restano, si imprimono nella pancia dei giorni, e sulla base di esse si istruiscono i popoli.

La nascita di Mario La Cava, qualora fosse sfuggita come gioia vera allora, lo diventerà nel tempo. In tanti infatti, dal mondo culturale a quello civile, a ricordo di quella nascita, a tutt’oggi confermano che senza quel pezzo di letteratura bovalinese, la Calabria sarebbe stata un’altra e l’Italia pure.

La Cava nasce in una famiglia medio borghese. Il padre, Rocco, è un insegnante, la madre, Marianna Procopio, una donna a cui, nonostante i pochissimi studi, tanto da esser costretta, in età adulta, a prendere lezioni di lettura proprio dal figlio Mario, viene attribuita la fama di scrittrice, per aver narrato con un linguaggio decisamente parlato, piccoli racconti, in grado di trasmettere al lettore, per intensità e forza, sentimenti legati a vicende ed esperienze, cariche di partecipazione affettiva, capaci di rievocare alla mente la memoria.

Mario La Cava, terminati gli studi presso il liceo classico di Reggio Calabria, si trasferisce a Roma, dove per tre anni frequentò la facoltà di medicina. Insoddisfatto della scelta decise di cambiare e si trasferì a Siena dove nel 1931 conseguì la laurea in Giurisprudenza. La lontananza dal paese però, non sarà mai un desiderio né un piacere per il giovane La Cava, così terminato il ciclo di studi, decide di ritornare al paese natio dove rimarrà, quasi ininterrottamente, fino alla fine dei suoi giorni. Bovalino infatti, con le sue storie, la sua vita, i suoi racconti e la sua gente, diventa il suo centro del mondo. Non sarà mai attratto né interessato particolarmente dai viaggi, Mario La Cava. A fornirgli continui e nuovi elementi di conoscenza saranno le storie incontrate direttamente, e dalle quali verrà costantemente ispirato.

“Ho speso una vita per scrivere, per analizzare la Calabria. Non so se bene o male. Questo non tocca a me dirlo. Posso dire che ho fatto grandi sacrifici sperando che questa terra potesse avere una sorte migliore, come credo che avrà…”

Conosciuto da tutti come l’avvocato, La Cava, abbandona giovane l’avvocatura e si dedica interamente ai suoi interessi letterari. Un rischio che l’autore coglie pur sapendo, come diceva Corrado Alvaro, che non si vive facendo solo gli scrittori. Eccellente ricostruttore della vita paesana e cittadina. Perfetto osservatore della realtà attraverso la quale riesce a vedere il mondo e coglierne l’essenza. Scrittore di verità e mai di fantasia, che non inventa storie, ma le traccia, le intreccia e le snoda, su fatti vissuti e raccontati. Radicato ai luoghi come alle origini, senza per questo mai perdere di vista la visione universale dell’uomo, facendone osservazioni morali e notazioni di vita.

La sua narrativa si pone deliberatamente a difesa degli umili e dei miti che affida alla terra e a cui la terra gliel’affida. “… spero di aver pure dato una voce ai più umili della mia terra…”

Mai affine alle logiche culturali moderne, né alle mode che queste sempre tentano di seguire, nel 1932 scrive il suo primo racconto lungo Il matrimonio di Caterina, apprezzatissimo tra gli altri, da Alvaro e Moravia, che pubblicherà però a ben 45 anni dalla sua prima stesura ed esattamente nel 1977. E da cui, nel 1983, venne tratto un film per la televisione di Luigi Comencini.

Nel 1939, pubblica il suo libro più conosciuto, Caratteri. 354 descrizioni, di singoli tipi umani, in cui la descrizione, spesso ironica, dei personaggi, si traduce in un vero e proprio affresco sociale.

A seguire: I misteri della Calabria (1952), Colloqui con Antonuzza (1954), Le memorie del vecchio maresciallo (1958), Mimì Cafiero (1959), Vita di Stefano (1962), Viaggio in Israele (1967, ristampato nel 1985), Una storia d’amore (1973), I fatti di Casignana (1974), La ragazza del vicolo scuro (1977), Terra dura (1980), Viaggio in Lucania (1980), Viaggio in Egitto e altre storie di emigranti (1986), Tre racconti (1987), Una stagione a Siena (1988), Opere teatrali (1988), Ritorno di Perri (1993), Mario La Cava, Personaggio ed Autore (1995). 

La Cava, grazie alla sua scrittura, rende sempre più fervente e vivo il suo impegno culturale e civile.

Nel 1953, Elio Vittorini, scrive a Mario La Cava: “… Coltiva un suo genere speciale di brevissimi racconti in cui fonde il gusto dell’imitazione dei classici e lo studio naturalistico del prossimo… (…)”. 

Leonardo Sciascia invece, sempre riferito allo scrittore di Bovalino, in un articolo del 1987, sostiene che: “…le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità cui aspiravo”.

La letteratura di Mario La Cava mette in luce i valori fondanti della cultura meridionale che prolifica nella parte più mite e intima della società. I suoi libri si sviluppano sulla base di ambienti precisi come quello del contadino calabrese, lasciando libera la voce della sofferenza e anche quella dell’emarginazione che il popolo di cui lo stesso scrittore si sente parte, è costretto a subire, come d’altronde chiunque vive alla fine e nei finali delle terre. E la Calabria di La Cava, come quella di tutti gli altri geni letterari calabresi, è una terra che trova posto sempre e solo negli ultimi banchi di un’Italia fanatica e progressista, negli ultimissimi di un’Europa lontana e frammentaria, in cui a contare è più la struttura che l’uomo. Ma è una Calabria che non si arrende, e che riemerge dal pantano, o almeno ci prova.

“Vivere accanto alla gente comune, soffrire della sua incomprensione ed ottusità, contrastare con la sua malignità, può essere una grande scuola di vita. Niente è più nocivo allo scrittore che credere reale il mondo sofisticato dei salotti culturali. Solo nei piccoli centri è possibile seguire gli itinerari di vita della gente per ricavarne trame di romanzi.”

Il genio di Mario la Cava nasce nella specificità di una Calabria semplice e identitaria, che vede sbucare, come dalla terra i germogli,  dal suo luogo fisico ben definito, la forza prorompente della letteratura. Un’area geografica precisa in cui a prolificare assieme alla società contadina e all’onorata società sono l’ispirazione, la scrittura e i libri. La necessità di una narrazione a volte dannata, che straforma il luogo identitario e primordiale in stato d’animo diffuso e nuovo. E dove a concentrarsi sono i nomi di Corrado Alvaro, Saverio Strati, Francesco Perri, Saverio Montalto e quello dello stesso Mario La Cava, che non si sottrae nel sottolineare il genio intellettuale di cui fu madre-Patria, la sua Locride.

“ Nel pezzo di costa che a Roccella va a Capo Spartivento, le intelligenze sono scoppiettanti, concentrate. È un luogo – la Locride – benedetto da Dio:  scrittori, pittori, intellettuali, gente d’ingegno, e delinquenti, ahimé, ma pure loro geniali.

Ma nonostante la sua grandezza intellettuale, La Cava è costretto anch’egli a una forma scoraggiante di oblio, non trovando posto tra i banchi di scuola. Né in Calabria né altrove. E rimane esiliato nella sua piccola Bovalino. Quasi come se lo Ionio, mare striato da una quantità indefinita di azzurri, fosse rimasto sempre, come per Cesare Pavese, luogo di confino. E lì vi si ritrova a far solitudine tra colleghi di parola e di Calabria.

Eppure, a Bovalino, contro la resistenza di una Calabria spesso inconcludente, è possibile trovare un esempio concreto di come la letteratura può salvare la Calabria, di questa carta su cui personalmente insisto, affinché venga giocata per la salvezza della tanto blasonata calabresità.

A Bovalino è possibile scoprire la necessità della parola, e proprio negli scritti di Mario La Cava. Così come a San Luca, negli scritti di Alvaro, a Careri in quelli di Perri, a Sant’Agata in quelli di Saverio Strati. 

I libri di uno scrittore possono quanto più possibile essere interpretati a piacimento da chiunque ne intraprende la lettura, il pensiero invece no, quello va capito. Ma a parte la società civile, il guaio è che la scuola, in quanto massima istituzione della conoscenza e del sapere, non si sforza nella comprensione del messaggio che La Cava, e gli altri parimenti a lui, lanciano attraverso la propria scrittura, il proprio racconto e la propria opera. E la mancata comprensione lascia dannatamente indietro. Arretra le piccole comunità rispetto al resto del mondo. E le confina.

A Bovalino, i libri e l’opera di Mario La Cava, a tutt’oggi, fortuna per chi ne coglie l’occasione, continuano a vivere grazie al Caffè letterario Mario La Cava e all’omonimo premio che, con entusiasmo, riescono a far arrivare nella città natale dello scrittore esponenti di spicco della letteratura mondiale, e continuano a far viaggiare per il mondo, l’opera e il pensiero di Mario La Cava. 

Un merito, una riconoscenza, ma soprattutto un forte senso di responsabilità nei confronti di una terra – la Calabria – che si genera e si rigenera negli scritti e nel pensiero dei suoi più grandi autori.

Se la  scrittura è strumento in grado di raccontare ciò che l’autore “geniale” è capace di scrutare e di intendere dell’animo umano, allora La Cava e tutti gli altri calabresi, geni delle lettere, non sono assolutamente da considerare semplici scrittori, ma maestri di pensiero, da cui apprendere e imparare. E senza la cui conoscenza non vi è alcun genere di futuro, né preparate future generazioni.  

L’11 settembre 2021, Mario La Cava avrebbe compiuto 113 anni. Forse tanti per la vita di un uomo, ma mai abbastanza per la forza che emana il pensiero di un intellettuale come lui. (gsc)

Sulle tracce di Umberto Zanotti Bianchi

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se come Cristo la Calabria ha avuto anche un solo apostolo, a parte la corona di spine che tutt’ora ha posata sopra il capo, allora vuol dire che è Maestra. Che lo è stata, lo è e lo sarà per sempre.

Forse ogni terra insegna ai propri uomini, almeno le basi strategiche della sopravvivenza in mezzo ai luoghi che la contemplano, siano essi impervi o anche semplicemente piani, ma in essa, come avesse uno statuto speciale, nella sua pubblica audacia, quale terra del Sud e Sud della terra, se ne riconosce, a vista, la matrice. La sua storia è una grande storia, ed è nei fatti che tramanda, incluse le gesta dei suoi uomini, che la  Calabria si è sempre fortificata, e quotidianamente ancora si rafforza. Non si è piegata quando ha amaramente pianto, partecipando a lutti che spesso ha anche officiato; quando, obbligata, ha versato tutto il sangue che aveva, né quando priva delle sue cose più care, ha sofferto come una bestia solinga. E non si spezza a tutt’oggi, afflitta dalle evoluzioni indotte, per le quali viene ancora una volta crocifissa finanche nella modernità, appesa come giacca vecchia alle zappe abbandonate ai piedi degli ulivi, mandata al confino sullo Ionio. È la sua matrice umana che la salva, che le rimpolpa l’anima, rendendola potente e ostinata. Donna e terra madre, Madre Patria. 

I maestri, si sa, insegnano, tal volte abili come sono, creano modelli. Invertono rotte, e correggono possibili deviazioni. Non salvano l’umanità, ma molti uomini sì. E allora alla Calabria tocca salvare sé stessa e dalla fragilità dei suoi uomini e delle sue donne.

Nella storia di cui è protagonista da millenni, sono custodite le indicazioni preziose per raggiungere la sua salvezza. Ma serve saperle cercare, trovarle, metterle in pratica, garantendole un proseguo degno della sua grande bellezza. Eppure la società civile appare tragicamente rassegnata, forse anche e soprattutto terribilmente assuefatta; quella politica invece, falsifica gli intenti e millantando le proprie prodezze. E nessuno si accorge più di quanto stanca sia la città del sole!

In cammino per la Calabria e verso la Calabria, non ci si mette mai per caso, per ragioni di vana gloria, o semplicemente per trovarvi in essa allettanti occasioni. Si rischierebbe di perdere quelle che indubbiamente si sarebbero potute trovare altrove. E sprecare energie in ciò che non si crede è davvero un peccato, preclude opportunità sincere, e favorisce ulteriori fallimenti.

Essere in cammino per la Calabria e verso la Calabria, con precise date di scadenza (3/4 ottobre 2021, elezioni regionali), non è che un ennesimo colpo di coda a questa terra, in cui in molti camminiamo ogni giorno della nostra vita. Con sacrificio, lealtà, ostinazione e senso altissimo dell’onore.

Quello verso la Calabria, lungi dalle villeggiature estive, è  un viaggio decisamente forte che chi sceglie di fare è necessario adoperi coraggio e coscienza. 

La Calabria non è una cittadella di bella veduta e neppure una cattedrale nel deserto africano. Essa, e Iddio la benedica, è una terra preziosa e robusta, con le sue casettine e i tetti aguzzi. Un forno per il pane. E ha un’anima, non solo giorni di cronaca. 

Molti si sono avvicendati, nel tempo, in questo pellegrinaggio, che nella sua epocale definizione, ha sempre condotto alla ricerca di miti e di leggende, con stesure di racconti carichi di anni e di generazioni. Tanti sono arrivati forestieri e sono andati via amici, lasciando incisi, nelle giunture sacre di questa terra, i loro nomi, i passi che ne ricordano il passaggio. E non sono stati solo dominatori privi della mite pietas, ma valorosi viaggiatori che nel volto della gente incontrata hanno scoperto e ritrovato il senso dei luoghi, quelli che, nonostante la perduta gente, hanno conservato immutati il sogno e il tempo della Magna Grecia. Da qui, diceva Saverio Strati, prima o poi qualcosa di buono dovrà pure uscire, e aveva ragione. Ma è necessaria la redenzione della razza, e senza altro tempo da perdere. O la politica che se ne occupa, si sincera totalmente al suo popolo, o il futuro della terra di Calabria, sarà sempre e solo di spolpo e di spopolo. E il pianto non racconterà d’altro se non di un pentimento illusorio, mai sentimentale. 

Cari calabresi che il prossimo 3 e 4 ottobre, vi recherete alle urne, perché lo farete, e lo farete per onorare la vostra terra e dare un senso alla vostra vita, se proprio a lezione da Corrado Alvaro vi rifiutate di venire, perché  ritenete nullo e inutile, quanto mai superfluo il suo pensiero, e alla scuola di Saverio Strati non siete disposti a frequentare corsi di identità e appartenenza, se vi va, come ultima e nuova occasione, vorrei condurvi con me a lezione dai forestieri. Non dagli sciamani certo, ma da quei militanti calabri che hanno riconosciuto in questa nostra terra natia, la Patria terra.

Perché è accaduto davvero, altri l’hanno amata e l’ameranno più di noi stessi, la Calabria. Mentre noi ce ne stavamo a chiacchierarle le figlie e poi anche le madri, e via via le terre, altri sono rimasti ad ascoltarla parlare. Il calabrese va parlato, ricordava con insistenza Corrado Alvaro, ma forse, e lo ricordo io a noi tutti, oggi i calabresi dovrebbero cominciare a parlarsi tra di loro. Nelle piazze, nelle vie, sui posti di lavoro, in mezzo ai banchi della frutta, e anche in quelli delle chiese. Dirsi le cose come stanno,  quelle che vanno e quelle che no, proporsi le soluzioni, presentarsi i nuovi modelli e le idee.

A parlarci vennero in tanti, ma non con tutti ci scoprimmo in grado di ascoltare, anche se alcune voci sembravano essere mandate da Dio. Come gli apostoli di Cristo infatti, furono mandati in missione per il mondo, altri vennero in missione in Calabria.

Umberto Zanotti Bianco fu l’apostolo laico del Sud!

Si potrebbe pensare di dedicargli le prossime regionali, qualora i candidati avessero dentro il proprio animo, il senso della Calabria quale non luogo ma stato d’animo. 

Più che un atto dovuto, si tratterebbe di un segno di riconoscenza e non al “signurinu”, “all’angelo senza ali”, o semplicemente “al piemontese”, ma a quella Calabria di sui si è umanamente occupato e fatto carico. E non come politico venuto in terra straniera a fare razzie di roba e contenuti, cercando poltrone nei palazzi della Bassitalia, ma come collaboratore e continuatore di un’opera chiamata “Meridione d’Italia” .

All’ età di vent’anni, venendo a conoscenza della realtà “tragica” del Sud del paese, decide di dedicare la sua vita ai derelitti del Mezzogiorno d’Italia. 

In Calabria, Africo e Casalinuovo, cuore pulsante dell’Aspromonte, li raggiungeva a dorso di mulo o a piedi. Lassù la gente sembrava tutta perduta, abbandonata al proprio destino. Non v’era speranza, anzi vigeva l’abitudine al tragico andamento delle cose. Che non mortificava nemmeno più. 

Dalla vita, gli aspromontani, non avevano avuto nulla se non il dono della montagna, della sua gigantesca ombra che, impervia e alta com’era, li rendeva sconosciuti al resto del mondo. 

Zanotti Bianco, era rimasto affascinato dalla Terrarossa di Saverio Strati. Dalla devozione che quegli uomini e quelle donne avevano per la propria terra, pur non ricevendo da essa nulla in cambio, se non carestia e fame. 

Lassù gli uomini, le donne e i bambini vivevano unitamente ai maiali, e mancava la farina, mancava la luce che, se non fosse per le tede che i pini fornivano gratuitamente, i volti di notte, non se li sarebbero mai potuti vedere. 

Era la povertà dei luoghi accoppiata alla forza e alla bontà dell’animo della gente che aveva colpito e fortemente attratto, u signurinu. 

Zanotti Bianco fu tra i più grandi testimoni della miseria in cui la gente di Calabria e del resto del Sud, viveva. Non era nato in Calabria, ma in Grecia, da padre piemontese e madre inglese. Del Sud non aveva sentito mai gli odori e neppure le puzze, prima del suo grande viaggio. Gli era bastato immaginarle però, tanto da voler risolvere il confino a cui veniva mandata la dignità umana dei calabresi. 

Zanotti Bianco potrebbe liberamente essere il grande ispiratore del riscatto post moderno di una regione che dalla povertà di allora non è mai completamente uscita. Egli vide ciò che ancora il calabrese non riesce a concepire, e pere questo arretra.  Di passi avanti uno, e indietro mille. 

Le strade che non esistevano allora, mancano ancora oggi, e le intelligenze si formano altrove allora e qui non restano e non tornano neppure oggi. 

La cultura salverà il mondo, recita qualche voce lontana, la letteratura salverà la Calabria, insisto io. 

Pensieri che Zanotti Bianco avrebbe condiviso entrambi. 

Egli vide nell’ istruzione e nella cultura, i supremi codici di riscatto della vita umana. 

Non v’è altro per la rinascita dei popoli e delle comunità, se non la conoscenza. Essa porta idee, e le idee prospettano progetti, e i progetti se attuati, indicano sviluppo e progresso. Rinascimento.

Per il recupero della memoria storica, e una riacquisizione di consapevolezza e dignità del popolo del Sud, Zanotti Bianco, fondò “L’archivio storico per la Calabria e la Lucania”, avviò una “Collezione di Studi Meridionali”, nonché la società “ Magna Grecia”, volta al finanziamento di scavi archeologici. A Sibari, nel 1932, operò insieme al grande Paolo Orsi.

Egli non era certo figlio della rassegnazione, anzi usava la sua vita a favore di quella degli altri. A conferma che v’è più piacere nel dare che nel ricevere. 

Firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce nel 1924, ma poi il regime lo avversò, proibendogli di continuare a risiedere in Calabria. E confinato fu poi arrestato. 

Il suo nobile impegno per il paese però non cessò mai, anzi continuò fino alla morte. 

Nel 1952, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, lo nominò senatore a vita.

Zanotti Bianco aveva un codice etico che in pochi uomini si è poi ritrovato o rivisto. Ma dal quale è sempre possibile ricavare novella vita. La storia insegna, si tramanda, e da essa si attinge come da una fonte d’acqua. La Calabria ha sempre offerto modelli eccellenti di uomini, ma è la capacità di trarre profitto dalle loro forze che le manca. E poi l’unità, è questa la virtù che le manca davvero. L’essere una e una cosa sola. Una società assoluta in tutte le sue parti. 

Siete davvero certi, mi domando e vi domando, che il vostro progetto politico, cari signori della corte, siate voi uomini di mare o di scoglio, sia la giusta occasione di crescita sociale e culturale a cui i calabresi del popolo si debbano affidare, per una nuova Calabria possibile?

Non date a me un’attendibile risposta ora, ma riferite prima alla vostra coscienza. In essa mi auguro che il pensiero, l’idea, il progetto e soprattutto l’opera di Zanotti Bianco si insinui come un tarlo. Egli, i fuochi dell’Aspromonte di questa estate appena trascorsa, li avrebbe fermati anche con le mani, con noialtri a guardare non ci sarebbe stato.

Dunque gioco d’azzardo, e penso che se nel 1959, Zanotti Bianco, pubblicò Tra la perduta gente, pensando ad Africo e all’Aspromonte, oggi avrebbe semplicemente scritto e pubblicato “Tra la coscienza perduta”, pensando al resto della Calabria.

Un paese va vissuto sempre. Non soltanto in certi periodi come quello elettorale, in cui volti ignoti circolano per le vie cittadine puntando esclusivamente la preda, fingendosi innamorati dei luoghi , per una becera caccia al voto, quasi con lo stesso piglio di Ulisse (seppure quella è un’altra storia seria)ma ogni giorno della propria vita, nella quotidianità. Sempre. Se è estate, e se è inverno. Nei vichi, nelle piazze, nelle retrovie, sulla strada del mare, e in aperta campagna. Ovunque, in ogni angolo sacro di paese. Per esigenza, senso di responsabilità. Con coerenza, ma soprattutto con la bellezza della spontaneità. E ispirarsi all’apostolato di Zanotti Bianco, vuol dire dare ai calabresi una nuova spontanea occasione in questa terra. Ora.