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Calabria incantata

Diavolo d’un Sud, cambiare di può. Ma i calabresi sono studi delle tante promesse

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Cosa vuol dire SUD, mamma? – mi chiese mia figlia.

–È un punto cardinale – risposi io.

– Sì, ma che cosa significa esattamente questa sigla? – insistette.

– Non me lo sono mai domandato – risposi.

– Io invece lo so – ribatté lei.

– E allora dimmelo, che cosa aspetti?

– Sono Un Diavolo, ecco cosa vuol dire.

– Starai scherzando, non è vero?

– Niente affatto, mamma. Te lo spieghi perché dal SUD tutti partono? Fosse stato altro ci avrebbe trattenuti questo punto del mondo, invece no, ci lascia andare.

E poi, ricordi cosa scrisse Leonida Repaci ne Il giorno della Calabria? “Dio aveva dato forma alla sua più grande creatura, poi del suo riposo ne approfittò il diavolo. E della Calabria, incluse tutte le meraviglie che il Creatore le aveva attribuito, se ne impossessò”. Le diavolerie di questa terra, credimi, mamma, non hanno altre spiegazioni.

– E noi che cosa possiamo fare per salvarci?

– Possiamo cambiare, mamma. Trasformare questo inferno in paradiso.

Con il termine Sud, si identificano delle precise aree geografiche del mondo. Esso infatti interpreta uno dei quattro punti cardinali con cui l’uomo si orienta sulla faccia della terra. La parte bassa della bussola.

In Italia, il Sud, viene indicato con nomi precisi di regioni. Ed è Sud, Meridione o Mezzogiorno. Esse sono le micro aree del paese. Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna. Un agglomerato di montagne e intere distese di lidi e di mare. Campagne, pianure, colline e vulcani.

In una recente intervista, andata in onda sul secondo canale Rai, il ministro per il Sud e la coesione territoriale, Mara Carfagna, nell’elencare le regioni dell’area Meridionale, presa dal solito politichese italiano, ne dimentica giusto appunto una. E a subire il maltolto, indefinito dal tempo e definito dagli uomini, è proprio la Calabria. Sempre lei. Quella terra che volutamente sconfina davanti allo sguardo di un’Italia politica inconcludente, e che dopo Eboli, vira dritta verso l’Italia insulare. Ma la verità è che della Calabria se ne sono sempre lavati tutti le mani. E chi non ha coraggio non se lo può dare. Terre come questa hanno una tempra forte e sono prodigiose. E vanno sapute prendere e conquistare. Eppure l’Italia continua a scrivere il nome Calabria tra le penitenze di Dio, e la emargina, confinandola tra i suoi due mari. Poi però, all’occorrenza, come fosse un miraggio al più vicino orizzonte, la scova, e se l’accredita, come giusto che sia, tra le sue 20 italianissime regioni, e per far fronte alle sue più sfrontate conquiste. Perché in fondo tutti lo sanno, senza Calabria, nessuna Italia.

Quaggiù, nel profondo Sud, diavoli o no, passati gli uomini e le donne, i loro sacrifici e le dure fatiche, vi sono manciate importanti di voti, in grado riempiere, come le bucce dei mandarini a Natale, le caselle vuote di una tombola che altrimenti andrebbe persa. E ne svantaggerebbe tutto il paese. Ragion per cui, da Roma, e dalle altre somme regioni del potere d’Italia, si accede alla Calabria sfruttando l’antica e furba arte della manipolazione degli interni, pressando sul bisogno atavico dei luoghi, pur di arrivare alle sue succulenti risorse. Ché alla fine, riconosciuti i limiti, e tradotti abusivamente nell’incapacità del suo popolo, come fossimo nel giardino dei miracoli di Pinocchio, diventano sbrilluccicanti denari.

E in Calabria, per far crescere l’albero dei denari, vi è terra in abbondanza, e terra buona. Perché qui accade di tutto. E tutto accade davvero. E grazie a tutti quei Pinocchio che ancora credono al ciuccio che vola. Perché qui ci sono famiglie intere di Pinocchi. Pinocchio la madre, Pinocchio il padre, e Pinocchietti tutti i bambini. E soprattutto ci sono il gatto e pure la volpe. Ma mentre a Geppetto, alla fine della storia, Collodi gli concede di ritrovare il suo burattino, con cui vivere felice e contento, alle famiglie calabresi non concede niente nessuno, e perdono per sempre i propri figli.

Ed è per questo che nascono calabresi in ogni parte del mondo. I giovani partono, vanno via. Sacrificano la propria identità per trovare nel mondo lo spazio che la Calabria gli nega. Essa non sogna più, non ha aspettative, toglie tempo, e più che lottare per la sua rinascita, collabora al suo disfacimento. La calabresità di cui, al primo piscio, tutti si fregiano, senza neppure conoscerne il senso, seguendo come le pecore chi pure illecitamente se la vanta, non è certo un atto di remunerata propaganda, né una scimunita idea del paese di Jofà, ma uno stato d’animo preciso che quando i giovani, poco poco cominciano a provare, i grandi (politici e dirigenti, massoni e mafiosi) lo soffocano.

Dal 1861, il Sud, perdendo la propria indipendenza, ha sempre subito passivamente le decisioni dell’Italia, del Nord, e delle industrie. E come allora, ancora oggi, con l’avvallo mai negato, dei calabresi nemici dei calabresi stessi. Eppure, cosa può conoscere la politica capitale o cittadina d’oltre regione, delle necessità della politica territoriale? Nulla, non può conoscere nulla. È solo questione di potere, che tanto lo sanno tutti che lo scecco sempre scecco resta, e raglia oggi e domani pure. Ma i calabresi sanno anche che, benedetta Italia, la propria terra ha il tempo contato, e o campa o muore. E le sorti si giocano sempre nella cabina elettorale. Ancor più da quando al voto sono state incluse le donne, perché per chi ancora fatica a comprenderlo, la Calabria lo è. È fimmina!

I futuri candidati alla presidenza della Regione Calabria, in vista del voto del prossimo 3 e 4 ottobre 2021, prendano impegni con i calabresi e non con i partiti nazionali. Impegni seri. Impegni con le palle. Senza balle. E con i quali dare a questa regione una definitiva connotazione italiana. Se essere inferno o paradiso. Essere o non essere. E se la distanza tra Shakespeare e la Calabria appare troppa, allora rifacciamoci tranquillamente pure a Dante, nel suo settecentenario, che ha certamente appreso e compreso più d’altri, il nostro essere, dall’ abate Gioacchino da Fiore.

Decidere dunque, o calabresi, e sulla base della nostra pelle, che è amor proprio e sana morale, se prolungare i patti fatti con l’inferno di Francesca, o scendere a patti nuovi ed eterni, con il decantato paradiso di Beatrice.

Io, mi perdonerete, ma chiederei, in aggiunta, l’ausilio di Nosside. Ma forse questa è un’altra storia.

È necessario che i calabresi, sulla base delle esperienze passate e dei torti subiti, delle malefatte a loro danno continuamente perpetrate, e delle quanto mai mancate aspettative recenti e future che tergiversano, rimandando tutto sempre alle generazioni che verranno, riconoscano in ognuno degli ipotetici futuri presidenti, i reali obiettivi, responsabilizzando il proprio voto, e non per concessioni spinte da familismo amorale, ma seguendo i dettami della propria aurea coscienza che, contrariamente alle patrie galere, non sconta colpe, né perdona .

“La Calabria che l’Italia non si aspetta”, è questo lo slogan che accompagna la campagna elettorale di Roberto Occhiuto. Parole che fanno un certo effetto, ma che soprattutto surclassano il concetto di morte, a cui tutti sembrano destinare la Calabria e i calabresi.

Ma lo sa Roberto da Cosenza che, per presentare all’Italia la Calabria che non si aspetta, c’è un percorso da fare che è piuttosto lungo, impervio e tutto decisamente in salita, e che se dall’Italia non ci è riuscito prima, a esporre alla gran Patria, la patrietta dei bruzi, dalla Calabria sarà un susseguirsi di gattopardiane notti, in cui tutto sarà pronto a cambiare per non cambiare nulla?

E lo sa Amalia da Lamezia, che intende donarsi alla Calabria, con tutta la sua scienza, e per curare, dopo i suoi più di 13000 pazienti, il resto dei calabresi, che i calabresi non sono tutti malati, e per fortuna, e che molti stanno benissimo perché di sani principi?

Lo sa Mario da San Giovanni in Fiore, che quello che gli è sfuggito prima, probabilmente gli sfuggirà ancora, perché chi è miope oggi, lo sarà anche domani?

Lo sa Luigi da Napoli, che aver lavorato in Calabria non è la stessa cosa che vivere la Calabria nei suoi rovesci e nei suoi contrari, nelle sue bellezze e nei suoi compiacimenti, come chi, ostinatamente, si dona a questa terra geneticamente testarda, e nella sua quotidianità, che è famiglia ed è impresa, e pure rivoluzione? E lo sa che quaggiù non si viene solo a sconfiggere la ‘ndrangheta, ma per costruire sogni e solide realtà?

E i calabresi, lo sanno i calabresi che le promesse fatte in campagna elettorale non garantiscono l’asciutto alle barche di nessuno, e tutti noi, finché non verranno mantenute anche solo quelle opportunamente fatte, spesso troppo tardi e spessissimo mai, continueremo ad avere tra le mani la solita beata minchia di sempre?

Sarà che io di politica, forse, non ci capisco nulla, ma di Calabria sì. Di Calabria ci capisco eccome! Durante questo periodo di seconda estate calabrese, tra il sapore del mosto e l’odore del vino, per certi versi storico per la vita presente dei calabresi (giovani e meno giovani) e il futuro della Calabria, nessun sermone di esponenti di partito nazionale, dovrebbe essere permesso. Una scelta che all’unanimità mi sarei aspettata dai futuri presidenti. Serve indipendenza e concentrazione. E servono adesso. La Calabria non è una sede politica dove chi prima spara, prima piglia, ma una precisa scelta di vita ancora prima che politica. È al suo interno dunque che vanno fatte le discussioni sui programmi e discussi i problemi. Solo i calabresi possono risollevare la propria terra e mantenersi in equilibrio nella storia. È una sfida a cui non può partecipare nessun altro. E affinché avvenga tutto ciò, è necessario si parlino tra di loro, e senza le benché minime interferenze esterne. In intimità. A quattr’occhi. I padri con figli e la società civile con quella politica e istituzionale. Insomma un preciso rendez-vous aperto, tra l’Aspromonte e il Pollino, il Tirreno e o Ionio. Perché vedete, i guai da pignata, i sapi sulu a cucchjara chi riminija.

E se, detto fatto tutto ciò, allora sì che saremo pronti a sfoggiare e con orgoglio “La Calabria che l’Italia non si aspetta” . E poco importerà il nome di battesimo del presidente. Chiunque vincerà questa sfida, che a partire da subito diverrà immediatamente atto di coraggio, avrà il dovere di presentarsi e orgogliosamente all’Italia e al mondo, con il nome dei “suoi” calabresi. Riconoscendo a sè stesso e agli altri, che il bene della propria terra viene prima di tutte le inutili vanità politiche.

Nessuno dimentichi mai che Penelope non cercava marito, ma voleva Ulisse… (gsc)

[La fotografia della copertina è di Carmine Verduci]